Edizione: 2020 Pagine: 200, ril., con ill. Collana: Economica Laterza [925] ISBN carta: 9788858140819 ISBN digitale: 9788858141731 Argomenti: Storia medievale, Storia moderna, Storia contemporanea
Fra arnesi un tempo quotidiani e oggi confinati nei musei e altri che sono sempre con noi, scopriamo, grazie a una vivace narrazione, che il Mediterraneo è la sede di un’unica civiltà, che è diventata la civiltà dell’Europa, e poi del mondo. Alessandro Barbero
La Storia del Mediterraneo in 20 oggetti è prima di tutto l’attestazione di un grande amore per il proprio oggetto di studio, il Mediterraneo, ed è percorsa dal desiderio di raccontarlo come veri e propri cantastorie. Carlo Vulpio, “Corriere della Sera”
Un libro originale che ripercorre quel che accadde nel piccolo oceano permeato di cultura del Mediterraneo. Un racconto che segue le tracce di alcuni oggetti: a volte ordinari, altre volte curiosi o strani, comunque in grado di raccontare la storia e infinite storie. Armando Torno, “Il Sole 24 Ore”
Seguiamo venti oggetti e la loro storia. Ci racconteranno l’anima di uno spazio geografico e culturale ricchissimo: il Mediterraneo.
Amedeo Feniello insegna Storia medievale all’Università dell’Aquila. Per Laterza ha collaborato alla Storia mondiale dell’Italia (a cura di A. Giardina, 2017) ed è autore, tra l’altro, di Sotto il segno del leone. Storia dell'Italia musulmana (2011), Dalle lacrime di Sybille. Storia degli uomini che inventarono la banca (2013) e Storia del mondo. Dall’anno 1000 ai giorni nostri (con F. Canale Cama e L. Mascilli Migliorini, 2019).
Alessandro Vanoli, storico e scrittore, è esperto di storia mediterranea. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Andare per l’Italia araba (il Mulino 2014); Quando guidavano le stelle (il Mulino 2015); Storie di parole arabe (Ponte alle Grazie 2016); Migrazioni mediterranee (Castelvecchi 2017); L’ignoto davanti a noi (il Mulino 2017); La via della seta (con Franco Cardini, il Mulino 2017).
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.
Introduzione
Che cos’è il Mediterraneo? Un mare interno, una sorta di enorme lago compreso tra
lo stretto di Gibilterra e le coste del Medio Oriente, tra Venezia e Alessandria d’Egitto.
Un piccolo spazio d’acqua che la storia e la geografia hanno reso il mare interno
per eccellenza: il «mare tra le terre», il Mediterraneo, appunto. Quanti tempi, quante
civiltà, quante genti, religioni, vite, amori, terrori, passioni e paure si sono accavallate
su questo mare. Per secoli. Per millenni.
Uno spazio mutevole e contraddittorio, solcato da rotte e destini diversi e comuni.
Condivisi e dissonanti. Lo ripercorriamo oggi, come fosse la prima volta, guardandolo,
sognandolo. Imprimendo le sue orme nella nostra memoria. E lo guardiamo attraverso
semplici cose. Oggetti. Quotidiani e non. Strani e non. Ordinari e non. Oggetti però
dotati di voce e capaci di raccontare cosa è stato questo mare, lungo i secoli.
Questi oggetti, questi venti oggetti, ne hanno di storie da narrare. Fatti, episodi,
avvenimenti che si intersecano, combaciano, si legano fino a creare una trama, densa,
che cambia colore da Djerba a Beirut, da Genova al Pireo, da Istanbul a Barcellona.
E che da qui sovente si espande fino all’Africa, all’Asia centrale, all’India. Una
trama che ha il volto di Ulisse e di Enea. Delle galee romane e dei loro profumi.
Di suoni, cibi e tradizioni. Di anfore, crateri e botti. Una trama che racconta di
guerre e di paci. Di contrabbandi e di ricchi affari. E di quanto splendido fosse
questo mare color del vino, a partire da Omero fino ai «polverosi specchi dell’estate»
dove «caduta è l’ombra» di un altro grande cantore contemporaneo, Giuseppe Ungaretti.
Nessuna pretesa di sistematicità. Ci siamo fatti spingere spesso dal vento e dal chiarore
delle stelle. E siamo partiti da idee semplici per scegliere gli oggetti. Tre soprattutto
che sono tipiche di ogni mare, e del Mediterraneo in particolare: scambio, navigazione,
migrazione. Senza di loro, si potrebbe parlare di Mediterraneo? Pensiamo davvero di
no. Lo scambio con la sua estensione palpabile, fatto non solo di merci, ma di rade
e di porti, di città e di mercati, di fondaci e di magazzini, di negozi e di uomini,
di sapori, spezie, culture e ricchezze, di vita e di morte. Che si dipana nel tempo
e si trasforma, dalla nave oneraria fino ad oggi, al moderno portacontainer.
Poi, la navigazione. Chi non pensa subito ad Ulisse, con la sua storia di viaggi,
naufragi e approdi? Ulisse che
col timone guidava destramente, seduto; né il sonno gli cadeva sugli occhi guardando
le Pleiadi, Boote che tardi tramonta, e l’Orsa che chiamano anche col nome di carro,
che ruota in un punto e spia Orione: è la sola esclusa dai lavacri di Oceano. Gli
aveva ingiunto Calipso, chiara fra le dee, di far rotta avendola a manca. (Od., V, 270-277)
Navigazione che ha una miriade di facce. Che sa di naufragi, di mostri marini, di
rivoluzioni nautiche, di vele e cannoni, di motori che cambiano tempi e velocità.
Ma soprattutto di stagioni e di venti, a lungo i veri dominatori del Mediterraneo.
Cosa sarebbe infine il nostro mare senza migrazioni? E l’Italia, senza di esse? Terra
da sempre rifugio di profughi, dai primi, da chi fuggiva dagli orrori della presa
di Troia. Fino a ieri, ai musulmani che scappano dalla Sicilia, sospinti dalla ferocia
normanna; ai greci che nel Settecento approdano in Sardegna; ai migranti dell’Ottocento,
che «partono i bastimenti per terre assai lontane». Fino ad oggi. O all’ennesimo naufragio,
domattina...
Tre riferimenti che potessero orientare facilmente noi e, speriamo, i lettori. Tre
coordinate che sono altrettante occasioni per ripensare il nostro mare alla luce del
presente.
Perché il Mediterraneo in questi ultimi decenni è cambiato. Tanto. C’è stato un momento,
un bel momento – diciamo intorno agli anni Novanta – in cui il Mediterraneo ha rappresentato
una speranza. Era al centro dell’attenzione politica. Dappertutto conferenze, occasioni
di studio, rinnovato interesse. Oggetto di assidui sforzi collettivi e di interessi
accademici. C’era, in una parola, entusiasmo. Per storici come noi che cominciavamo
allora il mestiere, c’era il senso evidente di una storia antica, millenaria e grandiosa,
fatta di civiltà, religioni, guerre, è vero. Una storia che sembrava però tracciare
il senso di una comune mediterraneità. Un mito forse da cartolina. Spesso oleografico,
fatto di stereotipi, di mari blu, di case bianche, di spiagge assolate e felici, di
campanili e minareti, di porticcioli e cieli tersi. Ma, lasciatecelo dire, un bel
mito. Davvero bello. Che portava con sé un’idea coinvolgente. Anzi, di più, una convinzione:
che questo mare più di ogni altro avesse contribuito a far parlare tra loro gli uomini.
A metterli in contatto. A far correre, lungo le sue onde, idee e leggende, racconti
e memorie. Un mare capace di fondere insieme Ulisse e Sinbad, Piri Reis e Colombo.
Questo mare ci piaceva. Lo specchio d’acqua che, come pochi altri al mondo, era stato
capace di far dialogare gente e culture delle varie sponde ci piaceva. Come se le
sue stagioni, il suo clima, la sua bellezza e la sua geografia si fossero fusi insieme
e avessero obbligato tutti a parlarsi...
Invece no, non è stato così. Questo mare è diventato negli ultimi tempi fonte di divisione.
Di separazione. Di stillicidio quotidiano di orrori, di diffidenze, di morte. Luogo
di deportazione e di schiavitù. Non è stato solo l’orrore di Lampedusa, nel 2015,
a farci comprendere che il Mediterraneo era diventato non più il mare della possibilità
ma della contabilità, una contabilità feroce e tetra, che sa di morte e si alimenta
di paure, incomprensioni, razzismi. Questo mare, così, non ci piace. Di fronte a tutto
questo forse è il caso di ricominciare da capo, dal silenzio positivo delle cose.
Una storia di oggetti che possa aiutarci a conoscere e ricordare le nostre comuni
radici.
Questo è in definitiva il nostro apporto. Il nostro piccolo contributo alla storia
del Mediterraneo. Un esile punto di partenza fondato su cose vive e vitali, talvolta
minuscole, infime, di esigua importanza, capaci di riportare al nostro sguardo una
storia comune che riguarda tutti allo stesso modo, genti di sponde e paesi differenti.
Storie non sempre belle, talvolta oscure e orribili, ma dominio condiviso da tutti
qui nel Mediterraneo. Ambire a questa storia, a una storia con connotati comuni, però,
non vuol dire necessariamente cercare nel passato le radici di un’improbabile (e mai
esistita) concordia tra i popoli. Queste sono idee che vanno bene al massimo per la
retorica dei politici. Una storia comune può e deve raccontare, nei limiti del possibile,
tutto, il bello e il brutto. Ma ciò che conta è lo sforzo che bisogna fare di allargare
lo sguardo, senza accontentarsi del proprio angusto spazio di casa, del proprio sterile
cortile. In una dimensione ampia. Una dimensione che può avere solo il volto del nostro
Mediterraneo.
Il pane
«Viator Pompeis panem gustas, Nuceriae bibes» («Viandante mangia il pane di Pompei
ma bevi il vino di Nocera»), aveva scritto qualcuno a grandi lettere davanti alla
taverna. E aveva ragione: il pane di Pompei era ottimo: tondo e segnato a spicchi,
come una rosetta, fatto con una farina raffinata, pregiata, di grano tenero. Più di
trenta i panifici in giro per la città: macine fatte di pietra lavica, forni a volta
in mattoni e laboratori dove si lavorava il pane prima di infornarlo. «Hic habitat
felicitas», qualcuno aveva scritto sulla parete del panificio Popidius Priscus: «Qui
abita la felicità»... Era il 79 d.C.
Il pane nero così come lo potete vedere oggi l’hanno ricostruito briciola dopo briciola.
L’eruzione del Vesuvio ha bloccato quel piccolo mondo nel suo ultimo istante. Pane
compreso. Fissando così uno dei sensi profondi di quella civiltà che da Pompei guardava
e guarda alle coste del Mediterraneo intero.
E il pane, a pensarci bene, ha davvero qualcosa a che fare con le forze della terra
più profonda: il pane è nato nella cenere sulla pietra; e il mattone servì da modello
a colui che doveva cuocere la prima focaccia: all’inizio terra e pasta forse si trovarono
nel medesimo forno. Diceva Diogene Laerzio che l’universo stesso comincia con il pane;
e a suo modo aveva ragione. Di sicuro è da quella profondità che bisogna partire per
parlarne.
Si comincia dal grano, ovviamente. E il grano viene menzionato sulle tavolette di
argilla ritrovate a Uruk e a Ebla, nei geroglifici di Menfi e di Tebe. Probabilmente
è la Mesopotamia la terra dove è stato originariamente seminato e mietuto. Il pane
seguì il grano, da subito: i mortai di pietra per sminuzzare i chicchi sono un tesoro
di ogni antica civiltà mediterranea. I grandi libri degli antichi, l’Avesta, l’Epopea
di Gilgamesh, tutti parlano del pane. E i nomi sono vari e complessi: il sumero ninda, l’accadico akalu: pane in generale, a quanto sembra, che poi i testi distinguono in base al lievito,
al sale, alla dolcezza e così via. Nell’Antico Egitto il pane è ta, scritto con un geroglifico disegnato come un semicerchio, che rappresenta una focaccia
lievitata e che serve in generale per scrivere la lettera t. Poi come sempre si distingue: pane bianco ta hegd e pane verde ta uagd;e poi focacce, gallette, divise per forme e sapori diversi. Il pane è varietà, come
sempre.
Cercare il grano, uno dei motivi principali per cui i greci si spostavano lungo il
Mediterraneo. A sorvegliarne la crescita era Demetra, dea della terra e delle messi,
che da essa crescevano. E il grano, anche per i greci, era soprattutto pane: non a
caso in Sicilia la dea la chiamavano Himalis, protettrice delle macine, e nel corso
dei festeggiamenti delle Tesmoforie, a Siracusa, venivano consacrati a Demetra e sua
figlia Persefone dei pani dolci di sesamo e miele a forma di vagina. E i nomi anche
per i greci si sprecavano: artos era chiamato il pane nell’Odissea; oppure pyrnon, che era una specie di focaccia di farina non setacciata, oppure ancora maza, che era il nutrimento dei poveri. E poi escharìtes, un pane cotto sulla brace, oppure dìpyros, un pane cotto due volte, o ancora il làganon, un pane che si digeriva facilmente, e via dicendo: nella sua opera perduta, l’Artopoiikón, la «Poetica del pane», Crisippo di Thiana sosteneva che in Grecia vi fossero settantadue
specie di pane.
E così di porto in porto eccoci finalmente al pane romano e dunque al pane di Pompei.
Di sicuro il culto di Cerere è più recente di quello di Demetra e altrettanto di sicuro
a Roma il pane iniziarono a cuocerlo relativamente tardi: prima ci fu la polenta di
grano, detta puls, oppure i semplici chicchi abbrustoliti. Forse fu la conquista di altri popoli, a
cominciare dagli etruschi, che fece conoscere il pane ai romani. Ma di sicuro c’è
che nel 79 d.C., ai tempi della devastante eruzione del Vesuvio, il pane, panem, era ormai una priorità per Roma: se a Pompei i forni erano più di trenta, sembra
che la Città Eterna ne contasse oltre trecento, con associazioni professionali e feste
dedicate in onore della dea dei forni.
Il grano veniva importato dalla Sicilia e dalla Tunisia e quasi un terzo del fabbisogno
veniva dall’Egitto, con le navi che facevano la spola tra l’Africa settentrionale
e Ostia. Giusto per avere un ordine di grandezza, si dice che a Roma giungessero in
un anno 60.000.000 modii di grano, ovvero 1.200 grosse imbarcazioni contenenti 50.000 modii, circa 350 tonnellate. Togliete i mesi invernali, durante i quali non si navigava,
e la media era di cinque grosse imbarcazioni al giorno che scaricavano il grano nei
grandi porti del Sud per poi farlo procedere via terra o con imbarcazioni più piccole.
Così importante era la politica dello Stato in materia di cereali da avere un nome,
annona, essendo in rapporto all’anno (annus) e alle stagioni. Politica, appunto: spesso anche di basso livello, stando almeno
a un autore satirico come Giovenale: «Il popolo due sole cose ansiosamente desidera:
pane e giochi circensi». Panem et circenses... uno dei grandi, intramontabili segreti della politica.
Ma il pane non è solo cibo, è anche accoglienza, condivisione, rito. E a pensarci
è curioso come nello stesso periodo in cui Roma celebrava il suo trionfo anche col
pane, dall’altro lato del Mediterraneo, a oriente, quel cibo si preparasse ad assumere
un suo diverso significato universale; e tutto avesse inizio durante una cena, prima
della Pasqua ebraica, alla periferia dell’impero. Era una questione antica: il pane
attraversava la storia ebraica da protagonista. A cominciare dal racconto dell’Esodo:
gli ebrei schiavi in Egitto e Mosè che preannuncia il loro riscatto; ma bisogna far
presto, prepararsi a partire subito, anche se il pane non è lievitato. Eccolo il pane
al centro della storia sacra, gli azzimi; quel pane che avrebbe costituito la memoria del patto tra Dio e popolo ebraico per
i secoli a venire:
Mosè disse al popolo: «Ricordati di questo giorno, nel quale siete usciti dall’Egitto,
dalla condizione servile, perché con mano potente il Signore vi ha fatti uscire di
là: non si mangi ciò che è lievitato. Oggi voi uscite nel mese di Abib. Per sette
giorni mangerai azzimi. [...] Nel settimo vi sarà una festa in onore del Signore.
Nei sette giorni si mangeranno azzimi e non ci sarà presso di te ciò che è lievitato;
non ci sarà presso di te il lievito, entro tutti i tuoi confini. In quel giorno tu
istruirai tuo figlio: È a causa di quanto ha fatto il Signore per me, quando sono
uscito dall’Egitto. Sarà per te segno sulla tua mano e ricordo fra i tuoi occhi, perché
la legge del Signore sia sulla tua bocca. Con mano potente infatti il Signore ti ha
fatto uscire dall’Egitto. Osserverai questo rito alla sua ricorrenza ogni anno». (Es
13,3-10)
La Pasqua ebraica sarebbe stata celebrata per sempre così. Ma nel resto della storia
di quel popolo il pane sarebbe stato inevitabilmente una presenza costante. Non solo
azzimi, naturalmente: il pane della tavola, quello della condivisione e dell’ospitalità,
ebbe anche qui molti nomi. Il più importante è lehem, ma anche pat e ugah. Come il pane che si poteva mangiare in Galilea ancora ai tempi dei romani; come
il pane che i Vangeli dicono che Gesù abbia moltiplicato sul lago di Tiberiade:
«Il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Allora gli
dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose: «Io sono il pane della
vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete». (Gv 6,33-35)
E alla fine ecco il pane spezzato in quella cena in cui convergerà tutto:
Ora, mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo
spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: «Prendete e mangiate; questo è il mio corpo».
Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti,
perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei
peccati. Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno
in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio». (Mt 26,26-29)
Storia troppo lunga e complessa quella che segue: la teologia del pane attraversa
in profondità il cristianesimo, nel suo diretto rapporto con la figura del Figlio
di Dio: «dacci oggi il nostro pane quotidiano», recita il Padre nostro. Ma si potrebbe
per questa via procedere oltre, di costa in costa, seguendo altre lingue e altre fedi.
Il mondo islamico il pane lo incontrò presto. Il Corano parla spesso del grano, come
nella sura Qaf:
Abbiamo fatto scendere dal cielo un’acqua benedetta, per mezzo della quale abbiamo
fatto germogliare giardini e il grano delle messi,
e palme slanciate dalle spate sovrapposte,
sostentamento dei [Nostri] servi. Per suo tramite rivivifichiamo una terra che era
morta, e in egual maniera [avverrà] la Resurrezione. (50,9-11)
Le tradizioni successive saranno però molto più dettagliate: ricorderanno ad esempio
che il profeta Muhammad amava il pane d’orzo e lo consigliava anche agli ammalati;
oppure che riteneva l’aceto il miglior condimento per il pane. Ma, soprattutto, l’islam
incontrò il pane nella sua espansione, o meglio incontrò i pani: un mondo infinito
di forme e sapori che dal Mediterraneo si estendeva alle vie dell’Asia. Khubz il nome arabo più diffuso, così diffuso da indicare talvolta il cibo stesso nel suo
senso più generale. Poi da qui la consueta varietà: il pane cotto nella cenere (Khubzu l-melle), il pane bianco di midollo di frumento, o il pane più costoso, quello su cui è stato
sparso il sesamo. Poi, avviandosi verso il mondo persiano, il pane diventava nan, un nome che avrebbe avuto grande fortuna, giungendo sino in India e oltre.
Sostentamento e base della tavola. Il pane entrò da subito negli usi dei pasti del
mondo musulmano. In tal senso le confraternite dei mistici sufi contribuirono non
poco a fare del nutrirsi un momento sacro, o perlomeno rituale. Ancora oggi molte
loro regole sono parte delle buone abitudini turche: si comincia e si finisce il pranzo
con il sale, si beve l’acqua a piccoli sorsi, ci si interrompe se qualcuno beve, si
mangia da un piatto unico, e infine non si taglia il pane col coltello. Il pane si
spezza.
E questo in modo non troppo simbolico vale per la tavola e per tutti: il pane si spezza
tra i commensali e il pane si dona per alleviare le sofferenze dell’indigenza, materiale
e spirituale. Come ha scritto uno dei più grandi maestri sufi, Jalal al-Din Rumi:
Fornaio, dona del pane a chi desidera del pane... lascia sognare in un un angolo l’innamorato
che è affamato di pane. [...] O vita della mia vita, siamo forse venuti qui solo per
il pane [...] in questo mulino entra la luce della luna che poi torna indietro alla
luna passando accanto al posto dove viene offerto il pane.
Fede, condivisione, nutrimento, primo antidoto alla fame: per secoli il pane ha continuato
ad essere tutte queste cose.
Non stupisce che quasi tutte le rivoluzioni moderne l’abbiano invocato, come soluzione,
come necessità, come appello alla dignità. «Pane, pane», è il grido dei rivoltosi
nei Promessi sposi. «Pane!» gridavano i rivoluzionari per le strade di Parigi (e a questo la storia
aggiunse il commento – sicuramente mai davvero pronunciato – di Maria Antonietta che
suggeriva di mangiare brioches). «Pane!»hanno gridato in molti durante le recenti primavere arabe. Pane chiedono i tanti che
si affacciano al Mediterraneo, mostrando in quella parola ogni suo nesso antico: condivisione,
nutrimento, dignità; e fatica, naturalmente.
Difficile se non impossibile dimenticare la fatica parlando del pane. C’è la coltivazione
innanzi tutto: l’aratro, la zappa, poi quel continuo separare e ripulire i campi di
grano dalla zizzania, i chicchi dalla paglia, le farine dalla crusca; e i parassiti
da cui difendere il raccolto: cavallette e bruchi. Poi quel grano che deve diventare
farina nel duro lavoro della macina, trascinata da stanchi animali o da schiavi. E
infine la fatica di chi spesso se ne è nutrito. Perché non c’era solo il pane dei
ricchi o delle feste, c’era il biscotto o la galletta dei marinai; oppure il misero
nutrimento dei carcerati, a pane e acqua. Predrag Matvejevi, il grande scrittore del Mediterraneo, ha descritto tutto ciò con grande poesia;
e queste poche pagine non sono altro che un piccolo omaggio alla sua opera e alla
sua memoria.
Anche da questo punto di vista il pane di Pompei ha qualcosa da raccontarci. Tra la
casa dei Pittori al Lavoro e l’incrocio principale di via dell’Abbondanza si trovava
una panetteria. Era grande rispetto a molte altre: un edificio a due piani, con un
balcone che affacciava sulla strada. Una porta conduceva al laboratorio, un’altra
dava accesso alla bottega. Ogni avventore poteva vedere e udire la lavorazione del
pane, perché il forno principale, come oggi quelli delle pizzerie, era situato a vista
a pochi metri di distanza. Accanto c’era una grande stanza adibita alla preparazione
dell’impasto, dove era stata aperta una finestra che faceva penetrare un po’ di luce
dall’esterno per coloro che mescolavano la farina, lavoravano la pasta in grandi vasche
di pietra e la impastavano a forma di pagnotte su un asse di legno. Talvolta è capitato
di ritrovare alcune di quelle pagnotte con impresso una sorta di marchio: «Fatto da
Celer, schiavo di Quintinus Granius Vero». Sono passati quasi duemila anni da allora.
Ma quando si spezza il pane, tutto questo val la pena di ricordarlo.
La coppa
Quando è cominciato tutto? Impossibile dirlo. Forse un giorno d’estate, sotto un sole
giallo e meridiano. All’ombra di una tenda agitata dal vento. E attorno il silenzio
del mare e delle cicale. Lontano, come un sordo brusio degli inferi, il cozzare delle
armi e le grida di battaglia; il rumore di una guerra ormai infinita. Quella forse
dovrebbe essere la scena principale: sotto le mura di Troia, quando Diomede colpisce
Ettore; mentre Paride scocca una freccia; o quando Odisseo, furioso come un cinghiale
tra i cani, si scaglia infine contro i nemici. I troiani e gli achei; in quei loro
gesti sovrumani che paiono eterni, come già fossero scritti per statue e bassorilievi.
Invece è l’accampamento sulla riva quello che conta. E nell’accampamento quella tenda.
All’interno il medico Macaone, ferito in battaglia, accanto a lui l’anziano Nestore,
l’eroe che lo accoglie e lo cura. Ma ancora non siamo arrivati al punto. Perché è
la coppa quella che conta davvero. Una coppa bellissima, che Nestore si è portato
da casa: cosparsa di borchie d’oro, i quattro manici ornati ciascuno da due colombe
in atto di beccare. Ognuno l’avrebbe sollevata a fatica tanto era piena, ma l’anziano
la prende come se nulla fosse e la fa servire: colma del vino di Pramno, su cui hanno
cosparso farina e cacio caprino. I due eroi bevono ed è come se tutto improvvisamente
svanisse attorno a quella tenda: la battaglia, sempre più remota, le navi, gli achei,
i troiani. Ci sono solo Macaone, Patroclo giunto ora dal campo di battaglia, e Nestore
che beve, ricorda e racconta. E a ben guardare è tutto lì, ciò che conta: in quella
coppa, nella sua bevanda speziata e nel simposio che, attorno ad essa, si apre.
Certo, lo sappiamo: qui tutto è favola e mito: nell’Iliade ogni cosa risuona delle gesta degli eroi e della presenza incombente degli dèi. Anche
per la coppa è così e i suoi lettori, compresi quelli più antichi, l’hanno sempre
saputo. Dunque, da subito, cominciarono a ragionare su cosa davvero volesse dire quella
scena: forse la coppa non era una semplice coppa, forse il vino non era vino, disse
qualcuno, e magari era invece il nettare della filosofia. Si era forse attorno all’VIII
secolo a.C. quando il poema smise di essere tramandato oralmente e divenne l’Iliade che oggi conosciamo. Attorno alla coppa di Nestore si continuò a ragionare. In molti
dissero che esisteva davvero: qualcuno, ad esempio, raccontava di averla vista in
Campania, nel santuario di Artemide a Capua. In molti sentirono l’importanza di quel
lungo simposio, di quella strana atmosfera sospesa e del legame profondo tra i commensali.
Forse in tutto questo giocava pure l’elemento in sé: quel vino che un po’ pareva la
bevanda per eccellenza. Quello di Pramno poi... difficile trovarne uno di qualità
più fine: lo producevano soprattutto nell’isola di Lesbo e a Smirne; era corposo,
dolce e profumato, ed erano in molti a sostenere che sapesse curare tanto il corpo
quanto lo spirito. Forse, chissà, era proprio nel vino che tutta questa storia trovava
la sua essenza più intima e concreta. E a modo loro gli antichi già lo sapevano: perché
dell’importanza di quella mitica coppa e del suo contenuto abbiamo almeno una prova
a dir poco concreta.
La prova la trovate sull’isola di Ischia, in una sala del museo archeologico di Pithecusae.
Una coppa, una kotle, a voler essere precisi: cioè un recipiente per bere, di circa dieci centimetri di
diametro, con due piccole anse appena sotto l’orlo. Uno di quegli oggetti di cui le
tombe antiche sono letteralmente stracolme. E anche questa non fa eccezione, visto
che era parte di un corredo funebre di una tomba a cremazione della Valle di San Montano,
a Ischia, l’antica Pithecusae. Dal punto di vista artistico non è nulla di particolare:
qualche fregio geometrico sulla parte alta e una lavorazione non particolarmente raffinata.
Insomma, si potrebbe definire quasi bruttina. Se non fosse per la sua datazione e
per una scritta.
A giudicare dalla stratigrafia, infatti, la coppa è a dir poco antica: ultimo quarto
dell’VIII secolo a.C. Più o meno nel periodo in cui si metteva per iscritto l’Iliade. E ciò che ancora più conta è la scritta: una delle prime attestazioni di alfabeto
euboico, un antichissimo tipo di scrittura greca, che si scriveva ancora in forma
retrograda come quella dei fenici, e che ebbe un ruolo particolarmente importante
nella colonizzazione dell’Italia meridionale e per i rapporti con gli etruschi. E
ancora più sorprendente è ciò che c’è scritto; più o meno letteralmente: «Di Nestore...
la coppa buona a bersi. Ma chi beva da questa coppa, subito quello sarà preso dal
desiderio d’amore per Afrodite dalla bella corona». E se Nestore è proprio lui, l’anziano
eroe dell’Iliade, allora si tratta del più antico riferimento diretto al poema epico. Un risultato
non da poco per una piccola coppa. Ovviamente nulla è facile da capire quando si tratta
di oggetti e scritti così antichi, ma quei versi parlano davvero del mitico oggetto.
Anzi, quasi sicuramente il senso era quello di contrapporre poeticamente le due coppe:
quella mitica del poema, così bella e dunque piacevole al bere, e quella della scritta,
ben più modesta, ma capace di contenere liquidi dai poteri afrodisiaci.
A ben guardare, insomma, di tutta questa storia il vero protagonista è il vino. Ma
anche in questo senso la coppa racconta molte cose e bisogna distinguere. Cominciamo
dall’inizio: dalla pianta. Vitis vinifera: una pianta che ai tempi dell’origine, quando la natura non era stata ancora toccata
dall’uomo, cresceva spontanea ai margini delle foreste; una pianta che sarebbe stata
protagonista di uno dei più impressionanti fenomeni di domesticazione agricola a cui
il Mediterraneo e l’intero mondo avrebbero assistito. La coltura si diffuse nel Vicino
Oriente che si era ancora all’alba della storia: in Fenicia e in Palestina, oltre
che nei regni degli ittiti e degli assiri. Sappiamo che a Cipro la vite fu coltivata
dal IV millennio a.C. e che in Grecia fece la sua comparsa attorno al 2500 a.C.: il
vino era conservato nei palazzi di Cnosso, Pilo e Micene.
Ma non solo. Il vino già a quel tempo era diventato soprattutto un prodotto da esportazione.
Non poco di questo lavoro lo fecero i fenici e poi i greci, a partire dai loro empori,
che nel corso del I millennio si trovavano ormai un po’ ovunque in tutto il Mediterraneo.
In un certo senso, anzi, l’espansione greca in Italia è direttamente legata all’espansione
della viticoltura. Pitechusae fu una delle prime colonie, poi venne creata Cuma e,
ancora nell’VIII secolo, Siracusa, Nasso, Messina, Sibari e Crotone, dove la coltura
si sviluppò molto presto. Intorno al V secolo alcuni scrittori greci, tra cui Erodoto,
chiamavano l’Italia meridionale Enotria, «terra del vino», per l’importanza che ormai vi aveva assunto la coltivazione della
vite.
Le anfore colme di vino viaggiarono via mare diffondendo gusti, abitudini, pratiche
agronomiche e non pochi culti. Nel V secolo, trecento anni dopo la sepoltura della
nostra coppa, da Ischia e dal resto dell’Italia meridionale il commercio del vino
era diventato ormai una professione vera e propria: sigilli di garanzia, tasse, interventi
legislativi volti a tutelare la qualità e a calmierare i mercati. Nello stesso periodo,
tramite le colonie del Sud Italia, il vino giunse a nord, sino in Etruria. E assieme
ad esso arrivò anche il culto a cui ormai era legato. Il mito diceva che Dioniso avesse
insegnato ad Anfizione, re di Atene, come controllare il vino. Occorreva innanzi tutto
miscelarlo con altre sostanze, con l’acqua ma non solo. Berlo puro conduceva alla
follia; e Dioniso di questa follia era a dir poco un esperto.
Non a caso l’ebbrezza aveva un ruolo centrale nei suoi riti: Dioniso era accompagnato
dalle sue Menadi, donne che ne celebravano il culto cantando e danzando in stato di
ubriachezza; e tra i prodigi che esse potevano compiere vi era quello di trasformare
l’acqua in vino. Per questo alla vigilia della grande epifania di Dioniso, nella notte
tra il 5 e il 6 gennaio, si ponevano nei templi tre brocche d’acqua, per ritrovarle
al mattino colme di vino. Nel mondo latino, Dioniso divenne Bacco e portò con sé il
delirio estatico dei suoi seguaci. Ci volle poco perché quelle grida e quei vaneggiamenti
ispirati dal vino e dal suo dio facessero breccia: attorno al II secolo a.C. i Baccanali
erano già sicuramente praticati a Roma. Attorno a quel periodo, i latini dimostrarono
di avere ben imparato dai greci, sapendo distinguere anche nel bere: facendo invecchiare
il vino o riuscendo a selezionare con buona precisione i vitigni.
Vi erano ad esempio le varietà aminee (cioè introdotte dai greci aminei) e le apianee,
così chiamate perché attiravano api e mosche (da cui il nome «moscato») sugli acini
dolci e aromatici. Ai tempi dell’impero uno dei migliori vini era il falerno, prodotto
nei dintorni dei sontuosi centri di villeggiatura campani e del porto di Napoli. Certi
cultori possedevano cantine a dir poco imponenti: l’avvocato Ortensio poteva vantare
alla morte circa cinquantamila anfore, classificate per provenienza e annate. Plinio
enumerava sedici vini pregiati, dividendoli in differenti categorie: alcuni secchi,
altri pastosi, altri ancora liquorosi. Per lo più si trattava di vini a basso contenuto
alcolico: otto o nove gradi circa. Vini che inoltre venivano consumati tagliati con
acqua calda o fredda. Mischiando le parti in un cratere. Erano i non greci a berlo
spesso puro: gli sciti, i persiani e i barbari in generale. Come oggi, a certi livelli
di degustazione corrispondeva una precisa idea di lusso e di atteggiamento elegante.
I convivia romani erano il luogo dove sorseggiare vino, discettando di filosofia o di poesia.
Un lusso per pochi, consapevoli eletti. Il vino, insomma, era vita, letteralmente;
lo scrivevano i poeti e lo ricordavano persino i defunti negli epitaffi: «Le terme,
i vini, gli amori, ci rovinano la salute, ma le terme, i vini, gli amori sono la vita!».
Letteralmente: la vita. Il cristianesimo raccolse una grande, antica tradizione facendo
del vino uno degli elementi centrali delle sue narrazioni e dei suoi riti. In fondo
Gesù scelse le nozze di Cana per rivelare la sua divinità. E lo fece attraverso un
miracolo piuttosto curioso (ma non per gli adepti di Dioniso), mutare acqua in vino:
quando sua madre infatti gli disse che non avevano più vino, egli comandò di riempire
d’acqua tre giare e di portarle a tavola e ai commensali fu così servito un vino talmente
buono da far lamentare lo sposo il quale obbiettò che una bevanda simile non si addiceva
a un pasto quasi concluso e a commensali ormai ubriachi (Gv 2). Un inizio che prefigura
una fine: per tre anni il vino avrebbe continuato ad essere presente nella predicazione
di Gesù, come a preparare i credenti per il calice eucaristico della salvezza eterna:
Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti,
perché questo è il mio sangue [...].
Al momento definitivo, nell’ultima cena, quella somiglianza sempre evocata si fa dunque
realtà: vino, sangue, vita. È ancora una coppa, un calice, a rappresentare il punto
focale della scena: la leggenda successiva vorrà che nello stesso calice Giuseppe
di Arimatea avesse raccolto il sangue colato dal Cristo sulla croce: sangue, vita
e vino, appunto.
Ma questo l’anonimo poeta della coppa di Pithecusae non poteva immaginarlo. Non tutto,
almeno. Anche se tanto di questa storia si era già messo in moto. Per prima cosa c’era
il vino. E il senso di una bevanda che rigenera e guarisce (persino le ferite, in
qualche caso). C’era l’idea del bere inteso come momento di elevazione comune, il
ricrearsi attingendo da una stessa coppa in un’atmosfera serena che possa giovare
allo spirito e all’intelletto. C’era il legame profondo che il vino aveva già contribuito
a intessere tra i popoli del Mediterraneo. Un legame che si rispecchiava in culti
comuni e condivisi, in conoscenze agricole, in gusti più o meno raffinati; e naturalmente
in una fitta rete di scambi e di commerci. Le anfore stivate nelle navi, poggiate
dietro i banconi delle taverne, collezionate gelosamente dai senatori romani, raccontavano
di vasti traffici e fitte relazioni tra mondi spesso lontani. Allora come oggi, ogni
volta che dalle anfore il vino scendeva nelle coppe era come se in quegli odori e
in quegli aromi fosse possibile sentire qualcosa delle terre lontane e assolate dove
era stato coltivato: il vento salato del mare, il sentore aspro della terra, gli odori
dei frutti e dei fiori che vi crescevano attorno; forse talvolta persino l’eco lontana
del sangue e delle armi e con essa il rumore sordo di guerre ormai antiche.
La padella
Le vedete lì appese al muro, di misure diverse: piccole, medie, talune davvero enormi.
Forse non tanto vecchie ma già annerite dall’uso e dal fuoco. Le vedete da sempre,
in ogni taverna o in ogni cucina che si rispetti; quasi non ci fate più caso. Eppure
queste grandi padelle scure meritano una riflessione e anche un po’ di gratitudine:
senza di loro la paella valenciana non esisterebbe. A cominciare dal nome, ovviamente: il contenitore per
il contenuto. Paella, «padella» appunto, è strumento e cibo assieme. E in questa sintesi si nasconde una
storia mediterranea che merita di essere raccontata.
Insomma, parlare della paella per parlare di un’idea che ci portiamo dietro, quella di una cucina mediterranea
fatta di piatti dove convergono gli ingredienti più svariati; piatti poveri legati
a un mondo antico e per lo più rurale; piatti che creano regole e abitudini conviviali
e che uniscono attorno alla tavola vasti gruppi di individui. Un’idea, appunto: fatta
di qualche verità, di molte esagerazioni e di alcune invenzioni belle e buone. Cominciamo
dalla fine, però: dalla paella così come oggi è. Una padella di ferro (meglio) o di acciaio con due piccoli manici,
di poca profondità (cinque o sei centimetri) e ampia superficie: la giusta proporzione
per garantire un’adeguata evaporazione. La prima volta che la si usa è meglio lavarla
con olio e sabbia, per privarla per sempre del sapore metallico. Si prepari il fuoco,
che dovrebbe essere vivo, perché la legna doni alla paella un leggero sapore affumicato. Poi si prenda il riso, che a voler essere tecnici si
dovrebbe scegliere tra le varietà locali: il Calasparra di Murcia, oppure il riso
di Valencia, quello dai grani tondi. Cuocerlo con una punta di sale per una ventina
di minuti: l’importante è che abbia assorbito bene il brodo e i grani siano al dente
e separati. Vi sarà una parte leggermente bruciata, che a Valencia chiamano socarrat e che gli intenditori sapranno particolarmente apprezzare. Riguardo alle verdure,
si utilizzino pomodori innanzi tutto, poi fagiolini, di quella qualità conosciuta
come judía verde, e in valenciano come bajoqueta, infine fagioli. Si prenda poi la carne, si faccia soffriggere in olio e si aggiungano
in seguito fagiolini e fagioli, infine il pomodoro. Si aggiunga zafferano e peperoncini
a guarnire. Da qui in poi cominciano le varianti possibili, alcune impensabili per
un serio valenciano, altre ormai ampiamente accettate, come la paellamarinera, con gamberi e molluschi, o quella mista che ai frutti di mare aggiunge pollo e altre
carni.
Tutto questo è ormai più di un piatto: è una vera e propria immagine della Spagna.
È un simbolo globale: un’idea che sa di tradizione e di abitudini antiche. In realtà,
come spesso accade ai simboli, la sua storia è parecchio più complicata; soprattutto
è una storia che può partire sì dalla paellavalenciana, ma a guardarla bene da vicino, è capace di raccontare qualcosa che vale per molta
parte del Mediterraneo.
Il nome, innanzi tutto, che è quello di un calice. All’origine c’è l’idea del bere:
nel sanscrito pa e nel greco potér e potèrion, che appunto questo intendono, la coppa per bere. Di qui al latino il passo è facile:
patina, patena oppure patera, che era una coppa per le offerte religiose. Il diminutivo di questi termini fu patella; e già ci siamo: in molte lingue europee questo nome cominciò presto a indicare un
vaso di ferro o di rame, largo e poco profondo, con due manici o con un solo lungo
manico, utilizzato per cuocere i cibi. In spagnolo antico accanto a patella apparve presto paela; talvolta, almeno nel tardo medioevo, un paellón. Naturalmente tutto questo non aveva necessariamente a che vedere ancora col piatto
di cui stiamo parlando. La paella e il riso, infatti, si incontrarono sulla strada e ci volle tempo perché si capissero.
Veniva dalla Persia, il riso, ma il suo viaggio era cominciato secoli e secoli prima,
dalle più remote terre dell’Asia. Greci e romani lo conoscevano, ma ne parlavano più
che altro per certe sue virtù terapeutiche. Utile, aveva detto ad esempio Dioscoride
(morto nel 90 d.C.), per «restringere il ventre». Con buona probabilità, però, un
utilizzo leggermente più intensivo del riso giunse nel Mediterraneo solo con gli arabi.
Furono loro, infatti, a diffonderne la coltivazione in Africa settentrionale e nella
penisola iberica. Una piccola traccia si trova, al solito, nelle parole, perché lo
spagnolo arroz è di fatto l’adattamento del nome arabo per il riso, ruzz, con l’aggiunta dell’articolo determinativo al:da pronunciarsi ar-ruzz, appunto. Dai tempi della dominazione islamica una delle regioni dedicate alla coltivazione
del riso divenne proprio il territorio di Valencia. E che l’incontro avesse prodotto
buoni frutti lo vediamo già dal più antico libro di cucina catalana che ci è pervenuto,
il Sent Sovi del XIV secolo, dove troviamo una ricetta di riso con latte e mandorle e una di accompagnamento
a uova fritte. Poi le vie del riso presero altre direzioni: nella Spagna ritornata
cristiana il suo uso scomparve e la sua coltivazione spesso fu addirittura proibita.
Il riso si trasferì in Francia e in Lombardia. La paella rischiò insomma di non vedere mai la luce.
Il problema infatti è, ad essere onesti, che della paella non c’è traccia in Spagna prima della metà dell’Ottocento. E non potrebbe esserci,
visto che le coltivazioni di riso in Spagna furono autorizzate nuovamente dal re Ferdinando
VI solo attorno alla metà del Settecento. È quindi comprensibile che la prima ricetta
di un piatto simile alla paella sia apparsa soltanto nell’Ottocento e per giunta in un ricettario influenzato dai
gusti francesi; più precisamente nel libro di due cuochi a servizio della marchesa
di Campo Alange, Garciarena e Muñoz, La cocina moderna, pubblicato a Madrid nel 1857. È lì che finalmente si dichiara l’uso di una padella
apposita in cui assieme al riso vada davvero di tutto: pollo, anatra, lombo di maiale,
salsicce e poi pomodoro, prezzemolo, peperoncino, zafferano, pepe, chiodi di garofano,
carciofi, piselli, fagiolini e soprattutto anguilla e... lumache. Un po’ diversa,
insomma, dalla tradizionale paella dei giorni nostri.
In ogni caso il periodo della sua apparizione non deve stupire molto: è quello il
momento in cui in tutta Europa, assieme alla nascita delle nazioni, si inventarono
anche le rispettive identità culinarie, pescando un po’ dal passato e talvolta lavorando
molto di immaginazione. Da allora la ricetta si diffuse ovunque, modificandosi sempre
un po’. Anche il suo contenitore cominciò a trovare la sua forma: ancora agli inizi
del Novecento, infatti, la paella in cui il piatto andava preparato non era quella a due manici, bensì un recipiente
di terracotta, una specie di casseruola come quella usata oggi per il riso al forno.
Il contenitore con i manici apparve poco dopo – negli anni Trenta era ormai quello
– e assieme a lui giunsero anche nuovi ingredienti, come il coniglio e il pollo.
Da lì in poi comincia la storia della paella come la conosciamo oggi: piatto tradizionale per eccellenza e sintesi perfetta di
contenitore e contenuto. Una storia esemplare che, come abbiamo detto, non è solo
spagnola, ma mediterranea. Per la cronologia innanzi tutto, perché, come è stato ormai
abbondantemente dimostrato, è nell’Ottocento che si “inventano” i piatti tipici, quasi
ovunque (vale persino per la pasta e per la pizza). E poi, forse, per quel tanto di
mediterraneità che in molti hanno voluto vedere nel piatto unico. Nel contenitore
dove per secoli sono stati fatti convergere tutti i prodotti che un territorio ricco
e variegato metteva a disposizione. C’è un po’ di romanticismo in questa prospettiva.
Ma è innegabile che in molti piatti mediterranei si può osservare una stratificazione
di storie e una grande convergenza di prodotti provenienti da luoghi spesso lontani.
Proviamo a guardarli meglio, questi strati. Cominciamo dal più antico, quello che
parte dall’olio e dal grano, che attorno al Mediterraneo esistono da sempre. Poi,
durante il medioevo, tutto quello che giunse col mondo islamico: riso, zucchero di
canna, melanzane, spinaci, arance, limoni, mandorle, melograno e molto altro. Poi
la scoperta dell’America, quando dall’Atlantico arrivarono patate, pomodori, mais,
peperoni, peperoncino e pure diverse varietà di fagioli. Non c’è nessun piatto mediterraneo,
insomma, che sia davvero molto antico, non nella forma in cui lo conosciamo oggi almeno.
E i piatti unici mediterranei mostrano quasi tutti questa secolare stratificazione.
Qualche esempio. Il tajine marocchino, nome che, anche in questo caso, vale tanto per il contenuto quanto per
il contenitore conico di terracotta. Dentro ci si cucina di tutto: pollo con limone
e olive (il cosiddetto tajinemqualli), polpette e pomodori (il kefta), oppure agnello con prugne e mandorle (il mrouzia); naturalmente sempre con aggiunta di spezie quali peperoncino, cannella, zafferano,
curcuma, zenzero o pepe. Poi il piatto berbero più diffuso al mondo, il couscous:granelli di semola di frumento cotti a vapore accompagnati da carni in umido, verdure
bollite e molto altro ancora. In questo caso di pentole ce ne vogliono due: il recipiente
per la cottura a vapore sotto il quale si pone la pentola di metallo in cui si cuociono
verdure e carne in umido. Storia antica, la sua: uno dei primi riferimenti viene dai
tempi della Spagna musulmana e poi quel nome sarebbe tornato con sempre maggiore frequenza,
dal medioevo all’età moderna: in catalano, in francese e altrove. E questo suo antico
successo lo si misura in fondo nelle tantissime varianti diffuse ovunque nel Mediterraneo:
il cuscus trapanese, fatto col pesce, il cascà di Carloforte, con le verdure, oppure
il maftul palestinese.
Tutti piatti unici, tutti cibi da condividere, ognuno con le sue regole di buone maniere.
Piatti che un tempo si mangiavano per lo più con le mani, attingendo da un unico recipiente;
piatti che prevedevano e imponevano precise divisioni a seconda dei differenti ruoli
dei commensali; piatti che illustravano, nella loro stessa forma, modi di vita, abitudini
e precise idee di convivialità.
Se c’è una caratteristica mediterranea che traspare da queste enormi padelle colme
di tutto è proprio la necessità e il bisogno del mangiare assieme. Una necessità antica,
a quanto pare, visto che la ritroviamo un po’ ovunque nella storia di queste coste,
a cominciare almeno dai greci. Ne parla ad esempio Plutarco nelle sue Dispute conviviali: «Noi non ci invitiamo l’un l’altro per mangiare e bere semplicemente, ma per mangiare
e bere insieme». In spagnolo questo è evidente sin dal verbo che esprime l’atto del
mangiare, comer, che deriva dal latino cum-edere, appunto «mangiare con». Ma forse il termine che esprime meglio il senso della tavola
condivisa è sobremesa, parola difficile da spiegare, che indica quel tempo di assoluta qualità goduto assieme
attorno alla tavola, anche dopo aver terminato il pasto. Idea spagnola, ma molto mediterranea
in fondo: la lenta preparazione del pasto corrisponde alla sua lenta fruizione e alla
sua altrettanto lenta condivisione. Non per pigrizia, ma perché da queste parti mangiare
è un atto fondamentalmente sociale. Non importa evocare di nuovo l’Ultima cena per
ricordare come, attorno al Mediterraneo, dividere il pane o il cibo abbia sempre significato
fondare o rendere sacri unioni, legami o rapporti. «Mangiamo assieme» è un invito
che significa molto più della semplice risoluzione di un problema alimentare.
Un’antica stratificazione di sapori, un diffuso uso delle verdure, delle più varie
provenienze, grandi piatti che rispecchiano l’importanza della cucina e della tavola
come fondamentale momento sociale, la conseguente attenzione ai tempi, lunghi e ben
cadenzati. Pur all’interno di infinite varianti, forse in tutto questo c’è davvero
qualcosa di mediterraneo. A metà del secolo scorso, oltreoceano lo intuirono chiaramente
e, con quel tanto di ingenuità tipica di alcuni americani, ne trassero un modello
di alimentazione, cura e stile di vita: la cosiddetta «dieta mediterranea» (il punto
di partenza fu il famosissimo ricettario di Ancel e Margaret Keys, Eat Well and Stay Well, «Mangiare bene e stare bene», del 1959). Olio, pasta, verdure, consumate assieme
e con lentezza. Anche senza troppo rifletterci, si tratta evidentemente di un buon
modo per campare meglio e senza troppo stress. E il fatto che la dieta mediterranea
in realtà non sia mai esistita, o meglio, sia solo il frutto moderno di un ideale,
è ovviamente un altro discorso.
Perché quello che mangiamo oggi a Valencia, a Tunisi o a Trapani non è davvero il
passato; e ancor meno è il retaggio di antiche tradizioni contadine e povere. Come
si diceva sopra, la cucina contemporanea è figlia delle grandi trasformazioni degli
ultimi secoli. Prima fra tutte la nascita di identità locali: perché l’invenzione
delle tradizioni nazionali è stata anche “invenzione” (onesta, si intende) delle tradizioni
culinarie. Questo fenomeno ha prodotto un fiorire di scuole “tradizionali”: italiane,
francesi, spagnole... E ha contribuito non poco a creare il giusto sfondo per la nascita
del concetto stesso di cucina mediterranea: il recupero delle antiche tradizioni,
la convinzione che un cibo povero sia più genuino, l’idea di sapori nati dalla condivisione
e commistione di culture differenti. Così è stato proprio per la paella, che riuniva in sé parecchie di quelle caratteristiche: un’idea di ispanità originaria,
una genuinità antica, quella segnata dal nome stesso, che alludeva a un contenitore
dentro cui poteva finire di tutto. Infine, altrettanto importante, il mito di una
Spagna delle tre culture come radice: il giallo dello zafferano, le spezie e il riso
stesso.
La paella divenne insomma un’idea di Spagna, cantata anche dal più europeo degli scrittori
sudamericani, Jorge Luis Borges. Una volta disse che dei cibi spagnoli quello che
più amava era la paella, soprattutto quando era fatta come si doveva, quando cioè ogni grano di riso mantiene
la sua individualità. Sarebbe sin troppo ovvio aggiungere che a Buenos Aires si potevano
e si possono trovare locali capaci di servire un’ottima paella. Ma è proprio questa sua dimensione globale che occorre infine notare. Perché negli
ultimi vent’anni alla paella è successo di mondializzarsi. È in buona compagnia naturalmente: è capitato all’hamburger,
al kebab, al sushi e alla pizza. Ma questa esportazione non è avvenuta senza conseguenze: la paella ha finito col trasformarsi in una piccola storia della Spagna e, con essa, del Mediterraneo.
Quelle padelle annerite appese al muro raccontano non solo il mito di un genuino cibo
delle origini, ma anche di un mondo in cui si mangiava condividendo, vivendo la tavola
come fisico contatto tra individui. Forse la radice vera, al di là di riso, olio o
pomodori, di quello che ci rende davvero mediterranei.
La lucerna
Notte. L’oscurità avanza. Ha il colore dell’abisso. Gli occhi e gli sguardi ci si
perdono dentro. E, sul mare, la paura affiora. Diventa palpabile. Si aggruma sui corpi
e sui volti.
Notte. Nelle case si aspetta che il vento finisca di mugghiare. Che le barche tornino.
Che i pescatori le tirino sulla rena.
Notte. Si aspetta sulla galera che la battaglia cominci. Che la morte sia rapida,
per chi, ai ferri, è mille notti che sta lì, attaccato al remo.
Notte: lunga, insuperabile, abisso profondo e impossibile da penetrare. Questa a lungo
è stata la condizione dell’uomo davanti al mare.
Quando il tramonto scendeva e il sole digradava, lasciava posto a una mostruosa oscurità.
Che, sul Mediterraneo come su tutti gli altri mari che circondano la Terra, doveva
essere tremenda. Ed è di notte che il pericolo poteva palesarsi. Mostrarsi, nella
sua brutalità. E la notte che cos’è se non sospiro e pianto, attesa e cicatrici? Ulisse,
le sue parole, le ricordate? «Tempesta Boreal, che d’atre nubi / La terra a un tempo
ricoverse e il mare / e la notte di cielo a piombo scese». Perché la notte è così,
per mare. Tetra. Pesante. Spessa. Di piombo. E non lascia scampo se non quello di
essere «lassi, abbandonati e muti».
Allo spazio notturno del mare, alle sue paure e ai suoi tormenti, l’uomo cosa può
contrapporre? Niente. Scarne difese. Piccole barriere fatte di flebili aneliti di
luce. E poco altro. Ma questo è bastato agli uomini per sopravvivere, per un’eternità.
Infatti così si sono difesi, a lungo. Contrapponendo all’infinito oscuro un acciarino.
Una fiamma. Un lumicino. Una lampada. Una fiaccola. Immaginiamolo, un pescatore sullo
spazio di una barca. Perso in un mare enorme. Di notte. In un silenzio profondo come
una caverna. Senza fiaccole e catrame. Padrone solo di una piccola pietra focaia,
umida, che cerca di fare luce nel buio che incombe. E dare vita a una lucerna. A un
mozzicone di candela. E finiva lì, tutta lì, la sua sfida alla notte. E, sperso nel
vuoto, continuava ad andare con la sua barca. Diventando stella fra le stelle. Lume
fra i mille lumi del cielo. Se c’era cielo stellato, beninteso. Se no, era il vagare
del pazzo nel deserto liquido del Mediterraneo.
La luce, insomma, anzi le mille piccole e minuscole luci, furono l’unico baluardo
che l’uomo ebbe per sconfiggere la notte. Sul mare, come, d’altronde, sulla terra.
Ma non esiste una storia che abbia raccontato la lotta degli uomini che hanno desiderato
opporsi alla notte, trascinando via tutte le loro paure, i loro incubi e i loro tormenti.
Neanche una. Questa guerra è stata vinta, ora. Sebbene, anche oggi, se ci troviamo
per caso ad andare per mare di notte, il buio continua a spaventarci. Ci assale e
ci impaurisce. E il transatlantico che passa di lontano, sfarzoso nelle sue luci e
quasi approdo sicuro, non ci rasserena in alcun modo, ancora incancreniti in una paura
che è antica com’è la nostra vita, la vita dell’uomo sul mare.
Si è lottato contro la notte, in buona sostanza, con due sole armi. Con la lucerna
e con la candela. Che spesso, però, non vissero in contemporanea negli stessi luoghi
e con gli stessi tempi, ma marcarono due diverse possibilità di affrontare l’oscurità.
Dovute alle risorse, ai rimedi, alle capacità. La lucerna appartiene al mondo dell’olio.
Al Mediterraneo degli olivi. Funzionava in maniera efficace, e geniale. La lucerna
fu soprattutto in terracotta, facile da fabbricare, da realizzare, da produrre. La
sua parte principale era formata dal serbatoio, chiuso e fornito di un imbuto con
una fessura, dove si faceva colare l’olio. Dentro, una miccia, uno stoppino, che fuoriusciva
dal becco, a formare il foro di bruciatura. Mentre un altro forellino nel corpo del
serbatoio (minuscolo, di qualche millimetro) permetteva la sua areazione. Un oggetto
assolutamente funzionale. Che lo diventa ancor di più quando qualcuno dei nostri antenati
intuì, come un prodigio, che si potesse aggiungere qualcosa che gli permettesse di
essere trasportato senza inconvenienti. Un’ansa. Una semplice ansa, all’interno della
quale si potevano infilare indice e pollice senza scottarsi e poter muovere facilmente
la lucerna da un ambiente all’altro.
Il design di questo oggetto è unico. Straordinario. Universale. Durato secoli e secoli
e secoli. Sono state cambiate le forme, i materiali, i combustibili usati, ma l’idea
di fondo è rimasta sempre la stessa. Immutata. Serbatoio, stoppino, ansa. Poi, su
questo motivo, sono state inventate decine e decine di varianti. Declinazioni. Sinfonie.
Non solo olio di oliva come combustibile ma anche olio di noce, di sesamo, di pesce.
Alla terracotta furono preferiti anche bronzo o rame o ferro. E i fuochi si moltiplicarono,
con lucerne composte da molteplici becchi – tre, quattro, cinque o più –, a volte
poggiate su candelabri. O appese con catene e catenelle. Emanavano una luce fioca,
quasi impercettibile, ma che permetteva di riunire più persone intorno ad esse. Scorreva
dalle lucerne un’aria fumosa, acre e oleosa, che – chi lo poteva – cercava di mitigare
aggiungendo all’olio profumi e incensi.
La lucerna continuò a evolversi. Da un capo all’altro del Mediterraneo. Ma non cambiò
mai troppo di nome. Divenne lámpara in spagnolo, lampás in greco, lumera in Corsica, lampe in francese, lamba in turco. Fu assemblata in forma nuova. Sempre più sofisticata, più grande, a più
bracci, artisticamente sviluppata. Dall’epoca contemporanea in poi usa combustibili
diversi, nuovi: carburo, cherosene, petrolio. Fino alle moderne lampade a incandescenza.
Che talvolta, e non casualmente, hanno la stessa forma di un’antica lucerna.
Il Mediterraneo non era però dominato soltanto dalla lucerna. Laddove l’olio non c’era
si provvide in altro modo. Con le candele. Ce ne erano di due tipi. Quelle di cera.
Antiche nel Mediterraneo greco e romano per solcare la notte. Legate anche alla mitologia:
ad esempio, racconta Apuleio, senza candela come avrebbe fatto Psiche a vedere nell’oscurità
la bellezza di Amore? Non avrebbe potuto. E proprio la cera bollente, colata dalla
candela sul viso del dio, lo risvegliò di soprassalto, trasformandolo da Amore in
amante. La cera però non bastava. E gli uomini impararono a fare candele col grasso
animale, col sego. E nel medioevo si inventarono le candele a stoppino, ottenute ad
esempio col metodo del cucchiaio, ossia versando attraverso un apposito cucchiaio
di forma particolare la cera o la miscela di cere fuse sui lucignoli appesi ad un
cerchio girevole sopra la caldaia contenente il materiale fuso. E ripetendo l’operazione
fino a quando non si era data alle candele la dimensione dovuta. Candele che divennero
fondamentali, nell’uso liturgico come nella misurazione del tempo sacro della Chiesa,
perché il loro consumarsi segnava lo scorrere delle ore.
Ma è il quotidiano l’universo dove la candela, di sego e di cera, visse il suo successo.
L’oggetto di maggior uso per rischiarare la notte. Diffusissimo in ogni ambiente:
da quello ricco dagli enormi lampadari che illuminavano le dimore dei nobili fino
al moccolo spuntato che colava dalla misera bugia del povero. Questa la norma, sego
e cera, fino a Napoleone Bonaparte. Quando, nel 1818, due francesi, Braconneau e Simonin,
utilizzano la chimica per creare delle nuove candele. Le fanno di stearina. Formula
brevettata, qualche anno dopo, da Chevreul e Gay-Lussac. Da questo momento, le candele
perdono il loro fascino. E irrompono nella rivoluzione industriale. Non c’è più niente
di poetico, di agreste, di bucolico. D’ora in poi le candele parlano un nuovo linguaggio,
che sa di tecnologia dura, di paraffina, di ozocherite.
Di fronte alla notte, ci fu insomma un doppio Mediterraneo che rincorreva in modo
diverso la luce. Della lucerna e della candela. Con una frattura diremmo geografica:
un Oriente e un Nord Africa che, grossomodo, amano a lungo le lucerne ad olio, mentre
altrove domina la candela. Ed è strano immaginare questo mare separato non solo da
religioni, da correnti di pensiero, da genti in guerra tra loro, ma anche dalla maniera
diversa di affrontare l’oscurità. Tra chi lo fece in un modo e chi in un altro. Espressione
di due mondi, che risposero, allo stesso bisogno e alla medesima necessità di combattere
l’oscurità, con ciò che la natura e il loro ingegno offriva.
Tuttavia, per chi andava per mare c’era bisogno dell’altra luce, la luce dell’approdo.
Dove sbarcare? Dove fermarsi? Dove trovare terra, seguirla, sognarla durante la notte?
Come evitare i pericoli della costa, degli scogli e dei bassi fondali? Dove trovare
acqua? Viveri? Verso dove orientarsi in un mondo senza bussole? La soluzione fu fantasmagorica.
Da sette meraviglie del mondo. Il Mediterraneo classico grecoromano inventò il faro.
All’iniziò fu il braciere. La legna accatastata. Il fuoco sulla spiaggia. Qualche
torretta. Un baluardo con delle fiaccole. Poi si divenne grandiosi perché il Mediterraneo
ellenistico fu grandioso, in tutte le sue espressioni. Si pensava che si potesse raggiungere
qualunque meta, qualunque scopo. E, d’altra parte, Alessandro non era stato lì a dimostrarlo
con le sue imprese, le sue gesta, la sua indole cosmopolita, il suo desiderio sconfinato
di avventure e di curiosità? Ci fu Rodi e ci fu Alessandria. Il colosso per primo
doveva dimostrare al mondo che al sole del giorno se ne poteva contrapporre un altro
capace di contrastare la notte. Per farlo, bisognava immaginare qualcosa di divino
e imponente al tempo stesso.
Una statua, enorme, dedicata a Helios, il dio Sole, a dominare il porto cittadino.
Alla sua sommità, un enorme braciere avrebbe mostrato all’intero Mediterraneo che
la luce di Rodi sarebbe potuta arrivare ovunque. Per costruirla, fu chiamato un allievo
di Lisippo, Carete di Lindo. Quando Plinio il Vecchio descrive la statua sottolinea
due cose. La sua vita effimera: appena sessantasette anni dopo la sua erezione, nel
226 a.C., ci pensò infatti un terremoto a farla venir giù. E l’enormità: solo le dita
della mano erano più grandi di una statua di normali dimensioni. Triste destino quello
del colosso. I resti rimasero a lungo semiabbandonati, nell’ansa del porto. Quando
poi a Rodi arrivano i musulmani, nel 653 d.C., pensarono bene di spezzare ciò che
restava della statua e venderla a un mercante ebreo di Emesa. Lavoro non facile: ci
vollero quasi mille cammelli per portare via tutto, le pietre migliori, le putrelle
di ferro, il bronzo.
Ad Alessandria nasce invece il faro come lo concepiamo noi. Cioè un edificio che ha
questo scopo preciso: indicare ai naviganti una rotta e una meta. Nasce sull’isola
da cui prenderà il nome, Pharos. Una concrezione calcarea, in mezzo alle sabbie e
alle paludi del Nilo. Anche questo è un luogo chiave del Mediterraneo, e non è un
caso se si pensò di costruire l’edificio del faro proprio lì, dove Elena sbarcò due
volte: la prima, spinta da passione, con Paride; la seconda, dieci anni dopo, spinta
dal dovere, con Menelao. Ma l’isola era anche altro. Terra di ninfe, di foche, del
semidio Proteo. Fatto sta che sulla punta più rocciosa dell’isola, come dice Strabone,
ci costruirono il faro. A volerlo, a pensarlo, a desiderarlo per primo pare sia stato
Tolomeo I Soter (305-282 a.C.). Ma altri credono che il vero ideatore fosse Sostrato
di Cnido, un influente uomo di corte, tanto che un’iscrizione sullo stesso faro riportata
da Luciano recitava «Sostrato figlio di Dexifane, Cnidio, ha dedicato questo edificio
agli dèi salvatori, a vantaggio di coloro che navigano i mari».
Il faro: tra 280 e 270 a.C. doveva verosimilmente già esistere. Alto. Bianco. Marmoreo.
Per far luce, si adoperava un sistema molto ingegnoso, con un gigantesco fuoco alla
base che si rifletteva su un sistema di specchi posti in cima alla struttura. Per
Flavio Giuseppe, il faro si scorgeva a oltre trecento stadi, ossia a più di cinquanta
chilometri di distanza. Ma c’è chi sosteneva di aver intravisto la luce di Alessandria
anche a trecento chilometri. Probabilmente un’esagerazione, da gente di mare portata
per mentalità all’iperbole. Come un’esagerazione sono le cifre relative all’altezza
dell’edificio, fino ad arrivare alla misura monstre di quasi cinquecentosessanta metri descritta da Epifanio.
Non poteva essere diversamente. Tutto questo scaturisce dalla fama. Perché il faro
di Alessandria era davvero una delle grandi meraviglie del Mediterraneo. E dunque
del mondo. Perciò, il Mediterraneo non poté che innamorarsi di lui. Follemente. Farne
un modello. E costruirne altri. Simili a quello alessandrino, ma mai uguali. A Ravenna.
A Ostia, alto tre piani. A Centumcellae (Civitavecchia), il quale, come disse Plinio il Giovane, avrebbe dovuto «opporsi
alle onde spinte dal vento». A Messina. A Forum Iulii, l’attuale Frejus, in Provenza, all’interno di un porto fortificato poligonale. A
Laodicea, in Turchia. A Leptis Magna, nell’attuale Libia, di grandi proporzioni, a tre piani rettangolari e con uno spiazzo
rotondo sulla sommità. E così via. Tutti fari mediterranei. Cui va aggiunta un’eccezione:
la Torre di Ercole a La Coruña. Perché, pur collocato sull’Oceano, questo faro sempre
figlio del Mediterraneo e di Alessandria è.
Il medioevo sembra invece dimenticarsi dei fari. Forse perché – ha ragione Paolo Rumiz
– i grandi fari sono figli degli imperi e non delle nazioni. E «una rete capillare
di luci amiche dei naviganti richiede una certa visione del mondo»....