3.
La farmacia di Fanon
I primi due capitoli hanno mostrato come l’inimicizia costituisca ormai il nerbo delle
democrazie liberali e come l’odio sia ciò che dà loro l’impressione di fare esperienza
di un presente puro, di una politica pura con mezzi altrettanto puri. Abbiamo anche
sostenuto che dal punto di vista storico né la repubblica schiavista né il regime
coloniale e imperiale sono stati corpi estranei alla democrazia, ma sono invece stati
la materia fosforescente, proprio quella che permetteva alla democrazia di uscire
da sé, di mettersi deliberatamente al servizio di altro rispetto a quello che proclamava
in teoria e di esercitare quando occorreva la dittatura contro se stessa, contro i
suoi nemici e i non-simili. I corpi di spedizione all’epoca delle conquiste coloniali
e le campagne militari nel corso delle guerre antinsurrezionali della decolonizzazione
furono gli emblemi più significativi di quella lunga fase repressiva.
Al limite, dunque, non c’è democrazia liberale senza questo supporto del servile e
del razziale, del coloniale e dell’imperiale. Questo sdoppiamento inaugurale è tipico della democrazia liberale. Il rischio e la minaccia che lo sdoppiamento
fa pesare sulla democrazia non è tanto di annullarne il messaggio o addirittura di
eliminarne il nome, quanto di rivoltarla contro se stessa, riportando all’interno
quello che ci si ostina a scaricare verso l’esterno. Oggi, in quanto è quasi impossibile
definire il limite fra interno ed esterno, il pericolo che terrorismo e contro-terrorismo
fanno pesare sulle democrazie moderne è quello della guerra civile.
Nel lungo capitolo che segue si affronta direttamente il tema della tensione fra il principio di distruzione – che funge da pietra angolare delle politiche contemporanee dell’inimicizia – e
il principio di vita. Al centro di questa riflessione si farà ricorso in particolare a Frantz Fanon, le
cui considerazioni sulla distruzione e la violenza da una parte e sul processo di
guarigione e il desiderio di una vita illimitata dall’altra costituiscono la base
della sua teoria della decolonizzazione radicale. In Fanon, infatti, la decolonizzazione
radicale è vista nell’ottica di un movimento e di un travaglio violento, un travaglio
che ha lo scopo di portare al principio di vita, di rendere possibile la creazione
del nuovo. Ma qualsiasi violenza è generatrice di qualcosa di nuovo? Che dire delle
violenze che non fondano niente, sulle quali non si può costruire niente e che hanno
la sola funzione di istituire il disordine, il caos e la perdita?
1. Il principio di distruzione
Per cogliere l’importanza che Fanon attribuisce alla violenza creatrice e al suo potere
di guarigione, è necessario ricordare due cose. L’opera di Fanon s’inserisce direttamente
in tre dei dibattiti e delle controversie più determinanti del ventesimo secolo: il
dibattito sui generi dell’umano (razzismo); quello sulla ripartizione del mondo e le condizioni del dominio planetario (imperialismo) e quello sullo statuto della macchina e il destino della guerra (il nostro rapporto con la distruzione e la morte). Queste tre questioni hanno assillato
la coscienza europea a partire dal sedicesimo secolo e hanno aperto la strada, all’inizio
del Novecento, a un profondo pessimismo culturale.
Da molti punti di vista, il Novecento comincia davvero con la Grande Guerra, al cui
proposito Freud dirà: «mai un fatto storico [ha] distrutto in tal misura il prezioso
patrimonio comune dell’umanità». La causa, aggiunge, non sta solo nel perfezionamento delle armi offensive e difensive,
che ha reso la guerra «più sanguinosa e rovinosa di ogni guerra del passato»; essa
è «perlomeno tanto crudele, accanita e spietata quanto tutte le guerre che l’hanno
preceduta. Essa infrange tutte le barriere riconosciute in tempo di pace e costituenti
quello che è stato chiamato il diritto delle genti, disconosce le prerogative del
ferito e del medico, non fa distinzione fra popolazione combattente e popolazione
pacifica, viola il diritto di proprietà. Abbatte quanto trova sulla sua strada con
una rabbia cieca, come se dopo di essa non dovesse più esservi avvenire e pace fra
gli uomini».
«La mia prima impressione, entrando nel reparto ospedaliero che era interamente occupato
da malati di nevrosi di guerra, fu di profondo stupore», racconta per parte sua Sándor
Ferenczi. Vi erano ricoverati circa cinquanta pazienti e quasi tutti davano «l’impressione
di essere molto sofferenti o addirittura invalidi». Certi erano «incapaci di muoversi»,
mentre in altri il minimo tentativo di spostarsi provocava «un tremito così violento
delle ginocchia e dei piedi» che le loro voci «coprivano a fatica il rumore delle
suole che battevano sul pavimento». Secondo lui era il comportamento di costoro che
colpiva di più: dava l’impressione di una paresi spasmodica, mentre le diverse combinazioni
di tremore, rigidità e astenia producevano «atteggiamenti del tutto particolari, che
solo il cinematografo sarebbe stato capace di riprodurre».
La Grande Guerra, una scena sulla quale moriva ogni linguaggio tranne la parola allo
specchio, mandò in pezzi – o almeno rimise profondamente in discussione – diversi
secoli di tentativi di definire un “diritto di guerra”, ovvero la legge fondamentale
che, in un conflitto tra Europei, prescrivesse ciò che poteva essere permesso e non
permesso. Quella legge era il prodotto di un lungo processo di maturazione, di innumerevoli
tentativi e di intensi dibattiti sul tema della natura della guerra stessa, su quello
che era e su quali fossero i suoi rapporti con il diritto naturale e la giustizia.
Rispetto alla tematica che ci interessa qui, quella del terrore delle democrazie in
situazione coloniale e postcoloniale in particolare, è utile ricordare che in origine
il pensiero europeo distingueva diverse forme di diritto. Inteso come attributo dell’azione,
il diritto era diviso in diritto di superiorità e diritto tra pari; in diritto naturale
e diritto cosiddetto umano (che a sua volta comprendeva il diritto civile, il diritto
delle genti), in diritto universale e diritto particolare. Il diritto si sforzava
di regolare questioni molto complesse, come quella della distinzione tra la guerra
cosiddetta solenne o pubblica e tutte le altre forme di conflitto, in particolare
la guerra privata.
Poiché, per definizione, ogni guerra comportava un forte rischio per lo Stato, la
guerra pubblica poteva essere intrapresa solo per ordine di colui che deteneva il
potere sovrano nello Stato. Una guerra pubblica si riconosceva dal fatto che chi la praticava era investito
di un potere sovrano e doveva seguire un certo numero di atti formali. Per il resto
restava inteso che il sangue si pagava con il sangue, che l’impiego delle armi non
era mai esente dai pericoli e che la difesa era altra cosa dalla vendetta. Sul piano
filosofico, i tentativi d’istituzione di un diritto di guerra culminarono nel diciassettesimo
secolo con l’opera di Grozio, De iure belli ac pacis.
Il pessimismo culturale che travolse l’Europa dopo la Grande Guerra produsse un connubio
relativamente nuovo tra nazionalismo e militarismo. In particolare in Germania la sconfitta fu considerata l’esito di un tradimento.
La guerra era perduta, ma non era finita. Gli “ebrei traditori” erano i colpevoli
della disfatta e la vendetta del paese sarebbe stata consumata solo nel giorno in
cui sarebbero stati sterminati. Il nuovo nazionalismo militare traeva ispirazione da un immaginario senza precedenti
della devastazione e della catastrofe. Il soldato che tornava dall’inferno delle trincee
ne era la figura emblematica. Aveva fatto l’insostenibile esperienza del fango, era
stato testimone della riduzione in briciole di un mondo. Aveva vissuto da vicino la
morte in tutte le sue forme.
Gli attacchi con il gas avevano trasformato la stessa atmosfera in un’arma letale.
Era diventato un pericolo respirare, perché l’aria stessa era stata avvelenata. Migliaia
di bombole avevano scaricato migliaia di tonnellate di gas a base di cloro nelle trincee.
Tanti soldati erano morti asfissiati e soffocati dai propri fluidi, sul fondo di una
densa nuvola giallo-verde che si spargeva per chilometri sospinta dal vento. Lo stesso soldato che aveva subito la minaccia quasi costante di un collasso nervoso,
in preda al terrore, aveva udito le urla di morte dei suoi commilitoni ed era stato
testimone del loro incomunicabile sgomento. Egli stesso a rischio di impazzire, si
era sentito completamente esposto ai colpi del caso e della predestinazione.
La «grande disillusione» (Freud) provocata dalla guerra non dipendeva dalla persistenza
del fatto bellico in quanto tale. All’epoca pochissimi credevano in una cessazione
definitiva delle guerre o nell’utopia di una pace perpetua. Le guerre, affermava Freud,
non cesseranno «fintanto che i popoli vivono in condizioni di esistenza così diverse,
fintanto che il loro modo di valutare la vita individuale è così divergente e gli
odi che li separano sono alimentati da forze motrici psichiche così potenti».
La disillusione non dipendeva nemmeno dalla realtà di guerre «tra popoli primitivi
e popoli civilizzati, tra razze divise da differenze di colore, e persino con o tra
singole popolazioni europee meno progredite o civilmente in regresso». Le «grandi nazioni di razza bianca [...] nelle cui mani è affidata la guida del
genero umano» e che peraltro godevano di «una civile comunanza» avevano appena dato prova di comportamenti brutali di cui non si pensava fossero
capaci, in quanto partecipi della «più progredita civiltà umana»: questo era lo scandalo della Grande Guerra. In altre parole, l’uomo delle origini,
l’uomo delle età antiche, quello abituato ad accettare la morte dell’altro, che non
aveva nessuno scrupolo a provocarla, che praticava volutamente l’omicidio e ai cui
occhi la morte del nemico significava solo l’annientamento di ciò che egli odiava,
quest’uomo primitivo era ancora presente in ognuno di noi e la sua maniera di trattare
la morte era ancora viva in ciascuno di noi, «ma [...] non appare alla nostra coscienza,
giacché si trova nascosta nei recessi più profondi della nostra vita psichica». Il vasto rimescolamento della vita pulsionale che si credeva indotto dal processo
di civilizzazione non aveva affatto cancellato le specifiche capacità di tornare indietro,
di quella che Freud chiamava regressione.
La rivelazione della Grande Guerra era pertanto, da una parte, che «gli stati primitivi
possono sempre ristabilirsi: quel che vi è di primitivo nella psiche è imperituro,
nel vero senso della parola». Dall’altra parte, se la pulsione di morte o di distruzione può essere rivolta in
gran parte verso l’esterno o diretta sugli oggetti del mondo esteriore, molte altre
parti di quella stessa pulsione riescono sempre a sottrarsi alla domesticazione (l’oggetto
del processo di civilizzazione). Inoltre, la pulsione di distruzione (con tutto quello
che comporta quanto a sadismo e masochismo) rivolta all’esterno o proiettata può nuovamente
essere riorientata verso l’interno o introiettata.
Essa comincia a prendere come bersaglio l’Altro interiore. Di qui l’imperativo di
sterminio (Ausrottung) del popolo ebraico, particella di putrefazione che si suppone abiti il corpo del
popolo tedesco. Ben presto, però, la pulsione investe il soggetto stesso come proprio
oggetto. In questo caso la distruzione ritorna dal mondo esteriore al soggetto e spinge
quest’ultimo ad «agire in modo dissennato e contro i propri interessi, deve distruggere
le prospettive che gli si aprono nel mondo reale, ed eventualmente deve distruggere
la propria reale esistenza». Colonialismo, fascismo e razzismo costituiscono tre forme tanto estreme quanto patologiche
di tale ritorno dal presunto mondo esterno verso il soggetto.
Dopo la fine della guerra, soprattutto in Europa, comparvero partiti e movimenti fascisti.
L’ascesa del fascismo e poi del nazismo si verificò parallelamente a quella del colonialismo
e oggi è un fatto assodato che colonialismo, fascismo e nazismo hanno avuto rapporti
non solo di circostanza. Benché molto distinte, queste tre formazioni storiche condividevano uno stesso mito,
quello dell’assoluta superiorità della cultura cosiddetta occidentale, intesa come
cultura di una razza, la razza bianca. La sua essenza sarebbe quella dello spirito
faustiano, riconoscibile fra l’altro nella sua potenza tecnica. Che si tratti del
passato o del presente, tale potenza avrebbe permesso di elevare la cultura occidentale
a un’altezza senza paragoni. Nel modo in cui la si intendeva all’epoca, la frase “cultura
senza paragoni” aveva un duplice significato.
In primo luogo rimandava a un’essenza. La cultura occidentale, così si sosteneva,
non sarebbe una normale componente del gruppo delle culture dell’umanità. Nel concerto
delle creazioni umane, essa avrebbe un ruolo preminente, che l’affrancherebbe da qualsiasi
dipendenza dalle altre culture e che le conferirebbe un’immunità, in conseguenza della
quale non potrebbe essere “toccata”. Sarebbe stata “intoccabile” perché si distingueva
da tutte le altre. Era “intoccabile” anche perché essa sola aveva la capacità di ricondurre
a sé tutte le altre. Non avrebbe mai potuto fondersi completamente nella rete delle
altre culture del mondo, perché solo grazie a lei e solo in rapporto a lei tutte le
altre esisterebbero.
Così ipostatizzata e posta su un piedistallo, la cultura o la civiltà occidentale
diventava il punto zero di orientamento di tutti gli esseri umani. Tale era, peraltro,
il luogo e la materia che assegnava a se stessa, il suo “qui”, il suo punto metafisico,
che la rendeva capace di fare astrazione dall’esistenza, dalla volontà e dai desideri
di altri corpi e di altre carni, luoghi remoti, insieme diversi dal suo e implicati
in lei, ma in una direzione da cui non poteva affatto riportarsi indietro. Nello spirito
dell’epoca “cultura senza paragoni” significava anche l’unica che avesse superato
simbolicamente la morte. L’addomesticamento della morte passava dal dominio sulla
natura, dal culto dello spazio illimitato e dall’invenzione del concetto di forza.
Non che quella cultura non fosse capace di contemplazione. Il suo progetto, tuttavia,
era di dirigere il mondo secondo la propria volontà. Un vasto programma prometeico:
l’originalità dell’Occidente stava nell’avere strappato alla divinità il suo segreto
e di avere fatto dell’uomo stesso un Dio.
Colonialismo, fascismo e nazismo condividevano un secondo mito. Per ognuna di queste
formazioni storiche, l’Occidente era un corpo naturale vivo, dotato di un midollo
e di un’anima. «Le altre parti del mondo hanno avuto civiltà mirabili», proclamava
Paul Valéry. «Ma nessuna parte del mondo ha posseduto questa singolare proprietà fisica: la più intensa potenza di emissione unita al più intenso potere di assorbimento. Tutto è andato all’Europa e tutto è venuto di lì».
Tale singolare proprietà fisica, tale «intensa potenza di emissione» unita al «più
intenso potere di assorbimento», aveva assunto una forma concreta nel momento della
repressione delle guerre di resistenza contro il colonialismo: la forma-campo.
Per più di mezzo secolo l’interpretazione della forma-campo è stata dominata da quelle
che si potrebbero definire le “politiche dell’estremo”, cioè, per riprendere l’espressione
di Aimé Césaire, le politiche di decivilizzazione che, secondo meccanismi ora vistosi ora invisibili e più o meno sotterranei, sono
state consustanziali alla condizione coloniale. Il campo, conseguenza della distruzione
degli ebrei in Europa, sulla scia dell’Olocausto è stato considerato il luogo di una
radicale disumanizzazione, lo spazio dove l’uomo fa esperienza del suo divenire animale
nell’atto con il quale riduce allo stato di polvere altre esistenze umane. Il campo
è stato anche interpretato come sintomatico del processo di espulsione delle sue vittime
dalla comune umanità, la scena di un crimine tanto segreto quanto irrappresentabile
e indicibile, indissolubilmente votato all’oblio, almeno tra quelli che lo perpetrarono,
perché tutto cospirava fin dall’origine a cancellarne le tracce.
È possibile che l’intensa potenza di emissione e di assorbimento di cui parlava Valéry
sia stata all’origine non di un unico crimine che, riassumendo tutti gli altri, godrebbe
comunque di un ruolo elettivo e sarebbe portatore di significati “extra-umani”, ma
di una catena di crimini e di terrori sulle cui complesse genealogie è necessario riflettere. In effetti,
sul versante diurno delle politiche di decivilizzazione (o dell’estremo, o del terrore)
denunciate da Césaire si collocano i processi coloniali, con il loro seguito di guerre
di conquista, di guerre di occupazione e di sterminio, di genocidi e altri massacri,
e il loro inevitabile corollario di guerre di liberazione e di guerre antinsurrezionali,
la cui portata si comincia solo ora a valutare. Sul versante notturno si pongono i processi di concentramento e di sterminio attestati
da tanti superstiti, come Jean Améry, lettore di Fanon, nel quale trovò, più che un
interlocutore, quasi un parente. E come avevano ben visto Hannah Arendt e poi Michel Foucault, collegando i due versanti,
c’è la razza o, per essere precisi, il razzismo.
Da un punto di vista strettamente storico, la forma-campo fa la sua comparsa alla
svolta del ventesimo secolo (tra il 1896 e il 1907), nel contesto della guerra coloniale
a Cuba, nelle Filippine, in Sudafrica e nell’Africa del Sud-Ovest allora controllata
dalla Germania. Il campo nella sua accezione moderna è altra cosa rispetto alle politiche
di trasferimento di popolazioni praticate dagli Inglesi in India nel corso del diciottesimo
secolo, in Messico nel 1811 o negli Stati Uniti nel corso del diciannovesimo secolo.
In quel contesto il campo è un dispositivo di guerra cui ricorre il governo coloniale,
un mezzo di repressione di massa destinato alle popolazioni civili considerate ostili.
Si tratta, in senso generale, di donne, bambini e vecchi esposti sistematicamente
alla fame, alla tortura, ai lavori forzati e alle epidemie.
In Sudamerica le prime esperienze di reclusione in campi si fecero a Cuba, nel corso
della guerra dei Dieci Anni (1868-1878). Più tardi, nel 1896, queste categorie della
popolazione furono concentrate nelle province di Santiago e di Puerto Principe dal
generale spagnolo Valeriano Weyler. Il tasso di mortalità raggiungeva il 38 per cento
in certe regioni, come a Santa Clara. Gli Americani, per parte loro, crearono numerosi campi di concentramento nelle Filippine
tra il 1899 e il 1902, quando gli insorti nazionalisti filippini ricorsero alla guerriglia
per affermare i propri diritti.
I campi di concentramento nelle Filippine seguivano la falsariga della hard war, la “guerra sporca”, un termine le cui origini risalgono alla guerra civile americana.
Fu adottata allora una quantità di misure punitive che rientravano nel quadro del
codice Lieber del 1863. Tale codice indicava varie distinzioni tra le diverse categorie
delle popolazioni contro le quali erano condotte le guerre antinsurrezionali, la più
importante delle quali la distinzione fra i cittadini leali e gli sleali o traditori.
I cittadini sleali erano a loro volta divisi tra quelli dei quali era nota la simpatia
per la ribellione senza però che le apportassero alcun aiuto oggettivo e quelli che,
senza necessariamente impugnare le armi, concedevano un aiuto oggettivo al nemico
ribelle senza essere costretti a farlo. Secondo il codice Lieber i comandanti delle
forze armate potevano far gravare il peso della guerra sui cittadini sleali delle
province ribelli. Era normale che i traditori subissero, nel caso, eccezionali misure
punitive, dalle quali non erano nemmeno esentati i nemici non-combattenti, soprattutto
in periodi di guerra regolare. Il governatore militare poteva decidere l’espulsione
di questi cittadini, che, inoltre, potevano essere colpiti da trasferimenti, carcerazioni
e pesanti ammende.
Tali misure furono in effetti applicate dal dicembre 1900 dal brigadier generale Arthur
MacArthur e poi, a partire dal novembre 1911, dal brigadier generale J. Franklin Bell:
riguardavano in gran parte la provincia di Batangas, dove la resistenza filippina
era particolarmente attiva. Si effettuarono sgomberi in massa della popolazione nelle
zone rurali. Si aprirono campi di concentramento e aumentarono le pratiche di tortura.
Gli stessi metodi furono applicati nella provincia di Samar dal brigadier generale
Jacob H. Smith. Alla serie di atrocità già perpetrate, costui aggiunse un’autentica
politica di terra bruciata corredata da esecuzioni in massa.
La logica concentrazionaria esisteva dunque assai prima della sua sistematizzazione
e radicalizzazione sotto il Terzo Reich. Nel caso sudafricano (dal 1889 al 1902),
la Corona britannica doveva fronteggiare una logica di guerriglia. Tra il 1899 e il
1900 quella che contrapponeva i due nemici era una guerra in gran parte convenzionale.
Sottoposti a un’insostenibile pressione da parte delle truppe inglesi, i Boeri modificarono
presto la propria tattica e i loro comandi ricorsero sempre più spesso alla guerriglia.
Invece di affrontare il nemico in campo aperto con un esercito costituito, i Boeri
ripresero gli abiti civili e si reinserirono tra la popolazione locale. Dopo di che,
furono in grado di sottoporre le truppe britanniche a uno stillicidio di azioni inaspettate
che, pur non assicurando vittorie decisive in campo militare, avevano comunque l’effetto
di indebolirne notevolmente il morale.
Sotto la guida di Horatio H. Kitchener la Corona britannica reagì intensificando la
creazione di campi di concentramento. Legalizzati dal governo nel dicembre 1900, tali
campi erano presentati come misure eccezionali con lo scopo di separare le popolazioni
civili dai combattenti che le forze coloniali cercavano di isolare e sconfiggere.
I civili, soprattutto donne e bambini, furono allora confinati in luoghi desolati,
circondati da filo spinato, dove i tassi di mortalità si rivelarono eccezionalmente
elevati.
A questi modelli di origine coloniale il Terzo Reich aggiunse una dimensione cruciale,
la pianificazione della morte di massa, che del resto era stata tentata dai Tedeschi
nell’Africa del Sud-Ovest nel 1904, quando gli Herero fecero per primi l’esperienza
del lavoro forzato in un sistema concentrazionario – il primo genocidio del ventesimo
secolo. Al di fuori delle colonie, in territorio europeo, la logica del campo di concentramento
non ha assunto solo forme naziste, ma è stata presente prima, durante e dopo la seconda
guerra mondiale. Nel 1942, per esempio, la Francia contava quasi un centinaio di campi,
in maggioranza nati negli ultimi anni della Terza Repubblica sotto Édouard Daladier,
prima del regime di Vichy. Vi erano ospitati individui di ogni sorta, considerati
«pericolosi per la difesa nazionale e la pubblica sicurezza», in maggioranza persone che erano fuggite dai propri paesi e si erano rifugiate in
Francia (Tedeschi e Austriaci; ebrei dopo il 1933; poi Spagnoli, ex combattenti della
causa repubblicana, dal 1939). Questi luoghi e altri apparsi sotto Vichy (Compiègne,
Rivesaltes, Les Milles, Gurs, Pithiviers, Beaune, Drancy ecc.) funsero da laboratori
in cui si praticava una certa radicalizzazione dei dispositivi di prevenzione, di
repressione e di pena.
Erano tempi che favorivano la creazione di molteplici figure di capro espiatorio.
Molti stranieri erano visti, se non come nemici, quanto meno come “bocche inutili
da sfamare” di cui bisognava sbarazzarsi. Erano accusati di “rubare i posti di lavoro e le donne ai Francesi”. Sotto Vichy
toccò il suo culmine il lento processo di offuscamento della figura dello straniero.
Il quale era solo un elemento biologico corrotto, le cui tare e le cui patologie rappresentavano
una minaccia diretta all’integrità del corpo nazionale. Dall’autunno 1940 una nuova
legge permise di rivedere tutte le naturalizzazioni concesse dal 1927. Tra il 1940
il 1944 circa 15.000 persone persero la nazionalità francese e furono «rese apolidi».
Torniamo ai campi di concentramento coloniali per precisare che, a prima vista, non
erano destinati allo sterminio propriamente detto. Per quanto riguarda in particolare
il caso europeo, numerosi storici suggeriscono di fare una distinzione tra l’universo
dei campi di raccolta, i campi di concentramento destinati alle popolazioni non ebree, e i campi di sterminio dove fu perpetrato il genocidio degli ebrei; i campi destinati a ricevere i nemici
politici e i centri di messa a morte in quanto tale. In effetti non tutti i campi
erano destinati alle esecuzioni programmate. Per questo è importante la distinzione
tra il dispositivo concentrazionario nel senso stretto del termine e l’apparato di
sterminio propriamente detto, anche se, peraltro, tutti i campi (compresi quelli delle
colonie) erano spazi sui quali incombeva la sofferenza ed eventualmente la morte in
diverse forme – la morte lenta per sfinimento, sul lavoro o per abbandono e indifferenza;
oppure, come accadde proprio nel cuore dell’Europa, la pura e semplice eliminazione
con il gas – e poi il fumo, la cenere e la polvere. In un caso come nell’altro, i
campi ospitavano un’umanità dichiarata ora inutile, ora nociva, ora percepita come
nemica e ad ogni modo parassita e superflua. È così che, nella filosofia moderna,
il mondo dei campi è diventato inscindibile dal mondo di un singolare reato, perpetrato
in apparente segreto: il crimine contro l’umanità.
Uno dei casi moderni più evidenti relativi a tale problematica, ovvero un’umanità
contro la quale viene perpetrato un crimine non riconosciuto come tale, è il luogo
coloniale. Ancor oggi non è chiaro, agli occhi di tutti, che la schiavitù dei Negri
e le atrocità coloniali appartengono alla memoria del mondo, ancor meno è chiaro che
questa memoria, in quanto comune, non è proprietà dei soli popoli che ne sono stati
vittime, ma dell’umanità nel suo insieme, oppure che, finché non saremo capaci di
assumerci la memoria del “Tutto-mondo”, sarà impossibile immaginare un mondo davvero
comune e un’umanità realmente universale.
Certo, sotto la colonizzazione non tutti gli spazi carcerari appartenevano necessariamente
al sistema concentrazionario o al dispositivo di sterminio. Ma il campo fu un dispositivo
centrale delle guerre coloniali e imperialiste. Per questo è necessario ricordare
tali origini del campo – nel crogiolo delle guerre imperialiste e coloniali (guerre
asimmetriche per definizione), più tardi nelle guerre civili con quello che ne seguì
e, infine, nel panorama della guerra mondiale. Questa genealogia fa ritenere che all’origine
del campo si trovi sempre un progetto di ripartizione degli esseri umani. Ripartizione
e occupazione procedono di pari passo con l’espulsione e la deportazione e, spesso,
con un programma più o meno confessato di eliminazione. Non per nulla, fra l’altro,
la forma-campo accompagnerà quasi dovunque le logiche di popolamento-sradicamento.
Di questa ripartizione degli esseri umani e di questo popolamento-sradicamento fu
testimone Frantz Fanon, che dedicò gran parte della sua breve vita a curare malati.
Fu testimone di insondabili sofferenze, della follia, delle afflizioni umane e, soprattutto,
della morte, senza ragione apparente, di tanti innocenti, cioè di quelli che ci si
aspettava fossero risparmiati, anche in situazioni estreme.
Ogni situazione di asservimento strutturale costituisce di fatto, almeno per quelli
e quelle che la patiscono, una condizione potenzialmente estrema. Era questo il caso
dell’esperienza coloniale. Dovunque fosse mossa dalla volontà di dominio, l’impresa
coloniale lasciò dietro di sé solo avanzi della popolazione autoctona, che si affrettò
fra l’altro a confinare in zone separate. Limitando le occasioni d’incontro e di contatto
tra coloni e assoggettati, estese al massimo la distanza tra i due gruppi, che era
la condizione prioritaria per provocare la banalizzazione dell’indifferenza. Per chi
aveva il compito di attuarle, la conquista e l’occupazione delle colonie non richiedevano
solo una straordinaria disposizione all’indifferenza, ma anche capacità fuori del
comune di compiere atti assolutamente ripugnanti. Massacri, carneficine, repressione
delle resistenze imponevano talvolta contatti corpo a corpo, il dispiego di forme
orribili di crudeltà, perché l’aggressione ai corpi e alle proprietà doveva ogni volta
esprimere il disprezzo con cui si consideravano le razze cosiddette inferiori. Dove
serviva, alla demolizione terrestre si aggiungevano i bombardamenti aerei. Decapitazioni, squartamenti, torture e altre sevizie sessuali completavano il quadro.
L’assuefazione al sadismo, l’implacabile volontà di ignorare tutto, di non provare
nessuna empatia verso le vittime, di convincersi della bassezza degli indigeni, di
ritenerli responsabili delle atrocità che erano loro inflitte, delle estorsioni e
dei danni pesanti che subivano: questa era la legge. Come spiega Fanon, ogni volta
che si trattava di discolpare il colonialismo, non si esitava a ricorrere agli stessi
sotterfugi: i crimini erano compiuti da individui isolati, persone in preda alla paura
davanti al comportamento animalesco e agli atti di estrema barbarie delle loro vittime
e davanti alla minaccia che i selvaggi facevano incombere sulla loro vita; gli orrori
vissuti dai colonizzati non erano niente rispetto alle sofferenze che avrebbero dovuto
sopportare se fossero stati abbandonati a loro stessi; ciò che era realizzato in nome
della civiltà (sviluppo economico, progressi tecnici, scolarizzazione, sanità, cristianizzazione
e assimilazione) controbilanciava gli effetti negativi – che venivano fatti passare
per inevitabili – del progetto coloniale.
Così andarono le cose, in particolare in Algeria. Della guerra coloniale in generale,
Fanon diceva che era generatrice di patologie di ogni genere e che costituiva un terreno
favorevole allo sviluppo di disturbi mentali. Tali patologie da tempo di guerra propriamente
dette si aggiungevano a ogni sorta di ferite che la colonizzazione aveva inflitto
in precedenza ai colonizzati al momento della conquista e dell’occupazione. Il colonizzato
che subiva la guerra coloniale oppure che vi era coinvolto in qualità di combattente
portava su di sé, in sé, nel proprio intimo le cicatrici e altre tracce delle lesioni
originarie.
Della guerra d’Algeria in particolare, Fanon disse che aveva preso molto spesso l’andamento
di un «autentico genocidio». In realtà il processo coloniale, nella sua struttura come nei suoi abbellimenti
– soprattutto quando fa leva su presupposti razzisti e suprematisti –, si costruisce
sempre intorno a una pulsione di genocidio. In numerosi casi la pulsione non si è
mai materializzata, ma c’è sempre stata, in stato latente. Raggiungeva il punto massimo
di incandescenza nel momento della guerra, sia di conquista e di occupazione che antinsurrezionale.
La pulsione di genocidio operava in modo molecolare. Per la maggior parte del tempo
sobbolliva e di quando in quando si cristallizzava intorno a fatti di sangue (uccisioni,
massacri, repressioni) che poco a poco si reiteravano. La guerra ne era l’esito parossistico:
metteva in esecuzione e portava alla luce la minaccia che ogni sistema coloniale è
pronto ad agitare quando è in gioco la sua sopravvivenza: spargere quanto più sangue
possibile, mandare in frantumi i mondi dei colonizzati e trasformarli in un ammasso
informe di rovine, di corpi dilaniati, di esistenze spezzate per sempre, un luogo
inabitabile.
Di quella guerra Fanon diceva che aveva immerso le persone, vittime e carnefici, combattenti
e civili, in un’atmosfera cruenta. A livelli diversi minacciava di trasformare tutti
in statue di odio e di svuotare chiunque di ogni sentimento umano, a cominciare dalla
pietà, dalla disponibilità a lasciarsi toccare, dal ricordo della propria vulnerabilità
riguardo alle disgrazie e alla sofferenza dell’Altro. Lo sradicamento di ogni sentimento
di pietà, questo grado zero dello scambio tra simili, aveva spalancato la strada alla
generalizzazione delle pratiche disumane, facendo nascere nelle persone l’impressione
tenace di «assistere a un’autentica apocalisse».
Contro questo lavoro di piccone e alla distruzione che ne era la conseguenza, Fanon
ritenne che la violenza fosse necessaria. Tale violenza aveva un duplice obiettivo:
il sistema coloniale in quanto tale e il sistema di inibizioni di ogni genere che
mantenevano i colonizzati sotto il giogo della paura, delle superstizioni e di vari
complessi di persecuzione e d’inferiorità. Facendo tabula rasa dell’ordine oppressivo,
la violenza permetteva di aprire lo spazio necessario alla creazione del nuovo. Rendendo
l’ordine coloniale labile e inoperante, fungeva da strumento di risurrezione.
Nelle intenzioni di Fanon, non si trattava tanto di conquistare lo Stato, quanto di
generare un’altra modalità di formazione della sovranità. La violenza rigeneratrice
della decolonizzazione, momento privilegiato dell’emersione del nuovo, mirava a produrre
altre forme di vita. Aveva una dimensione incalcolabile e, per questa ragione, era
essenzialmente imprevedibile. Una volta scatenata, poteva diventare ingovernabile.
Da questo punto di vista essa era un potenziale strumento sia di salvezza sia di propagazione
del rischio.
2. Società di oggetti e metafisica della distruzione
Le società coloniali erano entità abbandonate dal sentimento di pietà. Non immaginavano
se stesse come società di simili,ma erano, in linea di diritto come di fatto, comunità della separazione e dell’odio.
Era l’odio, paradossalmente, che le teneva insieme. La crudeltà era a tal punto un
fatto normale, il cinismo era così aggressivo e sprezzante, che i rapporti di ostilità
erano stati interiorizzati in modo gradualmente irrevocabile. In effetti i rapporti
di strumentalizzazione tra dominanti e dominati erano tali da rendere quasi impossibile
distinguere in totale chiarezza la parte del nemico interno da quella del nemico esterno.
Prima di tutto il razzismo era il motore di una simile società e nello stesso tempo
il suo principio di distruzione. E, nella misura in cui non esisteva nessun Io senza
un Altro – giacché l’Altro è semplicemente un altro Io, anche nella figura della negazione
–, dare la morte a un Altro equivaleva a dare la morte a se stessi.
Il razzismo, secondo Fanon, non era quasi mai casuale. Ogni razzismo, in particolare
quello contro i Negri, era sostenuto da una struttura che, a sua volta, era al servizio
di quello che Fanon definiva un lavoro gigantesco di asservimento economico e biologico.
In altre parole, il razzismo doveva essere analizzato in relazione a una bioeconomia e, nello stesso tempo, a una ecobiologia. Per un verso l’atto razzista consisteva in una dichiarazione arbitraria e originale
di superiorità, destinata a consacrare la supremazia di un gruppo, di una classe o
di una specie umana sulle altre. Per un altro, era connaturato al razzismo il costante
tentativo di non sclerotizzarsi. Per conservare la propria virulenza ed efficacia,
doveva rinnovarsi ogni volta, cambiare fisionomia, operare una metamorfosi.
Fanon distingueva in particolare due tipi di razzismo. Si trattava da un lato di un
razzismo senza belletti, primitivo e semplice, che secondo lui corrisponde al «periodo
di sfruttamento brutale delle braccia e delle gambe dell’uomo». Era il razzismo dell’epoca della comparazione dei crani; della quantità e della
configurazione dei solchi cerebrali che si cercavano di identificare; della labilità
delle emozioni del Negro di cui si vuole intuire la logica; dell’integrazione subcorticale
dell’Arabo che si vuole definire; della colpevolezza generica dell’ebreo che si vuole
stabilire; della dimensione delle vertebre che si misura e degli aspetti microscopici
dell’epidermide che si è intenti a determinare. Benché volgare, questa modalità del
razzismo voleva essere razionale, se non addirittura scientifica: cercava di assumere
autorevolezza dalla scienza e in particolare dalla biologia e dalla psicologia.
Dall’altro lato imperversava una forma di razzismo che Fanon chiamava culturale, di
fatto risultante da una mutazione del razzismo volgare. Non si basava su un’equazione
di tipo morfologico, ma si riferiva a forme particolari di esistenza che il colonialismo
in particolare tentava di liquidare. Non potendo distruggerle, cercava di svalutarle
oppure di renderle oggetti esotici. Gli ambiti più esposti a questo genere di lavoro
insidioso erano quelli dell’abbigliamento, del linguaggio, delle tecniche, dell’alimentazione,
del modo di sedersi, di riposarsi, di divertirsi, di ridere e soprattutto il rapporto
con la sessualità.
Oltre a queste due forme di razzismo legate a una bioeconomia, Fanon continuò a insistere
sulla natura delle ferite provocate dal razzismo: «Il razzismo riempe di lividi e
sfigura il volto della cultura che lo pratica». In modo ancor più netto affermava che il razzismo soffriva in fondo di una forma
elementare di nevrosi e comportava in tutti i casi un elemento di coinvolgimento affettivo
simile a quello che si riscontra in certe psicosi. Era collegato ai deliri, soprattutto
di carattere passionale. A questa triplice struttura nevrotica, psicotica e delirante,
Fanon aggiungeva una dimensione rimasta relativamente inesplorata da parte dei critici:
il razzismo era un modo con cui il soggetto deviava sull’Altro l’intima vergogna che
aveva di se stesso, trasferendola su un capro espiatorio.
Fanon definì transitivismo questo meccanismo di proiezione. Con questo termine intendeva non il modo in cui una
cultura non nega o non sconfessa le proprie istanze deteriori e le proprie pulsioni,
ma il meccanismo con cui le getta addosso a un genio malvagio (il Negro, l’ebreo,
l’Arabo) che si è costruito e che fa apparire nei suoi momenti di panico o di crudeltà.
Grazie a questo genio malvagio, quella cultura si crea un nemico interiore e, con
accessi di nevrosi sociale, erode e distrugge dall’interno i valori che comunque reclama
come propri. Al razzismo di superficie, rozzo e primitivo, si contrappone un’altra
forma più insidiosa, che consiste nello scaricarsi costantemente da ogni senso di
colpa. Per Fanon è così perché ogni espressione razzista è sempre, da qualche parte,
abitata da una cattiva coscienza che cerca di soffocare. È questa una delle ragioni
per cui, dice sempre Fanon, il razzista si nasconde o tenta di dissimularsi.
Non è escluso che questa tendenza a nascondere e a dissimulare sia legata a un aspetto
fondamentale dei rapporti che il sentimento razzista intrattiene con la sessualità
in generale. Infatti, dice Fanon, una società razzista è una società preoccupata dalla
perdita della propria potenza sessuale. È anche una società abitata dalla «nostalgia
irrazionale di epoche di straordinaria licenza sessuale, di scene orgiastiche, di
stupri non sanzionati, di incesti non repressi». Orge, stupri e incesti non svolgono esattamente le stesse funzioni nella costituzione
delle fantasie razziste. Per Fanon hanno però un tratto in comune: reagire all’istinto
di vita. Il quale istinto ha un suo doppio – la paura del Negro, la cui presunta potenza
genitale, libera dalla morale e dalle interdizioni, rappresenta un reale pericolo
biologico.
Veniamo ora alle forme di sofferenza provocate dal razzismo. A che genere di tormenti
è esposto chi è bersaglio del razzismo nelle diverse forme che abbiamo enumerato?
Come si caratterizzano le ferite che gli sono inflitte, le piaghe che lo tormentano,
i traumi che subisce e la specie di follia che sperimenta? Per rispondere a queste
domande è necessario esaminare da vicino il modo in cui il razzismo funziona e costituisce
dall’interno il soggetto esposto alla sua furia.
Prima di tutto, il soggetto razzializzato è il prodotto del desiderio di una forza
esterna, che non è stata scelta ma che paradossalmente avvia e sostiene il tuo essere.
Una grandissima parte della sofferenza descritta da Fanon è dovuta all’accoglienza
che il soggetto riserva a questa forza esterna, che in tal modo si trasforma in momento
costitutivo fin dall’inizio. Questa costituzione del soggetto nel desiderio di subordinazione
è una delle modalità specifiche, interiorizzate, del dominio razziale. È di nuovo
necessario prendere sul serio il processo con cui il soggetto coloniale si rivolge
a se stesso e si affranca dalle condizioni del suo emergere nella sudditanza e per
la sudditanza. La vita psichica è fortemente coinvolta in questo processo di affrancamento che, per Fanon, deriva in via naturale da una pratica assoluta della violenza e da
uno strapparsi da sé, se occorre, ricorrendo all’insurrezione.
Poi, essere ridotto alla stato di soggetto razziale significa essere immediatamente
inserito nella posizione dell’Altro. L’Altro è chi deve dimostrare ogni volta di essere
un essere umano, di meritare di essere considerato un simile; di essere, come spesso
ripete Fanon, «un uomo uguale agli altri», «un uomo come gli altri», di essere come
noi, di essere noi, essere dei nostri. Essere l’Altro significa sentirsi sempre in
una posizione instabile. La sua tragedia è che, a causa dell’instabilità, l’Altro
è continuamente sul chi vive. Vive nell’attesa di un ripudio. Fa di tutto perché questo
non succeda, pur sapendo che succederà necessariamente e in un momento che egli non
ha modo di controllare.
Di colpo ha paura di mostrarsi com’è realmente, preferendo all’autenticità il mascheramento
e la simulazione, convinto che la sua esistenza sia stata coperta di vergogna. Il
suo io è un nodo di conflitti. Scisso e incapace di fare fronte al mondo, come potrebbe
avviarne la formazione? Come potrebbe cominciare ad abitarlo? «Volevo semplicemente
essere un uomo tra altri uomini [...] Volevo essere uomo, nient’altro che questo». Ed ecco che «mi scoprivo oggetto in mezzo ad altri oggetti». Il desiderio di essere uomo tra altri uomini è contrastato dalla differenza stabilita
per decreto. Dal soggetto razziale, cioè definito dalla differenza, il razzismo pretende
un “comportamento da Negro”, ovvero da uomo a parte, perché il Negro rappresenta quella parte degli uomini che sono tenuti da parte – la parte da parte. Costoro costituiscono una specie di resto, comandato al disonore e all’ignominia.
Corpo-oggetto, soggetto nell’oggetto, ma di che oggetto parliamo? Si tratta di un
oggetto reale e materiale, come un mobile? Si tratta di immagini di oggetti – il Negro
come una maschera? O si tratta di un oggetto spettrale e proprio dell’immaginario,
al limite del desiderio e della paura – la fantasia del Negro che mi stupra, mi frusta
e mi fa urlare senza che io sappia con precisione se l’urlo sia di piacere o di paura?
Probabilmente si tratta di tutte queste cose insieme e ancor più di oggetti parziali,
di membra disgiunte che, invece di formare un corpo, spuntano da chissà dove: «In
quel bianco giorno invernale il mio corpo mi ritornava disteso, disgiunto, risistemato,
gettato nel lutto».
Lutto invernale in quel giorno bianco, bianco invernale in quel giorno di lutto, in
un luogo vuoto, il tempo di un’asportazione e il sipario si chiude. La persona umana
essenziale, testimone della propria dissoluzione nella cosa, è d’un tratto spogliata
di ogni sostanzialità umana e rinchiusa in un’opprimente oggettività. Un altro mi
ha «fissato», «nel senso in cui si fissa un preparato con un colorante». Con il «sangue rappreso» eccomi ormai prigioniero di una cerchia infernale. Un’istanza rappresentativa del “Bianco” ha preso il mio posto e ha reso la mia coscienza
un suo oggetto. Adesso quell’istanza respira al mio posto, pensa al mio posto, parla
al mio posto, mi sorveglia, agisce al mio posto. Nello stesso tempo quell’istanza-padrone
ha paura di me. Io faccio emergere in lui tutti gli oscuri sentimenti nascosti nelle
penombre della cultura: terrore e orrore, odio, disprezzo, insulto. L’istanza-padrone
s’immagina che io possa farle subire ogni sorta di sevizie infamanti, non molto diverse
da quelle che m’infligge. Io alimento in lei paura e ansia che non sono prodotte dal
mio desiderio di vendetta e ancor meno dalla collera e dalla rabbia impotente che
mi abitano, ma dallo statuto di oggetto fobogeno che mi ha affibbiato. Ha paura di
me non a causa di quello che gli ho fatto o che gli ho fatto vedere, ma a causa di
quello che lui ha fatto a me e che pensa potrei per rivalsa fare a lui.
Le formazioni storiche razziste sono dunque per definizione produttrici e distributrici
di follie miniaturizzate di ogni genere, che racchiudono al proprio interno nuclei
incandescenti di una pazzia che si sforzano di liberare a piccole dosi con le modalità
della nevrosi, della psicosi, del delirio e perfino dell’erotismo. Esse secernono
nello stesso tempo situazioni oggettive di follia. Situazioni che avviluppano e strutturano
l’esistenza sociale nel suo insieme. Poiché tutti sono presi nelle reti di questa
violenza, nei suoi diversi specchi e nei suoi vari riflessi, tutti ne sono i superstiti.
Essere da una parte o dall’altra non significa affatto tirarsi o trovarsi fuori dal
gioco: tutt’altro.
3. Paure razziste
Il razzista, dunque, non ha solo una tendenza alla dissimulazione. È anche abitato
dalla paura: nel caso di cui ci occupiamo qui, dalla paura del Negro, l’Altro che
è costretto a vivere la propria esistenza sotto il segno della duplicità, del bisogno
e dell’antagonismo. In genere il bisogno è pensato nella lingua della natura e dei
processi organici e biologici. Infatti il Negro respira, beve, mangia, dorme ed evacua.
Il suo è un corpo naturale, un corpo di bisogni, un corpo fisiologico. Non soffre
allo stesso modo di un corpo umano espressivo. In fondo non può ammalarsi, perché
comunque sia il suo attributo è la precarietà. Non è mai stato un corpo sano. La vita
negra è carente, quindi povera.
In una situazione coloniale il razzista dispone della forza. Ma questo non basta per
eliminare la paura. Infatti il razzista ha paura del Negro anche quando ne ha decretato
l’inferiorità. Come si può avere paura di chi è stato svalutato, di qualcuno cui è
stato in precedenza sottratto ogni attributo di forza e di potenza? Del resto, non
si tratta solo di paura, ma di un miscuglio di paura, di odio e di amore rimosso.
È questo infatti il tratto caratteristico del razzismo antinegro: davanti al Negro
non si riesce a comportarsi e ad agire in modo “normale”. La cosa riguarda sia il
Negro stesso, sia chi gli sta davanti.
Riguardo alla fobia, Fanon osserva: «È una nevrosi caratterizzata dal timore ansioso
di un oggetto (in senso lato qualsiasi cosa esterna all’individuo) o, per estensione,
di una situazione». Il Negro è un oggetto che desta timore e disgusto. Il timore, l’angoscia, la paura
del Negro come oggetto emanano da una struttura infantile. In altre parole, esiste
una struttura infantile del razzismo legata a un incidente che provoca insicurezza
e, in particolare negli uomini, all’assenza della madre. Fanon ritiene che la scelta
dell’oggetto fobogeno sia determinata: «Questo oggetto non spunta dalla notte del
Nulla». È successo un incidente. Questo incidente ha provocato un’emozione nel soggetto.
«La fobia è la presenza di quell’emozione nel sostrato del mondo del soggetto». C’è
«organizzazione, messa in forma». Perché, naturalmente, «l’oggetto non ha bisogno
di esserci, basta che esista: è un possibile». È un oggetto «dotato di brutte intenzioni e di tutti gli attributi
di una potenza malefica». Nell’uomo che ha paura c’è dunque qualche cosa del pensiero
magico.
Chi odia il Nero, chi prova paura nei suoi confronti o chi è sopraffatto dall’angoscia
nell’incontro reale o immaginario con il Nero, riproduce un trauma che provoca insicurezza.
Non sta agendo in modo razionale né logico. Non pensa affatto. È mosso da un sentimento
e ne segue le leggi. Nella maggior parte dei casi il Negro è un aggressore più o meno
immaginario. Un oggetto spaventoso che risveglia il terrore. In seguito Fanon esamina il ruolo della sessualità in questa dinamica di paura razzista. Seguendo
Angelo Hesnard, avanza l’ipotesi che il motivo della paura derivi dal timore che il
Negro possa «farmi di tutto, non banali sevizie, ma sevizie sessuali, cioè immorali,
infamanti».
Nell’immaginario razzista il Negro, in quanto soggetto sessuale, è l’equivalente di
un oggetto spaventoso e aggressivo, capace di infliggere sevizie e traumi alla sua
vittima. Poiché si suppone che in lui tutto passi dal piano genitale, le sevizie di
cui potrebbe essere l’autore possono risultare particolarmente umilianti. Se arrivasse
davvero a violentarci o semplicemente a frustarci, il disonore non nascerebbe solo
dal nostro coinvolgimento forzato in un’esistenza divenuta vergogna; sarebbe anche
l’esito dello stupro di un corpo considerato umano da parte di un corpo-oggetto. Eppure, che cosa c’è di più incantevole e più piacevole, in una prospettiva dionisiaca
e sadomasochista, di un godimento attraverso l’oggetto invece del godimento attraverso un membro, quello di un altro soggetto?
Si capisce allora il posto privilegiato occupato dalla sessualità dionisiaca e da
quella sadomasochista nella fantasmagoria del razzismo. Nella sessualità dionisiaca,
del genere baccanale, il Negro è fondamentalmente un membro – non uno qualunque: un
membro sbalorditivo. Nella sessualità di tipo sadomasochista è uno stupratore. Il
soggetto razzista, in questa prospettiva, è chi grida in continuazione: “Il Negro
mi violenta! Il Negro mi frusta! Il Negro mi ha stuprato!”. Ma, come dice Fanon, si
tratta in fondo di una fantasia infantile. Dire “Il Negro mi violenta” o “mi frusta”
vuol dire “Fammi male” o “Il Negro mi fa male” vuol dire “Io mi faccio male come me
lo farebbe il Negro se fosse davvero al mio posto; se ne avesse l’opportunità.”
Al centro delle due forme di sessualità c’è il fallo, che non è solo un luogo astratto,
un semplice significante o un segno di differenziazione – l’oggetto staccabile, resecabile,
e offerto alla ritrascrizione simbolica di cui parlava Lacan. Certo, il fallo non
si riduce al pene in quanto tale. Ma non è nemmeno l’organo senza corpo cui una certa
tradizione psicoanalitica occidentale è così legata. Al contrario, nelle situazioni
coloniali – e quindi razziste – rappresenta ciò che della vita si manifesta nel modo
più puro come turgore, come spinta e come intrusione. È ben chiaro che non sarebbe
possibile parlare di spinta, di turgore e intrusione senza restituire al fallo, se
non la sua fisicità, almeno la sua carne viva, la sua capacità di attestare gli ambiti
del sensibile, di provare sensazioni, vibrazioni e fremiti di ogni genere (un colore,
un sentore, un tocco, un peso, un odore). Nei contesti di dominio razziale e quindi
di svilimento sociale, il fallo negro è percepito prima di tutto come un’enorme potenza
di affermazione. È il nome di una forza totalmente affermativa e insieme trasgressiva,
che non è limitata da nessun divieto.
In quanto tale il fallo contraddice radicalmente il potere razziale che, oltre a definirsi
in primo luogo come potere di vietare, si autorappresenta anch’esso dotato di un fallo
che funge da suo emblema e ornamento, e proprio da dispositivo centrale della sua
disciplina. Quel potere è un fallo e il fallo è il nome ultimo del divieto. In quanto
tale, cioè al di là di ogni divieto, può allegramente trafiggere i suoi sottomessi.
A questo titolo pretende di agire come sorgente di movimento e di energia, può operare
come se ogni fatto esistesse nel fallo e per mezzo del fallo, come se, in realtà,
il fallo fosse il fatto.
La credenza per cui il potere, in fin dei conti, sarebbe lo sforzo che il phallos applica su di sé per diventare Figura sta alla base di ogni dominio coloniale. In
realtà essa continua a funzionare come il non-detto, il sotterraneo, addirittura l’orizzonte
della nostra modernità, anche se non ne vogliamo assolutamente sentir parlare. Lo
stesso vale per la convinzione che il fallo sarebbe fallo solo nel movimento con il
quale cerca di sottrarsi al corpo e di darsi una sua autonomia. E sono questo tentativo
di distacco oppure questa spinta a produrre spasmi, poiché il potere in una situazione
coloniale e razzista declina la propria identità proprio per mezzo di tali spinte
spasmodiche.
Gli spasmi dai quali si crede di riconoscere e identificare il potere e le sue vibrazioni
non fanno che disegnare il volume cavo e appiattito di questo stesso potere. Per quanto
il fallo si dilati, infatti, tale dilatazione è sempre seguita da una contrazione
e da una dissipazione, da una detumescenza. Del resto, nelle condizioni coloniali
e razziste, il potere che fa urlare il Negro e che gli strappa dal petto grida incessanti
non può essere che un potere accoppiato alla sua bestia – al suo spirito-cane, al
suo spirito-maiale, al suo spirito-canaglia. Può trattarsi soltanto di un potere dotato
di materia corporea, di una carcassa il cui fallo è la manifestazione più lampante
mentre invece la superficie è messa in ombra. Un potere che è phallos nel senso suggerito da Fanon non può presentarsi ai suoi sudditi che rivestito da
un teschio. È quel teschio che li spinge a urlare così e che fa della vita del Negro
una vita da negro, una semplice vita zoologica.
Storicamente il linciaggio degli uomini neri nel Sud degli Stati Uniti all’epoca dello
schiavismo e dopo la proclamazione dell’emancipazione si origina in parte dal desiderio
di castrarli. In preda all’ansia riguardo alla propria potenza sessuale, il “piccolo
Bianco” razzista e il proprietario della piantagione sono presi dal terrore al pensiero
del “gladio nero” del quale temono non solo l’ipotetico volume, ma anche l’essenza
penetrante e prorompente. Lo scrittore Michel Cournot diceva più o meno la stessa
cosa in termini più scurrili: «La spada del Nero è una spada. Quando ha trafitto tua
moglie, lei ha sentito qualcosa» che appartiene alla categoria delle rivelazioni.
Ma ha anche lasciato dietro di sé una voragine. E in quella voragine, commenta Cournot,
«il tuo pendaglio è perduto». E segue il paragone della verga del Nero con la palma
e con l’albero del pane, che non si ammoscerebbe per niente al mondo.
In quell’atto osceno che è il linciaggio si cerca allora di proteggere la presunta
purezza della donna bianca mantenendo il Nero all’altezza della sua morte. Si vuole
portarlo a contemplare l’oscuramento e l’estinzione di quello che, nella fantasmagoria
razzista, è considerato il suo “sole sublime”, il suo phallos. La lacerazione della sua mascolinità deve passare dalla riduzione a campo di rovine
dei suoi organi genitali, la loro separazione dalle forze vitali. Questo perché, come
afferma Fanon, in questa configurazione il Negro non esiste. O, meglio, il Negro è
soprattutto un membro.
Avere paura di colui al quale si è prima sottratto ogni attributo di forza non vuol
dire, però, essere incapaci di fargli violenza. La violenza esercitata nei suoi confronti
si fonda su una mitologia, quella che accompagna sempre la violenza dei dominanti.
Essi, lo ricorda sempre Fanon, hanno con la propria violenza, quella di cui sono gli
autori, un rapporto che passa in genere dalla mitizzazione, cioè dalla costruzione
di un discorso staccato dalla realtà e dalla storia. La funzione del mito consiste
così nel rendere le vittime responsabili della violenza di cui sono fatte oggetto.
Alla base di questo mito non si trova solo una scissione originaria tra “loro” e “noi”.
Il vero problema è questo: che loro non siano come noi, non va bene. Ma non va nemmeno
bene che diventino come noi. Per chi domina, le due opzioni sono tanto assurde quanto
insopportabili.
Si crea così una serie di folli situazioni che per perpetuarsi richiedono continuamente
violenza, ma una violenza che ha una funzione mitica, in quanto è costantemente scissa
dalla realtà. Il dominante non la riconosce e continua altresì a negarla o a definirla
in modo eufemistico. La violenza esiste, ma quelli che la praticano restano invisibili
e anonimi. Anche quando la sua esistenza è dimostrata, non ha un soggetto. Poiché
il dominante non è assolutamente responsabile, può essere stata provocata solo dalle
vittime stesse. Così, per esempio, se sono uccise, è in ragione di quello che sono.
Per evitare di essere uccise, basta che non siano quello che sono. Oppure, se le si
uccidono, può essere solo incidentalmente, per danni collaterali. Per evitare di essere
uccise, basta che le vittime non si trovino proprio là dove stanno in quel preciso
momento. O ancora, se finiscono uccise, è perché pretendono di essere come noi, il
nostro doppio. E se uccidiamo il nostro doppio, ci assicuriamo la sopravvivenza. Basta
allora che siano diverse da noi. Questo continuo rinnovarsi della suddivisione tra
“loro” e “noi” è una delle condizioni della riproduzione su scala molecolare della
violenza di tipo coloniale e razziale. Ma, come è possibile constatare ai nostri giorni,
sopravvivere alle condizioni storiche della sua nascita è nella natura della violenza
razziale.
Fanon, riflettendo in particolare sulla violenza razziale, parte da una domanda in
apparenza banale: che cosa succede al momento dell’incontro tra il Nero e il Bianco?
Secondo lui, l’incontro avviene sotto il segno di un mito condiviso: il mito del Negro.
In realtà, rileva Fanon, la cultura europea possiede una imago del Negro che i Negri stessi hanno interiorizzato e riprodotto fedelmente, anche nelle
circostanze più banali della vita. In che cosa consiste questa imago? In questa economia immaginaria il Negro non è un uomo ma un oggetto. Più precisamente,
è un oggetto fobico che in quanto tale provoca paura e orrore. Tale oggetto fobico
lo si scopre subito attraverso lo sguardo.
4. Decolonizzazione radicale e festa dell’immaginazione
Soffermiamoci quindi su questo momento fondante che, per Fanon, ha un nome: la decolonizzazione
radicale. Nella sua opera essa si apparenta a una forza del rifiuto e si contrappone
direttamente al senso di assuefazione. Il rifiuto costituisce il momento prioritario
del politico e del soggetto. Infatti il soggetto del politico – o il soggetto fanoniano
in assoluto – nasce al mondo e a sé mediante quel gesto inaugurale che è la capacità
di dire di no. Rifiuto di che cosa se non di sottomettersi, e di sottomettersi prima
di tutto a una rappresentazione? Infatti nei contesti razzisti “rappresentare” equivale
a “sfigurare”. La volontà di rappresentazione è fondamentalmente una volontà di distruzione.
Si tratta di ridurre qualcosa a niente con la violenza. Il rappresentare consiste
dunque sia in un gioco di ombre sia in una devastazione, anche se dopo la devastazione
esiste ancora qualcosa che appartiene all’ordine precedente.
In quanto operazione simbolica, la rappresentazione non apre necessariamente la strada
alla possibilità di un riconoscimento reciproco. In primo luogo, nella coscienza del
soggetto che rappresenta, il soggetto rappresentato corre sempre il rischio di essere
trasformato in un oggetto o in un giocattolo. Facendosi rappresentare, si priva della
capacità di creare, per il mondo e per se stesso, un’immagine di sé. È costretto a
indossarne una contro la quale dovrà costantemente combattere. È l’uomo alle prese
con un’immagine che gli è stata appiccicata addosso e dalla quale stenta a disfarsi,
della quale non è l’autore e nella quale non si riconosce affatto. Poi, invece di
essere «pienamente quello che è» nei limiti del possibile, è condannato a vivere la propria coscienza come una mancanza.
Nella storia dell’incontro tra l’Occidente e i mondi remoti c’è un modo di rappresentare
l’Altro svuotandolo di ogni sostanza e lasciandolo senza vita, «in un corpo a corpo
con la morte, una morte prima della morte, una morte nella vita».
È questa la teoria negativa della rappresentazione sottesa all’idea che Fanon si è
fatto della violenza razziale, che non opera solo attraverso lo sguardo, ma sfrutta
dispositivi di ogni genere, tra i quali, per esempio, la separazione e la segregazione
spaziale, una divisione razzista del “lavoro sporco” (in seguito alla quale, a mo’
di esempio, i tirailleurs senegalesi devono reprimere nel sangue l’insurrezione malgascia), e tecnologie come
la lingua, la radio, perfino la medicina, dotate alla bisogna di un potere letale.
Alle spalle lascia tutta una serie di superstiti che sono, sostanzialmente, persone
rinchiuse in un corpo a corpo con l’ombra nella quale sono state calate e che si agitano
per squarciarla e raggiungere così la chiarezza di se stessi.
Se Fanon si sofferma tanto sul lato in ombra della vita in situazioni di follia (dato
che il razzismo è considerato, in quest’ottica, un caso particolare di disturbo psichico),
lo fa sempre per delineare un momento affermativo e quasi solare, quello del reciproco
riconoscimento che annuncia l’avvento “dell’uomo come tutti gli altri”. L’uomo “come
gli altri uomini” ha un corpo. Ha piedi, mani, un petto, un cuore. Non è un ammasso
di organi. Respira. Cammina.
Come non ci sono corpi se non animati e in movimento – corpi che respirano e che camminano
–, così non esiste un corpo che non abbia un nome. Un nome è diverso da un soprannome o un nomignolo: se chi lui sia non ha grande
importanza lo si chiamerà sistematicamente Mohammed o Mamadou. Il soprannome, dice
Fanon, è il risultato della falsificazione di un nome originale e si basa su un’idea
che sappiamo «ripugnante». Il nome si coniuga con la faccia. Non c’è riconoscimento reciproco se non si rivendica la faccia dell’Altro come simile
o, almeno, non lontana dalla mia. Quest’atto di rivendicazione della faccia dell’Altro
come volto del quale io sono a priori il guardiano si contrappone direttamente al
gesto di cancellazione che è, per esempio, la caccia ai suoi tratti fisiognomici.
Infine, l’Altro è tale in quando ha un posto tra di noi, in quanto trova un posto in mezzo a noi e noi gli facciamo posto tra
di noi. Il riconoscimento dell’umano che io sono nel viso dell’uomo o della donna che ho
davanti è la condizione perché “l’uomo che è su questa terra” – questa terra in quanto
casa di tutti – sia più di un ammasso di organi e più di un Mohammed. Se è vero che
questa terra è la casa di tutti, non si può più pretendere che ognuno se ne torni
a casa sua.
Il paziente di Fanon non si riconosce soltanto dalla sua capacità di rifiuto. Si distingue
anche dalla sua disponibilità alla lotta. Per dire lotta, Fanon ricorre a una serie
di termini: la liberazione, la decolonizzazione, il disordine assoluto, cambiare l’ordine
del mondo, l’insurrezione, l’uscita dalla grande notte, la venuta al mondo. La lotta
non è spontanea. È organizzata e cosciente. È, secondo lui, il frutto di una «scelta
radicale». Ha un ritmo suo.
La lotta è opera di uomini nuovi, il suo attore privilegiato è il popolo, il soggetto
collettivo per eccellenza. È all’origine di nuovi linguaggi. Punta a far emergere
una nuova umanità. Coinvolge tutto: i muscoli, i pugni nudi, l’intelligenza, le sofferenze
che non si risparmiano, il sangue. È un gesto nuovo, suscita nuovi ritmi di respirazione.
Il lottatore di Fanon è un uomo che respira in modo nuovo, mentre le tensioni muscolari
si allentano e l’immaginazione fa festa.
La festa dell’immaginazione prodotta dalla lotta: ecco il nome che Fanon dà alla cultura.
La festa è scandita dalla trasmutazione delle figure picaresche e dal riaffiorare
di narrazioni epiche, un lavoro immenso fatto sugli oggetti e sulle forme. È il caso
del legno e soprattutto delle maschere che passano dalla prostrazione all’animazione
dei volti. È anche il caso delle ceramiche (brocche, vasi, tinture, vassoi). Con la
danza e il canto melodico, il colonizzato ristruttura la propria percezione. Il mondo
perde il suo carattere insopportabile e si saldano le condizioni per l’inevitabile
confronto. Per questo non c’è lotta che non comporti necessariamente lo scricchiolio
delle vecchie sedimentazioni culturali. Tale lotta è un lavoro collettivo organizzato.
Vuole chiaramente rovesciare la storia. Il paziente di Fanon cerca di ridiventare
l’origine del futuro.
5. La relazione di cura
Tra i diversi malati prodotti dalla società dell’inimicizia, Fanon si occupò in particolare
di persone sofferenti per impotenza, di donne violentate, di vittime della tortura,
di soggetti colpiti da ansia, stordimento e depressione, di tanti (anche bambini)
che avevano ucciso o torturato, di molti che avevano perso i genitori, che soffrivano
di fobie di ogni tipo, di combattenti e di civili, di Francesi e Algerini, di profughe
affette da psicosi puerperale, di altri arrivati ai limiti della disperazione e che,
non potendone più, avevano tentato il suicidio, di esseri profondamente disturbati,
che avevano perso la voce, che si mettevano a urlare, che raccontavano come il proprio
stato di agitazione potesse portare a comportamenti furiosi e al delirio (soprattutto
di persecuzione).
Ma non solo. Si occupava anche di uomini e donne di ogni età e di ogni professione,
di pazienti che presentavano disturbi mentali gravi, disturbi del comportamento; di
malati posseduti da idee deliranti di persecuzione, che emettevano grida roche e urla
in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo; che erano colpiti da un’agitazione psicomotoria
intermittente, diurna o notturna; di malati talora aggressivi e del tutto inconsapevoli
della loro malattia; di pazienti stenici e reticenti; di pazzi che potevano anche
essere razzisti; di soggetti, come qualche missionario, ritornati dall’Africa dove
si erano distinti per un comportamento violento e sprezzante verso gli indigeni, soprattutto
verso i bambini; di ipocondriaci; di esseri umani il cui ego e i cui rapporti con
il resto del mondo avevano subito una tale alterazione da non permettere loro di trovare
più il proprio «posto tra gli uomini».
Ma si trattava soprattutto di esseri umani precipitati in stati depressivi quasi continui,
eccitati, irritabili, in preda alla collera e talora alla rabbia, con crisi di pianto
e lamenti, messi davanti a una sensazione di morte imminente, faccia a faccia con
i boia (visibili o invisibili) che loro imploravano senza posa. Questo mondo dell’odio,
della sofferenza e della guerra, intessuto di suppliche di pietà senza risposta, di
appelli a risparmiare gli innocenti, è il mondo al quale Fanon prestò la propria attenzione
e soprattutto diede ascolto. Di quel mondo s’impegnò pazientemente a ricostruire la
narrazione e volle restituire la voce e il volto, lungi da ogni compiacimento pietista.
Il malato, diceva Fanon, è «prima di tutto uno che soffre e chiede di essere soccorso». Poiché «la sofferenza suscita compassione e tenerezza», l’istituto ospedaliero,
che è prima di tutto «un istituto di guarigione, un istituto terapeutico», non dovrebbe
trasformarsi «in una caserma». La perdita di libertà, la perdita del senso del tempo, della capacità di vigilare
su se stessi e di preoccuparsi di sé, la perdita di relazione e di mondo, per Fanon,
costituivano il dramma autentico del malato e dell’individuo alienato. Era così perché
«l’uomo sano è un uomo sociale». La malattia «lo sottrae» dagli altri esseri sociali e «lo isola da loro». Lo separa
dal mondo, «lasciandolo impotente, solo, con un male che è rigorosamente suo». Il crollo totale o parziale dell’integrità biofisica, psichica e mentale del malato
minaccia il sistema di relazioni senza il quale il paziente è respinto fuori dal mondo
e incasermato. Infatti, dove un altro o, più precisamente, il mio “prossimo” o “simile”
non si rivela più a me stesso e dove io mi rendo incapace di «incontrare il volto
dell’altro», di «stare con altri uomini», miei simili, lì è la malattia.
Poiché la malattia mi pone in uno stato che non mi permette di incontrare il mio prossimo,
il mio simile, altri esseri umani, ogni atto di autentica guarigione presuppone la
ricostruzione di quel legame e quindi di qualcosa che ci sia comune. La ricostituzione
del comune comincia con lo scambio della parola e la rottura del silenzio: «È la lingua
che rompe il silenzio e i silenzi. Allora è possibile comunicare o essere in comunione.
Il prossimo, in senso cristiano, è sempre un complice [...]. Dal comune potranno partire
le intenzioni creatrici».
Se per il malato comunicare, essere in comunione e intrecciare complicità con i suoi
simili sono tutti mezzi per mantenere il contatto con il mondo ed esserne partecipe,
ricordarsi di se stessi e proiettarsi nel futuro sono altrettanto necessari per tornare
alla vita e quindi essenziali in ogni avventura terapeutica. La relazione con il tempo
che scorre – la data che va tenuta a mente, un calendario che permette di stabilire
un programma, ieri, domani, i giorni che passano e non si assomigliano, la festa dell’Aid
el Kebir, il suono dell’Angelus, le campane di Pasqua – è un punto chiave di ogni
gesto di cura. Infatti, una volta ospedalizzati certi malati «sollevano tra loro e
il mondo esterno uno schermo molto opaco dietro al quale s’immobilizzano».
Vinti dall’inerzia, si abbandonano. Così, nell’atmosfera «pesante e irrespirabile»
dell’ospedale, la vita del ricovero è fatta di interminabili dispute tra malati, che
gli infermieri devono continuamente separare, «rischiando essi stessi di subire qualche
colpo». Gli spazi esigui e la tendenza dei malati a «rovesciare il cibo sul tavolo e per
terra, a piegare i piatti di ferro e a rompere i cucchiai» è tale che «le attività
di pulizia assorbono una parte importante del lavoro del personale». Prevale la paura. L’infermiere teme il malato. Il barbiere esige che i pazienti
siano legati per raderli. «Per paura del malato o per punirlo» lo si lascia «in una
cella, talora senza camice, senza materasso e senza lenzuola», quando, a titolo di
prevenzione, non è puramente e semplicemente «legato» al letto di contenzione.
Accovacciato, allungato, sdraiato o seduto, il paziente non si lascia soltanto andare.
I suoi punti di riferimento temporali sono scossi dal profondo. Quello che prima costituiva
il suo mondo gli crolla addosso. All’appiattimento del tempo cronologico si aggiunge
la degenerazione del linguaggio. Si accentua la scissione tra le funzioni espressive
e quelle di significato. Il riferimento è neutralizzato e il significante è distrutto.
Si riduce la capacità di riallacciarsi alla realtà del mondo e di effettuare nuovamente
l’incontro con l’altro attraverso il discorso. L’atto della parola non è più necessariamente
il segno manifesto di un’attività cosciente. Il linguaggio, staccato dalla coscienza,
è solo la statua reificata della malattia. Semidisteso, con gli occhi chiusi, il paziente
penetra nella zona dell’inaccessibilità e dell’oblio, l’oblio del vasto mondo.
In tali condizioni la relazione di cura consiste certamente nell’interrompere il corso
inesorabile del decadimento, ma ha soprattutto lo scopo di ricondurre il malato al
suo essere e alle sue relazioni con il mondo. Affinché la malattia ed eventualmente
la morte non s’impadroniscano dell’avvenire e della vita nel suo insieme, la relazione
di cura deve diventare riconoscimento del malato e accompagnamento del paziente nei
suoi sforzi di rinascita al mondo. Deve impedirgli di morire prima del tempo, di pensare
e di agire come se fosse già morto, come se non contasse più il tempo dell’esistenza
quotidiana. Deve incitarlo a coltivare il suo interesse per la vita. Da qui, afferma
Fanon, «l’attenzione costante per riportare ogni frase e ogni gesto, ogni espressione
del volto» del paziente alla malattia che lo ha colpito.
Uno dei pazienti di Fanon, un poliziotto, pratica il suo mestiere – la tortura. È
il suo lavoro e per questo lo pratica serenamente. La tortura stanca, è vero. Ma dopo
tutto si tratta di una cosa normale, logica e razionale, fino al giorno in cui egli
comincia a comportarsi a casa come fa sul lavoro. Mentre prima non era mai stato così,
ecco che adesso lo è. In clinica incontra uno degli uomini che ha torturato. L’incontro
è insopportabile per lui come per l’altro. Come può far capire, prima di tutto a se
stesso, di non essere diventato matto? La violenza che è stato indotto a produrre
lo rinchiude ormai nel personaggio del pazzo. Per uscirne dovrà forse dar fuoco al
proprio corpo?
L’altro paziente di Fanon è preso dalla collera e dalla furia. Ma non è posseduto
dal complesso di immolazione nel fuoco. I suoi testicoli sono quasi bruciati durante
una terribile seduta di tortura. Soffre d’impotenza e la sua virilità ne è colpita.
Non sa che fare della violenza che è in lui a causa della violenza subita. Sua moglie
è stata probabilmente violentata. Due casi di violenza, dunque – uno inflitto esteriormente
ma che produce l’altro, quello che abita il soggetto interiormente e provoca in lui
rabbia, collera e talora disperazione.
Questa rabbia e questa collera subite costituiscono forme primordiali di sofferenza.
Ma la sofferenza va ben oltre. Si attacca alle immagini stesse della memoria. La forza
del ricordo ne è erosa. La memoria funziona ormai solo in frammenti e residui, e in
modalità patogena. Ammassi di desideri rimossi che vengono alla luce solo mascherati;
tutto o quasi è diventato fraintendibile. Il soggetto è stretto in una catena di eventi
traumatici che gli suscitano repulsione, risentimento, collera, odio e rabbia impotente.
Per venirne fuori, suggerisce Fanon, occorre ripercorrere le tracce di chi è stato
vinto e ricostruirsi una genealogia. Occorre uscire dal mito e scrivere la storia,
viverla non in modo isterico ma in base al principio per il quale “il mio fondamento
sono io”.
6. Il doppio inaudito
Quel poliziotto non vuole più sentire urla. Non lo fanno dormire. Per liberarsi da
quel clamore notturno deve chiudere ogni volta le imposte prima di mettersi a letto,
sigillare le finestre anche nelle notti di calura estiva e riempirsi le orecchie di
cotone.
Quell’ispettore non smette più di fumare. Ha perso l’appetito e ha il sonno turbato
da interminabili incubi. «Appena incontro un’opposizione mi viene voglia di picchiare.
Anche fuori del lavoro. Ho voglia di lavorarmi i ragazzi che mi sbarrano la strada.
Non ci vuole niente. Facciamo un esempio. Vado a prendere i giornali all’edicola.
C’è molta gente. Tocca aspettare per forza. Allungo un braccio (il tipo dell’edicola
è un amico) per prendere i giornali. Qualcuno nella coda mi fa, con una certa aria
di sfida: “Aspetti il suo turno”. Be’ ho voglia di dargliele e dico tra me e me: “Vecchio
mio, se ti avessi per un po’ tra le mani, poi non faresti tanto lo sbruffone”». In realtà è attanagliato dalla voglia di picchiare. Tutto. Tutti quanti. Dappertutto,
anche a casa. Non gli scappa nessuno, né i figli né, ancor meno, la moglie che ha
il torto di rivolgergli la parola e dare un nome al male che lo tormenta: «Davvero,
sei diventato matto…». Per reazione «si è scagliato su di lei, l’ha colpita e l’ha legata a una sedia,
dicendole: “T’insegnerò una volta per tutte che sono io il padrone di questa baracca”».
Una giovane francese di ventun anni si sente nauseata al funerale del padre. Ha sentito
alcuni ufficiali dare di lui un ritratto che non corrispondeva all’immagine che ne
aveva lei. Al compianto defunto venivano attribuite qualità morali fuori del comune
(abnegazione, dedizione, amor patrio). Ne ha provato disgusto. Tutte le volte che
si trovava in casa, infatti, restava sveglia per intere notti. Le arrivavano dal basso
urla che la sconvolgevano: «in cantina e nei locali vuoti, torturavano Algerini per
strappare informazioni». «Io mi domando come un essere umano possa sopportare [...] di sentire urla di sofferenza».
«Per circa tre anni», scrive Fanon nella sua lettera di dimissioni indirizzata al
ministro residente nel 1956, «mi sono messo completamente al servizio di questo paese
e degli uomini che lo abitano». Ma, osserverà subito dopo, che valore hanno «le intenzioni
se la loro concretizzazione è resa impossibile dalla mancanza di cuore, dalla sterilità
d’animo, dall’odio degli autoctoni di questo paese?». I tre termini – mancanza di cuore, sterilità d’animo, odio degli autoctoni – definiscono
in modo lapidario quello che ai suoi occhi caratterizza sempre il sistema coloniale.
A più riprese e partendo sempre da fatti che aveva osservato personalmente, ne fa
una descrizione dettagliata e multiforme. Quanto più ne fa un’esperienza diretta,
tanto più gli appare come una lebbra che non risparmia il corpo di nessuno, colonizzati
e coloni: «tutta questa lebbra sul tuo corpo».
In effetti bisogna leggere la sua Lettera a un Francese insieme a quella che la precede, la Lettera al Ministro residente. Che siano state scritte o no nello stesso momento, una spiega l’altra. Come una
forma di lebbra, la colonizzazione aggredisce i corpi e li deforma. Ma soprattutto
ha come bersaglio il cervello e, accessoriamente, il sistema nervoso. «Decerebrare»
è il suo scopo.
Il che consiste, se non in un’amputazione del cervello, almeno in una sua sterilizzazione.
Questa operazione mira anche a rendere il soggetto «estraneo al suo ambiente». Il
processo di «rottura organizzata con il reale» sfocia in molti casi nella follia,
e questa spesso si manifesta nella modalità della menzogna. Una delle funzioni della
menzogna coloniale consiste nell’alimentare il silenzio e nello spingere a comportamenti
di complicità, con il pretesto che «non c’è niente da fare» tranne, forse, andarsene.
Perché andarsene? Da quale momento il colono comincia a coltivare l’idea che forse
sarebbe meglio partire? Nel momento in cui si rende conto che le cose non vanno bene:
«l’atmosfera si guasta», «il paese è pieno d’astio», le strade «non sono più sicure»,
i campi di grano si sono «trasformati in roghi», gli Arabi «si incattiviscono». Presto
violenteranno le nostre donne. I nostri testicoli «saranno tagliati e ce li ficcheranno»
tra i denti. Ma se le cose si guastano davvero, è perché la lebbra coloniale di diffonde
dappertutto, e con lei, «questa enorme piaga» sepolta sotto un «sudario di silenzio»,
si diffonde il silenzio combinato di tutti, che si finge ignorante e che quindi si
proclama innocente in base a una menzogna.
Infatti, come può accadere che nessuno veda questo paese e le persone che lo abitano?
Che nessuno voglia proprio capire quello che succede intorno a lui ogni giorno? Che
si proclami a voce spiegata la propria preoccupazione per l’Uomo, «ma singolarmente
non per l’Arabo», quotidianamente negato e ridotto «a scenario sahariano»? Com’è che
non si è mai «stretta la mano a un Arabo», mai «bevuto un caffè insieme», mai «parlato
con un Arabo del tempo che fa»? Perché, a conti fatti, non c’è un solo Europeo «che
non si rivolti, non s’indigni, non si allarmi per tutto, tranne che per il destino
toccato all’Arabo».
Per Fanon, dunque, non esiste il diritto all’indifferenza o all’ignoranza. Del resto
ribellarsi, indignarsi, allarmarsi per il destino toccato all’uomo dalla schiena curva
e dalla «vita segnata», il cui volto porta i segni della disperazione, nel cui ventre
si legge la rassegnazione, nel cui sangue si diagnostica «lo sfinimento e la prosternazione
di tutta una vita», questo era per lui, al di là degli aspetti puramente tecnici,
il compito del medico nel contesto coloniale. L’intervento medico aveva lo scopo di
far emergere quello che egli chiamava un mondo valido. Il medico doveva saper rispondere
alla domanda: «Che cosa gli sta succedendo?», «Che cosa gli è capitato?».
Questa esigenza di dare risposte comportava un analogo dovere di vedere (rifiuto dell’autoaccecamento), di non ignorare,
di non far passare sotto silenzio, di non dissimulare la realtà. Imponeva di mescolarsi
a quelli che erano stati prosciugati, a questo mondo di esseri senza sogni, e di raccontare
con voce chiara e distinta ciò di cui si era stati insieme attori e testimoni. «Io
voglio», affermava Fanon, «una voce brutale, non la voglio bella, non la voglio pura,
non la voglio buona per tutte le dimensioni». Invece la voleva «completamente lacerata».
«Voglio che si diverta perché, in fondo, io parlo dell’uomo e del suo rifiuto, della
putrefazione quotidiana dell’uomo, della sua spaventosa rassegnazione».
Infatti solo una voce «completamente lacerata» avrebbe potuto dare conto del carattere
tragico, lacerante e paradossale dell’istituzione medica nella situazione coloniale.
Se la finalità dell’atto medico è di far tacere il dolore combattendo la malattia,
come mai il colonizzato percepisce «in una confusione quasi organica il medico, l’ingegnere,
l’insegnante, il poliziotto, la guardia campestre»? «Ma la guerra continua. E noi dovremo curare ancora per tanti anni le tante ferite,
talora indelebili, fatte ai nostri popoli dall’irruzione colonialista».
Queste due frasi stabiliscono immediatamente un rapporto di causalità tra la colonizzazione
e quei fatti che sono le ferite. Fanno anche pensare a quanto sia difficile una guarigione
definitiva di tutte le vittime della colonizzazione. Una difficoltà che non si riferisce
solo al tempo quasi interminabile che richiede lo sforzo della guarigione. In realtà
certe piaghe, certe ferite e certe lesioni sono talmente profonde che non guariranno
mai, le loro cicatrici non spariranno mai; le vittime ne porteranno sempre i segni.
Quanto alla guerra coloniale, qui è esaminata dal punto di vista dei disturbi mentali
che provoca sia negli agenti della potenza occupante, sia nella popolazione autoctona.
È questo il caso di un giovane algerino di ventun anni. A prima vista soffre di emicranie
insistenti e d’insonnia, ma in sostanza si tratta di impotenza sessuale. Dopo essere
sfuggito a un arresto, ha abbandonato il taxi che utilizzava all’inizio per il trasporto
dei volantini e dei responsabili politici, poi, a poco a poco, di commando algerini
impegnati nella guerra di liberazione. Nel taxi si trovano due caricatori di mitragliatrice.
Dopo essere entrato precipitosamente in clandestinità, resta senza notizie della moglie
e della figlioletta per venti mesi, fino al giorno in cui lei gli fa arrivare un messaggio
in cui gli chiede di dimenticarla.
La richiesta è motivata dal fatto che la donna era stata vittima di una duplice violenza,
prima da parte di un militare francese da solo, poi di un altro sotto gli occhi di
molti – bisogna dire testimoni? Un doppio disonore che pone direttamente il problema
della vergogna e della colpa. Mentre il primo episodio di violenza si svolge quasi
in privato, faccia a faccia tra la donna e il suo carnefice, il secondo prende l’aspetto
di una seduta pubblica. Su questa scena di vergogna è all’opera un solo militare,
ma sotto lo sguardo quasi pornografico di numerosi altri che la vivono nella modalità
di un godimento per delega. Sulla scena aleggia una figura fisicamente assente ma
la cui presenza spettrale induce il militare violento a intensificare la furia. È
il marito. Mentre violenta la moglie, è il suo fallo che i militari francesi vogliono
colpire e cercano simbolicamente di castrare.
In questo conflitto tra uomini, la donna ha prima di tutto la funzione di sostituto
e, accessoriamente, quella di oggetto di appagamento delle pulsioni sadiche dell’ufficiale.
Per costui, forse, non si tratta nemmeno di godimento. Si tratta, da una parte, di
umiliare profondamente la donna (e attraverso di lei suo marito), di mettere irrimediabilmente
in discussione i loro rispettivi sentimenti di orgoglio e dignità, l’immagine che
hanno di loro stessi e della loro relazione. Dall’altra parte si tratta di imporre
attraverso la violenza qualcosa come un rapporto di odio. L’odio è tutto tranne che
un rapporto di riconoscimento. Prima di tutto è un rapporto di esecrazione. Un fallo
ne esecra un altro: «Se rivedi un giorno quel porco di tuo marito, non dimenticarti
di raccontargli quello che ti abbiamo fatto». Peraltro, ricevuta l’ingiunzione, la sventurata ubbidisce.
Chiedendo al marito di dimenticarla, la donna rivela il disgusto e l’umiliazione che
deve aver provato. Il suo essere intimo e segreto è stato rivelato allo sguardo dell’altro,
di quegli sconosciuti, dell’occupante. Il suo desiderio, il suo pudore e il suo piacere
nascosto, così come la forma del suo corpo, tutto è stato profanato o almeno esposto,
posseduto contro la sua volontà, offeso e reso volgare. Non potrà mai più mostrare
tutto questo nella sua integrità.
Poiché ogni cosa è avvenuta davanti a testimoni o, in ogni caso, davanti a voyeurs, da sola non può più nascondere alcunché. Può solo ammettere, confessare. E siccome
non può proprio cancellare l’offesa, le resta solo una scelta, chiedere al marito
di dimenticarla: un taglio netto. Essendo la donna fatta per l’uomo e non per il proprio
piacere, l’offesa all’onore dell’uomo è una macchia che si cancella necessariamente
con un sacrificio: la perdita di quello stesso uomo.
E l’uomo è colpito dall’impotenza. La sua dignità di marito è messa alla gogna. Non
si basa forse sul principio del godimento esclusivo di sua moglie? La sua potenza
fallica non è alimentata da quell’esclusiva? Il legame esclusivo è spezzato, poiché
la sua donna, suo malgrado, ha «assaggiato il Francese», trascina ora una carne vissuta
come una macchia che non può essere pulita, cancellata o espulsa. Egli ne esce profondamente
scosso. Il trauma ormai lo possiede: «Prima di ogni tentativo sessuale pensa alla
moglie». La moglie è quella ragazza che ha dovuto sposare, mentre amava un’altra,
una cugina che, a causa di accordi familiari, ha sposato un altro. La moglie è la
ragazza che ha finito per sposare perché i suoi genitori l’hanno proposta. La moglie
era gentile, ma lui non l’amava veramente.
Il fatto che sia stata violentata lo fa infuriare. La sua collera è rivolta contro
«quei porci». Ma chissà, magari è rivolta anche contro la moglie. Pian piano alla collera succede
il sollievo: «Oh, non è grave: non è stata uccisa. Potrà ricominciare la sua vita». Vivere nel disonore è meglio di non vivere affatto. Ma le cose si complicano. Non
è lui, in fondo, il responsabile dello stupro della moglie? Non è stato egli stesso
testimone, nei villaggi, di violenze sadiche, talvolta figlie della noia? E se sua
moglie fosse stata violentata perché si rifiutava di «vendere suo marito»? E se lo
stupro fosse dovuto alla scelta di sua moglie di «proteggere la rete»? «Ha subito
violenza perché mi ricercavano. In realtà è per punirla del suo silenzio che l’hanno
stuprata».
Dunque è lui il responsabile dello stupro della moglie. A causa sua lei è stata disonorata.
Essere “disonorata” significa essere “corrotta”. E tutto quello che viene da ciò che
è corrotto può solo essere corrotto, anche la sua bambina di venti mesi, e per questo
vuole strappare la foto prima di ogni atto sessuale. Riprendere la moglie dopo l’indipendenza
significa vivere con la corruzione per il resto della vita. Infatti «questa cosa,
la si può dimenticare?». In realtà non dimenticherà mai che sua moglie è stata stuprata.
Allo stesso modo non ci sarà mai un momento nel quale non si farà questa domanda:
«Era obbligata a mettermi al corrente di tutto questo?». Non dire niente, allora.
Portare da sola il peso del disonore, anche se questo è dovuto al desiderio di proteggere
l’uomo con cui si è sposata.
Il secondo caso riguarda pulsioni omicide indifferenziate di uno scampato a una strage
collettiva, originario di un villaggio della provincia di Costantina. Ha visto con
i suoi occhi morti e feriti. Non era, però, una di quelle persone che non sono più
turbate dalla morte di un essere umano. La forma umana, nella sua morte, era ancora
capace di commuoverlo. Qui, come nel caso precedente, all’origine si trova il rifiuto
di tradire. C’era stata un’imboscata. Tutti gli abitanti del villaggio erano stati
radunati e interrogati. Nessuno aveva risposto. Davanti al silenzio, un ufficiale
aveva dato l’ordine di distruggere il villaggio, di bruciare le abitazioni, di radunare
gli uomini rimasti, portarli in un uadi e massacrarli. Furono uccisi a bruciapelo
ventinove uomini. Il paziente in questione era sopravvissuto con due pallottole in
corpo e una frattura dell’omero.
Un superstite, dunque. Ma un superstite quasi handicappato, che chiede in continuazione
un fucile. Si rifiuta di «camminare davanti a qualcuno. Non vuole nessuno dietro di
sé. Una notte s’impadronisce dell’arma di un combattente e spara maldestramente sui
soldati addormentati». Viene brutalmente disarmato. Finisce con le mani legate. Si agita e urla. Vuole
ammazzare tutti, indistintamente. Con un gesto mimetico e ripetitivo vuole compiere
il suo piccolo massacro personale.
Perché, come spiega, «nella vita bisogna uccidere per non essere uccisi». Per riuscire
a uccidere, è necessario non avere ucciso se stessi in precedenza. La mia vita e la
mia sopravvivenza sono possibili mediante l’assassinio di altri, soprattutto di chi
sospetto sia un corpo estraneo che si è camuffato e si presenta con le sembianze del
simile o del congenere: «Tra di noi ci sono alcuni Francesi. Si travestono da Arabi.
Bisogna ammazzarli. Dammi un mitra. Tutti quei sedicenti Algerini sono francesi...
e non mi lasciano tranquillo. Appena cerco di dormire entrano in camera mia. Ma ormai
li conosco. Li ammazzerò tutti, senza eccezione. Taglierò la gola a tutti, uno dopo
l’altro, e anche a te».
Il superstite – o sopravvissuto – è dunque consumato da un violento desiderio di uccidere.
Questo desiderio ignora ogni distinzione e tocca il mondo delle donne come quello
dei bambini, il pollame e gli animali domestici: «Volete eliminarmi, ma dovrete solo
provarci. Non ci metto niente a spararvi. Piccoli, grandi, donne, bambini, cani, uccelli,
asini... toccherà a tutti quanti... Poi, potrò dormire tranquillo...». Una volta appagato il desiderio di uccisione collettiva, il superstite potrà finalmente
godere del sonno cui aspira.
7. La vita che se ne va
Poi c’è quel giovane soldato dell’Esercito di liberazione nazionale, di diciannove
anni, che ha effettivamente ucciso una donna ed è continuamente perseguitato dallo
spettro di lei. Fanon annota i particolari dell’incontro. Si trova davanti a un malato
«molto depresso, con le labbra secche, le mani costantemente umidicce». Lo interessa come respira, con una serie di «sospiri incessanti» che sollevano continuamente
il suo petto. Ha già commesso un omicidio, ma non manifesta nessun desiderio di commetterne
un altro. Invece stavolta ha attentato alla propria vita: darsi la morte dopo averla
data in precedenza ad altri. Proprio come il superstite del caso precedente, è tormentato
dall’insonnia.
Fanon osserva il suo sguardo, il modo in cui si fissa «per qualche istante su un punto
nello spazio mentre il volto si anima, e dà all’osservatore l’impressione che il malato
stia assistendo a uno spettacolo». Poi si sofferma su quello che dice: «Il malato ci parla del suo sangue versato,
delle arterie che si svuotano, del suo cuore che perde colpi. Ci supplica di fermare
l’emorragia, di non permettere più che sia “vampirizzato” fino all’ospedale. Da un
momento all’altro non riesce più a parlare e chiede una matita. Scrive: “Non ho più
voce, tutta la mia vita se ne va”».
Il malato è ancora dotato di un corpo, ma il suo corpo con tutto quello che porta
con sé è assediato da forze attive che gli sottraggono le energie vitali. Attanagliato
da una sofferenza insopportabile, quel corpo alla deriva non costituisce più un segno.
Oppure, se ancora ne conserva tracce, si tratta di un segno che non esprime più un
simbolo. Quello che avrebbe dovuto esserci all’interno, ormai sfugge, deborda e si
sparpaglia. Il corpo del soggetto che soffre non è più una dimora. Se pure resta tale,
non è affatto inviolabile. Non è più in grado di preservare alcunché. I suoi organi
si allentano, le sue sostanze sfuggono. A questo punto riuscirebbe solo a esprimersi
sotto il segno del vuoto e del mutismo – la paura del crollo, la difficoltà di abitare
nuovamente il linguaggio, di ritornare alla parola, di farsi voce e, per questo, vita.
Il soggetto sofferente l’ha capito bene, ha tentato di suicidarsi, di farsi carico
di persona della propria morte, di appropriarsene alla stregua di un’auto-offerta.
Dietro al sentimento di esproprio del corpo c’è la storia di un omicidio. Il contesto
è quello della guerra coloniale. Questa, come le altre forme di conflitto armato,
si basa su un’economia funeraria – dare e avere la morte. Uomini, donne e bambini,
mandrie e pollame, piante, animali, monti. Colline e vallate, fiumi e torrenti, tutti
sono messi nell’atmosfera avvertita da chi ha visto la morte. Erano lì nel momento
in cui era stata data ad altri. Erano testimoni dell’uccisione di persone presunte
innocenti. Per reazione si sono uniti alla lotta.
Una delle funzioni della lotta è di convertire l’economia dell’odio e il desiderio
di vendetta in un’economia politica. Il fine della lotta di liberazione non è quello
di eliminare la pulsione di morte, il desiderio di uccidere o la sete di vendetta,
ma di piegare quella pulsione, quel desiderio, quella sete ai comandamenti di un super-io
di natura politica, ovvero all’avvento di una nazione.
La lotta consiste nel canalizzare quell’energia (la volontà di uccidere), che altrimenti
è solo sterile ripetizione. Il gesto che consiste nell’uccidere, il corpo che si uccide
(quello del nemico) o quello al quale è data la morte (quello del combattente o del
martire) devono poter trovare un posto nell’ordine di questo significante. L’impulso
a uccidere non deve essere ancorato alla forza primitiva degli istinti. Trasformato
in un elemento che dà energia alla lotta politica, a quel punto deve essere strutturato
simbolicamente.
Nel caso di cui ci occupiamo, quello dell’uomo assillato dal vampiro e sotto la minaccia
di perdere il suo sangue, la sua voce e la sua vita, questa costruzione è precaria.
Sua madre è stata «uccisa con un colpo a bruciapelo da un soldato francese». Due sue
sorelle sono state «portate via dai militari» e non sa che cosa sia stato di loro,
ignora il trattamento che hanno subito in un contesto nel quale interrogatori, torture
ed eventualmente carcere e violenze fanno parte della normalità. Poiché suo padre
era «morto parecchi anni prima», era lui «l’unico uomo» della famiglia e la sua «sola
aspirazione» era di migliorare le condizioni della madre e delle sorelle.
Il dramma della lotta raggiunge il punto culminante laddove una vicenda individuale
si intreccia, a un dato momento, con un percorso politico. Dopo è difficoltoso scioglierne
i fili. Tutto si confonde, come indica bene il racconto che segue. Un colono fortemente
impegnato contro il movimento di liberazione ha effettivamente ucciso due civili algerini.
Contro di lui si prepara un’operazione che si svolge di notte.
«In casa c’era solo sua moglie. Vedendoci si mise a supplicare di non ucciderla [...].
Decidemmo di aspettare il marito. Ma io guardavo la donna e pensavo a mia madre. Era
seduta su una poltrona e sembrava assente [agli occhi di lui non era più lì]. Mi chiedevo
perché non la uccidevamo». Perché ucciderla? Prima, mentre supplicava, non ha forse fatto capire di aver chiesto
a suo marito di non immischiarsi nella politica? E continuando a supplicare, non ha
pregato di salvarle la vita in nome dei suoi figli? («Ve ne prego... non mi uccidete...
Ho dei figli»). Ma né l’argomento della responsabilità né quello umanitario riescono
a scuotere il suo interlocutore che, comunque, tace.
Nelle sue opere Fanon mette continuamente l’accento su una delle principali caratteristiche
delle relazioni tra padroni e sudditi nelle colonie, cioè la loro povertà. Da questo
punto di vista la vita nel mondo delle colonie può essere assimilata alla vita animale.
Il legame che i padroni nelle colonie intrattengono con i subordinati non arriva mai
a creare una comunità viva di affetti. Non comporta mai la creazione di un comune
focolare. Il padrone non si fa mai commuovere dalla parola del suddito. La povertà
del rapporto che egli intrattiene con l’indigeno (il suo sottoposto dal punto di vista giuridico-legale e nello stesso tempo una cosa sua dal punto di vista razziale e ontologico) è qui riprodotta in modo rovesciato.
In assenza del marito, il cerchio si è chiuso sulla donna, a quel punto messa davanti
alla pulsione di chi presto diventerà il suo assassino: «Un momento dopo era morta».
Aveva appena finito di supplicare. Nonostante l’estremo appello a un po’ di umanità
e compassione, ai sentimenti che sembravano condivisi da tutti. Nessuna detonazione.
Nemmeno nessuna distanza. Il gioco stretto della prossimità in un corpo a corpo, circuito
chiuso, la relazione di un oggetto con un altro oggetto: «L’avevo uccisa con il mio
coltello».
Ma chi ha ucciso? Quella donna che lo implora di risparmiarle la vita e che, alla
fine, la perde? O la donna che, in fondo, è solo l’effigie di un’altra, il rispecchiamento
di sua madre alla quale pensa nel momento stesso in cui guarda la sua eventuale vittima
(«Ma io guardavo la donna e pensavo a mia madre»)?
Ricapitoliamo con una parafrasi: «Lei si mise a supplicarci di non ucciderla. Un istante
dopo era morta. L’avevo uccisa con il mio coltello. Mi disarmarono. Dopo qualche giorno
subii un interrogatorio. Credevo che mi avrebbero ucciso. Ma non m’importava». Era
possibile aspettarsi che tutto finisse lì. Qualcuno ha versato il sangue di sua madre.
Un soldato francese, il nome generico di un nemico senza un volto proprio, dai tanti
volti.
A quel sangue che grida vendetta egli risponde versando quello di un’altra donna che,
invece, non ha fatto scorrere il sangue di nessuno, ma che si trova coinvolta indirettamente
nel cerchio infernale della guerra contro la sua volontà, a causa del marito che invece
è davvero responsabile dell’assassinio di due Algerini, il quale si sottrae al castigo
ma perde comunque la moglie. Perdita di una madre da una parte come dall’altra e,
per l’uomo assente nel momento dell’uccisione, perdita di una moglie. Da entrambe
le parti orfani e, dalla parte dell’uomo assente ma che era originariamente la vittima
predestinata, un vedovo. Le donne non pagano solo il prezzo di atti compiuti da uomini.
Esse rappresentano anche la moneta di scambio di questa economia funeraria.
A causa di questa presenza incombente della donna sia nella figura della madre sia
in quelle della moglie o della sorella, non è più possibile capire in modo davvero
chiaro a chi sia stata data la morte. Chi si suppone che l’abbia ricevuta? Come si
può essere certi che accoltellando la donna non ci fosse l’intenzione di uccidere
la madre? Il vampiro che minaccia di svuotare il nostro corpo di tutto il sangue,
simbolo di un’interminabile emorragia, non è in fondo il nome di questo doppio sventramento,
uno fantasmatico (quello di mia madre), l’altro reale (quello della moglie del mio
nemico)? Il clamore di queste donne che, tutte, «hanno un foro spalancato nel ventre»,
le suppliche di tutte quelle donne «esangui, pallide e spaventosamente magre» che
chiedono di essere risparmiate non avendo protezione – non è questo che ora sconvolge
di terrore l’assassino, gli impedisce di dormire, lo obbliga a vomitare dopo ogni
pasto? Non è questa la ragione per cui, alla sera, appena si mette a letto, la sua
stanza è «invasa da donne», tutte uguali, che esigono che il sangue versato sia loro
restituito?
«In quel momento», annota Fanon, «un rumore di un liquido che scorre riempie la stanza,
si amplifica fino a ricordare il frastuono di una cascata, e il giovane paziente vede
il pavimento coprirsi di sangue, del suo sangue, mentre le donne riprendono colore
e la loro piaga comincia a richiudersi. Fradicio di sudore e terribilmente angosciato,
il malato si sveglia e resta agitato fino all’alba».