Si direbbe che a Parigi il matrimonio non abbia la natura che ha altrove [...] Persino
l’amore, l’amore ha perduto i suoi diritti e non è meno snaturato del matrimonio.
Se gli sposi qui non sono che uno scapolo e una nubile che abitano insieme per poter
vivere più liberamente, gli amanti sono persone indifferenti che si trovano per spasso,
per moda, per abitudine, o per un momentaneo bisogno. Il cuore non c’entra in quei
rapporti, non si consultano che l’opportunità e certe convenienze esteriori. Insomma
non è altro che conoscersi, convivere, combinarsi, trovarsi o meno ancora se è possibile.
Una relazione galante dura un pochino più d’una visita; è una raccolta di garbate
conversazioni.
Questo passo è tratto da uno dei testi più importanti della civiltà settecentesca,
il romanzo epistolare Giulia o La Nuova Eloisa di Jean-Jacques Rousseau, e propone un tema che all’epoca della pubblicazione del
libro, nel 1761, ha avuto un carattere dirompente: il matrimonio d’amore e l’intrinsichezza
di vita e di affetti fra gli sposi. Allora questo modello sentimentale non era affatto
così scontato com’è per noi; tant’è vero che Rousseau lo contrappone, lungo molte
pagine dedicate alla descrizione e condanna della mondanità di Parigi, allo stile
di vita dominante, almeno fra i ceti abbienti, e basato sulla disinvolta indifferenza
fra i coniugi, ognuno preso dalla propria attività di relazioni e avventure galanti,
ricevimenti e frequentazioni sociali, dibattiti alla moda e spettacoli: la «conversazione»
appunto:
Si è subito e piacevolmente meravigliati della sapienza e della ragione che animano
le conversazioni, e non soltanto quelle dei dotti e dei letterati, ma degli uomini
di qualsiasi condizione e persino delle donne. Il tono della conversazione è scorrevole
e naturale; non è né pesante né frivolo; è dotto senza pedanteria, ilare senza chiasso,
cortese senza smancerie, galante ma non insipido, faceto senza equivoci [...] Ma in
fondo che cosa credi si possa imparare in queste così piacevoli conversazioni? Forse
a rettamente giudicare delle cose del mondo? a far buon uso della società, a conoscere
almeno le persone con le quali si vive? Niente affatto, cara Giulia. Ci si impara
a difendere con arte la causa della menzogna, a scuotere a furia di filosofia tutti
i principi della virtù, a colorare di sottili sofismi le proprie passioni e i propri
pregiudizi, e a conferire all’errore un certo aspetto alla moda, secondo le massime
correnti.
Ecco dunque la conversazione, che abbiamo già incontrato nelle sfuriate di Leonardo,
il mercante economo all’antica, ora di nuovo sotto accusa qui, e alla vigilia della
sua sconfitta, di fronte all’incombente trionfo europeo del sentimentalismo matrimoniale
russoviano e romantico, e della conseguente reclusione della coppia coniugale nella
sua intimità domestica. Ma tra questi due termini e limiti, la conversazione – sia
nel senso più preciso di scambio verbale d’idee, sia nel senso più generale espresso
dall’etimologia della parola, come uso di mondo e pratica sociale – è per molti decenni
la sigla della vita del secolo e della sua filosofia razionale.
Tutt’insieme, si tratta di un fenomeno che certo collochiamo più facilmente nella
capitale dell’Illuminismo che in una città italiana di provincia come Pisa, la città
di Antonio Maria e Anna. Tuttavia, almeno quanto a vita sociale, inviti e feste, anche
qui ci sarà ben stato qualcosa a ispirare l’ostilità, matura già fin dall’inizio del
Settecento, di un uomo come Leonardo. In effetti, sappiamo che fra Seicento e Settecento
esisteva in città un luogo deputato alle frequentazioni della élite, un Casino dei
nobili, ancora organizzato in forma privata. Nel corso del Settecento la mondanità
pisana si è accresciuta, anche grazie alla fortuna delle vicine terme di San Giuliano
come luogo di villeggiatura; sicché a metà secolo, dopo la promulgazione di una legge
che ha messo ordine nei quadri della nobiltà toscana, è stato aperto a Pisa un nuovo
Casino dei nobili, questa volta sotto la supervisione granducale. Prima della chiusura
in età francese e della poco vitale rinascita nei primi decenni della Restaurazione,
il Casino ha avuto una sua fioritura nella seconda metà del Settecento; è questa l’epoca
in cui s’è messo mano alla costruzione di un nuovo teatro per sostituire il vecchio
«Stanzone delle Commedie», quello del crollo ricordato da Leonardo; ed è anche l’epoca
di affermazione di alcuni salotti di ricevimento presso le famiglie del patriziato
cittadino.
Antonio Maria
Il damerino galante
Anche a Pisa è stato dunque possibile – nel Settecento – coltivare la conversazione;
e prima di Anna, che vi si è dedicata con passione nel periodo più favorevole, è attestato
averlo fatto, nella generazione precedente, almeno uno dei figli di Leonardo, Antonio
Maria. In un non breve giro d’anni, fra 1733 e 1746, Antonio ha tenuto un suo libretto
di ricordi, sfruttandone uno appena iniziato e poi abbandonato dal fratello maggiore
Giovanni Battista. La ragion d’essere del libretto è che il padre, per non dover pagare
volta per volta le spese del figlio, gli ha assegnato una rendita di 12 scudi al semestre,
della quale questo documento è per una dozzina d’anni il rendiconto d’amministrazione.
Sarebbe stato divertente se Leonardo ci avesse buttato un occhio, perché si tratta
del registro del perfetto ‘conversatore’, del damerino alla moda, quello che in Italia
si chiamava ormai cicisbeo, in Spagna cortejo, in Inghilterra gallant, e nel paese guida e lume in materia petit maître. Purtroppo il registro non può sorprendere a nostro vantaggio Antonio nel vivo della
conversazione, ma almeno ce lo mostra impegnato nei preliminari e nei preparativi,
intento a munirsi, per così dire, dei ferri del mestiere: vestiti, scarpe, parrucche,
bastoni da passeggio, attrezzatura per cavalcare.
Siccome il giovane è pur sempre un figlio di Leonardo, la sua grinta di ricordatore
ci offre una precisione rara di dettagli. Ecco quelli del 30 giugno 1732:
Ho comprato dal pellaio che sta dirimpetto alle sette Colonne (detto Barbottino) una
pelle di vitello nero di libbre 5 once 3 a ragione di lire 1. 5. 0 la libbra e gli
ho pagato di più soldi 10 per la fattura di detta pelle, che in tutto importa lire
6. 15. 0. Havendoglela subito pagata in contanti nella sua bottega portò detto lire
6. 15. 0. La sudetta pelle l’ho data a maestro Giulio Serragli calzolaio, acciò mi
faccia un paro di stivaletti da cavalcare. Notasi che la sudetta pelle, havendola
comprata assieme con maestro Giulio e con il suo parere, l’ò pagata 3 crazie di più
la libbra; non valendo più di lire una la libbra, onde s’impari a sentir il parere
de manifattori, ma si eseguisca il proprio sentimento, poiché essi si reggono l’uno
l’altro in pregiudizio di chi compra.
Buon sangue non mente; ma non bisogna aspettarsi che Antonio faccia del suo appannaggio
quel che parrebbe a suo padre un buon uso: i suoi 24 scudi annui – all’incirca il
costo dell’affitto di un quartierino d’abitazione – vanno tutti in equipaggiamento
mondano. Pochi giorni dopo l’acquisto degli stivaletti del Serragli, il 5 luglio 1732
compra «un cappellino di paglia da cavalcare, all’inghilese, foderato di seta nera»:
lire 2. 13. 4 di fattura, ma fornendo al Bastianelli «collarettaio» il materiale,
sicché «havendo fatto il conto della valuta di detto cappello, l’ho trovato importare
lire 8», cioè più di uno scudo. Una settimana più tardi, due corpetti bianchi dal
sarto Trinci: lire 1. 6. 8, e una fornitura di bottoni di lusso per i corpetti, fatti
fare dalla Pasquina serva delle monache di S. Bernardo: altre lire 1. 4. 0. Ancora
nel luglio 1732, un’importante commissione di lavoro all’archibugiere Lorenzo Malanima
di Calci, e intanto «al Secchini archibusiere in fortezza lire 1 per havermi accomodato
la mazza, e spada, havendoci messo la palla di legno, due anelli che uno d’ottone
e la nespola in fondo con la fodera dentro detta mazza». Nell’agosto successivo, un
paio di calzoni di pelle, due paia di scarpe da 4 lire l’uno, la pulitura per lire
1. 6. 8 della «spada da notte», due polizze del gioco del lotto da 1 lira l’una. In
settembre, ancora lavori sull’archibugio, il costo – 14 lire – della licenza granducale
del porto d’armi, un «cappello fine» da 6 lire, una fattura da oreficeria da lire
1. 10.
Queste, che continuano più o meno con lo stesso ritmo per tutto il libretto, sono,
per quanto frequenti, le spese straordinarie; ma il perfetto damerino deve ovviamente
avvalersi anche di alcune prestazioni costanti. Quelle concordate il 14 agosto 1732
per 14 lire, cioè 2 scudi l’anno, con Giuseppe Petri, «che debba venire a farmi la
barba ogni volta che lo manderò a chiamare e debba pettinarmi le parrucche sempre
che glel’ordinerò». Le lezioni del «maestro ballerino» Francesco Bovoni, un maestro
per altro non sempre puntuale, e cui il 4 marzo 1733 Antonio deve anticipare la parcella
mensile di 1 pezza, «per farli cosa grata, e per aiutarlo a cavarlo di prigione, ove
era stato posto il giorno passato acconto di debito, come dissero, con il Galli oste»;
nel settembre 1734 Bovoni verrà opportunamente sostituito. Dal 4 giugno 1734 le «lezioni
di spada dal Vannucci, con il salario accordatoli di lire 5 il mese». L’abbonamento,
il «bullettino fisso», presumibilmente annuale, «per le commedie nel publico teatro
per tutto il tempo che si reciteranno l’opere», fatto il 26 dicembre 1733 per lire
13. 6. 8. E infine, si capisce, il pane quotidiano di una conversazione che si rispetti,
la lingua francese, affrontata a partire dal 18 agosto 1733, e difficilmente per leggere,
come intanto fa Leonardo, le opere di Bossuet: «Ho cominciato in questo sudetto giorno
a imparare la lingua francese da Giuliano de la Brul con sua provisione di una pezza
il mese d’accordo con che deva venire a insegnare in casa».
Al pari del ballerino, questo Julien de la Brouille – come si firma lui stesso nel
rilasciare le quietanze dei pagamenti nel registro del suo allievo – dev’essere stato
un po’ avventuriero, perché dopo pochi mesi, il 5 aprile 1734, Antonio sente «la
nuova che il sudetto Giuliano se n’era fuggito di Pisa per liberarsi da pagare diversi
debiti che contratto avea, non sapendosi dove possa essere andato, con che resta terminato
il tempo della lezzione, et egli pagato di più». Il giovane apprendista dell’arte
della conversazione non rinuncia però per questo a impossessarsi della lingua, e di
fatto dall’inizio del 1736 molte annotazioni del libretto sono scritte in un po’ italianizzato
francese. Per esempio nell’aprile 1736: «J’ay payè a la boutique de drap du Prini
quatre vingt e cinq pieces – e lire 2 – da 8 reali, pour la value d’une montre d’argent
avec sa chasse et contrechasse qu’il avoit fait venir pour moj d’Angleterre, pour
la commission que je lui en l’avoit donnè iusque de l’an passè. Prit tel argent Jean
Baptiste Berretti ministre premier de la dicte boutique, comme par la recevue qu’il
a fait a moj». Oppure, il 21 aprile dello stesso anno: «J’ay payè au Casali cordonnier
cinqe paules pour m’avoir fait un paire des escarpins de veau noire, et on fait memoire
qu’il a etè tousjours payè lors qu’il m’a fait d’autres souliers, et reste soudè a
tout le dit jour». E il 12 luglio 1740, in un ricordo che finalmente apre almeno un
piccolo spiraglio sull’universo della galanteria: «J’ay achetè par le sergent Sfregiat
trois paires des moules [pantofoline] pour les femmes e luy ai donnè un zequin. Sont
de velu bordees avec de l’argent de Germaine. Lire 13. 6. 8».
Il cadetto e il casato
È bastata dunque una generazione per far colmare alla famiglia la distanza che il
roccioso arcaismo di Leonardo aveva mantenuto fra quella e la società del secolo,
coi suoi ballerini indebitati, francesi fuggitivi e sergenti sfregiati. L’indiretta
testimonianza del tirocinio di Antonio Maria come uomo di mondo fa certo un bel controcanto
alle lamentele di suo padre contro i figli. Eppure, proprio il caso di questo figlio
mostra che la conversazione non è necessariamente il maggiore dei pericoli per il
casato, perché egli ha in fin dei conti operato delle scelte di fondo che non contrastano
affatto coi progetti e le aspettative di Leonardo. Antonio Maria costituiva la principale
minaccia potenziale per l’unità patrimoniale e familiare, essendo – lo si ricorderà
– il terzo maschio (a parte il monaco Giorgio), insieme col maggiore Giovanni Battista
e col prete Ranieri; ma egli non manifesta alcuna aspirazione al distacco, cooperando
anzi coi fratelli all’attuazione piena della volontà paterna, intesa in uno spirito
anche più stretto rispetto alla lettera della sua formulazione nel testamento.
Già sappiamo che Leonardo ha istituito un fedecommesso suddiviso fra i figli maschi,
con l’accorgimento – affidato al controllo sicuro e neutrale del prete – di favorire
però la linea primogeniturale per ridurre l’effetto di frazionamento. Poche settimane
dopo la sua morte, il 21 marzo 1742 Giovanni Battista, Antonio e Ranieri, riuniti
presso quest’ultimo a Firenze, definiscono la sistemazione degli affari di famiglia,
«desiderando – come dice il verbale notarile dell’incontro – di continuare, e conservare
infra di loro una reciproca e perfetta armonia, pace, e concordia», e dunque deliberando
«di non procedere alle divisioni formali degl’effetti e beni infra di loro comuni».
In concreto, Ranieri, in totale sintonia con le ragioni gentilizie per cui è stato
individualmente favorito, riduce al minimo le sue legittime pretese, accontentandosi
di una casa in Firenze e di una rendita annua di 50 scudi; quanto ai 1.000 assegnatigli
nei codicilli paterni, accetta in cambio la mera titolarità di un podere a Buti,
le cui rendite vengono però intanto godute dai fratelli, così come quelle, che pure
spetterebbero a lui, di un pezzo importante del fedecommesso Cambini, il podere di
S. Andrea di Campo e Caprona; questo, che in prospettiva Ranieri dovrebbe secondo
le regole dettate dal padre attribuire a Giovanni Battista o ad Antonio Maria, resta
intanto ovviamente indiviso, perché i fratelli, «quali abitano ambedue assieme in
Pisa», continuano a tenere e condurre uniti i loro beni e interessi, non solo le terre,
ma anche mobili, masserizie, argenti e scritte di cambio.
Con questo accordo i tre giovani uomini realizzano, al di là delle speranze stesse
del loro padre, l’antico ideale di solidarietà agnatizia che caratterizza tanta parte
della cultura mercantile e patrizia, e specialmente proprio toscana, sulla strada
tracciata dal grande prototipo dei Libri della famiglia di Leon Battista Alberti: l’unione fa la forza del casato. A coronamento e sigla
dei propositi del marzo 1742 Giovanni Battista e Antonio si preparano a prendere di
lì a poco un grave impegno comune. Negli ultimi anni hanno abitato in una casa del
magistrato dei Consoli del Mare, di cui Leonardo ha fatto parte, e non più nella casa
di via Mercanti; di quest’ultima finiranno col disfarsi, dandola in affitto perpetuo,
il 15 aprile 1751, ai fratelli Ricci. All’indomani della morte del padre devono intanto
trasferirsi, e infatti il 1° aprile 1742 prendono in affitto una casa in via del Carmine;
ma stanno maturando un acquisto di rilievo, quello, poi fatto il 20 giugno 1743, della
«casa grande posta in Borgo al Canto di Nicchio», un palazzo prestigioso in una posizione
assai più centrale che non via Mercanti, anche se in una città come Pisa le distanze
sono ovviamente minime.
La solidarietà fraterna che ispira l’acquisto è confermata dall’entità del prezzo,
2.200 scudi, e dal fatto che per pagarlo Giovanni Battista e Antonio Maria devono
prendere in prestito 550 scudi, di cui fra l’altro 150 dal cugino Francesco Ruschi,
il figlio di quel Verissimo che era stato tanto legato al loro padre. Il nuovo palazzo
si profila subito in modo molto diverso da quello della casa/negozio di Leonardo:
già almeno dall’inizio del 1745 vi lavorano i pittori Domenico Tempesti e Iacopo Donati
per una serie di decorazioni, oggi purtroppo imbiancate; in ogni modo, a riprova dell’interesse
di Antonio Maria nell’impresa comune, è lui da solo a fare la committenza di almeno
uno dei blocchi di lavori. Del resto, anche gli affari e l’amministrazione patrimoniale
continuano condivisi; e in questo spirito i due fratelli riprendono per alcuni anni
i libri di ricordi del padre, anche se con assiduità incomparabilmente minore, dando
seguito, di solito Giovanni Battista ed eccezionalmente Antonio, all’ultimo appena
iniziato da lui prima di morire.
Naturalmente questo accordo ben temperato funziona sulla base della rispettiva accettazione
delle parti in gioco: al momento dell’acquisto del palazzo in Borgo, il galante Antonio
Maria, 31 anni, non ha nessuna intenzione e nessun interesse a sposarsi, un diritto/dovere
che spetta invece al suo fratello maggiore. E infatti poco dopo quell’acquisto, nel
settembre 1744, Giovanni Battista, 39 anni, si sposa con la nobile fiorentina – ma
la famiglia è di antichi seguaci cortonesi dei Medici – Teresa Passerini, 21 anni.
La scrittura privata del contratto di nozze – la «stabilita alleanza infra le due
nobili famiglie», come senza tanti scrupoli recita il documento stesso – mostra di
nuovo, e con insolita enfasi, l’atteggiamento di cooperazione del fratello minore,
che garantisce anche lui, «benché sappia non esser tenuto», la restituzione nei casi
previsti dalla legge dei 2.200 scudi di dote e corredo: «Perché il presente accasamento
è stato di piena sodisfazione del nobile signore Antonio Maria [...] et ad effetto
di dimostrarne un pieno gradimento». Il gioco di squadra si perfeziona di lì a un
paio d’anni: con tutti i suoi grilli da nobile redditiere per la testa, Antonio, ancora
una volta superiore alle aspettative del padre, s’è messo a lavorare nella burocrazia
granducale, una carriera che lo porterà a vari cambiamenti di residenza nelle città
toscane. Prima di partire, il 26 agosto 1746 rilascia a Giovanni Battista, come ha
già fatto fin dal 1742 Ranieri, una procura generale circa la gestione dei beni e
interessi comuni, con la formula liberatoria che il fratello «non sia tenuto né obligato
a rendergli conto di alcuna sorte del suo operato, affidandosi in tutto e per tutto
alla sua conscienza e specchiata integrità di costumi a lui ben nota».
Una delle grandi lacune della storia raccontata in questo libro riguarda la vita e
la personalità di Giovanni Battista, il capofamiglia rimasto a Pisa a reggere e propagare
il casato. Siccome non ha avuto la grande vocazione scrittoria di suo padre e non
ha dovuto affrontare grandi conflitti coi suoi fratelli, la sua esistenza ha prodotto
relativamente poche carte. Sappiamo che ha continuato, almeno per un certo periodo,
il negozio di spedizioni di Leonardo; che non ne ha disperso, anzi un poco incrementato,
il patrimonio immobiliare; che ne ha coronato l’affermazione nella nuova città facendo
più volte parte delle magistrature di governo locale.
Dalla giovane moglie ha avuto 6 figli maschi, di cui 2 morti piccoli, e una femmina,
Giustina, maritata a 23 anni al cavalier Decio Portigiani di Colle di Valdelsa; ma
il matrimonio fra Giovanni Battista e Teresa Passerini, quella ben assortita alleanza
tra famiglie, pare finito con una separazione fra i coniugi dopo non più di una dozzina
d’anni di convivenza. È ciò che viene suggerito da una sentenza di un tribunale pisano,
che il 23 settembre 1756 condanna il marito a pagare alla consorte 130 scudi, «valuta
del rimanente delle robbe state così stimate sommariamente da diversi periti ex offitio
[...] e che furono ad essa provvisionalmente assegnate per proprio uso, e della di
lei cameriera»; e da un molto più tardo cenno del fratello Antonio Maria ai «frutti
dotali, che in tant’anni ha somministrato il signore Gio Battista Bracci alla sua
moglie, per tutto il tempo che è vissuta fuori di casa». Nulla più, salvo, in questo
silenzio, la constatazione che un matrimonio assai poco russovianamente pianificato
si è concluso con un fallimento che non ha comunque messo in discussione la logica
del casato né sensibilmente danneggiato il suo patrimonio.
Tutto è invece andato per il meglio fino in fondo, fino alla morte di Giovanni Battista,
nei rapporti con Antonio Maria e Ranieri. Appena un’ombra compare fra il maggiore
e Antonio Maria a una ventina d’anni dai primi accordi, ma viene subito fugata. Il
5 maggio 1763, essendo «insorte varie differenze sopra la reciproca respettiva amministrazione
del patrimonio comune», ma «volendo quelle sedare amichevolmente, per continovare
fra di loro la solita buona fraterna corrispondenza et armonia», i due sistemano un
po’ di conti e rinnovano i patti: Antonio Maria rivendica e ottiene 150 scudi di una
vendita, ma rinuncia a ogni compartecipazione in alcuni titoli di debito pubblico;
ci sono alcune altre pendenze minori che vengono risolte; quanto al grosso dei beni
e delle rendite, Antonio Maria si fa ora definire un appannaggio preciso, 160 scudi
l’anno, ma con questo cede tutto il resto delle entrate al fratello, «acciò che il
signor Gio Battista possa decorosamente mantenere la sua persona e famiglia», e «senza
che sia obbligato a tenere una formale scrittura, né a fare un esatto e scrupoloso
rendimento di conti, perché il signor Antonio Maria in tutto e per tutto confida nell’amministrazione
che sarà tenuta da detto signor Gio Battista».
Ora che di nuovo riconosce così esplicitamente i diritti della «persona e famiglia»
del fratello, Antonio Maria ha passato i 50 anni; più tardi esibirà una moglie, che
i nipoti tratteranno come una signora zia autorevole e rispettata: dev’esser stata
una donna in età; comunque non gli darà figli e non comparirà nei suoi testamenti.
L’uomo maturo persevera insomma nella sua parte di cadetto così bene che il fratello
prete Ranieri, il depositario designato dell’eredità morale e materiale di Leonardo,
può tranquillamente dettare, sette anni dopo l’accordo del 1763, il 19 luglio 1770,
un testamento in cui, senza dover neppure precisare la destinazione del podere di
S. Andrea di Campo e Caprona, nomina egualmente eredi universali Giovanni Battista
e Antonio Maria. Quando, ancora due anni più tardi, il sessantasettenne Giovanni Battista,
gravemente malato, esprime, il 7 gennaio 1772, alla vigilia della morte, le sue ultime
volontà, può a sua volta affidarne tranquillamente l’esecuzione proprio ai fratelli
Antonio Maria e Ranieri, chiamati anche a far da tutori ai due minorenni fra i quattro
nipoti maschi. Le volontà non richiedono un lungo testamento, ma dei semplici codicilli,
poche righe per qualche lascito caritatevole, e per aderire al sistema toscano della
condivisione fra i maschi: «Perché – dice Giovanni Battista – resti egualmente divisa
la di lui eredità a favore de suoi figli, come egualmente diviso ha sempre conservato
a riguardo di essi l’affetto paterno».
Si tratta, ben inteso, da parte di Giovanni Battista, sempre dell’antico modello della
solidarietà familiare: non un invito alla spartizione, ma all’unione, come quella
mantenuta tra lui e i fratelli in adesione sostanziale al progetto di Leonardo di
tutela del casato e del patrimonio intorno alla discendenza primogeniturale. Con l’ultimo
suo atto a noi noto, compiuto il 7 marzo 1775, il prete Ranieri dà l’estremo contributo
di coerenza a quello spirito. È un nuovo e definitivo testamento, reso necessario
dalla scomparsa del fratello maggiore, che in questa logica di casato cancella ovviamente
un’intera generazione. E così, a parte l’«amatissimo fratello» don Giorgio monaco
olivetano che fa qui una ricomparsa per ricevere un legato di 10 scudi «per una volta
tanto», anche Antonio Maria, che il testatore considera «sufficientemente provvisto»,
viene liquidato con un lascito di 25 scudi. A entrare in campo è ora la generazione
dei figli di Giovanni Battista, quattro maschi già attuali eredi del padre, e virtuali
dello zio Antonio Maria, a parità di quote; ma Ranieri, radicalmente fedele allo spirito
ancor meglio che alla lettera del mandato ricevuto quarant’anni prima, rende esplicita
nei loro confronti l’aspettativa di una diversità di ruoli: a ognuno dei tre minori
– Lussorio, Alessandro e Onofrio – lascia infatti in dono, come al fratello Antonio
Maria, 25 scudi, mentre nomina proprio erede universale Filippo, «di lui amatissimo
nipote di fratello, primogenito tra i figli di detto fu signore Gio. Battista Bracci
Cambini aggravato dei pesi matrimoniali, dichiarando detto signor testatore per torre
ogni dubbio, che nella presente universale instituzione d’erede ha inteso ed intende
di disporre ancora del podere di Caprona detto di S. Andrea, in ordine alle facoltà
conferiteli nel testamento paterno».
Lo zio saggio
Pochi mesi dopo aver fatto questo importante testamento il prete Ranieri muore. La
sua forte sottolineatura della preminenza del maggiore dei nipoti non cade in un momento
del tutto tranquillo, perché all’indomani del matrimonio di questo si sono aperte
le prime crepe nella solidarietà fraterna. A contrastarle, ma in parte anche subendone
le conseguenze, resterà durante l’ultimo decennio della sua vita l’unico sopravvissuto
della generazione precedente, Antonio Maria, lo zio ora ultrasessantenne che abbiamo
conosciuto alle prese, quarant’anni prima, con la propria iniziazione nel bel mondo.
Il suo comprovato spirito di famiglia gli conferisce una certa autorità morale sui
nipoti: cercherà di esercitarla nelle loro vertenze patrimoniali. Le vedremo più avanti.
Ma fin da prima di tali vertenze, Antonio si è occupato anche dell’educazione morale
di uno dei ragazzi, che gli è più specialmente sotto tiro. Ci è giunta qualche traccia
di questo rapporto fra zio e nipote, preziosa per finir di capire l’idea che il primo
ha nutrito dell’articolazione tra individuo, famiglia e società; o – per dirla come
avrebbe fatto lui – fra conversazione e casato.
Il nipote è Alessandro, nato nel 1752, terzo figlio maschio di Giovanni Battista sopravvissuto
all’infanzia. Mentre il quarto, Onofrio, si avvia alla carriera ecclesiastica come
già lo zio Ranieri, Alessandro deve seguire le orme dello zio Antonio Maria nella
carriera di funzionario della burocrazia granducale. Non ha ancora 18 anni quando
gli sta appresso, e in casa sua, a Pistoia come aiuto nella direzione di quel dipartimento
della Dogana; ma ben presto comincia a dare qualche problema: è irrequieto, scontento,
scalpita per tornare a Pisa. Lo zio vuole un po’ correggerlo, un po’ accontentarlo,
fra l’altro cercando di ottenergli un posto migliore; ma i capi dell’amministrazione
gli rispondono senza mezzi termini: la «poco buona condotta» del nipote «non può facilitarli
e procurarli quelle considerazioni ch’Ella desidera». In effetti Alessandro, che non
condivide il modello di nobiltà operosa dei suoi vecchi, non ha nessuna voglia di
lavorare, bensì di vestirsi elegante, frequentare i salotti, andare a teatro e far
la corte alle donne. Questa non rara attitudine – proprio lo zio la conosce benissimo
– mette alla prova la filosofia di quest’ultimo, antico cadetto galante tramutato
in anziano tutore di un ragazzo lontano da casa e diventato intanto orfano. Già sappiamo
che non si tratta di una filosofia di dissipazione; ma nella versione proposta ora
da Antonio Maria ad Alessandro diventa addirittura il possibile capitolo di un manuale
di ben regolata disciplina.
È il 15 aprile 1774 quando, dopo molte inutili prediche, lo zio rivolge al nipote,
sotto il poco promettente titolo Initium Sapientiae est Timor Domini, una specie di ultimatum. Il documento è molto interessante e molto lungo, dunque
da leggere con qualche taglio:
Volgendo sempre i primi pensieri a Dio, levandovi la mattina dal letto di buon’ora
lo ringrazierete dei benefizi ricevuti, con quell’orazioni che vi detterà la vostra
devozione; e poi ravviarvi, e vestirvi, con farvi discretamente servire dalla servitù
di casa, secondo i vostri bisogni per andare a udire la Santa Messa, regolandovi però
in maniera che indispensabilmente all’ora giusta siate al vostro impiego.
Oltre alla Santa Messa ogni giorno, dovendosi distinguere le Feste con qualche maggiore
santificazione potrete udire più messe, o far’altre opere pie a vostra elezione [...]
Eleggetevi un confessore fisso per fare da lui le vostre confessioni e comunioni almeno
una volta il mese [...]
Se gradite continuare il servizio del Reale Amabilissimo Sovrano, e con il merito
da farsi procurarvi a suo tempo gli avanzamenti, questo merito non s’acquista se non
col servire con somma fedeltà ed attenzione [...]
È necessario bensì d’imporsi à se stesso un metodo di vivere talmente regolato che
tanto nello spirituale che nel temporale, prima aviate puntualmente compiti e sodisfatto
ai vostri doveri, e poi potrete allora prendere un discreto sollievo di quegli onesti
piaceri coerenti all’esser di cristiano e di cavaliere, lungi però dalle male conversazioni,
dai giuochi, e da ogn’altra cosa che disconvenga, e giaché avete la sorte di servire
una dama di non ordinario merito, siate ad essa grato e riconoscente delle cortesie
fattevi, e stimando i suoi buoni consigli, contentatevi di tornarvene a casa in ora
più discreta, anticipando il riposo della sera per esser più sollecito la mattina
[...]
Se terrete buon conto dei dinari ch’averete, e di quanto con essi averete provisto
per li vostri giornalieri bisogni, vi resterà forse in capo all’anno qualcosa in avanzo
da potere spendere per godere di qualche lecito ed onesto divertimento [...]
Li vostri maggiori, che in un modo o in un altro da Dio vi sono destinati, e i quali
per legge divina ed umana devono da voi senz’alcun dubbio essere rispettati vi converrà
sempre, e sarà vostro vantaggio, dependere da essi [...]
Contentatevi di farvi servire in casa dai vostri domestici, come possono e come sanno,
ma riflettete che sono cristiani come voi, e forse in cospetto di Dio meglio di voi,
onde comanderete ad essi con amorevolezza e con carità per esser da loro meglio servito,
e senza mandare, come fate arbitrariamente, ad imbiancare e rassettare i vostri panni
fuori di casa con spesa e sciupio maggiore [...]
Sia con tutti il vostro procedere umile e rispettoso, moderando il vostro spirito
in qualunque luogo o tempo che siate [...] e moderando ancora le molte voglie che
ogni dì capricciosamente in voi nascono, vi risparmierete le molte spese minute, che
pazzamente gettate ai manifattori, ai cani, ai vostri piaceri, con tener buon conto
di tutto, e non fare, come avete fatto in passato, che senz’avvedervene avete sciupato
un’infinità di roba e di denari.
Ben sapete quanto scarso sia il vostro patrimonio, e quando nol crediate, quelch’egli
è veramente potete chiarirvene e sincerarvi per mezo del vostro fratello maggiore
che l’amministra [...] che se poi per la scarsezza di esso (come credo positivamente)
non avete da vivere onestamente, e supplire con esso ai vostri necessarj bisogni,
conviene che ve ne acquistiate il modo o coll’industrie personali e lecite, o il supplimento
da chi ha più di voi, che potrete avere col meritarlo, giamai col pretenderlo [...]
Lasciate dunque una volta tanti rigiri che avete, e tante improprie amicizie, che
se tutte non son note al mondo sono però notissime a Dio.
Tutto questo ci suona familiare: l’aggettivo è qui quanto mai opportuno; ma non nel
senso che si possa abbreviare, per qualche superficiale assonanza, la nostra distanza
dal mondo di Antonio Maria e di Alessandro. Il memorandum dello zio non è, genericamente,
e fuori dal tempo, il predicozzo che in famiglia tocca fare al giovane sviato da parte
di chi a sua volta corse in gioventù la cavallina: è un programma di vita ben calato
nelle condizioni della società aristocratica settecentesca. È il modello, opposto
alle «male conversazioni» condannate da Antonio, della conversazione onesta, quell’entità che compare tante volte, e talora come un oggetto misterioso, nella
trattatistica del secolo, e molto più vivamente ed efficacemente in quasi ogni commedia
di Goldoni: una proposta che, di fronte al montare della frenesia mondana, scarta
la chiusura da rustego di Leonardo e indica una via di mezzo ragionevole, e compatibile sia con l’economia
domestica di Leon Battista Alberti che con l’autodisciplina di una moderna vita civile.
Di questa conversazione onesta, Antonio Maria, ovviamente, incarna e propaganda la
versione da cadetto, celibe a vita, o quasi. Dobbiamo averlo presente, nel leggere
le sue raccomandazioni sul come «servire una dama di non ordinario merito» – la pratica
del cicisbeo –; o guardarsi dalle pazze e incontrollate spese – «tener buon conto
di tutto»! –, tanto più perché un figlio minore deve «supplire coll’industrie personali»
alla «scarsezza» del proprio patrimonio. A ben vedere, e fatte le debite proporzioni
d’età e ruoli, il vecchio zio resta fedele alla sua giovinezza. Una ben disciplinata,
e cauta, non necessariamente casta, galanteria delle conversazioni, con uno strenuo
scrutinio dei costi connessi, è l’orizzonte esistenziale più plausibile per un giovanotto
posto dalla cultura del tempo e del ceto ai margini di una vita di famiglia. Ed è,
se ben interpretata, una pratica perfettamente coerente con la tutela dei superiori
interessi del casato.
Purtroppo non tutti sanno esercitarla al giusto punto d’equilibrio. Il resto di questa
vicenda fra Antonio Maria e il nipote è la storia del fallimento del ragazzo. C’è
una risposta scritta di Alessandro al testo dello zio, con la zelante e compunta accettazione
di ogni precetto, e solo due richieste di ammorbidimento: «Che gli fosse cresciuta
la biancheria per poter godere dei bucati che si fanno in casa, giacché ha dato i
suoi panni ad imbiancare fuori, solamente perché avendo pochissima biancheria, ne
aveva bisogno più spesso»; e, poiché «gli viene approvato di mantenersi l’amicizia
della nota dama», «permetterli di ritornarsene a casa la sera all’ora che finirà la
di lei conversazione, assicurandolo che questo non farà pregiudizio alla sollecitudine
della mattina».
Ma nei mesi e negli anni successivi a questo confronto dell’aprile 1774 la situazione
precipita. Alcune lettere dell’estate 1777 di Antonio Maria, trasferitosi a vivere
e lavorare a Livorno, ad Alessandro, rimasto invece a Pistoia, testimoniano già un’emergenza:
il ragazzo – ora ha 25 anni – è pieno di debiti, abbandonato dagli amici e sempre
più malvisto dai superiori d’ufficio. Lo zio lo strapazza per le sue «solennissime
castronerie» – «i denari non sono come l’acqua dei pozzi», con quel che si può immaginare
di seguito –; e prima di entrare in trattativa sulla liquidazione dei debiti mostra
il muso duro ai creditori: «la maggior parte di questi si meritano d’esser processati
sulle loro scritte, apparenti in denaro contante, ma realmente create con robe diverse
malamente vendute». «Conviene che voi sappiate, che io non posso pagare i creditori
vostri, se prima non sono publice intimati entro un discreto termine a comparire con i loro recapiti giustificanti
i respettivi loro crediti, dopo del quale con decreto li sia imposto un perpetuo silenzio». Ce n’è anche per una signora Brunozzi – potrebbe
essere la «nota dama», rivelatasi ancor più imprudente del giovane – della quale Antonio
pensa «che la sua solennissima compiacenza verso di voi sia stata in gran parte la
vostra rovina».
L’evidentemente insufficiente remissività delle risposte, che non abbiamo, di Alessandro
offre allo zio l’occasione per ribadire le sue idee, qui davvero da figlio di Leonardo:
«Mentr’essendo io assai antico, come voi mi rilevate, non può ben combinarsi con voi
tutto moderno». Sono le idee della subordinazione degli individui al casato in un’ottica
ancora fidecommissaria:
Non ho bisogno che mi rileviate qual sia lo spirito dell’interesse, mentre chi non
sa moderarlo colla preventiva reflessione e giusta regola in moderarlo è un pazzo,
né mi è rincresciuto lo spendere per la casa e i nipoti somme considerabili, come
ho fatto per far vantaggio ai medesimi. Ed è falsissima la vostra proposizione che
per moderno discarico vostro n’adducete di sciupare il vostro, mentre se rifletteste
il dovere, trovereste che vostro non è, mentre Dio ve l’ha dato per farne buon uso
e non sciuparlo, come malamente avete fatto, e se avessero egualmente pensato i vostri
maggiori saresti già da lungo tempo per la via mendicando.
Questa fase dei rapporti fra zio e nipote si dev’essere chiusa malissimo, se Antonio
Maria ha tenuto duro sull’invito, rivolto ad Alessandro nell’ultima lettera conservata
del 1777 – 27 agosto – «a non mi scrivere mai più, giacché per non moltiplicarmi quelle
giuste amarezze che risento dal vostro iniquo procedere, se altre di voi mi giungeranno
lettere, senza leggerle saranno da me subito gettate sul fuoco». In effetti benché
fra 1777 e 1778 Alessandro venga trasferito per ufficio a Livorno, lo zio non lo vuole
più ospitare in casa con sé e tanto meno mantenerlo; ed è su questo punto che il 25
agosto 1780 il giovane, di nuovo in un momento critico, cerca di commuoverlo, prospettandogli
in caso di rifiuto qualche soluzione spettacolare:
Io non chiedo a Lei per ora che due cose, cioè che voglia ricevermi alla sua tavola,
e che voglia imprestarmi la somma di lire novecento in circa per saldare diversi debiti
vergognosi [...] dopo dei quali non trovando chi più volesse imprestarmi denaro, ho
dovuto impegnare tutto il mio vestiario, inclusive lenzuola, calze, camice, e quanto
altro potevo, onde ora che altro non ho donde ricavare denaro per uso mio, e molto
meno per renderne a chi me lo ha imprestato, e per pagare chi sotto buona fede mi
ha dato della sua roba, per liberarmi adunque dalla sorpresa di un qualche affronto,
al quale mi vedo soggetto, sono nella necessità di esiliarmi dalla Toscana.
Con gli altri pochi documenti che restano della vicenda non è dato ricostruire in
dettaglio cosa sia successo dopo questo frangente drammatico, o drammaticamente enfatizzato
da Alessandro. Ma risulta almeno un ultimo episodio ancora rivelatore delle rispettive
mentalità e idee dei protagonisti. Antonio Maria si è, in un modo o nell’altro, ripreso
cura del nipote, e, quando questo viene retrocesso per punizione a un impiego più
basso, è lui a organizzarne la spedizione a Firenze nel tentativo di rimediare. Il
21 marzo 1781 scrive a un suo non nominato corrispondente nella capitale per annunciare
l’arrivo del giovane:
Egli vien costà unicamente per umiliarsi ai piedi del Reale Sovrano [...] Bramerei
ch’Ella lo collocasse appresso qualche galantuomo di sua confidenza, che non sia locanda,
e in sua casa particolare vivesse con tutto il decoro, non meno che colla maggiore
economia possibile, pur troppo necessaria alle critiche sue circostanze [...] Egli
la sera non cena, ha l’ordine di non presentarsi in verun luogo ozioso, né a teatri,
né a spettacoli di sorte alcuna, ma bensì di frequentare quei luoghi ove più s’acquista
di decoro sì per l’anima che per il corpo [...] a riserva del desinare familiarissimo,
forse del perrucchiere, e qualche imbiancatura, null’altro deve avere.
Ma a Firenze Alessandro trova più tentazioni che a Livorno o a Pistoia: non per nulla
indugia a presentarsi in alto loco con le commendatizie dello zio, che perciò lo
rimprovera in una lettera successiva.
Non so lodarvi – aggiunge – che siate stato al teatro, e sul proposito delle ragioni
addottemi d’averlo fatto per il meglio, in tal caso se voi foste inclinato d’attendere i soli consigli per il meglio (che però non gli avete da me giammai attesi) vi direi che nelle critiche circostanze
nelle quali vi siete capricciosamente ridotto sarebbe assai meglio per voi di non
frequentare altro che luoghi pii, che abonda codesta città, ove si fa molto bene per
l’anima, e molti cavalieri vi concorrono, dai quali potreste acquistare un maggiore
credito che al teatro e alle conversazioni, benché onestissime, delle dame.
Nessun cambiamento da parte di Antonio Maria; ma nell’equilibrio, tipico suo, fra
economia domestica e vita mondana, un’accentuazione delle ragioni della prima s’impone
data la particolare gravità del momento. Da parte di Alessandro, certo, la spensieratezza
di un giovane scapato; ma da cogliere, di nuovo, non come un dato generico e astorico,
bensì come un aspetto della cultura di un nobile d’Antico Regime. Più precisamente:
di quel tipo di cultura nobiliare che identificava il privilegio col diritto all’ozio
e allo spreco, un’identificazione non condivisa dai vecchi parenti di Alessandro,
e neppure – per sua finale sfortuna – dalla burocrazia di un sovrano riformatore come
Pietro Leopoldo.
Poiché incontreremo ancora Antonio Maria chiudiamo intanto questo racconto sul destino
di Alessandro. Il memoriale preparato dal giovane per protestare per la sua retrocessione
in ufficio presso il senatore Serristori, uno dei capi dell’amministrazione, testimonia
di un pensare e agire poco in contatto con la realtà in trasformazione:
Se unita alla nascita non fossi stato dotato dalla natura dello stimolo di reputazione
soffrirei in pace qualunque dispiacere mi fosse fatto, ma siccome è troppo forte in
me il puntiglio d’onore, sono necessitato ricorrere con la presente nuovamente a V.
S. Illustrissima [...] Nei quattro mesi che ho fatto le veci del riscontro di cassa
in questa Dogana, può essere che non sia stato troppo contento questo signor Direttore
delle mie operazioni. Ma bisogna convenire che l’ho dovuto fare in tempo nel quale
cade il maggior lavoro, cioè sul fine di anno e principio del nuovo [...] Gli errori
nei quali ero più facile di cadere erano quelli di scrivere qualche partita nel libro
vecchio piuttosto che nel nuovo, e viceversa nel nuovo piuttosto che nel vecchio,
e ciò dipendeva dal essere detti libri disadatti, da non potersi tenere tutti due
a mano, essendo quasi necessario ogni volta per rimuoverne uno chiamare un facchino
[...] Alle ragioni addotte di sopra aggiungo quello della passione di animo, che per
più titoli mi lacerava, né mi lasciava la mente affatto quieta.
Il 26 febbraio 1782 una comunicazione ufficiale informa Alessandro che sono state
accettate le sue dimissioni dal servizio pubblico, e che gli viene assegnata – è pur
sempre un nobile la cui degradante miseria sarebbe vergognosa per tutti – una piccola
commenda dalla rendita annua di 62 lire. Lo zio gli ha già scritto con l’ultima sfuriata
che non lo vuole a Livorno. Alessandro torna nella casa paterna a Pisa, nel pieno
della lite patrimoniale fra i suoi fratelli. Ma ne rimane ai margini: fin dal 5 ottobre
1776, ancora ai tempi dei debiti di Pistoia, aveva dovuto firmare una rinuncia per
1.350 lire alla sua quota dei mobili e gioie della madre; nelle azioni legali più
tarde viene rappresentato da un procuratore, perché dichiarato legalmente impedito.
In ogni modo, il 26 febbraio 1786, alla vigilia della soluzione del conflitto fraterno,
Alessandro muore, a meno di 34 anni.
Negli ultimi tempi deve aver fatto la sua parte di zio coi figli del fratello maggiore.
Trent’anni più tardi, il 30 giugno 1805, uno di questi scriverà a una sorella a proposito
della calligrafia di una più piccola sorellina: «Prevedo che essa potrà, applicandosi,
prendere un ragionevol carattere. Fateli però smettere quei ricciolini alle iniziali,
contro i quali gridava tanto il bravo nostro fu zio Alessandro».
Anna
Voglia di ballare
Su Anna, Jane Austen, la grande scrittrice inglese dei primi anni dell’Ottocento,
ci inviterebbe al silenzio. Nel grande dialogo su genere maschile/genere femminile
che prepara la fine del suo romanzo Persuasione, l’interlocutore della protagonista espone a un certo punto il trito argomento del
conformismo misogino, ma la ragazza replica con molta forza. Lui: «Non penso di aver
mai aperto in vita mia un libro che non dicesse qualcosa sull’incostanza delle donne.
Canzoni e proverbi, tutti parlano della leggerezza delle donne. Ma forse mi dirà,
son tutte cose scritte da uomini». Lei: «Forse lo dirò... sì, sì, la prego, nessun
riferimento ad esempi tratti da libri. Rispetto a noi donne, gli uomini hanno avuto
ogni vantaggio nel raccontare la loro storia. Gli uomini hanno sempre potuto godere
del privilegio dell’istruzione molto più di noi; la penna è sempre stata nelle loro
mani».
Per la storia di Anna, il riferimento a Jane Austen è appena un soffio troppo moderno,
non tanto per le date, ma perché nella vita privata gli Inglesi correvano più in fretta
di noi. Tuttavia, resta buono il suo ammonimento alla prudenza: della penna di Anna
abbiamo solo qualche riga scritta negli ultimi anni della sua vita; non una parola
del periodo in cui, giovane sposa, è stata al centro di un aspro scontro (e della
divisione di un patrimonio) fra gli uomini che le sono stati intorno: un marito pieno
di contraddizioni, un cognato lucido e ostilissimo. Il cronista non può che raccogliere
le parole uscite dalla penna di questi uomini, cercando di far loro ricostruire qualche
tratto di un mondo senza calcare troppo la mano sul ritratto di una persona.
Anna è stata la moglie di Filippo, il maggiore dei figli di Giovanni Battista e nipoti
di Antonio Maria; è stata dunque cognata di Alessandro, che abbiamo conosciuto, di
Onofrio, avviato alla carriera ecclesiastica ma presto sparito di scena morendo a
venticinque anni, e soprattutto di Lussorio, il secondo fratello, e vera controparte
di Filippo. Con Anna la conversazione, trattenuta dallo zio Antonio Maria nei limiti
del calcolo mercantile e praticata da Alessandro in una dissipazione lontana dalla
vista, fa irruzione clamorosa nel palazzo di famiglia in Pisa. Ecco il finale di una
lettera scritta il 18 gennaio 1785 da Filippo a Caterina Peruzzi nata Arrighetti,
una discendente dell’antico sodale fiorentino di Leonardo:
Vi aggiungo quest’altra seccatura per parte di mia moglie, la quale per non esser
gravida fin qui, e avendo voglia di ballare, ha necessità delle appresso robe. Troverete
dunque acclusi in una scatola [...] due vestiti usati e disfatti con tutti i suoi
pezzi, che uno di raso, l’altro di mantino, e più il modello per la lunghezza e larghezza
della vita, e per le maniche potrà rilevarlo dalle medesime. Si gradirebbe che i medesimi
fossero ridotti con gonnella intiera e in altro taglio, e diversi nel guarnimento
di colori a piacimento, da potersene servire per feste di ballo, e in disabbiliè con
spesa mediocre, non con grillaje, che si strappano facilissimamente e sono di suggezione
a portarsi per l’uso che sopra, e quel che preme assaissimo è la speditezza di tutto
questo lavoro, perché il Carnevale finisce [...] pregandovi a salutare per mia parte
tutti gli amici della vostra conversazione, e di mia conoscenza.
Fra poco il carnevale finisce. Deboto xe fenìo carneval... Ancora una volta la nostra storia ci rimanda al teatro del mondo goldoniano. Rispetto
al nonno rustego, allo zio prudente, Filippo sembra un marito partecipe, ma anche un poco succube,
della voglia mondana della moglie. Quella che abbiamo appena letto non è la sola lettera
in cui egli appare impegnato ad assecondare i desideri di Anna, e non sempre con la
cautela di spesa espressa in questo caso, alla vigilia della stretta finale della
sua lite patrimoniale col fratello e lo zio. Un elemento, a parte quelli poco sondabili
da terzi, dell’ascendente della donna sul marito pare essere stata la riconosciuta
superiorità della famiglia di lei, i Grassi patrizi di Siena e Pisa, nel borsino delle
quotazioni sociali di questa piccola aristocrazia di provincia. C’è in proposito qualche
rapido cenno nelle lettere di Filippo alle «convenienze» verso la consorte e i suoi
nuovi parenti, e alle «giuste pretensioni» loro. Ci sono, forse ancor più chiari,
i patti matrimoniali stessi.
Filippo si è accordato con Jacopo Grassi, padre di Anna, fra il 1773 e il 1774, un
paio d’anni dopo la morte del proprio padre, quando lui ha quasi trent’anni e la sposa
venti. La dote nominalmente assegnatagli, 4.000 scudi più altri 500 di corredo, è
alta, ma in concreto al momento del contratto è lo sposo che sborsa dei soldi, perché
acquista dal suocero, che ha problemi di debiti, un podere valutato 7.800 scudi, di
cui gli paga la differenza. Difficile dire quanto l’investimento sia stato economicamente
azzeccato; ma certo, corrisponde a una scelta di vita nobiliare che caratterizza Filippo
a differenza di suo padre e suo nonno. Per un giovane intraprendente, disporre della
liquidità di una dote, o anche di una porzione di dote più gli interessi sul resto,
poteva essere un buon inizio di un’attività di affari; Filippo fa una scelta opposta,
e del resto coerente al fatto che egli non prosegue la ditta familiare di spedizioni,
e si appresta a vivere di rendita come un vero signore.
Per dare l’ultimo tocco a questo quadro di nobilitazione non poco legata al matrimonio
con Anna, bisogna sapere che lo sposo le ha fatto, a parte l’impegno di uno spillatico
annuale di 40 scudi, un fior di regalo come controdote: esso risulta da un «Inventario
generale e valore della biancheria, abiti, et altro provisto e pagato dal cavalier
Filippo Bracci Cambini per servizio ed uso della signora Maria Anna Grassi sua sposa,
comprese le gioie», steso in Pisa il 25 luglio 1774. La somma totale supera le 10.818
lire, assai più di 1.500 scudi. Per farsi un’idea delle voci di questo inventario,
se quasi 3.000 lire sono coperte da due gioielli, c’è comunque «1 ventaglio di madreperla,
con stecche intarsiate d’oro» che da solo vale 100 lire: per un confronto, non molto
meno della metà della retta annuale pagata anni prima per tenere Filippo in collegio.
C’è un «assortimento di Francia, trina di seta, cioè manichini a tre ordini, scollo,
palatina, gogliè, e crestina d’assetto con cascale grandi» che vale oltre 333 lire.
Un altro assortimento, simile, «di mezza gala», da 200 lire. Ancora «1 abito glassé
d’argento di Francia con liste d’oro, e fiori al naturale, con guarnimento simile,
spese di fodere e fattura, in tutto» ben 1.786 lire! Sappiamo da una postilla all’inventario
che nel corso del primo anno di matrimonio Filippo ha fatto alla moglie regali per
altre 500 lire, fra cui la fattura di un altro abito di lusso e quella di un «abito
da maschera all’olandese».
Mentre Leonardo si rivolta nella tomba, è sotto questi auspici e con queste premesse
– sociali prima ancora che psicologiche – che la giovane moglie di suo nipote, nobile
e vezzeggiata, è entrata nel palazzo di famiglia. L’aspetta la sua nuova vita di padrona
di casa, non in un nucleo domestico ma in una fraterna: cioè insieme coi cognati,
cadetti scapoli intorno al maggiore, Filippo, unico ammogliato e unico responsabile
dell’amministrazione del patrimonio, tenuto ancora in comune, anche con lo zio Antonio
Maria. Un poco di finezza di datazione è qui necessaria per non caricare sulle spalle
della ragazza dei pesi che certo non le spettano. Quando entra in casa, non prima
della seconda metà del 1774, in realtà il marito e i parenti di lui hanno già cominciato
almeno da qualche mese a pensare a una possibile divisione dei beni, e dato inizio
a un’operazione di stima dei medesimi da parte di periti che sarà conclusa nel luglio
1774 e perfezionata nel settembre 1776. Il matrimonio, non la moglie, di Filippo è
stato dunque il primo motore della procedura di scioglimento dell’unione familiare;
ed è plausibile che i suoi fratelli, a differenza di quelli di suo padre, si siano
mostrati subito poco propensi ad accettare il loro ruolo subordinato. È proprio in
questo frangente – ricordiamolo ora – che lo zio prete, Ranieri, il 7 marzo 1775 ha
rifatto il suo testamento, dando una grossa mano a Filippo come maggiore.
È vero che per un paio d’anni dopo le nozze tutto pare posarsi. In questo periodo
la coppia di sposi vive in realtà in palazzo sola coi servi: Alessandro fa dannare
lo zio a Pistoia, Lussorio è a Bologna per studio, Onofrio in seminario, o, se in
casa, in camera malato. L’inizio del conflitto campale coincide col ritorno di Lussorio
a Pisa, alla fine del 1776 o all’inizio del 1777. In seguito a questo evento si trovano
a convivere un capofamiglia di trentatré anni, sua moglie di ventiquattro, e un fratello
e cognato di ventotto. Mettiamo subito in chiaro che non c’è nessun triangolo, ma
una difficoltà di rapporti personali che senza dubbio interagisce con la già aperta
questione patrimoniale. Al centro dello scontro la giovane donna, messa in scena dai
due uomini – i soli che hanno avuto la penna in mano – come una damina viziata, una
protagonista della conversazione, se non proprio disonesta, capricciosa. A rappresentarla
così comincia subito il cognato; molto più tardi, ma in modo in fondo più grave, lo
fa il marito.
Di Lussorio faremo miglior conoscenza fra poco. Basti dire intanto che ha avuto mente
pronta, carattere spigoloso, lingua lunga. Così lunga, per la verità, che a scanso
di equivoci anticiperemo fin d’ora un parere positivo, e autorevolissimo, espresso
su di lui come amministratore pubblico nel 1790 dal granduca Pietro Leopoldo: «abile,
attivo, onesto e premuroso». Anna comincia a configurarsi davanti ai nostri occhi
negli appunti che il cognato ha preso a tenere dopo il ritorno nella casa paterna.
Il nesso fra mondanità e spreco del denaro comune, in un appunto del 19 luglio 1777:
«Aviamo gridato moltissimo col cavaliere Filippo perché seconda in tutto i capricci
di sua moglie, e per le continue spese che egli non vuol moderare in conto alcuno».
Le colpe di Anna nella prima grave rottura tra i fratelli, 1° luglio 1780: «In questa
mattina, stante alcune differenze insorte fra il cavaliere Filippo da una e noi altri
due fratelli cavaliere Onofrio e Lussorio dall’altra, ci siamo divisi di tavola. Di
questo, e di tutto il resto delle domestiche amarezze, causa di sua moglie, di cui
egli è più pentito che de suoi peccati. Imparino almeno i nostri nipoti amatissimi
a non s’impacciar con donne che discendono da genitori che hanno poco giudizio e meno
timor di Dio, o si ricordino il proverbio che dice: chi si consiglia col cazzo si
trova con i coglioni in mano». Da parte del cognato Anna ha trovato sarcasmo anche
per quella debolezza della carne che si può manifestare più dell’altra; 6 dicembre
1783: «Si fa ricordo come la degnissima signora moglie del cavaliere Filippo questa
sera a ore ventitre circa essendo disgustata di stomaco per una bevuta di vin nuovo
di vino di cucina, si è graziosamente mangiato per refocillare lo stomaco n° sei frittate
di pasta fritte in padella. Mi rallegro del suo buono appetito, che Dio la conservi».
La giovane donna ha comunque subìto da Lussorio anche critiche più serie, soprattutto
sulla sua inadeguatezza al ruolo materno. La seguente è del 4 settembre 1785:
Si fa ricordo qualmente nel sudetto giorno alle ore tre e mezzo dopo pranzo è partita
per Caprona in calesse la moglie del cavaliere Filippo Bracci Cambini unitamente al
primogenito e suo respettivo maestro di scuola. Notisi che detto ragazzo è partito
con la testa rotta per causa della solita discrizione di detta donna nel castigarlo;
e perché il cavaliere Filippo a cui è maritata non si accorgesse di ciò, li ha fatto
tenere il cappello in capo, quale avendoli detto il cavaliere Filippo che si levasse
perché non entrava in calesse, la sua moglie ha trovato scusa che non voleva perché
era freddo. Il pincone secondo il solito le ha creduto, come fa sempre sacrificando
i piccoli ragazzi alle tirannie di questa.
Infine – 4 dicembre 1785 – Anna è stata anche accusata da Lussorio di mancanza di
rispetto verso l’anziana moglie dello zio Antonio: «In questa mattina alle ore sei
è partita in carrozza la Signora Isabella Puccini, malissimo sodisfatta – per quello
che più e più volte mi si è protestata – e fuori ancora dello scandoloso e iniquo
procedere della moglie del cavaliere Filippo, da cui disse aver ricevuto mille impertinenze
e malecreanze».
Anche fatta la tara, sembra che Anna sia stata molto lontana dal modello biblico della
donna economa incarnato due generazioni prima da Bona Ruschi; e altrettanto lontana
dal più moderno ideale russoviano di sposa e madre dedita alla famiglia con un esclusivismo
estraniante dalla società mondana. Le parole, che abbiamo letto qui sopra, del marito
sulla sua voglia di ballare quando non era incinta sono completate da un rapido cenno
dello stesso Filippo alla fine di una lunga lettera dell’8 settembre 1780 allo zio
Antonio Maria: «Noi tutti di casa si sta bene, come desidero segua di voi, se non
se la bambina a balia ha il vajolo, e per fretta resto abbracciandovi». Proprio l’allattamento
materno, come del resto la vaccinazione contro il vaiolo, era un grande tema della
propaganda settecentesca in favore di una maggiore attenzione verso l’infanzia. E
Anna non pare esser stata disposta a sacrificare alla maternità la propria vita mondana.
Che la vivacità, percepita come priva di misura, del suo gusto per la conversazione
sia stata una componente importante del clima di litigio creatosi in famiglia intorno
alla gestione delle ricchezze comuni, risulta per altro non solo dagli attacchi di
suo cognato, ma anche dalle testimonianze, dapprima sempre difensive, di suo marito.
In parallelo agli appunti di Lussorio citati qui sopra, che accompagnano per quasi
un decennio il lungo conflitto sulla divisione patrimoniale – fine anni Settanta e
prima metà anni Ottanta – ci sono le minute delle lettere di Filippo, la maggior parte
indirizzate allo zio Antonio Maria, l’anziano uomo di mondo, di riconosciuta esperienza.
Filippo lo chiama a testimone dell’ingiustizia della campagna di accuse contro la
moglie e lui stesso. Ecco per esempio cosa gli scrive il 28 luglio 1777, pochi giorni
dopo il primo appunto di Lussorio:
Non tengo livrea di cuoco, ma due servitori a livrea, uno dei quali fa la cucina solita,
et hanno il solito salario; né tengo cavallo di sorte alcuna, e rispetto alla moglie
conosco bene che essendo entrata in casa nostra a dispetto loro, o per condescendenza
di chi più non vive, sono considerati per travi i suoi defetti, dei quali non mancano
le altre donne di sua nascita, se non maggiori; e son bene a portata della riuscita
delle altre, che mi erano state destinate [...] da qui in avanti non intendo d’esser
considerato capo o regolatore della famiglia, al quale per ricompensa non toccano
altro che tutte le colpe ed affanni, ma semplice spettatore al di fuori per criticare.
E non terminerò di rovinarmi la salute, per la quale son costretto oggi con la moglie
andare a stare ai Bagni per una quindicina di giorni, giacché son parecchie notti
che non si dorme.
Il soggiorno ai Bagni di San Giuliano, la villeggiatura mondana dei nobili di Pisa,
è un tema ricorrente nelle discussioni sulle spese della coppia, giustificate ora
col gran caldo, ora con più indiscutibili argomenti. Sempre allo zio, il 28 luglio
1778, Filippo scrive: «Rispetto poi alle mie bagnature son già da dieci giorni terminate,
né mi sono abusato del tempo per fare all’amore ormai per me inopportuno, né per divertirmi
ai balli opposti alla mia salute, che che si degni di tutto questo rimproverarmi per
il fratello Lussorio, ma per ristabilirmi, e sodisfare al debito paterno per il figlio
attaccato e coperto di rogna da una donna tenuta al servizio per compiacenza di un
fratello, onde per questa parte veniva incolpato contro la ragione».
Quanto al treno di vita del palazzo di Pisa, è Filippo stesso a confermare indirettamente
il conflitto fra le pretese di lusso di Anna e le accuse di spreco di Lussorio. Il
giorno di Natale del 1779, presumibilmente un momento propizio alle discussioni sulle
spese, scrive allo zio uno «sfogo lunghissimo» per il fatto che il suo spirito di
sacrificio non suscita che ingratitudine in famiglia:
Prosegue anzi a fomentare contro di me e mia consorte nuove taccie maligne e false
in un componente della medesima [...] Non faccio a caso questo sfogo lunghissimo e
per Lei tedioso, e Iddio, che mi vede e sente, mi dia tanto lume e forza e prudenza
da resistere e reprimermi contro chi estorce benefizj con modi indegni, e coi dettami
del Macchiavello, non colla ragione e verità [...] E per dimostrare (sebbene non tenuto
o ricercato) la doppiezza e malignità dell’esposto dal sopradetto, sappia che una
sola donna vi è in casa per servizio di tre padroni, non compresi i ragazzi, sappia
che sono imbiancati, stirati i panni, assetti i vestiti, e fino riposti, in copioso
numero dell’esponente, e per maggiore speditezza son lasciati sempre indietro i miei
e quelli della moglie, che da se medesima li assetta, e se alcuni ne ha fatti fuori
lo è stato per la multiplicità dei medesimi, per la sollecitudine et impazienza con
cui si pretendono [...] In somma si mangia a tavola ogni mattina con pessimo prò,
contro tutte le regole di convenienza e stima, è trattata e considerata la moglie
come una serva, si nutre da tutti un continuo rancore, diffidenza et astio, non vi
è timor di Dio, perciò maggior rovina.
Occorre qui una riflessione. Quando si ricostruiscono le vertenze patrimoniali nelle
famiglie sulla base dei soli documenti legali si rischia naturalmente di enfatizzare
l’aspetto conflittuale dei rapporti; in questo caso, invece, sulla base di documenti
diversi, non pare dubbio che la convivenza – pur fra alti e bassi, perché ci sono
periodi più tranquilli – sia stata nel complesso penosa, e possibile a lungo solo
grazie alla materiale ampiezza degli spazi nel palazzo di Borgo. L’8 agosto 1780 Filippo
si lamenta ancora con lo zio che Lussorio, e Onofrio al seguito, gli hanno addirittura
fatto mandare una citazione del tribunale: «Adesso non le mie cattive maniere, o della
mia moglie, non le superflue spese etc., ma qualunque piccolo interesse è stato sufficiente
per farmi questo smacco e spiegare l’animo loro cattivo [...] Fin quì ho usato le
debite convenienze, moderazione etc., hanno avuta la porzione di condimenti, fuoco,
et altro, come di ragione, ma adesso certo non vado più nel loro quartiere». Del resto
con Lussorio, il sinistro «Macchiavello» degli sfoghi di Filippo, l’ostilità ha sfiorato
altre volte lo scontro fisico: «E poco meno, che non abbiamo fatte delle sciatterie
grosse tra noi».
L’alchimia delle relazioni psicologiche fra i vari protagonisti della vicenda è ovviamente
decisiva, ma dev’essere configurata storicamente. Vedremo fra poco i riferimenti morali
e ideologici dell’insofferenza sprezzante di Lussorio. Qui c’è ancora da dire qualcosa
per chiarire il ruolo di Anna (e di suo marito). Sono in fondo le parole stesse di
Filippo a collocare il loro nell’ambito del ‘matrimonio alla moda’, per usare il
titolo di un celebre ciclo pittorico di William Hogarth. S’intende con tale matrimonio
– a parte l’esasperazione satirica di Hogarth – un legame stretto sulla base di valutazioni
economiche e sociali, non affettive, in cui gli sposi, dopo aver assicurato la continuazione
del casato con una prole legittima, sono più o meno tacitamente autorizzati a vivere
ognuno per conto proprio, e dunque anche la moglie a dedicarsi alle sue conversazioni
mondane. Di per sé, un tale matrimonio non ha necessariamente la carica di sovversione
sociale denunciata con orrore da tanti moralisti e predicatori: quanto alle ricchezze
nobiliari, anzi, può costituire il sistema meglio controllabile di scambio e tutela;
quanto alla vita erotica, può pure evitare maggiori disastri grazie al ricorso a una
programmata indifferenza reciproca.
Ma per far funzionare questo bel meccanismo bisogna essere in due. Un grande problema
del matrimonio alla moda fra Filippo e Anna è stato evidentemente la loro insufficiente
freddezza, o meglio l’insufficiente freddezza di lui. Il citato copialettere di Filippo
contiene come fogli volanti anche due minute di lettere alla «signora consorte», del
16 agosto e 13 ottobre 1788. A questa data il conflitto con Lussorio è chiuso da un
paio d’anni, e il marito che scrive alla moglie può abbandonare ogni preoccupazione
di apologia e solidarietà coniugale. Quel che si capisce da testi ovviamente soprattutto
allusivi è sufficiente a porre Filippo fra i testimoni d’accusa accanto al fratello.
La prima lettera è da Firenze:
Ricevo una Sua lettera dettata dalla solita Sua imprudenza, e godo di aver sempre
nuovi contrassegni della Sua cordialità, e di ritenere appresso di me le riprove innegabili
di Suo carattere [...] Rispetto alla roba per fare il vestito in regalo Le torno a
dire che non vi è a seconda del concertato, e credo di aver dato tante riprove di
mia generosità e di interesse in tutti i tempi e in tutte le occasioni, che non mi
si potrà attribuire adesso la non provista a scanso di farlo, ma il tutto (repeto)
dipende dalla Sua maniera di pensare. Se Lei si consigliasse con persone di garbo
e disappassionate, prima di operare, scrivere, e parlare, non incorrerebbe in simili
sciocchezze, e garantirebbe meglio il Suo interesse, quale adesso non conosce, perché
si trova contentata in tutto, non contradetta nelle Sue massime inregolari.
La seconda è da Pisa ad Anna assente:
In risposta alla Sua lettera ripiena delle solite frasi e motteggi pungenti [...]
Non si dia la pena di commettere degli affronti, perché a questi possiamo esser tutti
sottoposti, e Le soggiungo, che seguitando su questo piede, non viene V.S. a cercare
e stabilire la pace e la quiete reciproca, ma la Sua soltanto, perché procura di sodisfarsi
in tutti i Suoi capricci [...] I miei consiglieri son cristiani, persone d’onore e
probe, mi hanno sempre trattenuto e mi trattengono sempre dal fare di quei passi e
prendere quelle risoluzioni, che sarebbero per Lei poco decorose e disutili, ad onta
ancora del mio pregiudizio, e per evitare di far discorrere il paese senza rimedio,
giacché tutti abbiamo nel mondo amici e nemici.
Il documento più interessante della mancata indifferenza di Filippo nei confronti
della moglie è però una terza missiva contenuta come foglio volante nel libro delle
sue minute. Si tratta di un breve biglietto indirizzato a un ufficiale comandante
di reparto militare in Pisa qualche anno più tardi, quando Filippo ha superato i cinquanta,
e Anna di un po’ i quaranta. Leggiamo il biglietto per intero, prima di aggiungere
qualche parola di commento, in questo caso necessaria:
All’Illustrissimo signor maggiore Mauro Paolozzi fa devotissima reverenza il cavaliere
Filippo Bracci Cambini, e Lo prega nel tempo stesso caldamente di ordinare al signor
tenente Giorgi che non favorisca più sua moglie né in casa, né al teatro, o altrove.
L’avverte ancora lo scrivente, che stamattina ha significato in persona questi istessi
sentimenti al sopradetto, ma dubitando di non ottenere l’intento desiderato, prega
la Sua bontà a significarglielo come suo superiore, e garantirlo in appresso da qualunque
inconveniente o sopruso che potesse nascere per il reciproco fervido temperamento,
e con pienezza di stima si conferma di V.S. Illustrissima etc. Di casa 21 Gennaro
1794.
S’è già accennato più volte alla figura del cicisbeo, il cavalier servente e accompagnatore
della dama maritata a un altro uomo, il giovin signore – per intenderci – protagonista del Giorno del poeta Giuseppe Parini. Si tratta di una figura nient’affatto peculiare della
nobiltà italiana del Settecento, bensì propria di ogni situazione in cui è maturata
l’opportunità di una valvola di sfogo controllato di pulsioni e affetti impossibili
da soddisfare nel modello del matrimonio combinato come alleanza di famiglie. In questo
senso, il cicisbeo, o come altrimenti si sia chiamato quando e dove ha avuto un nome,
è il tassello che completa il quadro composto da difesa del casato, celibato dei cadetti
e conversazione mondana. Non necessariamente elemento di sovversione, è stato anzi,
nell’eventualità di un uso ben temperato, una forza equilibratrice e sostanzialmente
conservatrice dell’ordine antico.
Ma per far funzionare questa ragionevole appendice del matrimonio alla moda bisogna,
per l’appunto, essere in tre; mentre Filippo è evidentemente incapace di fare la sua
parte, cioè di badare ai fatti (e agli interessi) suoi senza rincorrere le voglie
di Anna. Il problema del loro matrimonio, come di tanti altri, è esposto con la più
grande semplicità e chiarezza in poche righe delle Memorie di Goldoni, a confutazione della nuova favola – anche pariniana – della perfetta
indifferenza di tutti gli uomini italiani al comportamento delle loro donne: «Vi sono
in Italia dei mariti che tollerano di buon grado i cavalieri serventi delle loro mogli,
e anzi ne sono gli amici e i confidenti; ma ve ne sono anche di gelosi che sopportano
con dispetto questi esseri singolari, padroni in seconda nei matrimoni mal combinati».
La divisione del patrimonio
Non dimentichiamoci che Anna ha tenuto la penna in mano molto meno degli uomini intorno
a lei. Le testimonianze non solo di suo cognato, ma, ancor più, di suo marito, potrebbero
facilmente indurre ad attribuire alla sua passione per la conversazione, tanto meno
saggia di quella dello zio Antonio Maria, ogni responsabilità della fine dell’unione
patrimoniale in famiglia, con la conseguente divisione dei beni e indebolimento del
casato. In realtà non è andata proprio così; ma piuttosto le punte vive del suo carattere,
come del resto di quelli degli uomini coinvolti nella vicenda, hanno esasperato in
questo caso la spettacolarità degli effetti di una crisi di trasformazione di portata
molto più generale.
All’origine di tale crisi c’erano le idee di riforma dell’Illuminismo, una delle quali
era che la società doveva essere organizzata per individui, e non più in ossequio
allo «spirito di famiglia». L’esposizione più celebre di questa idea si trova in un
libro classico, pubblicato nel 1764, dieci anni prima del matrimonio di Anna e Filippo,
Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria:
Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta
di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l’associazione è fatta
per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l’associazione
è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo [...] Tali contradizioni
fralle leggi di famiglia e le fondamentali della repubblica sono una feconda sorgente
di altre contradizioni fralla morale domestica e la pubblica, e però fanno nascere
un perpetuo conflitto nell’animo di ciascuno uomo. La prima inspira soggezione e timore,
la seconda coraggio e libertà; quella insegna a ristringere la beneficenza ad un piccol
numero di persone senza spontanea scelta, questa a stenderla ad ogni classe di uomini;
quella comanda un continuo sacrificio di se stesso a un idolo vano, che si chiama
bene di famiglia, che spesse volte non è il bene d’alcuno che la compone; questa insegna di servire
ai propri vantaggi senza offendere le leggi.
L’attacco di Beccaria all’ideologia del casato non era neppure una novità: ricordiamo
bene che se pure in tono più prudente già Ludovico Antonio Muratori aveva criticato
in un capitolo del suo libro Dei difetti della giurisprudenza la pratica del fedecommesso, l’espressione tipica, appunto, del «sacrificio di se
stesso», «senza spontanea scelta», all’«idolo vano» del «bene di famiglia». Il libro
di Muratori era apparso a stampa nel 1742, l’anno della morte di Leonardo.
A questi movimenti d’idee si erano accompagnati alcuni provvedimenti di riforma da
parte dei governi, determinati a limitare gli ostacoli che fedecommessi e primogeniture
frapponevano allo sviluppo economico. Fra l’altro il vincolo d’inalienabilità dei
beni in perpetuo poteva rivelarsi per i nobili una buona scusa per non pagare i debiti,
dato il divieto di vendere immobili per fare liquidità. Proprio i granduchi lorenesi
di Toscana sono stati molto attivi nella politica di riforma: con la legge del 23
febbraio 1789, successiva alla fine della vicenda particolare che qui ci interessa,
Pietro Leopoldo è arrivato addirittura a esprimere la sua «sovrana volontà assolutamente
contraria alle sostituzioni fidecommissarie», anche se in pratica ha dovuto mantenere
qualche concessione per le situazioni già in vigore; e comunque, fin dal 22 giugno
1747, Francesco Stefano aveva promulgato una legge assai limitativa di fedecommessi
e primogeniture. Nel corso del Settecento è stato insomma messo in discussione, in
Toscana anche più che altrove, il fondamento stesso dell’edificio dell’unità e solidarietà
familiare intorno alla linea primogeniturale maschile.
Di ciò bisogna tener conto nel valutare lo scontro fra Filippo e il suo fratello minore
Lussorio, due uomini cresciuti dopo metà secolo, mentre il matrimonio del loro padre
Giovanni Battista, e con esso l’accettata subordinazione del cadetto Antonio Maria,
si era appunto concluso addirittura prima dell’emanazione della legge del 1747. Il
processo di divisione del patrimonio comune del casato pare esser cominciato – come
si è detto – prima dell’entrata di Anna in casa nella seconda metà del 1774, e comunque
prima del ritorno di Lussorio da Bologna: è dunque indipendentemente dalle sue difficoltà
di rapporti con la cognata che il fratello minore assume un atteggiamento diverso
da quello a suo tempo scelto dallo zio Antonio Maria, atteggiamento poi accentuato
di fronte ai costosi «capricci» della donna.
Il progetto di spartizione dei beni ha reso necessaria la redazione di una perizia
dettagliatissima, che, almeno per quanto riguarda i beni stabili, permette ora anche
di ripercorrere la storia della costituzione del patrimonio nelle sue tre fasi principali:
fedecommesso Cambini; fedecommesso istituito sui propri acquisti da Leonardo; acquisti
di Giovanni Battista e fratelli, trasmessi agli eredi dopo la legge del 1747 e dunque
non più assoggettabili a fedecommesso. In tutto – terre, ville e case di Caprona e
Buti, palazzo d’abitazione e case di Pisa, stabili a Livorno – il patrimonio immobiliare
viene valutato, con un calcolo del 30 luglio 1774 completato il 26 settembre 1776,
oltre 22.377 scudi: si tratta di un patrimonio discreto, ma ben lontano dai maggiori
dell’aristocrazia di Pisa, per non dire di Firenze. C’è da aggiungere che, come di
consueto in quest’epoca, la situazione è assai ingarbugliata sotto il profilo giuridico.
I beni sono in gran parte fidecommissari, e di due diversi fedecommessi, in piccola
parte liberi. Sui fedecommessi gravano vari censi, prestazioni, lasciti pii; soprattutto
un obbligo sancito nel testamento di Diamante Cambini di dotare ogni anno due ragazze
povere di Caprona, obbligo sempre disatteso, ma rivendicato proprio in questi anni
dalla comunità di Caprona, e infine imposto nel 1777 alla famiglia da una sentenza
del tribunale di Vicopisano.
Un’altra stima, conclusa il 15 settembre 1776, riguarda mobili, quadri, gioielli e
biancheria, per un totale di oltre 5.589 scudi. A parte stanno, per 804 scudi, gli
oggetti già appartenuti a Teresa Passerini, la moglie di Giovanni Battista. Non è
possibile una valutazione plausibilmente precisa dei denari liquidi; mentre è noto
l’investimento principale, un vecchio credito di 5.000 scudi col ramo Bracci di Firenze,
risalente alla divisione del 1711, e fruttifero al 3%. Tutt’insieme, ricapitolando,
una ricchezza poco dinamica, e difficilmente tale da reggere a vari frazionamenti.
Per la nostra pazienza, specie se non siamo avvezzi alle questioni ereditarie e legali
in genere, è difficile far fronte all’intrico di complicazioni e sottigliezze cui
ha potuto dar luogo la definizione dei criteri di spartizione di questo non imponente
patrimonio. Accenniamo almeno alla questione principale, che dà comunque un’idea delle
altre: gli effetti del testamento di prete Ranieri. Un rapido promemoria di chi sono
le parti in gioco: al 1774, data d’inizio della vicenda, due fratelli, Antonio Maria
e Ranieri (il monaco Giorgio non può possedere), del capofamiglia defunto Giovanni
Battista, e i quattro figli maschi di quest’ultimo: Filippo, Lussorio, Alessandro,
Onofrio. Come si ricorderà, il 7 marzo 1775, nel pieno delle discussioni, Ranieri,
l’antico affidatario dell’eredità e della volontà di Leonardo, ne interpreta lo spirito
facendo testamento a favore del nipote maggiore Filippo. Dopo la morte di Ranieri,
avvenuta il 4 dicembre 1775, Filippo rivendica questa prerogativa nella spartizione
in corso, pretendendo che essa avvenga sul patrimonio defalcato della porzione di
Ranieri, spettante per intero a lui solo. Ci sono però pareri discordi sulla definizione
di tale porzione: Ranieri – si domanda – poteva esprimere liberamente la sua volontà
testamentaria su ogni suo bene, o solo su quelli acquistati coi fratelli in regime
di divieto di nuovi fedecommessi? I 1.000 scudi che Leonardo gli aveva lasciato nei
codicilli e il podere di S. Andrea affidatogli da trasmettere a un fratello erano
vincolati al fedecommesso divisibile istituito da Leonardo oppure soggetti all’autonoma
decisione di Ranieri?
Le discussioni sulla questione presentano un ribaltamento di posizioni che ci suggerisce
quanta cautela sia necessaria nel valutare simili vertenze. Filippo, che tende a mantenere
unita a suo vantaggio la maggior parte possibile del patrimonio comune, usa gli argomenti
dell’innovazione, e fa riferimento alle «veglianti leggi» che limitano l’applicabilità
dei vincoli fidecommissari: gli conviene infatti che si dia pieno corso alla libera
volontà di Ranieri, più favorevole al primogenito che non la pratica del fedecommesso
divisibile. Per contro Lussorio e gli altri, che sono in questo conflitto gli avversari,
con Beccaria, dell’idolo vano del bene di famiglia, si fanno forti proprio dell’intangibilità
del fedecommesso familiare per ridurre al minimo lo scorporo di beni nell’interesse
di Filippo. Solo il 30 settembre 1778 viene raggiunta una soluzione, e non dagli interessati,
ma da una commissione di arbitri, che ha operato sulla base delle stime dei periti
e con l’ausilio di due ragionieri. Il compromesso, basato su di un complicato calcolo
con diversi metodi di spartizione a seconda dei diversi profili legali dei beni, accoglie
solo in parte le richieste di Filippo, favorendolo rispetto ai fratelli ma non allo
zio: del complesso del patrimonio, valutato circa 38.946 scudi, vengono assegnati
ad Antonio Maria circa 14.706 scudi, a Filippo circa 9.520, a ognuno dei tre cadetti
circa 4.906.
In ogni modo questo lodo arbitrale non verrà mai applicato: prima che siano superate
le contestazioni tuttora in corso sull’intrico fra spese dei singoli e spese comuni,
Onofrio, il più giovane dei fratelli, muore il 14 novembre 1780, dopo «lunga malattia
di circa anni sei, prodottali da emorragia di sangue dall’arteria iugulare», e dopo
aver fatto, l’11 novembre, un testamento a favore dello zio Antonio Maria destinato
a riaprire la pratica della spartizione. La decisione di Onofrio corrisponde alla
posizione chiara che, compatibilmente con la sua figura appartata e la sua poca salute,
ha preso nelle discussioni familiari dalla parte di Lussorio contro Filippo. Infatti
nel corso di questi ultimi anni Antonio Maria, il fermo sostenitore, col fratello
Ranieri e nel ricordo del padre Leonardo, delle ragioni del casato, ha sviluppato,
pur senza cambiare le sue idee, una crescente avversione personale per il maggiore
dei suoi nipoti.
Il nome di Anna non viene tirato in ballo; ma certo, a parte il caso tutto suo di
Alessandro, lo zio ha concentrato specialmente su Filippo, che invano si giustifica
– come abbiamo visto – presso di lui, la sua disapprovazione da anziano saggio verso
la generazione dei nipoti. Lo testimoniano alcune lettere da lui scambiate con Francesco
Ruschi, il membro più influente della commissione arbitrale per la divisione del
patrimonio, e fra l’altro suo cugino, come figlio di Verissimo Ruschi, cognato di
Leonardo. I parenti acquisiti erano spesso importanti in queste vertenze in cui la
logica del casato doveva contemperarsi con tante altre ragioni; nel caso specifico,
Ruschi, che non ha nulla da rivendicare per sé, si assume il compito di corroborare
il cugino nella comune fede nel bene di famiglia, ora in Antonio Maria un poco vacillante
di fronte a una combinazione di fattori irritanti. Ma all’opinione scrittagli da Ruschi
il 18 marzo 1777, per la quale le proposte avanzate da Filippo come erede di Ranieri
sono «state secondo le regole di ragione, anzi vantaggiose piuttosto al patrimonio
comune», Antonio Maria, rispondendo tre giorni dopo da Pistoia, replica in modo per
nulla conciliante: «Il padre Ranieri nel suo testamento avendo disposto d’alcune cose,
che non potea disporre, in tal parte non sussiste la sua eredità, e nominatamente del podere di S. Andrea
a Caprona, che resta fedecommesso a tenore del testamento del Signor Leonardo Bracci».
Del resto, aggiunge: «Volgendo altrove detta reflessione, e specialmente al contegno
dei moderni in tutto diverso dal mio, e da quel fine per cui tutto mi sono sacrificato
ai vantaggi di detti nipoti, resto al maggiore segno dolente in vederli molto da me
diversi».
Ancora un paio d’anni più tardi, dopo la conclusione del lodo, che pure ha tenuto
largo conto delle sue rivendicazioni verso il patrimonio comune e l’amministrazione
fattane da Filippo, Antonio Maria tornerà a lamentarsi il 15 luglio 1779 col cugino
Ruschi dell’ingratitudine dei nipoti per gli interessi da lui sacrificati al casato,
riservando però un biasimo speciale agli ingiusti sprechi del maggiore:
Che se li signori miei nepoti si fussero contentati di vivere entro i limiti da me
mille volte prescrittili, cioè di non fare spese di sorte alcuna superiori al respettivo
loro patrimonio, come nella generazione antecedente siamo noi vissuti, non si sarebbero
sì malamente ridotti; e di questo principalmente n’è causa il maggiore, che con i
suoi arbitrij e vane magnificenze ha speso il doppio di quel che poteva e giustamente
dovea, e col suo mal’esempio e sempre contro la mia volontà hanno in qualche parte
fatto l’istesso gli altri suoi fratelli.
A parte la comprensibile enfatizzazione dei propri apporti al bilancio comune del
casato, Antonio Maria resta sinceramente fedele alle sue tradizionali convinzioni,
ma denuncia in Filippo il tradimento dell’equilibrio che deve regolare il delicato
sistema del sacrificio dei cadetti alla famiglia:
Tutto per il suo interesse – ha scritto in un’altra lettera a Ruschi dell’11 maggio
1779 – ha posti i suoi fratelli in una miserabile situazione e fatto a me notabile
pregiudizio, dal che giustamente ne nasce quell’amarezza che voi m’accennate, avendo
egli fatte arbitrariamente un diluvio di spese senza il consenso di detti suoi fratelli,
e contro la mia volontà, senz’avere assegnamenti da poterle fare; onde con tanti debiti
che ha malamente creati vuol colorirne il suo mal operare col asserto decoro di nostra
casa, che giamai sì poco n’ha avuto quanto sotto la sua condotta; né è servita la
rispettabile somma di circa novantamila lire da me spese in contanti per detta casa
e nipoti nel decorso dall’anno 1770 fin’al presente, come vederete poi dalla Nota
distinta, ch’a suo tempo vi rimetterò, e tutte di tasca mia. Da questo semplice abbozzo
di risposta assicurandovi che lungi dal mio interesse da lui sacrificato, non posso
con eguale indifferenza soffrire il notabile pregiudizio che con le sue cabale e raggiri
ha recato ai suoi fratelli minori, dal che proviene la giusta mia amarezza, come non
è giusto che da lui sieno tiranneggiati.
Con una simile disposizione d’animo, Antonio Maria è ormai propenso a rinunciare all’antico
ideale dell’unione, proprio quell’ideale intorno cui ha organizzato la sua vita, continuando
fino ai settant’anni a considerare casa sua il palazzo di Pisa comprato col fratello
maggiore in gioventù, e dove di fatto non ha quasi mai abitato. Certo, le obiezioni
del cugino Ruschi non possono però non avere una qualche presa su di lui, tanto più
che esse hanno dalla loro l’evidenza economica. In una lettera del 1° marzo 1781,
un momento in cui si stanno ricalcolando le ricchezze di famiglia, Ruschi gli scrive
«con rincrescimento» dell’incombente «formal divisione degli effetti», per «non aver
ciascuno di detti vostri signori nepoti tanto patrimonio sufficiente a mantenersi
da sé in quel decoro che richiede la vostra casa». L’affermazione non è poi tanto
esagerata, se messa a confronto coi risultati, datati al 28 aprile successivo, del
nuovo calcolo delle rendite annue di ciascuno in caso di spartizione: circa 276 scudi
Antonio Maria, 221 Filippo, 101 Lussorio e 101 Alessandro. La modestia di queste cifre
spiega un accordo dello stesso 28 aprile, con cui Filippo e Lussorio fanno un estremo
tentativo di amministrazione comune delle entrate e delle spese sotto la responsabilità
del maggiore, prevedendo fra l’altro di «convivere unitamente di tavola». L’accordo
è ricordato anche negli appunti privati di Lussorio, che al 1° maggio 1781 annota:
«Questa mattina stante alcune convenzioni domestiche sono tornato a far tavola col
cavalier Filippo».
Rinviare quanto più possibile la suddivisione delle risorse, rimandarla – in un caso
come questo – quasi con la forza della disperazione in presenza di rapporti personali
del tutto guastati, è l’unico espediente delle famiglie patrizie che si sono adagiate
a vivere di rendita, senza più sforzarsi di migliorare con qualche investimento e
intrapresa la propria posizione. L’esperienza di tanti destini familiari fra Sette
e Ottocento mostra che questa, della pura conservazione difensiva, era una scelta
perdente, mentre ha retto col tempo, e in particolare di fronte alle conseguenze del
periodo francese, solo chi ha saputo rinnovarsi e crescere, intendendo la sopravvivenza
in modo dinamico. Comunque, tra Filippo e i suoi c’è ormai un’incompatibilità che
impedisce anche il semplice prolungamento, o trascinamento, del vecchio modello della
solidarietà fraterna.
Nella primavera del 1784 si riavvia la procedura di separazione, col rinnovo della
commissione degli arbitri e l’inizio di una nuova perizia. Sono però necessari ancora
due anni per concludere l’operazione, perché al solito insorgono difficoltà: Antonio
Maria e Lussorio, ormai sostanzialmente alleati contro Filippo, fanno ricorso al tribunale
del commissariato di Pisa contro il nuovo lodo arbitrale; il ricorso è respinto, ma
si aggiungono altre divergenze, che suggeriscono la nomina di nuovi arbitri al posto
di quelli capeggiati da Ruschi, ritenuto forse parziale in favore di Filippo. A riprova
della delicatezza del conflitto in corso vengono ora scelti Onofrio del Mosca e Donato
Samminiatelli, due personaggi di primo piano nella vita pubblica cittadina; e sono
loro che riescono finalmente a realizzare un compromesso, «con le successive efficaci
ed incessanti premure datesi, e colle loro insinuanti maniere dirette soltanto a stabilire
una ferma e costante riunione di animi ed una perfetta armonia». Non è questo l’ultimo
episodio, perché la morte di Alessandro, avvenuta il 26 febbraio 1786, quando il compromesso
è ancora pendente, impone ulteriori calcoli e accordi, in quanto Alessandro era rimasto
unito a Filippo, ma la sua eredità va spartita.
L’atto davvero conclusivo, la Divisionum Confessio, secondo il titolo della registrazione notarile, la stessa che ci ha consegnato l’elogio
della mediazione arbitrale qui sopra riferito, viene sancito il 19 maggio 1786, almeno
una dozzina di non piacevoli anni dopo l’apertura della questione. In forza della
divisione, quel che era stato il rispettabile patrimonio costituito da Leonardo e
dai suoi figli, viene smembrato in tre parti ormai piccole. La prima, che tocca proprio
a uno di quei figli, ora lo zio Antonio Maria, comprende l’intero credito di 5.000
scudi sui parenti di Firenze, due dei tre poderi di Buti, una casa in Pisa. Quella
intermedia, che tocca a Filippo, comprende l’altro podere di Buti, la quota più consistente
di quello di Villanuova di Caprona con la villa padronale, gli stabili di Livorno,
una casa in Pisa. A Lussorio toccano infine la parte minore del podere di Villanuova,
una casa in Pisa, e, quasi a simboleggiare la sconfitta del programma primogeniturale
di Leonardo e di prete Ranieri, il podere di S. Andrea di Caprona, che Filippo non
è riuscito a scorporare dall’insieme da dividere. Quanto al palazzo signorile di Canto
al Nicchio, il teatro delle scene più vivaci della discordia familiare, ma anche il
luogo di presenza e rappresentanza del casato in città, viene spartito per 7/8 ad
Antonio Maria e per 1/8 a Lussorio.
Date le premesse e il clima psicologico della divisione del 1786, non c’è da stupirsi
che quasi manchino tracce di rapporti successivi fra i suoi protagonisti. L’unica
è un gelido biglietto d’informazione inviato da Filippo a Lussorio il 7 maggio 1788:«Dovendosi a forma del già fissato procedere avanti questo signor Auditore del Commissariato
alla appurazione dei noti fidecommissi e rendendosi necessario il fare per tale effetto
gli atti opportuni, ne ho data per la mia parte commissione al dottor Pazzini bene
inteso di tale affare, perciò mentre non difficultiate nell’elezione di detto procuratore,
potrete darmene con vostra replica il bene stare, per così dar fine a un tale affare».
La rovina
Non è solo per il fatto che ce n’è giunta memoria per lo stesso canale, che la storia
del destino di Filippo e Anna ci si configura come un’appendice di quella della divisione
familiare.
Il 2 dicembre 1789 Filippo compra un nuovo palazzo a Pisa, a sud dell’Arno, nella
parrocchia di S. Cristina. Si tratta di un palazzo impegnativo e illustre: affaccia
prestigiosamente sul Lungarno, ed è appartenuto nel Medioevo al doge dell’Agnello.
Ora lo vende il barone Giuseppe del Testa per conto del figlio minorenne, e perciò
si è svolta un’asta sotto il controllo del tribunale, alla quale non si è presentato
«oblatore alcuno»; a questo punto si è fatto avanti Filippo, offrendo i 3.500 scudi
fissati come prezzo dalla stima ufficiale. Un affare? La giustificazione, accettata
dal tribunale, della vendita è che il barone, che abita altrove, ha «riconosciuto
coll’esperienza la casa essere di difficile appigionamento [...] e che anche nel caso
che la medesima restasse appigionata, le pigioni di essa non potevano essere corrispondenti
al valore intrinseco della medesima». Avremmo bisogno di una perizia di Leonardo.
Forse vale più la posizione che non lo stabile; certo, nel momento stesso in cui lo
compra Filippo deve pianificare grandi lavori di ristrutturazione, e, mentre s’indebita
per l’acquisto, accendere anche un’ipoteca con l’impresa edile incaricata dei lavori.
Noi che abbiamo la penna in mano possiamo fare solo maliziose ipotesi circa l’esistenza
di qualcuno a stimolarlo, a togliergli ogni residuo di prudenza, di fronte all’asta
andata deserta: dopo tutto, ora non c’è più il palazzo di Canto al Nicchio dove abitare,
ed è impensabile che si torni in una delle case di via Mercanti come al tempo di Leonardo.
È vero che sembrerebbero meno urgenti gli altri, contemporanei lavori di ristrutturazione
nella villa di Caprona; e invece il 12 gennaio 1790 Filippo deve vendere una casa
che possiede, sempre in Caprona, «per erogare il prezzo di questa nel pagamento del
rialzamento e ingrandimento della di lui villa, posta in detto luogo». Il prezzo è
fissato a 600 scudi, ma in realtà ne arriveranno solo 200, perché quanto ai restanti
400 Filippo riconosce «aver tal somma già erogata nel pagamento dei muramenti e rialzamenti
fatti nella predetta di lui villa». Simili testimonianze sono il retroscena dell’immagine
felice che il pittore Antonio Niccolini, assunto per decorare la villa, ha tramandato
della vita della famiglia di Filippo a Caprona proprio in questi anni, coi suoi figli,
«giovanetti istituiti e vivacissimi, ma consapevoli di esser signori», che «se la
vedevano bene nelle piacevoli merende sul prato, nelle corse a cavallo e nella ginnastica».
In realtà la posizione economica di Filippo, già gravemente indebolita dalla divisione
del 1786, e non abbastanza risollevata – come vedremo – dalla porzione di eredità
dello zio Antonio Maria, si sta facendo sempre più precaria. Ha un patrimonio personale
separato dalla quota del fedecommesso familiare ottenuta nel 1786, e cioè il podere
detto ‘dei Pazzi’ acquisito al momento del matrimonio e alcuni beni a Livorno pervenutigli
attraverso quella zia Rosa, figlia di Leonardo, andata sposa al cavalier Pigliù. Ma
in assenza di altri investimenti davvero produttivi, le pur molteplici rendite di
cui gode non sono evidentemente sufficienti a reggere un’esposizione come quella per
il nuovo palazzo, la sua ristrutturazione, gli abbellimenti in villa, e le spese per
il tipo di vita richiesto in famiglia.
Certo è che nel corso degli anni Novanta Filippo entra nella classica spirale dei
debiti che producono debiti. Il 10 giugno 1792 paga il doppio d’interesse su di un
prestito di 700 scudi che avrebbe dovuto restituire tre anni prima. Nel chiedere,
il 15 agosto 1790, la proroga alla prestatrice Camilla Conti Orsetti di Lucca, ne
aveva così spiegato il motivo: «Acquistato posteriormente da me uno stabile sull’Arno
dalla parte di Mezzogiorno, e fatte in esso grosse spese di accrescimenti, sopra la
somma di piastre tremila, come potrà riscontrare o intendere da suoi corrispondenti,
mi hanno queste ridotto in qualche strettezza di denaro». C’è intorno a lui come un
affievolirsi di credito e fiducia: nel 1791 un uomo d’affari livornese gli chiede
di dar conto del suo bilancio prima di concedergli un prestito ipotecario: la replica,
in una lettera del 7 maggio, è quella di un uomo stizzito per la mancanza di rispetto:
«io non devo né voglio dimostrare il mio patrimonio, né dote ricevuta, perché non
si tratta per me di voler denaro a cambio, nel qual caso si potrebbero forse ricercare
queste notizie».
In tali preoccupanti frangenti Filippo non pare per altro capace di concentrarsi tutto
sui problemi della sua pencolante economia. Il 31 ottobre 1794, qualche mese dopo
il periodo della conversazione di Anna col tenente Giorgi, mostra solo un po’ di prudenza
nel metter fretta a un commerciante di Livorno per avere, «almeno prima delle feste
di Natale, cioè alla metà del prossimo Dicembre», una «bottoniera» da giubba: «voglio
saperne avanti la valuta in tutto, compreso porto, provisione etc. non volendo fare
una spesa eccedente in una cosa che sorte di moda». Poche settimane più tardi lo attende
un infortunio pubblico piuttosto clamoroso, presumibilmente legato a informazioni
negative sulla sua condizione privata: proposto dal Consiglio cittadino di Pisa come
unico candidato disponibile di quella che avrebbe dovuto essere una terna da sottoporre
al granduca Ferdinando III per la nomina del presidente delle Vettovaglie, viene ritenuto
inidoneo e cassato. Forse lo si prende un po’ sottogamba. Certo, il «cugino Puccini»,
un parente dello zio Antonio Maria, nel ricordargli il 13 agosto 1796 un piccolo debito
– ancora per guarnizioni e bottoniere – si permette delle battute che paiono mitigate
solo dal tono scherzoso e dall’uso di un «tu» che Filippo non si scambia neppure coi
fratelli: «Delle due prime partite ti rimetto le ricevute, ma delle due ultime non
è possibile. Con queste ricevute in mano non vorrei che ti avessi a buttare al cattivo,
e dire che mi hai pagato. Ricordati, che è erronea l’opinione di coloro, che han detto
esser l’istesso andare all’inferno per una bricconata, o per due. No signore, ti scalderai
un grado di più, se mi mangi questa somma, ed io non ti assolvo di certo».
Intanto la situazione sta di fatto precipitando. Il 6 giugno 1795 Filippo ha venduto
per 1.500 scudi un immobile a Livorno, ma i due terzi della somma il compratore, il
negoziante livornese Giovanni Giuseppe Cozzini, non li ha versati a lui bensì al cavalier
Francesco Giuliani, creditore di Filippo fin dall’acquisto del palazzo nel 1789. Due
mesi più tardi, il 4 agosto 1795, Pietro Mecocci ha ottenuto un’ipoteca a proprio
favore sui beni già Pigliù, pagando al posto di Filippo una serie di fatture di artigiani
per circa 200 scudi. Un’altra ipoteca verrà accesa a vantaggio del negoziante Michele
Saraff di Livorno in seguito a un suo prestito di circa 100 scudi fatto il 15 ottobre
1801. Infine, sintomo di una crisi ormai disperata, il 20 gennaio 1803 Filippo vende
al negoziante e banchiere livornese Giovanni Nicola Bertolli il podere dei Pazzi:
dei 13.000 scudi pattuiti come prezzo, Bertolli ne paga 1.020 ai Del Testa non ancora
saldati dal 1789, 2.371 ai pupilli Worms, 7.105 ai creditori dell’eredità Pigliù,
2.300 ad altri creditori vari di Filippo; quest’ultimo di fatto riscuote, dall’alienazione
di un bene importante come quel podere, appena 202 scudi, 5 lire, 4 soldi.
La lista dei debiti che un nobile alla moda in un’antica città come Pisa contrae fino
alla rovina coi mercanti di una nuova piazza d’affari come Livorno porta inevitabilmente
a marcare i contorni di una vicenda esemplare: il denaro sconfigge la genealogia,
e l’attività lo spreco. D’altra parte, a prescindere dal grado di responsabilità della
brillante ed esigente Anna nella vicenda, la vita di suo marito dopo la divisione
del 1786 sembra davvero un’inconsulta corsa verso l’abisso. La sua stessa fine induce
alla retorica della simbologia sul pozzo senza fondo che è stato il palazzo di Lungarno:
Filippo è morto, a meno di sessant’anni, il 15 maggio 1804, cadendo da un’impalcatura
dei lavori di abbellimento ancora in corso dal 1789.
A questo punto il disastro si rivela inarrestabile; il patrimonio è in mano ai creditori,
ed è nel loro interesse che il tribunale del commissariato lo amministra, sbrigando
fra l’altro la questione del palazzo, che viene venduto il 21 febbraio 1807. Per i
figli di Filippo si apre un periodo difficilissimo, dal quale saprà uscire soprattutto
il maggiore, ma a prezzo di una scelta radicale che vedremo più avanti. Intanto, possiamo
chiudere il racconto di questa triste vicenda registrandone le conseguenze su Anna.
L’antica appassionata di mondanità si trova, dopo la morte di Filippo, a combattere
per salvare la propria dote, e con una parte di questa cercare di riscattare dal tribunale
qualche «roba per suo uso». La lista, in una copia del 4 marzo 1806, è una specie
di contrappasso di quella dei vestiti e gioielli avuti in dono dalla donna a vent’anni
nell’entrare in casa del marito. Anna recupera un servizio d’argento da più di 100
scudi, e poco altro di valore, ma per il resto gli oggetti sono così indicati: «una
tazza da brodo con piatto di porcellana, lire 3»; «un lavamano di ferro con catinella
di terra e brocca d’ottone, lire 6»; «uno scaldaletto di rame, lire 3»; «un trabiccolo
con padella di rame, lire 1»; «una padellina da caffè, lire 1»; «una gabbia piccola
da uccelli, lire 0. 6. 8».
Lussorio
Il cadetto ribelle
Quando penso alle infinite coglionerie degl’uomini, o per dir meglio viventi, mi scappan
le risa per la vanità e contradizione delle medesime, et io che sono un essere della
specie umana ho avuto, ho, ed avrò le mie. Per esempio. Ho fatto il medico, il pittore,
il commissario delli spedali, l’architetto, lo scultore, l’ingegnere, il Merda anzi
Maire, ora non lo so neppur io, e forse forse verrà qualche cosa altro in appresso,
dunque potete credere se rido anche di me stesso.
Riconosciamo il linguaggio sciolto e pungente di Lussorio; e torniamo a occuparci
del grande protagonista della lite in famiglia – ora grande assente dalla vicenda
della rovina del fratello – e delle ragioni di tale assenza, cercando di conoscere
un po’ meglio l’uomo che ci si è presentato finora solo come un cognato sprezzante.
L’efficace autoritratto appena citato precede, in una ironica e quasi irridente lettera
dell’8 novembre 1816, il ritratto del destinatario, il nipote Antonio, il figlio maggiore
di Filippo, il ragazzino una volta compianto per esser partito per Caprona con la
testa rotta, e ora uomo non più amato né stimato dallo zio. Lussorio, ormai sessantasettenne,
si conferma sempre un tipo spiritoso, spigoloso, schiettamente anticonformista; resta,
quel che è stato, unico nella sua famiglia, un intellettuale. È stato anche, di sicuro,
un uomo molto intelligente. Lo ammette, anzi in un certo senso lo rimprovera, lo stesso
nipote Antonio, che qualche anno prima, il 28 novembre 1805, ha scritto a suo fratello:
«Se non conto del signor zio Lussorio sul cuore, che serpi straniere potrebbero avvelenare,
riposo però sulla testa, alla quale niuno può far da maestro».
Una caratterizzazione di Lussorio tutta in chiave psicologica potrebbe fuorviarci;
ma si può azzardare, anche per lui, una definizione storica della sua personalità.
Ha fatto in tempo a partecipare, nella seconda parte della sua vita, ai grandi rivolgimenti
a cavallo dei due secoli. Non è stato di certo un entusiasta delle novità politiche,
ma non si è neppure ritirato nell’ostinata chiusura del codino, tanto che ha anche
fatto il sindaco – il «merda», come dice lui storpiando la parola francese – della
comunità di S. Giuliano, oltre che il membro di varie commissioni in età napoleonica.
Ha osservato e giudicato il mondo con la libertà di un uomo dei Lumi, ma in tutti
e tre i suoi testamenti ha rivendicato con un puntiglio ostentatamente polemico la
sua fede di «cattolico, apostolico, romano». E davvero la sua parola sempre acuta,
talora tagliente, ma mai solo verso gli altri, ha nei momenti migliori qualche felicità
di tratto da illuminista cristiano.
È anche vero che Lussorio è stato, come ricorda lui stesso prendendosi in giro in
quella specie di autoritratto, un uomo interessante per complessità di formazione
e molteplicità di competenze. Medico, ha fatto per un decennio a partire dal 1784
l’amministratore pubblico in un incarico importantissimo nella vita cittadina come
il Commissariato degli ospedali riuniti: a questa funzione si riferiva il giudizio
lusinghiero di Pietro Leopoldo letto sopra. E come dilettante, ha avuto un ruolo
di primo piano nell’arte figurativa pisana di fine Settecento: sia dipingendo le copie,
poi donate al convento dei Cappuccini, dei famosi «quadroni» del Duomo; sia soprintendendo
durante molti anni tanto per il Comune che per l’Opera del Duomo a lavori di pittura,
scultura e architettura.
Lussorio è stato dunque un uomo pieno di qualità e risorse, e come tale particolarmente
adatto a mettere in pratica la protesta di Beccaria contro il sacrificio dei diritti
individuali al preteso bene di famiglia, adatto a ribellarsi alla prospettiva di vivere
come uno degli ottantamila schiavi al servizio di uno dei ventimila padroni quale
suo fratello Filippo. A questo proposito, disponiamo di un documento di grande valore
della presa di coscienza di Lussorio, un documento capace fra l’altro di metterlo
a ravvicinato confronto con un personaggio di tempra paragonabile alla sua ma di ideologia
diversa, il nonno Leonardo, proprio il fondatore del casato e della sua logica fidecommissaria
e sovraindividuale. Si tratta di un libro scritto, anzi in gran parte scritto, da
Lussorio, lo stesso dove si trovano le sue annotazioni contro la cognata, e che è
in realtà l’ultimo dei libri di Leonardo, quello – si ricorderà – appena cominciato
da lui poco prima di morire, e poi continuato senza troppo impegno da Giovanni Battista.
Alla morte di questi, trent’anni più tardi, all’inizio del 1772, il libro è ancora
quasi tutto bianco, e nei successivi cinque anni Filippo ne riempie solo quattro carte.
È proprio Lussorio che il 5 giugno 1777, un qualche tempo dopo il ritorno dai suoi
studi a Bologna, si preoccupa di riprenderlo in mano e di ricominciare a compilarlo.
La sua prima annotazione va letta per intero, perché esprime un programma sorprendente:
Essendoché per poltroneria, sbadataggine, per poca premura di noi altri quattro scapati
fratelli Bracci figli del fu signor Gio. Battista del quondam Leonardo di Filippo
di Onofrio d’altro Onofrio di Zanobi di Gio. Batta di Marco Bracci coll’aggiunta de
Cambini cittadino fiorentino e pisano fosse stato abbandonato il seguito dei presenti
Ricordi con tanta esattezza tenuto dai nostri preteriti genitori, quindi è che reflettendo
io seriamente a cotal mancanza fu stabilito dal cavaliere Filippo e Lussorio Bracci
come commoranti in Pisa proseguire in opera sì bella, utile, e interessante, sì per
noi che per quelli che verranno dopo di noi. E qualora qualche cosa dallo scrivente
non fosse notato non si attribuisca a mancanza, ma a memoria debole, giacché tutti
siamo omini; come pure se non fosse notato con quella precisione e esattezza necessaria.
Il tutto a maggior gloria di Dio, della Madonna, e di S. Pasquale Ammen.
È evidente che una simile registrazione d’apertura contiene un calco dei titoli dati
da Leonardo ai suoi libri, fra cui questo stesso. Ma non si può considerare la prova
di una qualche disponibilità di Lussorio a porsi nello spirito dei ricordi familiari.
Infatti già la registrazione immediatamente successiva parla un linguaggio diverso,
e proprio sul tema della solidarietà all’interno del casato: «In questo giorno si
attendevano l’illustrissimi signori cavaliere Francesco Ruschi, Gherardo Silvatici,
avvocato Tilli, dai respettivi individui Bracci eletti in qualità di giudici compromissari
per l’accomodamento delli interessi fra noi vertenti, per fare una delle solite inconcludenti
cicalate, ma non si sono visti fino al presente, che sono ore cinque e minuti ventitre
pomeridiane alla francese, sicché non si aspettano per ora più. Ammen». Del resto
sappiamo che a questa data la procedura di spartizione patrimoniale è già avviata
da tempo, benché – come si vede – con i più vari intralci.
L’interesse speciale del libro, o meglio della parte di libro di Lussorio sta appunto
nel suo carattere paradossale, del resto molto ben corrispondente all’indole del suo
autore: il carattere di un testo che nella struttura e confezione esteriore rimane
tributario dell’antico genere dei libri di ricordi, ma che nella vecchia forma introduce
contenuti nuovi, assai lontani dal mondo di Leonardo e dei mercanti scrittori del
Medioevo comunale. Il tratto di novità più facilmente riconoscibile è la forte personalizzazione
delle reazioni agli eventi quotidiani, favorita dalla singolare capacità di Lussorio
di essere poco accomodante verso il prossimo. Ecco il ricordo che segue quello sul
mancato arrivo degli arbitri: «Nella sudetta giornata e ora ho fatto mettere da Tiburzio
e Gio. nostri servitori la persiana alla finestra del mio gabinetto per ripararmi
se sarà possibile dal caldo che io soffro moltissimo. Notisi di più che sono stati
un’ora a metterla su non essendo capaci, e poi me l’hanno messa su senza spolverare».
Ed eccone un altro poco oltre: «Stante la frequenza grande delle nostre donne di servizio
di portarsi in cucina si è stabilito per ovviare a questo sconcerto e perché lavorino
un tantino più che paghino al cuoco un quattrino ogni volta che ci anderanno fuor
di proposito, ed il prognostico dello scrivente è che in pochissimi giorni si sculacceranno
così malamente il loro respettivo salario e così sia».
Anche Leonardo era stato un osservatore implacabile e critico intollerante delle imperfezioni
del mondo, e del resto la simile pazienza nel tenere ricordi presuppone qualche aspetto
comune nei rispettivi caratteri; ma l’attitudine dei due uomini è stata diversa col
mutare delle condizioni storiche in cui hanno vissuto. Le reazioni più risentite di
Leonardo sono pur sempre quelle del vigile custode di un interesse non solo personale,
e si appuntano contro le minacce all’economia morale della casa. Lussorio, che fra
l’altro quasi smette di tenere veri e propri conti, rafforza attraverso le vicissitudini
dei conflitti col fratello e la cognata il suo spirito d’indipendenza e la sua propensione
all’individualismo, se non addirittura all’isolamento. Anche fisicamente, il palazzo
di Canto al Nicchio permette certo quelle occasioni di appartarsi nel raccoglimento
privato che erano forse difficili nella casa/negozio di via Mercanti; e le annotazioni
del giovane uomo lo mostrano sempre più spesso chiuso nel suo studio d’artista, il
gabinetto già afoso ai primi di giugno, a disegnare, a dipingere, a rimuginare.
In quest’oggi – è, come esempio, la registrazione del 10 agosto 1777 – alle ore 5
e 1/2 dopo mezo giorno, essendo io nella mia camera dove dipingo ad armeggiare intorno
ad una cornice, inciampato in un tavolino nel tempo che volevo aprire la cassetta
del medesimo, per mia somma disgrazia è cascato il mio ritratto di terra cotta fatto
da me in Bologna ed è andato in cento ventotto pezzi, la maggior parte minutissimi.
Farò il possibile di rimetterlo insieme per lasciare ai miei posteri il busto del
più disgraziato uomo del mondo, che potranno conoscere per esser somigliantissimo
in tutto e per tutto.
La stesura stessa degli appunti di Lussorio forza dall’interno l’ordine mercantile
del classico libro di ricordi, per corrispondere alle tempeste degli umori inaspriti
da una convivenza familiare infelice. I giudizi contro Anna riportati più sopra sono
fra le annotazioni più chiare e distese. Spesso le carte appaiono invece vergate in
modo tumultuoso, con cancellature nervose e spazi lasciati bianchi. È il caso del
giuramento fatto a se stesso il 22 luglio 1777: «conoscendo che... Dopo aver provato
in casa per tutti i versi mille ingiuste amarezze e angherie, giuro e intendo giurare
avanti l’Onnipotente Dio che mi vede, e che ho qui presente di... chiamando la maledizione
di Dio sopra di me e in punto di morte in caso che manchi a quanto... in contrassegno
di che ho fatto di mia mano tre croci in piè del presente † † † Sic me Deus adjuvet».
Anche il linguaggio crudo che, come abbiamo già visto, corre facilmente dalla penna
di Lussorio è un elemento difficilmente compatibile con l’idea – che pure ogni tanto
rispunta fuori per inerzia – dei ricordi quale libro di memoria e di esempio per le
generazioni future, mentre pare meglio funzionare ad uso di sfogo personale. Ecco
l’appunto subito a seguito del giuramento: «Dopo aver fatto mille gite e complimenti
a vari mi son fatto aver in culo da quelli che pagavano». Il giorno 7 giugno 1778
scrive: «In tal giornata si fà ricordo qualmente ho mandato a farsi ben ben ben ben
buggerare il signor [manca] per giuste ragioni ammen». Effetti dei bagni a San Giuliano,
venti giorni più tardi: «A dì 27 Giugno questa sera a ore ventitre sono ritornato
dai Bagni ove ero andato per sospetto di rogna, e non ho avuto nulla bene. Si fa ricordo
come sono andato sano sanissimo, e sono tornato pieno di cancheri e di malanni, e
fino col culo rotto perché presi la doccia perché mi roppe le moroidi, e feci non
indifferente perdita di sangue a segno che mi cagionò uno svenimento; perciò si fa
ricordo a quelli che verranno di non medicarsi quando sono sani, perché non li succeda
come a me».
Simili disinvolte espressioni testimoniano, in questo caso, una personalità spiccata,
non certo un animo volgare. Lo dimostra un più lungo ricordo, che va letto non solo
per la pausa di delicatezza che apre nel libro, ma anche perché è il più esplicitamente
rivelatore di una novità decisiva nell’ideologia familiare di Lussorio. Registra,
sotto il 26 gennaio 1779, la morte della moglie di Pietro Ruschi:
Si fa ricordo come Domenica sera giorno del dì 24 corrente essendo io al teatro mi
fu data la nuova trovarsi la signora Maria Maddalena Ruschi nata Roncioni nostra cugina
aggravata più del solito da un fiero raffreddore, che in appresso si manifestò per
mal di petto. Io mi portai a vederla subito unitamente al signor dottore Tommasini
medico, e cerusigo signor Giuseppe Abati, e la trovammo in critiche circostanze di
salute, onde la feci munire di tutti i sacramenti della Chiesa, et in appresso alle
ore una meno cinque minuti dopo mezo giorno passò al altro mondo. La sudetta signora
Maddalena assistei io in persona sempre fino all’ultimo respiro, e rimasi edificatissimo
della medesima, che stette fino all’ultimo momento in sé facendo sempre atti di pietà
e di contrizione, e soffrendo tutti i suoi incomodi con una rassegnazione, ilarità,
e costanza di animo singolare. Volle vedere tutti e a tutti chiese perdono. In somma
morì da cristiana vera, a segno che più e più volte fece piangere tutti quelli che
erano presenti. Era gravida di mesi sette: alle ore tre e tre quarti dopo meza notte
partorì una femmina quale ebbe l’acqua battesimale sub condizione che fosse viva,
mentre parve alla balia di sentir battere il cuore; in sostanza ne siamo incerti.
Io visitai subito la ragaza quale era morta assolutamente, di un color livido scuro,
lo che mi fece giudicare unitamente ad altri segni che fosse morta del giorno avanti.
Iddio sia quello che abbia avuto l’anima della madre e della figliola. Questa morte
è rincresciuta a tutta la città per esser una dama di ottimi costumi, giovine e bella.
Da un mio scuolare per nome Giovacchino Volpi ne è stata cavata la maschera in mia
presenza, e l’ho appresso di me. Questo ricordo sebbene poco appartenga alle cose
di casa mia, tutta volta siccome è stata una cosa per me sensibilissima ne ho voluto
prender memoria. Non ha fatto testamento, ma ha detto confidenzialmente al suo marito
la sua volontà che è: a lui medesimo cioè a Pietro Ruschi suo marito la sua rosetta
benedetta ed una scritta di cambio di scudi 500. Al figlio maggiore una scritta di
cambio di scudi 100. Alla femmina maggiore sei spilloni di brillanti da testa. Alla
più piccola un coliè di rubini e più alcuni smanigli di granati. Alla signora Laura
sua socera il finimento delle cocche. Alla servitù un zecchino a testa. Non ho mai
veduto un volto sì bianco e sì bello dopo che fu morta come era lei. Lussorio Bracci.
La struttura di questo ricordo resta la stessa dei molti scritti da Leonardo in occasione
delle morti che lo hanno toccato: nella prima parte racconto dell’agonia, nella seconda
ritratto del defunto. Eppure c’è proprio qui la testimonianza chiara di una mentalità
diversa. Innanzi tutto in un tono complessivamente più sentimentale, che per altro
non va frainteso constatando la presenza quasi da protagonista che ha Lussorio nell’episodio:
non bisogna dimenticare che era un medico, presumibilmente l’unico parente medico
della malata. In secondo luogo nell’inaudito rilievo dato a una donna in realtà non
strettamente legata alla famiglia – la moglie di un secondo cugino –, ma evidentemente
ammirata e quasi messa implicitamente a confronto con l’insopportabile cognata presente
in casa. Lussorio è ben consapevole della novità del fatto: «Questo ricordo sebbene
poco appartenga alle cose di casa mia, tutta volta siccome è stata una cosa per me
sensibilissima ne ho voluto prender memoria». Ed enfatizza ancor di più il carattere
individuale di questo atteggiamento con la scelta, davvero singolare, di firmare il
ricordo: «Lussorio Bracci».
La differenza fra Leonardo e Lussorio, nonno e nipote, non è dunque di capacità di
sviluppare una propria personalità spiccata – abbiamo visto che quella di Leonardo
è stata spiccatissima – ma di valutazione d’importanza rispettiva nel rapporto fra
individuo e casato. Le «cose di casa» non sono più il centro del mondo. Condizioni
generali ed esperienze specifiche hanno condotto Lussorio a uscire dalla logica di
collaborazione che ha mosso a lungo lo zio Antonio Maria, a rifiutare in partenza
i limiti del ruolo di cadetto votato al celibato per il bene di famiglia. E proprio
il progetto di continuazione del libro di ricordi ha finito col mettere nella massima
evidenza il suo diverso atteggiamento. Dopo aver registrato con asprezza tutte le
tensioni del contrasto in corso, il libro s’interrompe nel 1785, alla vigilia della
conclusione della procedura di divisione patrimoniale, per riprendere nel 1790, quando
Lussorio – lo vedremo fra poco – vive ormai in una sua nuova famiglia. Di questa seconda
fase restano scritte solo alcune carte, tutte di minuti appunti pratici con una sola
grande eccezione: il ricordo della nascita, e morte dopo un solo mese di vita, di
un bambino:
A dì 19 Marzo 1792. In quest’oggi a ore cinque pomeridiane la mia amatissima consorte
Teresa dette alla luce un figlio maschio dopo aver alcun poco sofferto. Accoglitrice
fu Angiola Noferi detta la Buciognia, ad assisterla ci era la signora Lucrezia Cosi
sua madre e mia suocera, e le nostre donne di casa cioè Appollonia Fondelli, e Ottavia
Pelosi.
A dì 20 Marzo detto. In questa mattina alle ore dieci in punto è stato privatamente
battezzato il detto nostro figlio dal canonico Cosi zio di detta Teresa mia consorte,
e li è stato imposto i nomi di Giovanni Battista Giuseppe Vincenzo [corroso] Gaetano
Raffaele; compare Giuseppe Filidei di Peccioli che trovossi a caso verso S. Giovanni,
non avendo per tormi d’impegno e di etichetta voluto far veruno compare nobile.
A dì 30 Marzo. In questa mattina è venuto il dottore Cappucci per medicare la mia
cara consorte attaccata da un mal acuto.
Aprile. A dì 14 detto. In questa sera a ore 24 1/2 dopo una dolorosa malattia di convulsioni
e d’infiammazzione d’intestini è passato all’altra vita il mio carissimo figlio Giovanni
Battista Giuseppe lasciandomi nel maggior dolore. Dominus dedit, Dominus astulit,
sit nomen Domini benedictus.
A dì 15 Aprile. In questa sera a ore una dopo le ventiquattro è stato tumulato nel
Campo Santo fuori di Porta a Lucca il mio carissimo figlio dopo essere stato esposto
in sala terrena del mio quartiere tutto il giorno. Fu accompagnato fino alla chiesa
con dodici chierici e curato Frassi in S. Apollonia nostra cura con tutti gli onori,
e in appresso con due servitori in livrea e torcia a vento accompagnato al sudetto
Campo Santo, et è sepolto a mano dritta dall’ingresso nel primo quadro di detto Campo
Santo, e precisamente accanto alla fossa dello stradone di mezzo circa la metà. Preghi
Iddio per i suoi genitori.
Il piccolo Giovanni Battista è morto dopo le riforme di Pietro Leopoldo sulle sepolture,
che impongono – come si vede – cimiteri extraurbani, trasporti notturni e tombe quasi
anonime: l’austero trionfo della religiosità illuministica sulla scenografia barocca
della pietà funeraria. È una cornice adeguata alla sobrietà asciutta fino alla secchezza
dell’annotazione di suo padre, che conferma ancora una volta come un sentimento doloroso
non necessariamente si esprima in sonorità roboanti. Dalla lettera di Lussorio a suo
nipote citata sopra sappiamo che questo bambino non è stato l’unico suo: ne ha avuto
almeno un altro (o un’altra), non sopravvissuto. In ogni modo, dopo la sua morte,
il padre ha riempito ancora poco più di una carta del libro, lasciando in bianco il
resto. Una caratteristica saliente dei ricordi familiari della tradizione era di continuare,
almeno in linea di tendenza, senza fine; ma dopo aver perso il suo Giovanni Battista,
Lussorio non ha più motivo di concepire una continuità di famiglia più ampia dell’unità
domestica che si è costruito con la sua scelta individuale.
Il matrimonio come scelta
La sua privata unità domestica Lussorio l’ha appunto costruita nel corso del quinquennio
corrispondente alla prima interruzione del libro di ricordi, sposandosi nel 1789 con
Teresa, figlia del patrizio pisano, e fra l’altro suo collega nelle consulenze artistiche
cittadine, Giovan Vincenzo Cosi del Vollia. Lussorio è allora ancora relativamente
giovane, 40 anni, e Teresa ne ha solo 22: gli sposi possono dunque ragionevolmente
pensare – e del resto ne abbiamo appena avuto conferma – di avere figli. Si tratta
perciò di un matrimonio ben diverso da quello concluso a suo tempo da un altro cadetto
di famiglia, lo zio Antonio Maria, senza davvero mettere in discussione il suo destino
di celibe. Per Lussorio è invece una decisione grave, e gravida potenzialmente di
conseguenze; e il modo in cui ci è arrivato ne mette ancor più in luce il carattere
di scelta di vita.
Nella vicenda ha avuto ancora una volta un ruolo importante proprio lo zio. Il 27
dicembre 1783, quando nella lite patrimoniale ha ormai preso le parti di Lussorio
contro Filippo, Antonio Maria fa testamento. Non interviene sui beni fidecommissari
di famiglia, a proposito dei quali non solo pende la divisione privata, ma si sta
anche evolvendo la legislazione pubblica; lascia a Filippo i propri beni liberi ereditati
dal padre e dalla madre, che devono essere pochissima cosa; e assegna al solo Lussorio
i «beni, crediti di qualunque sorte, e denari contanti [...] acquistati con le sue
onorate fatiche, et impieghi sostenuti». Si tratta certamente di un boccone molto
più ghiotto, a tal punto che l’antico campione del superiore interesse del casato,
e dunque dei primogeniti, sente il bisogno di giustificare come se fosse una stranezza
la propria deliberazione:
E dichiara esso signor testatore, che in tanto è proceduto alle presenti sue disposizioni
in modo più favorevole al nominato signor Lussorio, in quanto che ha considerato e
riguardato il medesimo assai più ristretto d’assegnamenti patrimoniali, quando all’opposto
il nominato signor cavalier Filippo è bastantemente provveduto non solo d’assegnamenti
patrimoniali, ma ancora d’assegnamenti estranei, onde il medesimo signor Lussorio
aveva et ha maggior bisogno d’ajuto per potersi decorosamente e secondo il suo grado
mantenere, e perché così ad esso signor testatore è piaciuto e piace di fare.
Naturalmente a questa data lo zio può difficilmente prevedere che gli «assegnamenti
estranei» di Filippo non saranno sufficienti a evitarne la rovina: resta il fatto
che nella logica del bene di famiglia gli ha riservato un trattamento così negativo
da spiegarsi solo con l’avversione maturata per lui (e per la moglie) nel corso delle
ultime discussioni. Non è comunque tutto qui. Un anno più tardi, il 23 dicembre 1784,
Antonio Maria prende una nuova decisione, che vuole anticipare gli effetti della sua
volontà. Grazie alle ricchezze «che ha creato ed accumulato – come dice il documento
notarile – in proprio con la sua industria e con i suoi impieghi personali, independentemente
dal patrimonio lasciatoli dal fu nobile signore Leonardo Bracci Cambini di lui padre»,
dona a Lussorio investimenti fruttiferi pari a un capitale di oltre 15.200 scudi –
una somma ingente per la loro famiglia – e alla bella rendita annua di circa 800;
insomma già prima di morire lascia al nipote preferito quel che aveva previsto nel
testamento. La donazione ha due condizioni principali: che Lussorio mantenga in casa
con tutto il dovuto decoro e affetto il vecchio zio; e che si sposi, visto che ha
intenzione di prender moglie, con una «dama quartata», perché se si sposerà diversamente
dovrà versare metà della rendita al fratello Filippo.
L’insieme dell’atto richiede – per quanto lo si sia qui un poco semplificato – qualche
spiegazione. Dama quartata significa una donna coi quattro quarti di nobiltà, cioè
coi quattro nonni tutti nobili. Nel momento in cui Antonio Maria dà a Lussorio i mezzi
per sposarsi, e così, dal punto di vista del casato, di tradire il suo ruolo di cadetto,
gli prescrive comunque un’opzione non dannosa per il lustro di quello. Ma non basta:
a fine 1784 il giovane uomo, che è da tempo in rapporti con Vincenzo Cosi, sta già
pensando al matrimonio con la sua figlia quasi diciottenne, la quale è nobile, ma
non perfettamente «quartata». Dunque lo zio opera in realtà per evitare il matrimonio
di Lussorio, e ciò è confermato dal suo ultimo testamento, fatto il 27 dicembre 1787,
poco prima di morire. Antonio Maria vi ribadisce la donazione a Lussorio, che anzi
rimpingua di un nuovo credito di 1.000 scudi, e ne addolcisce, ma solo apparentemente,
le condizioni, prevedendo che i quattro quarti di nobiltà possano essere sostituiti
da un patrimonio di 30.000 scudi, una somma da cui Teresa Cosi è lontanissima. A scanso
di equivoci, chiarisce comunque in questa estrema occasione nel modo più esplicito
le intenzioni sottese alla donazione per Lussorio: «Avendo inteso fin d’allora di
concedergliela come parte di sua eredità, giammai per obbligarlo a prender moglie,
anzi più volte l’ha consigliato ed ora nuovamente lo consiglia a non prenderla, per
il giusto motivo che il signore cavaliere Filippo suo maggior fratello già l’aveva
con più cinque figlioli».
Con questa finale presa di posizione – sarebbe morto di lì a poco, nel febbraio 1788
– il galante assennato d’un tempo, il prudente seguace della conversazione onesta,
chiude con coerenza il suo ormai lungo percorso di vita. L’effetto combinato della
penalizzazione individuale di Filippo e dell’(auspicato) impedimento alla discendenza
di Lussorio è di favorire Lussorio e i già esistenti figli maschi di Filippo. Certo,
l’espressione di una tale volontà appare tortuosa, ma solo alla forma democratica
della nostra mente. Dal suo punto di vista, Antonio Maria non ha fatto che adattare
alla contingenza presente le sue non rinnegate convinzioni. Ha saltato una generazione,
ma ha riaffermato il bene di famiglia, incarnato nei suoi maggiori e capi, come valore
superiore. Ha cercato, in un’età ormai poco propizia sotto il profilo del diritto,
di realizzare di fatto un fedecommesso, affidandosi a tale scopo alla solidarietà
del nuovo cadetto, cui ha rivolto un appello vibrante, e alquanto ricattatorio, al
celibato.
Di fronte a tutto questo, la passione di Lussorio per il matrimonio è un dato che
sta ben fermo, pur nell’impossibilità di misurare nei termini dell’attrazione erotica
la portata della sua passione per una donna. Rinunciando, almeno in linea di principio
e salvi possibili ricorsi legali, a una parte consistente delle sue rendite, egli
ha infatti concluso, nel 1789, le nozze con Teresa Cosi. C’è da aggiungere che anche
sul versante dei nuovi parenti Lussorio non fa un grande acquisto sotto il profilo
economico: per pagargli solo una prima porzione della dote di 3.300 scudi il suocero
deve infatti imbarcarsi in una cessione in affitto delle sue terre, poi rivelatasi
l’inizio di gravi difficoltà patrimoniali. Queste scarne notizie sull’unione con Teresa
non valgono – sia ben chiaro – a imbastire il romanzo dell’amore che sconfigge il
denaro, ma a corroborare l’impressione di una netta volontà di Lussorio di costruirsi
una vita privata incompatibile con quel celibato – celibato in senso più o meno proprio
– suggerito dalle esortazioni e dall’esempio di suo zio.
Il grande scrittore francese Stendhal ha affermato più volte che è stato Napoleone
a imporre agli Italiani la fine dei cicisbei e la nuova pratica dei matrimoni fondati
sull’intimità domestica e coniugale. Dopo aver conosciuto qualche aspetto del carattere
e delle qualità di Lussorio, non ci meravigliamo che egli sia stato fra quelli che
hanno avuto abbastanza personalità per anticipare almeno un poco i tempi.
Il ripudio del casato
Della vita coniugale con Teresa sappiamo, salvo l’episodio della morte del bambino,
solo ciò che trapela dalle parole di Lussorio nei suoi testamenti. Non sono proprio
le fonti più adatte a documentare reazioni spontanee e a fornire informazioni spregiudicate;
ma in questo caso la pignoleria dell’interessato le rende abbastanza eloquenti. Lussorio
ha fatto testamento tre volte: il 2 maggio 1806, il 31 maggio 1816, il 18 luglio 1816.
A quest’ultimo atto ha inoltre aggiunto dei codicilli il 31 dicembre 1818, tre giorni
prima di morire. La pluralità degli interventi non dipende da significativi cambiamenti
di atteggiamento, ma anzi dal desiderio di garantire sempre meglio il futuro vedovile
di Teresa. Nello spiegare, in tutti e tre i testamenti e con le stesse frasi, i motivi
della propria sollecitudine nei suoi confronti, Lussorio non si limita alle poche
stereotipe parole, consuete in questi casi, di apprezzamento per la cara e buona moglie,
ma si diffonde assai più a lungo. Dopo aver dichiarato la propria fede cattolica,
e chiesto di essere sepolto accanto ai figli, ora trasferiti – mutate le leggi – nel
convento dei Cappuccini, l’occasione per parlare di Teresa è nella rubrica circa l’organizzazione
del funerale. Eccola nella versione dell’ultimo testamento:
In quanto poi al mortorio e suffragj, se ne rimette in tutto e per tutto alla singolar
pietà della sua amatissima e dilettissima consorte signora Teresa Cosi del Vollia,
con l’assistenza e consiglio dei signori esecutori testamentarj che nominerà in appresso,
ben persuaso e sicuro che la medesima, avendoli sempre in ogni occasione e tempo dimostrato
in vita il suo più tenero, sincero, e conjugale affetto, non vorrà toglierglielo in
questa per lei dolorosa e premurosa circostanza; bene inteso per altro che ciò sia
senza alcun fasto, senza funebre lusso, che espressamente proibisce, ma nella maniera
più umile, insinuandole piuttosto a elargire con qualche elemosina ai veri poveri
della sua cura, per quello che le circostanze economiche ristrette del suo patrimonio
le permettino. Incarica poi ancora la sua consorte di fare apporre sul di lui cadavere
e nella muraglia una lapida di marmo con quella decenza che conviene alla famiglia,
sempre però senza lusso e senza fasto, e con la sua memoria, nella quale venga espresso
l’affetto, l’unione e la vera pace colla quale ha sempre secolei convivuto, gl’impieghi,
cariche da lui sostenute, la sua disposizione e volontà, per quanto glielo hanno permesso
le sue forze, di assistere le arti e le manifatture. E ciò non per una vana e mondana
pompa, che si protesta aborrire, ma unicamente per richiamare alla memoria dei conjugati
il preciso dovere che gli corre di sempre amarsi di cuore reciprocamente, d’insinuare
ai suoi concittadini di ajutare i poveri manifattori, che attingono la loro giornaliera
sussistenza dalle loro onorate fatiche, quanto ancora per ottenere dai fedeli cristiani
che in tutte le occasioni concorreranno alla suddetta chiesa e convento qualche suffragio
all’anima sua.
Sullo sfondo di una filantropia sociale esibita ormai con gli accenti del paternalismo
ottocentesco, la vita privata si disegna qui, in maniera altrettanto moderna, come
il rifugio intimo e quieto della pace domestica, assicurato da una donna affettuosa
e tranquilla, e solo per un tragico destino non allietato anche in questo caso da
figli amati e seguiti con attenzione. Un testamento non è la sede per descrizioni
diffuse dei viventi. Delle individuali caratteristiche della compagna, per trent’anni,
di questo suo progetto di vita, Lussorio non ci dice nulla. Tuttavia la buona riuscita
di lei nella parte di moglie appare chiara, forse anche per tacito contrasto con un
antico fantasma negativo di devastatrice della convivenza familiare. Nell’implicito
confronto/contrapposizione fra Anna e Teresa si dev’esser confermato in Lussorio,
e con la forza di un modello da proporre, il suo ideale di matrimonio se non proprio
russoviano, distante però dall’unione superficiale e disinvolta, e tutta proiettata
verso la società mondana, di tante coppie dell’età della conversazione.
Tale nuovo ideale coniugale e familiare ha influito in misura rilevante nelle decisioni
di Lussorio circa la destinazione del suo patrimonio. Non si tratta di decisioni rivoluzionarie;
ma per non sottovalutarle bisogna ricordare che il loro contesto è pur sempre quello
di un ceto sociale privilegiato in una regione di fortissima tradizione maschilista
in materia ereditaria. Converrà anche richiamare il caso dell’avo Leonardo, altro
cadetto ribelle, ma con lo scopo di ergersi lui a fondatore di casato; il nipote è
un cadetto ribelle che opera invece un sostanziale ripudio del casato.
A parte le evenienze ipotetiche previste per cautela dai notai, che complicano il
quadro senza modificarlo sostanzialmente, nel fare testamento, Lussorio considera
in concreto da una parte la moglie Teresa Cosi, dall’altra i due figli maschi – Antonio
e Carlo – del suo fratello maggiore Filippo. La tradizione toscana, tutta agnatizia,
cioè favorevole ai parenti maschi dello stesso cognome, ispirerebbe in un caso come
questo di lasciare alla moglie non più di una somma pari alla porzione di dote da
lei versata, magari con l’aggiunta di un piccolo usufrutto come attestato d’affetto.
Qui in ispecie poi ci sarebbe da tener conto dell’emergenza critica in cui si trova
il gruppo agnatizio, i due nipoti soli potenziali perpetuatori del nome del casato,
che sono assediati dalle difficoltà della liquidazione dei debiti del padre. Lo zio,
pur non avendo figli, ne ha tenuto solo parziale conto. Nell’atto del 1806, prima
del periodo di diretto dominio francese in Toscana, ha inserito, in forza di una speciale
concessione di Maria Luigia di Borbone reggente d’Etruria, una clausola particolarmente
vantaggiosa per Teresa, nominata, a parte la restituzione della dote, per una quota
erede e per l’altra usufruttuaria del patrimonio «libero» di Lussorio, cioè non costituito
sui vecchi fedecommessi di famiglia.
Il decennio successivo è pieno di grandi eventi e rivolgimenti. I Francesi portano
anche in Toscana il Codice civile napoleonico, che spazza via i fedecommessi e attacca
a fondo la logica nobiliare del ‘bene di famiglia’. Ma presto tornano, con la Restaurazione
e il granduca, la vecchia legislazione e la vecchia mentalità di stampo agnatizio.
C’è però un’importante novità: tecnicamente il granduca non ripristina i fedecommessi.
Dunque, per esempio, Lussorio dal punto di vista strettamente legale può considerare
tutti i propri beni ugualmente liberi. D’altra parte l’Editto successorio emanato
il 18 agosto 1814 – relativo alle successioni senza testamento, ma ovviamente tale
da proporre un modello in generale – ridisegna un quadro istituzionale adatto alla
tutela dei patrimoni e dei casati aristocratici: torna infatti a subordinare duramente
gli interessi delle figlie a quelli dei figli, e relega in un cantuccio quelli della
moglie, stabilendo nell’articolo 27 che la vedova ha diritto, e solo se povera, al
solo usufrutto di 1/4 dell’eredità del marito.
Tale è il contesto dei due testamenti dettati da Lussorio nel 1816, due perché il
secondo ritocca alcuni dettagli del primo, ma identici sulla questione centrale che
qui interessa. Egli nomina eredi, come nel 1806, i nipoti Antonio e Carlo, ma ora
lasciando loro di fatto solo la propria parte (e – vedremo subito – non tutta) dei
beni stabili e dei crediti fruttiferi già facenti parte dei fedecommessi di famiglia:
bisogna notare che si tratta di beni che, come per esempio il palazzo di Canto al
Nicchio, appartengono già per varie quote ai nipoti come eredi del padre, a sua volta
uno degli eredi fidecommissari di Antonio Maria. Lascia invece, e – si badi – non
in semplice usufrutto ma in proprietà, tutto il resto, comprendente una nuova abitazione
a Pisa, una villa nelle vicinanze, molti nuovi crediti fruttiferi, alla moglie. Il
criterio ispiratore della suddivisione è evidente: Lussorio non defrauda i maschi
del casato di quanto disposto a loro favore dai comuni antenati, ma assegna in piena
indipendenza, e con uno spirito opposto all’Editto del 1814, il proprio personale
patrimonio, fuori del casato, alla compagna della sua vita.
C’è da aggiungere un dato importante materialmente e anche simbolicamente. Come unica
eccezione al criterio appena spiegato, con la libertà d’azione concessa dal mancato
ripristino dei fedecommessi Lussorio annette alla parte di Teresa anche il podere
di S. Andrea di Caprona: si tratta proprio di quello che Leonardo aveva affidato nel
1737 a prete Ranieri per rimpinguare i beni della linea primogenita, che poi già nella
divisione del 1786 era passato in quella cadetta, e che dunque ora addirittura sfugge
al casato. Il tono delle volontà testamentarie di Lussorio è del resto quello dell’esclusiva
predilezione per la moglie e di una malcelata freddezza verso i nipoti (in realtà
– come vedremo – verso il primogenito Antonio), cui più volte vien fatto divieto,
pena la decadenza da ogni diritto, di avanzare rivendicazioni contro la zia. In una
rubrica tanto singolare sotto il profilo legale quanto eloquente sotto quello psicologico,
Lussorio si spinge, «ad oggetto di sempre più assicurare la quiete e la tranquillità
di detta sua amatissima consorte», a voler pregiudicare che «qualora il presente suo
testamento potesse dar luogo a qualche dubbio, o qualche equivoco, a qualche doppia
intelligenza, o a qualche questione, benché piccolissima, deva tutto, tutto interpretarsi
e intendersi sempre ed in ogni tempo a favore della prenominata signora Teresa sua
consorte». Ad ogni buon conto, nomina intanto esecutori testamentari Teresa stessa
e il fratello e altri parenti di lei.
A noi può non sembrare abbastanza – c’è forse paragone fra una moglie amata e dei
nipoti, di cui uno anche antipatico? –, magari pur sapendo che nei successivi codicilli
alla vigilia della morte Lussorio ha trasferito a Teresa, che lo ha assistito nella
malattia, anche i crediti fruttiferi un tempo compresi nei fedecommessi familiari.
Invece al nipote primogenito Antonio, già prima di quest’ultima stoccata, è sembrato
decisamente troppo.
L’autoritratto di Lussorio da cui siamo partiti è all’interno di uno scambio di lettere
che, a qualche mese di distanza, risente degli umori e reazioni intorno ai testamenti
del 1816. Antonio, che è sempre a caccia di ogni possibile rendita, ha scritto allo
zio il 22 ottobre 1816 per convincerlo a intraprendere con lui una causa contro i
parenti di Firenze per la rivendicazione di certi antichi comuni beni livellari. Lussorio
gli ha risposto il 30 ottobre, sfottendolo. Antonio replica il 6 novembre, per un
po’ sforzandosi di reggere al gioco, ma poi tirando fuori in tutta serietà quel che
lo rode, il tradimento del casato:
Incoerente sembra dunque «il non aver in animo di renunziare, né pregiudicare ai suoi
eredi» e regalare intanto senza merito, e dannificare i propri nepoti. Quanto dunque
è certo esser savia, savissima la precauzione di disporre per tempo di quanto e come
ci piace, per non avere a pensare ad altro negli estremi momenti, che al processo
severo che ci verrà letto avanti il tremendissimo tribunale di un Dio infallibile,
è altrettanto di fede, che dell’aver seguitato dei maliziosi consigli si troverà pure
acceso esattissimo conto. Penserà dunque lei alle conseguenze delle suggestioni di
questi ortolani, di queste cuoche, di queste oneste, e dotte persone, che mi dice aver consultato. Intanto però, se può vivere con quel
decoro che si conviene alla casa nostra, di cui «bonum et jucundum» tutti avrebbero
sperimentato «habitare fratres in unum» (Psalm. 132, v. 1), ne renda le principali azioni di grazie all’ottimo zio Antonio, il quale
perché Ella contraesse un matrimonio «longo nimirum prognato sanguine patrum» (Lactan.
Sat. II, v. 41) si spropriò di una bella rendita di sopra ottocento scudi, ben comprendendo
da cattolico e da saggio che e la santità del sacramento raro si amalgama collo spirito
di speculazione, e che perciò dovendo imparentarsi co’ i Cesari, simili ai Cesari
conviene aver le fortune.
La lettera con cui l’8 novembre Lussorio risponde a questa protesta non ribadisce
dunque solo le ragioni del rifiuto d’imbarcarsi nella causa sui beni livellari, ma
espone, con una nettezza ormai sprezzante, la visione del mondo sottesa a quel rifiuto.
Dal filosofico autoritratto che già conosciamo – «dunque potete credere se rido anche
di me stesso» – Lussorio approda a un’affermazione esplicita di polemico ma consapevole
individualismo, con una frase che sigla bene il ruolo di rottura che più della conversatrice
mondana Anna, per non dire del celibatario ad honorem Antonio Maria, proprio Lussorio, il fautore del vincolo coniugale e dell’intimità
domestica, ha svolto nel conflitto familiare:
Le disposizioni testamentarie da me fatte son pochi mesi, e che voi applaudite questo
mio passo, le confermo di buon animo perché fatte come vi scrissi, e sono tanto quieto
e tranquillo su tal proposito che non mi spaventa per nulla affatto in questa parte
interessantissima il comparire a renderne conto avanti il tribunale di un Dio infallibile
come voi dite, che è, ed io credo fermamente, di un Dio che conosce e legge nei cuori
degl’uomini, che distingue quelli che realmente operano con rettitudine da vero cristiano,
e che le loro opere sopra tutto corrispondono a questo nome e alla verità, ma che
ugualmente conosce quelli che operano con secondi e indiretti fini, con raggiri, con
cabale, con impostura, come li ippocriti che per ingannare il mondo ostentano una
buona morale, una scrupolosa santità specialmente in pubblico a uso Farisei, ma che
per altro ora sono smascherati e conosciuti quanto pesano, in conseguenza condannati
all’odio, alla derisione, al disprezo universale anche quando vanno per le strade
e si fermano a baciar tutte le crocette anche de pisciatoj vecchi.
Il «bonum et jucundum abitare fratres in unum» sarebbe certamente stato il mio vero
e unico desiderio, ma le passate, le consecutive e presenti circostanze lo hanno imperiosamente
impedito per darsi sul capo uno con l’altro, e voi ben lo conoscete se vostro malgrado
volete confessarlo. Dunque il «bonum et jucundum» referiamolo all’ogn’un da sé, e
Dio per tutti.