4.
Liberare l’amore
Difficili, lunghe e tortuose sono dunque le strade che permettono di restituire all’amore
le sue opportunità. Il diritto via via si scioglie in parole che abbandonano l’aggressività
e denotano il rispetto, il primato della persona sulle imposizioni. Le parole storiche
libertà e eguaglianza, accompagnate dal nuovo e forte riferimento alla dignità, invadono
finalmente un’area che era stata loro preclusa. Compare il corpo, con la sua inviolabilità,
segno forte di una condizione umana che non può essere mortificata.
Ma è storia lunga, segnata dal riferimento a Paolo e alla sua Prima lettera ai Corinzi. Qui sono nette le parole dedicate all’amore. E sono intensissime quelle riguardanti
i coniugi, tutte ispirate ad una reciprocità che, proprio in relazione al corpo, trova
il suo fondamento nell’eguaglianza. «La moglie non esercita autorità sul proprio corpo,
ma il marito; e similmente nemmeno il marito esercita autorità sul proprio corpo,
ma la moglie». Paolo affermava questo possesso reciproco, paritario, in un ambiente
segnato dall’opposta logica della diseguaglianza, dalla subordinazione della moglie,
dalla considerazione del suo corpo come proprietà del marito.
Come questa logica sia tenacemente sopravvissuta in Italia, lo dimostra meglio di
ogni altro esempio il modo in cui la Corte costituzionale ha affrontato la questione
dell’adulterio della moglie. In una prima sentenza del 1961, infatti, la Corte giudicò perfettamente compatibile con l’articolo 29 della Costituzione,
dove si afferma che «il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica
dei coniugi», l’articolo 559 del Codice penale che puniva in ogni caso con la reclusione
la moglie adultera e il suo partner, mentre il marito era punito solo nel caso in
cui l’adulterio diveniva «concubinato stabile e notorio».
Le motivazioni di quella decisione meritano di essere ricordate. Per giustificare
la disparità di trattamento tra moglie e marito, i giudici costituzionali muovevano
dalla premessa che essa era giustificata dalla «maggiore gravità dell’offesa, che
il legislatore, in conformità della pubblica opinione, riscontra nella infedeltà della
moglie». E mettevano in evidenza «la più grave influenza» che l’infedeltà della moglie
«può esercitare sulle più delicate strutture e sui più vitali interessi di una famiglia:
in primo luogo l’azione disgregatrice che sull’intera famiglia e sulla sua coesione
morale cagiona la sminuita considerazione nell’ambito sociale; indi, il turbamento
psichico, con tutte le sue conseguenze sull’educazione e sulla disciplina morale,
che, in specie nelle famiglie (e sono la maggior parte) tuttora governate da sani
principi morali, il pensiero della madre fra le braccia di un estraneo determina nei
giovani figli, particolarmente nell’età in cui si annunciano gli stimoli e le immagini
della vita sessuale; non ultimo il pericolo dell’introduzione nella famiglia di prole
non appartenente al marito (...) Tutti questi coefficienti hanno influito sulle direttive
del legislatore; e ciò senza punto far calcolo, in quanto fatti anormali e che si
auspicano destinati a scomparire, delle reazioni violente e delittuose cui, in specie
in certi ambienti, può in particolare dare luogo l’infedeltà della moglie». L’ombra
del delitto d’onore plana sul ragionamento giuridico, e si deve registrare la singolare
coincidenza temporale tra la sentenza della Corte e il film Divorzio all’italiana di Pietro Germi, entrambi del 1961; con la differenza che Germi aveva colto meglio
dei giudici la realtà sociale con la quale si dovevano fare i conti.
Il singolare compendio offerto dalla sentenza illustra in maniera eloquente una versione
misera e utilitaristica dell’amore coniugale, irrecuperabile alla dinamica degli affetti,
presidiato da una insensata sanzione a senso unico. La logica del legislatore penale
del 1930 viene arbitrariamente contrapposta a quella della Costituzione che, con la
sua affermazione della piena eguaglianza tra i coniugi, aveva evidentemente voluto
travolgere in un colpo solo proprio quel modo d’intendere la relazione coniugale,
liberandola dai cascami proprietari e gerarchici, giustificati con una superiore esigenza
di moralità e in realtà affidati al predominio maschile. Ritenere che si fosse di
fronte a situazioni diverse, come fa la sentenza per giustificare il diverso trattamento
riservato alla moglie rispetto al marito, era nient’altro che la rinnovata trasposizione
nell’ordine giuridico di una convenzione sociale divenuta ormai pregiudizio, come
dimostrano le molte reazioni sdegnate a quella sentenza.
Mai pronunciata nella decisione, così come nella legislazione, la parola amore non
trova neppure uno spiraglio per la moglie, mentre viene individuata, per default diremmo
oggi, nel pieno riconoscimento della libertà sessuale del marito con l’unico limite
che non si trasformi in concubinato stabile e notorio. Basta esercitarla con la dovuta
discrezione. Cade così ogni residua possibilità di giustificare la chiusura matrimoniale
come presidio dell’amore coniugale, visto che il marito può liberamente sottrarsi
ad esso. Una constatazione, questa, che può essere, se mai, utilizzata per registrare
una asimmetria giuridica, con una sorta di allocazione del diritto d’amore solo a
vantaggio del marito.
La vera sostanza di quella decisione è nell’aver voluto ribadire che il corpo della
moglie è sottratto a quel reciproco possesso, di cui aveva parlato Paolo, e rimane
proprietà del marito, e del diritto. Forse quella decisione sarebbe piaciuta a Stendhal
che, parlando proprio dell’adulterio della moglie, scriveva che «la moglie riconosciuta
colpevole potrebbe essere condannata alla prigione a vita», se da ragazza aveva avuto
la possibilità di scegliere il marito, imponendo così un ben alto prezzo al raggiungimento di una libertà che, ai suoi
giorni, appariva persino a lui una costosa conquista.
Il ravvedimento della Corte costituzionale arrivò sette anni dopo, nel 1968, quando si registrò il profondo mutamento del costume in relazione al ruolo della
donna e ai suoi diritti. Capovolgendo la logica della decisione del 1961, nella nuova
sentenza si scrive che «la discriminazione, lungi dall’essere utile, è di grave nocumento
alla concordia e all’unità della famiglia. La legge, non attribuendo rilevanza all’adulterio
del marito e punendo invece quello della donna, pone in stato di inferiorità quest’ultima,
la quale viene lesa nella sua dignità, è costretta a sopportare l’infedeltà e l’ingiuria».
Vengono quindi cancellati i due commi dell’articolo 559 del Codice penale che formalizzavano
la discriminazione. E un anno dopo cadrà anche il terzo comma di quell’articolo, sì che l’adulterio scompariva come reato.
L’infedeltà coniugale continua ad essere presa in considerazione, ma solo per determinare
taluni effetti della fine del rapporto coniugale (assegnazione dei figli, conseguenze
patrimoniali). E così l’adulterio, parola ormai inadeguata e per certi versi addirittura
impronunciabile, torna ad una sua origine lontana, potrebbe addirittura essere riscoperto
«come unica forma di manifestazione del vero amore». L’«amour-passion» afferma i suoi diritti e travolge gli schemi giuridici, mostrandone la fragilità
di fronte alla profondità dei sentimenti. Ma si possono identificare le ragioni dell’amore
soltanto con la trasgressione, con l’assenza di qualsiasi vincolo, sia pure informale?
Se cerchiamo le risposte nella realtà, per cangiante che essa sia in specie in questa
dimensione tutta personale, ci imbattiamo in quello che è apparso un paradosso dell’epoca
in cui viviamo – la vera e propria battaglia per l’equiparazione allo storico matrimonio
eterosessuale di quello tra persone dello stesso sesso. In tempi di crisi dell’istituto
matrimoniale, testimoniata dalla diminuzione dei matrimoni e dal moltiplicarsi delle
forme familiari, la riscoperta del matrimonio in nome dell’eguaglianza e della pari dignità sociale
gli conferisce una nuova e diversa legittimazione.
Un capovolgimento? Un integrale mutamento dello stato matrimoniale, da «tomba» ad
«approdo» dell’amore? Diffidiamo delle semplificazioni, delle descrizioni ad effetto
di realtà complesse. Dobbiamo piuttosto guardare anche a questa vicenda con consapevolezza
storica, che ci aiuta a comprendere, e dunque a spogliare d’ogni aspetto paradossale,
dinamiche che nascono dalla complessa relazione tra la violenta discriminazione delle
persone omosessuali e l’istituto giuridico al quale era stata affidata l’unica ammissibile
legittimazione del rapporto di vita tra le persone.
Di fronte al costume sociale si può proclamare orgogliosamente «ci siamo sposati»,
anche quando un matrimonio non vi sia stato, perché ancora non ammesso dalla legge. L’atto d’amore consente così di impadronirsi
di un istituto giuridico, in questo modo destituito di forza normativa e assunto nella
sua permanente forza simbolica, e dunque restituito alla società dopo una vera e propria
metamorfosi, dopo una messa in scacco della contrapposizione tra «secondo natura»
e «contro natura», alla quale si vuole che corrispondano la coppia eterosessuale e
quella omosessuale.
Ma questa mossa non è sufficiente, perché la mancata formalizzazione fa sì che «la
coppia omosessuale continua ad avere uno statuto sociale e culturale incerto». L’intervento del diritto allora, anche se non risolve tutti i problemi, può determinare
proprio l’eliminazione di quella situazione di incertezza che è parsa inammissibile
alla Corte europea dei diritti dell’uomo. In che forma, però? Con un riconoscimento legislativo che, al posto del matrimonio,
ammetta solo forme di unioni civili? Ma la scelta di questa soluzione giuridica esclude
l’effettiva legittimazione sociale, anzi l’effettivo rispetto della dignità sociale
di cui parla l’articolo 3 della Costituzione, che può derivare soltanto dalla piena
parificazione tra coppie eterosessuali e omosessuali attraverso il comune accesso
al matrimonio. Qui ha origine la giusta insistenza perché il legislatore assuma la
responsabilità sua propria. Regimi separati di riconoscimento continuerebbero nella
sostanza a mantenere una discriminazione che, dopo un intervento legislativo differenziato,
verrebbe ribadita in una forma che si presenterebbe come definitiva.
Una questione di dignità ed eguaglianza, dunque, che ci obbliga a interrogarci sul
senso profondo della richiesta di matrimonio egualitario sulla quale insistono le
persone omosessuali. Proprio l’accesso alla libertà, più che quello ad un semplice
istituto giuridico, spiega ciò che ad alcuni continua ad apparire inspiegabile – la
pretesa delle coppie omosessuali di potersi sposare.
E allora conviene tornare alle parole eloquenti di Piergiorgio Paterlini. «Io sono
contrario al matrimonio. Omosessuale o eterosessuale. Civile o religioso. Ma proprio
per questo non vedo l’ora che gli omosessuali possano sposarsi. Perché solo allora
sarò libero di condurre la mia battaglia culturale e ideale. Oggi il loro non-diritto
mi toglie il diritto di parola. Non posso combattere, nemmeno sul piano delle idee,
una cosa che a qualcuno è ingiustamente negata. Fino a che le cose rimarranno così,
sarò costretto, mio malgrado, contro le mie convinzioni, a combattere per non contro il matrimonio. Compreso quello cattolico».
Più avanti si analizzeranno nel dettaglio gli aspetti giuridici e politici di questa
prospettiva. Ma rimane qui aperto un interrogativo, che riguarda il modo in cui il
diritto d’amore viene configurato una volta riconosciuto il pari accesso al matrimonio
per tutte le coppie, eterosessuali o omosessuali che siano. Qui, in sostanza, la norma
giuridica non ha il fine, esplicito o non dichiarato, di impadronirsi dell’amore,
ma lo specifico, e limitato, ruolo di apprestare le strutture necessarie per l’autodeterminazione,
grazie alle quali le persone possano effettuare liberamente le proprie scelte e costruire
liberamente la loro personalità. Se una coppia di persone dello stesso sesso deciderà
di non avvalersi di questa facoltà finalmente riconosciuta, lo farà libera da ogni
costrizione. Non avrà più bisogno di sfidare orgogliosamente costume e diritto proclamando
«ci siamo sposati».
Siamo di fronte ad un amore «liberato» da un vincolo irragionevole, sì che parlare
di amore «libero» non è più l’invocazione (o la condanna) di una trasgressione. Liberato,
e quindi riconsegnato alla vita con la sua variabilità e pure la sua volubilità, che
sono massime nelle relazioni d’amore, e devono poter restare tali.
Ci soccorre ancora Andrea Cappellano con la sua XXVI regola: «L’amore nulla può negare
all’amore».