L’ultimo secolo non ha portato via, nel 1799, tutti gli uomini; così, per lo stato
sociale, il diritto di primogenitura è un costume soltanto interrotto. Un uomo di
quarant’anni è stato allevato in queste idee. Venticinque anni non sono nulla quando
si tratta di distruggere i costumi di una nazione, e il diritto di primogenitura è
ancora un’espressione familiare a tutte le orecchie [...] Col diritto di primogenitura,
le fortune restano sempre in piedi nell’ordine sociale. La sola obiezione che si possa
muovere alla sua attuazione è che lede gli interessi naturali dei fratelli e delle
sorelle minori [...] Col diritto di primogenitura, le grandi famiglie conservano la
proprietà territoriale per il bene di tutti; la coltura delle terre resta nelle stesse
mani che devono raccoglierne i frutti in ogni specie di situazione politica; lo Stato
ha i suoi amministratori, i suoi soldati, le sue garanzie sociali, politiche, i suoi
notabilati commerciali fissi; è meno soggetto alle oscillazioni [...] La partizione
uguale dei beni fra i figli di uno stesso padre presenta al primo colpo d’occhio un’immagine
seducente di equità; siamo lontani dal contestarlo; ma questa partizione non offre
che dei vantaggi momentanei; trascina poi con sé le più funeste conseguenze; semina
le rivoluzioni.
Antonio
Marito e padre di famiglia
Al momento dell’incidente mortale di suo padre Filippo, nel maggio 1804, Antonio ha
ventott’anni; ha studiato, senza laurearsi, filosofia, diritto e medicina; e ha cominciato
a curarsi degli affari di casa, cercando – se è vero quello che confiderà più tardi
a un corrispondente – di contrastare le dissipazioni e gli errori paterni. Certo,
fra 1804 e 1805, di fronte alla prospettiva della rovina, dà subito prova di una forte
capacità di reazione. Mentre i creditori incalzano, lo zio Lussorio non presta l’aiuto
desiderato, e il fratello minore Carlo, dimostrandosi «senza reflessione», non pensa
che a ballare, il giovane capofamiglia prende una decisione realistica e radicale
insieme. Rinuncia alla dispendiosa mondanità della vita del patrizio cittadino per
ritirarsi nelle proprietà di campagna; e non nella signorile villa di Caprona, ma
nella più modesta e lontana casa di Buti, più precisamente: nella casa – un tozzo
palazzotto tuttora in piedi – sul poggio che sovrasta la collina di Buti, Castel di
Nocco.
È un rifiuto della ‘conversazione’ di tipo diverso da quello di Leonardo, pur sempre
rimasto, da buon mercante di tradizione comunale, un uomo di città. Il suo pronipote
si trasforma invece in un signore di campagna, con una scelta di ben più forte isolamento.
«Queste montagne», o addirittura «queste erme montagne»: è un’espressione che torna
spesso sotto la penna di Antonio nei primi tempi del suo volontario e definitivo allontanamento
da Pisa. Un’esagerazione che può far oggi sorridere chi conosca l’accogliente bellezza
del paesaggio collinare di Buti; ma che va commisurata a strade e trasporti dei primi
anni dell’Ottocento, e soprattutto all’impatto psicologico di un cambiamento repentino
di stile di vita.
Il trasferimento comporta infatti da parte del giovane anche un distacco non valutabile
solo in chilometri dal resto della famiglia e delle altre relazioni, per stabilirsi,
come scrive appunto una volta, «in queste erme montagne ove le ristrette mie circostanze
isolato da tutti i parenti mi hanno costretto di relegarmi». Il passo è da soppesare
in tutta la sua gravità. La madre, il fratello, e presto le sorelle di Antonio affrontano
le difficoltà del momento più o meno solidalmente, sistemandosi fra l’altro ad abitare
insieme anche dopo il matrimonio di Carlo. Invece Antonio, per giunta tuttora celibe,
fa parte per se stesso: sia economicamente, perché in coincidenza col trasferimento
di residenza, il 14 aprile 1805, divide l’indebitato patrimonio comune con Carlo,
dandogli i beni di Caprona e tenendo, oltre a una rendita a conguaglio, quelli di
Buti; sia moralmente, standosene tutto solo a curare i suoi interessi nella casa di
Castel di Nocco.
È una scelta coraggiosa, che per un verso presenta un importante elemento di innovazione:
la volontà e capacità di pianificare un’esistenza non solo fuori dalla cappa protettiva
e limitante insieme del gruppo familiare e della rete parentale, ma anche lontano
dalla comunità patrizia cittadina con le sue associazioni e i suoi luoghi deputati.
L’aspetto innovativo è stato poi soprattutto corroborato da una successiva e decisiva
scelta di Antonio, quella matrimoniale, attuata nel corso dell’estate 1808, a trentadue
anni, dopo tre di vita a Buti. Il giovane uomo, che lì ha avuto agio di diventare
un accanito epistolografo, ha lasciato nel suo copialettere ampia traccia delle comunicazioni
inviatene ai parenti. Possiamo leggere quella del 20 agosto al cugino Adamo Portigiani
di Colle di Valdelsa: una buona prova della sopravvivenza e rilievo di una rete familiare
in senso lato, ma insieme anche dell’autonomia e perfino della relativa spregiudicatezza
con cui si è mosso per una volta Antonio sullo sfondo delle nuove idee e leggi francesi
ora estese alla Toscana:
Profitto di tale riscontro per notiziare, prevj i miei saluti, la zia, voi, ed i vostri
fratelli, che sono per accasarmi con una signorina delle prime famiglie di questo
paese. Soppressa la vecchia nobiltà ereditaria dalle leggi attuali, ed aboliti i fidecommessi,
non credo di dover ulteriormente aspettare il modo di aver da mantenere da per me
una dama, e ad ogni altro reflesso mi lusingo che vi soddisfarò sufficientemente.
Mia madre, il mio zio Gio. Battista, ed altri mi hanno dato il loro consenso; dal
zio Lussorio, dalla zia Teresa ho parola, che un tal mio passo non le sarebbe stato di dispiacere, che sempre averei ricevuta
la stessa buona accoglienza per me, ed egualmente per la mia sposa. Gli altri parenti
che ne ho fatto intesi non mi hanno né contradetto a parole né posto con dei fatti
in caso di agir diversamente. Abbiate dunque anche tutti voi altri la compiacenza
di non dissentire.
La sposa butese e plebea si chiama Carolina Banti. Porta ad Antonio – come lui stesso
scrive più tardi, il 17 febbraio 1809, al cugino Portigiani – «effetti sì, ma non
contanti»; gli porta soprattutto, per quanto si potrà capire di quest’altra donna
che ha avuto assai poco la penna in mano, un buon carattere e un atteggiamento remissivo.
Tutto l’insieme deve aver preparato una situazione coniugale molto differente da quella
sperimentata da Antonio fra i propri genitori.
Due bigliettini nel copialettere, di Antonio a Carolina, aprono un piccolo spiraglio
su di un quadro di confidenza non priva di affettuosità. Durante il fidanzamento,
lui si è assentato per qualche giorno per affari a Livorno – si tratta dell’eredità
Pigliù di suo padre –, e di lì può rispondere alla fidanzata, il 12 maggio 1809, con
buone scusanti di fronte a una vezzosa accusa di trascuratezza:
Ricevei la cara tua per la posta di Pisa, e vi detti premurosissima risposta jeri
colà, conforme si concertò, onde fanne ricerca con ogni caldezza. Avendo sentito dalla
procaccina che te non mi avevi scritto, ma soltanto mi mandavi a reverire, dubitai
che o te non ti fidassi di carteggiare per di lei mezzo a foglio aperto, o essa non
si volesse compromettere, onde sebbene la facessi venir da me, mi limitai a mandarti
tanti cari saluti, che mi lusingo avrai ricevuto. Il rimprovero dunque delle occupazioni
è un torto per me, che al reflesso di ogni immaginabile riprova di trasporto per te,
non mi sarei mai aspettato.
Tre anni più tardi, il 12 marzo 1812, quando Antonio e Carolina sono una giovane coppia
di sposi e genitori di una piccola Diamante, capita che sia lui, sempre in occasione
di un viaggio a Livorno, a rimproverare alla moglie poca attenzione: «Le scuse che
mi adduci di avermi tardato tanto le nuove tue e della bimba, che Dio benedica, ti
fanno torto, perché ti danno l’apparenza di più interessata per gli estranei che per
me».
Non abbiamo le lettere corrispondenti a queste, ma solo un’altra di Carolina inviata
ad Antonio a Livorno sei anni più tardi, il 6 gennaio 1818. In una grafia grossolana
e in uno stile un po’ impacciato la donna aggiorna il marito su vari affari, e specialmente
su di un’occasione d’acquisto di terra da cogliere al volo: «mi ero dimenticata di
dirvi che quello affare del Acconci Giuseppe mi anno detto che prende tutto Pietro
del fu Paolo Parenti, voi mi intenderete, ma procurate di non lasciarvela scapare
di mano, che è un bocconcino buono: risorvete». Parole da brava e subordinata economa,
che per giunta pur firmandosi col nome tratta rispettosamente il marito da «caro consorte»
dandogli del voi; ma accompagnate da altre che esprimono con semplicità la consuetudine
di un ambiente domestico: «State bene, e cosi è di noi, la bimba Paola chiede sempre
il Chicco e il Babbo».
Si tratta, certo, di testimonianze scarne, ma forse sufficienti a confermare il profilo
moderno della vita privata di Antonio: moderno nel senso della complessiva adesione
al modello affettuoso di matrimonio proposto con immenso successo europeo da Rousseau:
il modello di babbo e mamma legati fra loro a doppio filo e tutti casa e famiglia.
Del resto è proprio mentre Antonio è cresciuto, verso la fine del Settecento, che
tale modello si è affermato presso i ceti dirigenti anche in Italia, con la forza
di un costume morale diffuso. In ogni modo, prove meno dirette, ma molto più numerose,
dell’attitudine maritale e paterna di Antonio, della sua partecipazione attenta alle
grandi e piccole vicende di moglie e figli, si trovano nelle sue lettere ai parenti,
che nelle sezioni più intime sono il registro eloquente di un tutto ottocentesco trionfo
della domesticità sulla ‘conversazione’.
Solo qualche esempio. Alla sorella Luisa Margherita, 11 giugno 1811: «La cognata e
nipote sono ora, la Dio grazie, guarite salvo per questa un poco di scioglimento di
ventre, che si attribuisce alla dentizione». Al cugino e compare Portigiani, 22 dicembre
1812: «La vostra comare vuol riprovarsi a sostener la famiglia. Iddio l’ajuti a ben
riuscire, intanto grata ai vostri saluti ve li restituisce di cuore. La vostra figlioccia
poi qui presente mi stimpana il cervello col chiasso, giudicate da ciò del suo stato,
grazie al Signore vivacissimo». Alla sorella Laura Teresa, 13 giugno 1817: «La Diamante
seguita a vegetare magretta magretta, ma quasi più impertinente di voi, che non è
poco. La Paola è stata felicemente vaccinata». Per finire, il 21 agosto 1817, uno
dei resoconti, chi sa con che interesse accolti, indirizzati a un’antica conversatrice,
madre distratta, la sua: «La Carolina la reverisce; è tornata, ma non mi pare che
abbia molto guadagnato nel Bagno: forse dependerà da un’altra causa non per anche
sicura, checché molto probabile, ma il fatto sta che è molto dimagrata. Delle mie
bambine la Paola pure è smagrita per il patimento di denti, e la Diamante li scrive
da sé sotto però la direzione del maestro, ma in modo che avuto riguardo alla sua
tenera età parmi possa ben contentare. Se ne ricordi: gliela raccomando».
Si potrebbero moltiplicare le citazioni. Basti per adesso avvertire che questa diffusa
espressione della familiarità domestica accompagna in tutta naturalezza le azioni
spesso sostanzialmente prevaricatrici con cui Antonio ha cercato – sarà evidente fra
poco – di ricostituire a Castel di Nocco un solido e prospero casato nobiliare. Un
motivo di addolcimento, dunque, in una storia di affermazione di ricchezza e potere;
ma anche una prova della compatibilità fra un’affettuosità meno riservata che in passato
e un perdurante se non crescente comando paternalistico su giovani e donne. Serve
ricorrere anche in questo senso al confronto fra la vita coniugale di Antonio e quella
dei suoi genitori: si potrà vedere – purtroppo – solo indirettamente la sostanziale
emarginazione di Carolina anche da scelte decisive per la famiglia e i figli; si può
comunque fin d’ora tranquillamente escludere che ella abbia goduto delle stesse libertà
concesse un tempo da giovane sposa a sua suocera.
Rifondatore del casato. Le sorelle
Gli scontri che hanno costellato la lunga opera di Antonio per salvare un considerevole
patrimonio e una posizione di privilegio dipendono senza dubbio anche da alcuni tratti
sgradevoli della sua personalità; ma questi bisogna intenderli alle prese con la storia,
e cioè come frutto non di tendenza generica alla prevaricazione, ma di precisa volontà
di riaffermare e mantenere, pur attraverso i grandi cambiamenti della fine dell’Antico
Regime, l’autorità e le prerogative del maschio primogenito a capo di un casato.
È diventata un’impresa difficile: l’«idolo vano del bene di famiglia» non è più condannato
solo dai grandi spiriti come Muratori e Beccaria; e coi Francesi che occupano l’Italia
le vecchie leggi a tutela dei patrimoni nobiliari stanno per ricevere uno scossone.
C’è dunque molta materia di conflitto.
La prima delle sue guerre Antonio l’ha fatta contro le sorelle. Sono quattro: Amalia,
Eleonora, Laura Teresa, Luisa Margherita. Per la verità Eleonora, nata nel 1780, resta
fuori dalla mischia; forse perché il suo destino è già stato deciso e preparato dal
padre, o piuttosto dal padre e dalla madre, prima dell’incidente del 1804; anche se
è solo del 25 giugno 1805 il contratto del suo prestigioso matrimonio con Giacomo
Speroni, un patrizio genovese imparentato coi Doria, i quali hanno avuto un loro ruolo
nelle trattative. Il pagamento della cospicua dote – oltre 3.600 scudi – tocca ad
Antonio e a Carlo come figli maschi ed eredi del pur indebitato patrimonio; e se Carlo
ha mostrato addirittura, a giudizio del fratello, «un puntiglio radicato nella collocazione
di questa sorella», Antonio stesso si trova nella condizione di dover fare con ragionevole
rapidità la sua parte: versa più della metà della sua quota all’atto del contratto,
e il resto il 14 luglio 1806, entro un anno dalla celebrazione del matrimonio in chiesa,
dopo essersi fatto nel frattempo appena un poco pregare per saldare anche gli interessi.
L’impressione è che questa di Eleonora, non la maggiore delle sorelle e dunque forse
la più attraente, sia stata una sistemazione preordinata in una pianificazione familiare,
cui Carlo, il maschio minore di «testa mediocrissima» ma «cuore ottimo» – secondo
un più volte ribadito giudizio del fratello – e rimasto a Pisa con la madre, si è
prestato con zelo, ma che comunque anche Antonio dal suo ritiro di Castel di Nocco
non ha potuto neppure provare a ostacolare.
Con le altre sorelle, non altrettanto favorevolmente predestinate, le cose vanno in
maniera assai diversa. Il primo tentativo del loro domestico e familista fratello
maggiore è infatti di chiuderle in monastero, come se nel 1804, sotto il Regno d’Etruria,
e poi addirittura, di lì a poco, sotto il diretto dominio di quei Francesi che hanno
– Antonio lo sa bene – «soppressa la vecchia nobiltà ereditaria» e «aboliti i fidecommessi»,
sia possibile continuare tranquillamente ad angariare le femmine e i cadetti. Di fatto,
il colpo gli riesce solo con la povera Laura Teresa, che in monastero c’è già, e per
un tristissimo motivo, che impariamo per caso solo molti anni più tardi, da un cenno
incidentale che Antonio fa descrivendo il 21 giugno 1819 a un corrispondente l’antico
stato della villa di Caprona: «In una stanza era l’officina di tornio del fu padre
don Giorgio mio prozio, in altra ho dormito io stesso, ed in una poi seguì per la
snaturata negligenza di una donna con cui vi dormiva mia sorella ora monaca, che volendosi
quella affrettare a correre alla finestra a veder passare un suo drudo tuffò nell’acqua
troppo calda questa, che poi ne rimase impedita».
Amalia, la maggiore delle quattro, e Luisa Margherita, la più piccola, trovano invece
nel clima di novità portato dalle conseguenze della Rivoluzione francese la spinta
per dar battaglia. Le loro vicende sono fino a un certo momento sfalsate dalla differenza
d’età. Amalia deve aver cominciato a far pressioni per uscire dal conservatorio pisano
di S. Anna subito dopo la morte del padre. Sappiamo che la legge obbliga i due fratelli
maschi a farle la dote; ma al governatore di S. Anna, che la sollecita, Antonio risponde
il 29 marzo 1806 accampando i debiti tuttora gravanti sull’eredità, e facendo la voce
grossa circa una possibile causa: se l’impaziente sorella cerca guai, «la lizza è
aperta». Però la ragazza – anzi la donna, una ventisettenne che sta in educandato
dall’età di nove anni – non si lascia intimidire; e protestando presso il tribunale
che i fratelli, in realtà «in specie il detto cavalier Antonio» che «gode ancora la
pingue primogenitura Pigliù situata in Livorno e suoi contorni», sono inadempienti,
ottiene intanto il decreto che le si paghi il trasferimento dalla sorella maritata
a Genova, dalla quale aspetta aiuto per trovare anche lei un’occasione matrimoniale.
L’episodio, e le circostanze della consegna dell’ingiunzione a Castel di Nocco sotto
le feste di Natale del 1806, saranno lo spunto per una lunga serie di recriminazioni
da parte di Antonio, rese poi sempre più rabbiose da un nuovo e maggiore successo
ottenuto da Amalia il 17 marzo 1807, la fissazione legale della dote per sé e per
Luisa Margherita a 2.600 scudi ciascuna, quasi il doppio della cifra proposta infine
dal fratello come il massimo immaginabile senza voler rovinare affatto il patrimonio
di famiglia. Il progetto delle nozze genovesi sfuma o va per le lunghe, e con questo
si rinvia il pagamento della dote; ma intanto Amalia, sistematasi a Pisa con la madre
e Carlo, al quale versa per il proprio mantenimento una parte dei frutti sulla somma
che le spetterà, chiede che anche Antonio contribuisca ad ammobiliarle una stanza.
È questa una delle occasioni in cui più s’inasprisce il conflitto familiare, e più
marcatamente nella fattispecie della contrapposizione fra Antonio e tutti gli altri.
Scrivendo il 3 agosto 1807 al competente funzionario governativo, Antonio si lamenta
che solo perché intasca del denaro Carlo «ha acceduto alla metà della spesa di detti
mobili. Vostra Signoria Illustrissima dunque rileverà facilmente che non si tratta
che di angariar me solo»; e gli fa presente l’ingiustizia di dovere «stare in queste
montagne più ristretto che mai, perché una capricciosa possa vivere comodamente in
città, mentre col danaro scialacquato in viaggi avrebbe potuto benissimo altro che
mobiliarsi una stanza. Tutti questi fatti mi danno un fondamento da sperare che Vostra
Signoria Illustrissima a fronte di tutte le seduzioni che possa adoprare quella sanguisuga,
saprà render giustizia anche a me».
Nel seguito delle discussioni sulla sistemazione di Amalia compare a un certo punto,
forse con un intento di sfida da ambo le parti, l’irrealistica soluzione di un trasferimento
a Castel di Nocco. Il tono della lettera scritta da Antonio in proposito il 1° dicembre
1807 mostra bene come egli intende la gerarchia di rapporti fra il primo dei maschi
e una sorella femmina:
Non avrò altro letto da prestare a voi qui in mia casa, che quello alla militare senza
lenzuola. Canterale veruno. Son dolente che vi separiate da Carlo. Dalla morte del
fu nostro padre, che Dio riposi, siete sortita dal convento; quindi dalla sorella,
e ora dal fratello: il mondo dunque deciderà certamente con vostro gran discapito,
che siete una volubile. Le necessità, che supponete, siccome provengono dal pazzo
vostro viaggio, così son sempre delittuose. Il più accanito nemico non poteva fare
a noi altri fratelli peggiori ostilità di quelle che voi avete con noi praticate:
onde piuttosto che fingere una mentita innocenza, allegate il Santo Evangelo, che
ci predica di volgere anche l’altra guancia a chi ci ha dato un schiaffo, in venerazione
del quale soltanto annuirò alla vostra coabitazione meco in queste montagne, purché portando con voi la pace ed il timore di Dio vi sottoponghiate senza alcuna
replica intieramente ad ogni mio volere. Delle condizioni in dettaglio bisognerà trattarne
sul posto.
Naturalmente Amalia rimane a Pisa, anche perché, trentenne, non ha affatto perso la
speranza di sposarsi; e qui viene periodicamente raggiunta dai rimproveri che Antonio,
pur senza smettere di dare qualche segnale di familiarità, avanza sempre più insistentemente,
e, col passare del tempo, sempre più sgarbatamente. Per esempio, in una lettera del
13 luglio 1811 scrive:
È falsissimo che noi non si volesse intendere all’amichevole di assegnare la dote;
e la collocazione di Eleonora lo prova. Ma non si voleva farla con la precipitazione
con cui l’esigeste; altronde a tale assegna non coadiuvava nulla mandarmi il birro
a casa la seconda festa di Natale venerato da tutti i cattolici. Crediate dunque che
le persone che caratterizzate di giudizio non sono che adulatori, repugnando il buon senso ad approvare la condotta di una
fanciulla che fugge dalla madre e dai fratelli, disastra la casa, e si depaupera per
sé per andarsi in estere contrade a braccare un marito.
Le vere ragioni di queste paternali si mostrano senza più reticenze un anno dopo,
quando il paziente lavoro di Eleonora da Genova giunge a discreto se non proprio a
buon fine, realizzando l’unione fra la sorella e un ufficiale francese, il capitano
Pierre-Louis Morcel, in attesa di congedo e in cerca di «un impiego lucroso forse
nel nostro, o limitrofi dipartimenti». Antonio, che così riferisce il 3 settembre
1812 al cugino Portigiani, chiedendo aiuto per un prestito in vista del prossimo esborso,
sta in realtà cercando qualche scappatoia per non pagare, o per pagare il meno e il
più tardi possibile. Bussa senza alcun successo alla porta dello zio Lussorio per
coinvolgerlo in un’operazione di preteso interesse comune; e addirittura a quella
della pubblica assistenza per ottenere un contributo dotale per fanciulle povere.
Frappone le difficoltà e le lungaggini più cavillose alla sorella e al futuro cognato
francese, al quale in particolare, in una lettera ad Amalia del 16 settembre 1812,
ricordando la «flemma che è necessaria con gl’Italiani», rimprovera «il carattere
istantaneo della nazione», cioè, in questo caso, il desiderio di riscuotere una parte
della dote alla stipula del contratto matrimoniale. Ma non sono che scaramucce di
retroguardia, tipiche della spiacevole incapacità di Antonio, evidente in tante altre
occasioni, di chiudere con eleganza le partite perse, come lo è, inesorabilmente,
questa.
Il 12 dicembre 1812 davanti a un notaio pisano Morcel e Amalia, in proprio in quanto
maggiorenne ma «coll’assistenza e concorso della madre», firmano il contratto nuziale.
La non più giovanissima donna, che dispone di un corredo decente, benché neppure lontanamente
paragonabile al guardaroba toccato quarant’anni prima a sua madre, si costituisce
in dote la quota dell’eredità paterna assegnatale dal tribunale; e a ulteriore scorno
delle istanze primogeniturali del fratello decide con lo sposo, «per darsi una convincente
riprova della buona amicizia che hanno detto di avere l’uno per l’altro», una reciproca
universale donazione – se non avranno figli e fatta salva la sola eredità legittima
della madre in caso di morte di Amalia – dei beni del primo che morirà al coniuge
superstite. Nelle settimane successive, mentre Carlo si appresta a fare la sua parte,
c’è un estremo tentativo di Antonio di prender tempo, che gli procura «le più premurose
istanze» e anche, il 23 dicembre, una citazione da parte di Morcel davanti al giudice
di pace di Vicopisano. Infine l’11 gennaio 1813 deve aprire la borsa, o meglio socchiuderla,
pagando alla sorella e al cognato un poco meno di 1/8 dei 1.300 scudi di sua spettanza,
e impegnandosi a saldare il resto entro sei anni con l’interesse del 5% annuo.
In parallelo alla storia dell’affermazione dei diritti di Amalia si è svolta, con
cadenze in parte diverse, la stessa storia per Luisa Margherita, con la differenza
che nel rapporto con quest’ultima, molto più giovane, Antonio ha mostrato anche più
pesantemente il risvolto autoritario del suo spirito domestico. Nel corso dell’estate
1804, mentre la venticinquenne Amalia comincia a lottare per uscire dal conservatorio
pisano, Luisa è costretta a prendere la strada inversa, perché il fratello s’è accordato
con l’amministratore del convento di S. Niccolò di Prato per mandarla in educazione
là, dove si trova già come monaca l’altra sorella Laura Teresa.
Che questa sistemazione provvisoria della ragazzina nasconda in realtà il progetto
di farcela restare a vita è svelato poco dopo da una tortuosa manovra con cui il fratello
cerca di piegarne la volontà, e anzi modificarne il senso stesso di identità individuale.
Il destinatario della manovra è il vescovo di Pistoia, competente sul convento pratese,
interpellato da Antonio il 26 ottobre 1804:
Atteso il sempre venerabil disposto di un testamento, mediante il quale pervennero
alla nostra casa certi beni, siamo in dovere di far mutar nome nella Cresima alla
nostra sorella Luisa, che trovasi in educazione nel convento di S. Niccolò di Prato,
la quale perciò dovrà in primo nome chiamarsi Diamante, come la nostra benefattrice. Abbiamo significato tal nostro debito volere all’altra
nostra sorella suor Laura Teresa vestita monaca in detto convento, però abbiamo tutto
il motivo di diffidare della mal’intesa tenerezza della medesima, la quale pare che
si lascerebbe vincere dalla irragionevole renitenza della ragazza ad assumere un diverso
nome. Ci siamo dunque trovati nella necessità d’incomodare V.S. Illustrissima, e Reverendissima
per raccomandarle premurosamente tal mutazione di nome a scanso di tutti i disastri
che l’inesecuzione delle testamentarie disposizioni sempre attira sopra le famiglie,
e sopra chi vi coopera.
Il riferimento è ovviamente al testamento del 1611 di Diamante Cambini da cui ha preso
le mosse la nostra storia. Ma qui si tratta chiaramente di un pretesto, perché in
ogni modo l’assunzione del nome Diamante toccherebbe alla primogenita Amalia, con
la quale Antonio non si sogna di provarci. L’antica disposizione viene invece tirata
in ballo per preparare la giovanissima Luisa al cambiamento di nome legato al passaggio
allo stato religioso. Antonio è quasi sul punto di lasciarselo scappare, quando, in
una successiva lettera del 25 novembre 1804, rimprovera direttamente a Laura Teresa,
che pure è la sua sponda ecclesiastica per il sostegno degli interessi del casato,
la «mal’intesa tenerezza» già denunciata al vescovo: «In una religiosa come voi, l’accordarsi
con la per ora Luisa a credere o inutile o indifferente il rimedio che noi si vuole alla trasgressione
del testamento di donna Diamante de’ Cambini è sempre colpa».
Del resto la questione onomastica è il culmine di un complessivo progetto che Antonio,
tramite Laura Teresa, cerca di realizzare a distanza su Luisa, di educazione come
costrizione: una costrizione del carattere inteso come personalità, che può arrivare
fino a comprendere – per una spiccata ossessione di Antonio, scrittore nitido e disciplinatissimo
– la correzione del «carattere» inteso come grafia. È in una lettera del 30 giugno
1805 a Laura Teresa su questo argomento che ci viene conservato quell’ultimo ricordo,
che abbiamo visto sopra, di uno zio morto giovane, e tanto diverso dal nipote: «Contemporaneamente
ho ricevuto la vostra del 19 corrente a tergo di quella della nostra Diamante. Prevedo
che essa potrà, applicandosi, prendere un ragionevol carattere. Fateli però smettere
quei ricciolini alle iniziali, contro i quali gridava tanto il bravo nostro fu zio
Alessandro: infatti notate la differenza – F – F – ma principalmente fatela osservare
alla retta ortografia. Comincia la sua lettera in greco, poiché con un K, mentre per
scrivere Ho doveva cominciare con un H».
Antonio vince il non irrilevante scontro sul nome, tanto che più tardi sarà la stessa
Luisa Margherita a firmarsi normalmente Luisa Diamante o addirittura Diamante; ma
è destinato a perdere di nuovo la partita decisiva sulla sistemazione monacale o
matrimoniale della sorella. Il già citato decreto del tribunale del 17 marzo 1807
in favore delle doti di Amalia e Luisa dà infatti anche a quest’ultima l’appoggio
legale e materiale conveniente per far valere la sua personalità tutt’altro che remissiva.
Scrivendole il 5 maggio 1808 Antonio si può ancora permettere di trattarla da «religiosa»
votata a offrire le sue pene al Signore; ma il 21 agosto 1809 è già costretto a far
pressione su Laura Teresa perché non tocchi a lui ma a Carlo la futura sistemazione
della sorella, che in effetti entro l’estate 1810 torna a vivere in famiglia fra Pisa
e Caprona.
Si apre così un nuovo capitolo dei rapporti tra fratello e sorella, quello dello sforzo
attivo o almeno della resistenza passiva del primo per allontanare se non evitare
il matrimonio della seconda; un capitolo ora parallelo alla vicenda di Amalia, e con
qualche scintilla briosa che dobbiamo all’indole pepata di Luisa. Non abbiamo le sue
lettere cui fa riferimento questa di Antonio del 3 ottobre 1810:
Rilevare le frasi ardite delle vostre lettere precedenti alla vostra di stamani sarebbe
quanto riscriverle, ed allora sì che si potrebbero chiamare inutili; solo in genere
v’inviterò ad osservare che il «dovete», «voglio», «è indispensabile», e tutti l’imperativi
assoluti senz’aumentare un atomo le ragioni offendono le leggi dell’urbanità, e son
contrarie alle regole dello stile epistolare. Senza proporvi infatti un uomo modello
in tal genere, il signore di Villecomte, vi proporrò una donna madre, la marchesa
di Sevigné. Cercate la raccolta delle di lei lettere, leggetele maturamente, che lo
meritano, ed apprenderete una dolcezza a tutta prova, che incanta, e che vi sarà sempre
vantaggiosa.
Abbiamo però una di Luisa ad Antonio del 15 giugno 1811, che fa il verso alla pretesa
di subordinazione e obbedienza femminile variamente manifestata dal fratello: per
esempio con lo strumentale rimando a Madame de Sévigné appena riportato; oppure –
ed è l’occasione della replica del 15 giugno – con l’incarico di sbrigare pratiche
per lui a Pisa, bruscamente assegnato alla sorella nella stessa lettera, già citata,
dell’11 giugno 1811 dove le dà anche notizie domestiche sullo «scioglimento di ventre»
e la «dentizione» della nipotina:
Ho pontualmente eseguito le vostre incombenze [...] mi raccomando di non darmi più
una tale incombenza, giacché tali cose non sono capaci le donne, e poi io che sono
una ragazza non posso andare di qua e là come potrebbe fare una donna di età. Le donne
come voi sapete sono nate per cucire, e non per queste cose. Tutto vi servirò volentieri
fori che questi affari, che spettano agl’uomini, giacché io non voglio seccature avendo
non poco da pensar per me, specialmente ora che ho intenzione di vivere in altra maniera,
ed in breve io ve ne notificherò quanto penso.
In effetti Luisa, come si rileva chiaramente da queste sue ultime parole, è già non
solo intenzionata a maritarsi, ma anche ben decisa a non ammettere discussioni in
proposito. Quando Antonio il 14 gennaio 1813, tre giorni dopo esser stato costretto
a socchiudere la borsa ad Amalia e a Morcel, le scrive lasciando cadere fra i saluti
familiari una battuta d’assaggio sulla sua determinazione – «Ossequiate per me la
mamma, salutate Carlo e la bravissima Enrichetta, mentre augurandovi la beata sorte
di doventar monaca resto abbracciandovi ecc.» –, la ragazza deve aver risposto, a
scanso di equivoci, nel modo più focoso, tanto da provocare, in una lettera del 3
febbraio, la solita seriosa e indiscreta reprimenda del fratello:
Mi ha fatto poi meraviglia che mentre tutte le signore donne procurano per loro interesse
di celarsi gli anni, voi trionfate d’invecchiare per la meschina soddisfazione di
non aver più bisogno dell’approvazione della signora madre ai vostri atti. Pure se
tale è la vostra idea, ci concerteremo a suo tempo. E dal risponder voi al mio scherzoso
consiglio di farvi monaca, dal quale anzi mi sarei ben guardato se poteste realizzarlo,
che sarebbe forse accomodabile se una persona divenisse frate e confessore del vostro
stesso convento, rilevo cosa dunque avete veduto praticare dai frati confessori colle
monache, e comprendo come abbiate potuto farvi notare per sì ben instruita.
A questo proposito Antonio si deve poi essere lamentato anche con Laura Teresa, chiudendo
poi l’incidente, il 12 aprile, con uno di quei giudizi rancorosi e spropositati che
gli corrono spesso sotto la penna dopo gl’insuccessi, e in special modo nelle lettere
alla sorella monaca, una vittima che qualche volta assume anche il profilo della confidente
o della complice: «Che la Diamante delirasse può benissimo essere: voi altre donne
siete tutte impasto di feccia pazzesca».
Luisa realizza il suo progetto nel dicembre 1813, stringendo un contratto matrimoniale
con il dottor Cosimo Centoni di Pontedera. Anche in questo caso Antonio ha versato
sul momento solo una parte della sua quota dotale, impegnandosi per il resto entro
sei anni. Non ha potuto ottener di meglio, come spiega poi a una Laura Teresa in versione
complice:
Da quanto mi esponete circa il matrimonio della Diamante-Margherita conosco bene che
non sapete un atomo delle leggi vigenti, e non vi ricordate del naturale della medesima.
Quanto alle prime impediscono qual si sia opposizione; quanto al secondo sappiate
che fino nella prima lettera con la quale mi partecipò questa sua determinazione mi
proibì espressamente di dirli una parola contro, mentre sarebbe stata gettata, onde
se io mi fossi opposto mi sarei tirata inutilmente una guerra addosso per la dote
donata allo sposo in totalità, per la quale intanto li ho dovuto sborsare con mio
grave scomodo scudi 300, sembrando per ora pazientarmi per il resto.
Per il capo del casato, dunque, due secche sconfitte una dopo l’altra nel giro di
un anno, anche se alla fine forse non così catastrofiche – almeno in un caso – quanto
da lui più o meno sinceramente paventato. Le «leggi vigenti» di cui Antonio scrive
alla sorella monaca il 1° maggio 1814, e cioè già all’indomani della caduta del regime
francese, sono in realtà destinate a esser presto sostituite da altre – in particolare
l’editto del 18 agosto 1814, citato sopra a proposito del testamento di Lussorio,
e la legge del 15 novembre 1814 – emanate dal restaurato governo granducale in uno
spirito di netta rivalsa della logica agnatizia, cioè della difesa dei patrimoni maschili.
Questo complessivo passo indietro non è per la verità tale, in materia dotale, da
cancellare il diritto acquisito delle figlie femmine alla dote come sostituto della
quota legittima dell’eredità paterna. Fatto sta che Antonio cerca di approfittarne
per richiudere la borsa al cognato Centoni.
Il tono stesso con cui risponde alle sue conseguenti proteste, per esempio in una
lettera del 16 dicembre 1814, è di un’insolenza che durante le trattative di qualche
mese prima non si era permesso:
Mi stupisco poi che vi sia trascorso che i signori Bracci non conoscono né equità
né riguardi, quando da un individuo di tal famiglia siete stato beneficato al di là
non dirò dei vostri estesissimi meriti, ma certamente di ogni escogitabile desiderio,
e che porzione di questo benefizio è servito a sollevarvi dalle più penose urgenze.
Badate bene, dunque: talvolta giova volgersi indietro per non lasciarsi trasportare
in passi falsi, quale sarebbe sostenere che la venalità non ha luogo nel proprio carattere,
e colla distruzione anche di ogni vestigio di dote invece porre in luce che quella
sola fu la molla del matrimonio.
Più volte, poi, nelle discussioni successive, Antonio oppone al cognato le «leggi
oggi veglianti», una pressione psicologica allusiva al nuovo contesto in cui si svolge
la vertenza; e intanto alla sorella fa ogni sorta di difficoltà all’atto del pagamento
trimestrale degli interessi, non senza qualche tratto di provocatoria canzonatura,
come il 18 ottobre 1817: «Per darvi una prova di più di quanto vi è e vi sarà sempre
utile avere in mie mani il residuo della vostra dote, checché non tenuto, e che mi
abbia anzi scomodato, vi rimessi subito il trimestre, che mi chiedete in piacere colla
vostra de’ 15 stante».
Il 5 dicembre 1818, a cinque anni dal loro matrimonio, Luisa e Centoni cedono il loro
credito dotale a un uomo d’affari con cui hanno un debito, Rinaldo Ancillotti: sarà
lui ad affrontare la causa per ottenerne la riscossione, causa che risulta comunque
ancora aperta nel 1828. Pare plausibile che Antonio alla fine abbia dovuto pagare;
ma lo ha fatto così con tutto comodo, e riuscendo nell’obiettivo essenziale dal punto
di vista della tutela del patrimonio del casato, cioè evitando di intaccare gravemente
il corpo delle sue proprietà immobiliari.
Diversa la conclusione della pendenza con Amalia e Morcel, perché poco dopo l’editto
successorio del 18 agosto 1814, ad appena un anno e mezzo dal suo matrimonio, Amalia
muore senza figli e senza aver lasciato un testamento. Come si ricorda, andando in
sposa si era fatta una reciproca donazione di beni col marito, ma una quota dell’eredità
intestata spetta automaticamente ai membri della famiglia d’origine. Carlo intende
che ciò riguardi anche e soprattutto la madre, come previsto a suo tempo nel contratto
matrimoniale di Amalia; ma Antonio gli obietta lo spirito agnatizio delle nuove
leggi: «Non convengo – gli scrive il 27 ottobre – che la signora madre sia coerede
della defunta non meno che noi, come nella vostra d’jeri, che vengo dal ricever poc’anzi, supponete, mentre
la medesima ai termini degl’articoli 19 e 16 della legge del 18 Agosto p. p. applicabili
al caso non succede che nell’usufrutto della terza parte». Il motivo di questa opposizione
è chiaro: la madre – secondo quel che Antonio lamenta col fratello il 24 novembre
– «vuole ingiustamente prediliger voi, come par che tendano le vostre mire». Di fatto,
proprio il giorno dopo questa protesta, Anna Grassi, «per liberarsi da ogni eventualità
sulla liquidazione di detta quota ereditaria, e da ogni questione che potesse insorgere
relativamente alla medesima, e per altre cause e ragioni l’animo suo moventi», dona
ogni proprio diritto sull’eredità di Amalia a Carlo, in cambio dell’ospitalità in
alcune stanze della villa di Caprona, che in realtà usa già da tempo.
Questa donazione, e la circostanza dell’accordo evidentemente esistente fra la madre,
Carlo e Morcel, che si spartiscono pacificamente alcuni oggetti personali di Amalia,
devono aver suggerito ad Antonio di assumere per una volta un atteggiamento remissivo.
Egli pare in effetti rinunciare ad approfittare della morte della sorella per ridurre
considerevolmente il suo debito col cognato – ancora quasi tutta la sua quota dotale
– e accetta rapidamente un compromesso con questo e col fratello, che ora è diventato
anche lui suo creditore in quanto erede di Amalia. Sembra che sia riuscito a non alienare
alcun immobile; paga però nel giro di poche settimane due somme considerevoli: 300
scudi a Carlo il 31 dicembre 1814, 6.000 lire (oltre 850 scudi) a Morcel il 21 gennaio
1815.
Rifondatore del casato. Il fratello e la madre
I rapporti fra Antonio e Carlo – spesso intrecciati e complicati, come nel caso appena
visto, da quelli rispettivamente assai diversi intrattenuti con la madre – sono stati
segnati dalla pretesa di superiorità del maggiore nei confronti del cadetto. All’inizio
Antonio ha addirittura provato a impedire anche a lui di sposarsi, avendo per socio
in questo tentativo – vogliamo pensare per altra causa e con spirito differente dal
suo – lo zio Lussorio. Il 12 gennaio 1805, cinque giorni dopo la stipula del contratto
matrimoniale di Carlo col padre di Enrica Carrassali, che gli ha promesso una dote
di 1.100 scudi, i due parenti del giovane, sottotenente dei Regi Cacciatori, inoltrano
una supplica al suo superiore, e poi un’altra alla sovrana, affinché blocchino «un
sì male augurato matrimonio»:
I motivi che si adducono per sì giusta disapprovazione – spiega la supplica al superiore
– sono la disuguaglianza della nascita, non godendo la prenominata Enrichetta Carrassali,
e molto meno i suoi autori, verun grado di nobiltà e di onoreficenza, mentre che la
nostra famiglia fu insignita da tempo ben antico della suprema magistratura dei Priori
della Repubblica Fiorentina, ed è stata sempre vincolata alle più rinomate e distinte
famiglie della Toscana. Il nostro Carlo essendo nell’età di 23 anni, e la Carrassali
prossima a 30, la distanza della detta età con la quale la precitata Enrichetta sopravanza
il prefato nostro Carlo offre il probabilissimo presagio che cessati i primi bollori
della passione se ne risentiranno pur troppo tristi le conseguenze nelle dissenzioni,
nell’inutili pentimenti, e negli odj inestinguibili fra i coniugati. L’infrazione
dei doveri del celibato, dai quali replicatamente si è allontanato il detto nostro
Carlo, gli hanno più volte cagionato incomodi e pericoli di salute, che la costituiscono
dubbia tuttora.
Seguono le prevedibili – e sappiamo da parte di Antonio quanto sincere – preoccupazioni
per la collocazione matrimoniale delle sorelle: sia per ragioni economiche, data la
crisi del patrimonio di famiglia; sia, in un clima quasi da Traviata, per ragioni sociali, «in quanto che sebbene dirimpetto alle persone di buon senso
ogniuno figlio sia delle azioni proprie, pure non manca chi risente della renitenza
ad unirsi anche con individui di pari ceto, che abbiano sofferto qualche deturpamento
di affinità».
Cadute nel vuoto queste suppliche, mentre Lussorio sembra poi intrattenere buone relazioni
con la giovane coppia (tacendo le fonti su quelle con l’antica avversaria, che vive
con loro), Antonio mostra di non aver mai davvero accettato la cognata, con la quale
si permette delle maniere che non riusciamo a immaginare avrebbe tollerato da altri
verso la sua Carolina. Quando proprio Lussorio aiuta Carlo a pagare la sua parte di
dote ad Amalia, Antonio scrive il 1° gennaio 1813 a Enrica per ricordarle il poco
elegante proverbio: «Bisognerà dunque confessarlo che tira più un pel di donna che
cento par di bovi». In un’altra occasione, il 27 marzo 1819, durante una delle molte
questioni di soldi col fratello, non si perita, dopo tanti anni che sono pur stati
anche di una qualche relazione familiare, di accusarla in questo modo: «Quanto poi
a voi, posto (il che è incontrastabile) che avanti che vi sposaste con esso si andava
pienissimamente e perfettissimamente intesi, se ora, come confessate, in 14 anni che
siete in casa nostra non ci avete mai veduto d’accordo, donde può procedere?».
Una consolazione Antonio ha trovato pur nel disappunto per il matrimonio del fratello:
che non ha avuto figli. Non si stanca di ripeterlo alla madre, ogni volta che le rinfaccia
la preferenza per Carlo: «Basta faccia Lei – questa è una lettera del 27 febbraio
1821 – ma almeno pensi che siamo suoi figlioli ambedue, che a rigore dovrebbe, e le
leggi lo permettono, disporre a favor mio qualcosa di più se non nell’usufrutto, almeno
nella proprietà, perché ho figlioli». Non si fa scrupolo di ricordarlo senza alcun
tatto allo stesso Carlo, quasi ingiungendogli il 21 luglio 1820 come ovvio, dopo la
morte dello zio, questo scambio: «Mandare a me intatto ed illeso a vostro risico e
conto il quadro dell’albero di nostra famiglia fatto dal fu nostro signor Lussorio,
che Dio riposi, onde io possa, come desidero, inscrivervi ora anche i miei figli,
e voi prender l’antico, in cui siamo anche noi, ma che non può proseguirsi per mancanza
di spazio».
Ma se Antonio ha sperato che alla fine nonostante tutti i dissidi questa situazione
del fratello facesse trionfare l’interesse del casato su tutte le divisioni, è rimasto
deluso. Entro il 1833 Enrica Carrassali è morta; otto anni più tardi l’ormai quasi
sessantenne e malato Carlo risulta sposato con una donna di oltre vent’anni più giovane
di lui, che gli ha dato tre figli maschi, ora rispettivamente di 7, 5 e 4 anni. Anche
se non avranno alcuna parte nella vita dello zio, col quale le questioni patrimoniali
sono ormai risolte, vale la pena ricordare i loro nomi, che rappresentano tutto un
programma di memoria insieme familiare e politica: Napoleone, Alessandro, e Cesare
Lussorio.
Carlo, per quel poco che lo possiamo conoscere, è un uomo di carattere molto diverso
dal fratello, anche di diverse abitudini e frequentazioni. Viene ricevuto dalla contessa
Elena Mastiani Brunacci, che è il punto di riferimento dei liberali pisani, ed anzi
si trova proprio nel suo palco al teatro una sera del 1821 che la dama partecipa a
una clamorosa manifestazione di biasimo verso un altro patrizio, ritenuto in città
una spia del governo. Forse la totale renitenza di Carlo ad accettare sacrifici da
cadetto in vista di un preteso superiore interesse familiare è anche in qualche rapporto
con le sue idee in materie pubbliche. Almeno Antonio sembra aver considerato insieme
i due aspetti, alludendo oscuramente, in una lettera al fratello del 26 maggio 1817,
a «qualche Società, cui potete appartenere»: «Però non mi fa specie questa strana
vostra e snaturata maniera di pensare, perché anche per disastrar me non vi è importato
di quasi rovinarvi per voi, sicché si vede che le massime che professate non solo
inibiscono ogni riguardo per i vincoli del sangue, ma inclusive ve ne comandano la
contrarietà, e pur troppo ne vedo altri esempj».
Politica a parte, i due fratelli si sono scontrati per ragioni d’interessi lungo un
buon ventennio dopo la divisione patrimoniale del 1805. Resta infatti fra loro la
pendenza della prestazione annuale in derrate alimentari che Carlo deve ad Antonio
per pareggiare le quote; ma soprattutto si aprono ripetutamente nuovi fronti, per
la costituzione delle doti delle sorelle, per la liquidazione dei debiti del padre
e alcune cause connesse, per la spartizione dell’eredità dello zio Lussorio. Tutte
queste vicende si sono alla fine chiuse senza aver provocato drammi spettacolari,
ma rendendo intanto spigolosi e aggressivi, e in qualche frangente proprio cattivi,
i rapporti tra i due uomini, che pure, anche grazie alla mediazione esercitata dalle
rispettive mogli, non hanno mai del tutto abbandonato una specie di reciproca compatibilità
domestica.
Il loro carteggio – oltre al copialettere di Antonio restano poche lettere di Carlo
a lui – comprende liti di denaro, vere e proprie ingiurie, e inviti fra parenti,
alternati spesso a breve distanza di tempo, a riprova del fatto che la confidenza,
se non l’affetto, familiare non ha una sua storia separata da quella degli interessi,
per quanto contrastanti. Sentiamo una volta l’irritazione di Carlo, 2 luglio 1809:
«Caro fratello. Non posso e non voglio più star dietro alle vostre coglionerie, poiché
voi non fate che cercare dei pretesti spallati per non mettere le mani a tasca e restituirmi
ciò che mi è dovuto». Siamo già più abituati a quella di Antonio, 18 dicembre 1816:
«Che diavolo ragghiate colla veramente degna di voi del 16 stante?». E così via. Ma
anche, in una lettera del 28 novembre 1820 che pure rimprovera a Carlo un suo debito:
«La Carolina nuovamente incinta vi rammemora la vostra parola di esser compare, di
cui questa è la volta che vi riservaste. La Diamante ha la scarlattina jeri sortita
fuori. Della Paola si dubita altrettanto. Nemesio ha sofferto dei vermi, ma ora sta
meglio. Io sto bene. Tutti noi poi si saluta tutti voi altri».
L’ideologia familiare, in crisi ma sempre ben viva, aiuta a capire questa apparentemente
insensata vocazione alla tortura attiva e passiva. Con le sorelle maritate, per non
dire del cognato francese, una volta esauriti gli strascichi dotali Antonio pare non
aver quasi più avuto rapporti. Ma Carlo, il suo cognome, i suoi beni sono sentiti
dal maggiore di casa come parte integrante della storia e della vita della famiglia
– fino appunto a sperare che naturalmente vi si ricompongano – e questo alimenta insieme
le frequentazioni, la dimestichezza e i litigi. Non bisogna poi dimenticare che accanto
a Carlo c’è, a rinforzare la necessità dei legami e moltiplicare la possibilità delle
tensioni, una donna dell’indole di Anna Grassi.
L’insistenza pesante con cui Antonio si lamenta della preferenza della madre per il
fratello affonderà senz’altro le sue radici in quel passato lontano di freddezza manesca
attestato dallo zio Lussorio; ma certo si spiega anche alla prova evidente di un comportamento
attuale. La donna, che della sua dote di 4.500 scudi ha potuto recuperare dopo il
disastro del marito solo un valore di 500 in oggetti, obbliga fin dal 29 febbraio
1808 il figlio maggiore a pagarle trimestralmente gli interessi sui restanti 4.000,
che nella divisione dal minore sono rimasti accreditati a lui. Poi però il 12 luglio
1810, quando, si badi, lo stesso Carlo è sposato da cinque anni senza figli, mentre
Antonio ha già avuto la sua Diamante, di questi 4.000 ne dona, riservandosene l’usufrutto,
1.000 a Carlo; e il 16 dicembre 1812 decide la spartizione a metà degli altri 3.000
dopo la sua morte, ma con un marchingegno quasi umiliante a tutela del figlio minore
dalle possibili malversazioni del maggiore.
Su tale sfondo vanno dunque collocati i gelidi biglietti con cui Antonio accompagna
i versamenti trimestrali alla madre, e la stizza che proprio lui, uomo gerarchico
quant’altri mai, lascia trapelare sotto l’ossequio formale quando gli viene rimproverato
un ritardo nel pagamento, come nel caso del biglietto del 10 settembre 1815: «Essendo
Ella stata da me servita dell’anticipazione trimestrale, di che nella Sua del 2 stante,
ed avendoli spiegato verbalmente quanto sia inconveniente l’epiteto scaduto, gradisco però che la presente rispettosa mia le serva per ogni altra simile occasione
di opportuna memoria, raccomandandole intanto vivamente di ricordarsi della nostra
Diamantina, e confermandomi inchinato alla Sua [benedizione] ecc.». Per contro, l’ossessione
delle trame che Carlo a Pisa può ordire con lei a suo danno gli fa spesso accarezzare
il progetto di convincerla a trasferirsi – proprio Anna! – nel ritiro di Castel di
Nocco; e una volta, il 3 marzo 1815, addirittura quello di indurre il suo avvocato
pisano a prestarsi a una pressione al limite del rapimento:
Il dovere però ed il sentimento mi sprona a non trascurar la madre, e non vedo meglio
compenso, se il fatto in tutto o in parte si avvera, che sottrarla dalla predilezione
che l’incatena, dirò così, anche a costo proprio al precitato mio fratello [...] Domenica
mattina 5 stante procurate combinarvi con essa alla messa, che probabilmente udirà
in una chiesa prossima a casa o S. Cristina, o la Maddalena; nel sortire abbordatela,
e brevemente pressatela, che venga subito dalla zia Anna Grassi [cognata omonima],
che preverrete a tal uopo; ivi convincetela, che le conviene per tutti i titoli tornar
meco, e quando annuisca, un carrozzino sia pronto per qua condurla. Il seguito lo
combineremo. Siccome è solita portar seco la chiave delle sue stanze, la roba che
lascia non formi ostacolo: e perché più di questa preme la persona, e perché subito
qua arrivata mi porterò costà con un barchetto a sgomberarla.
L’isolamento arroccato nella difesa dei propri minacciati diritti ha un prezzo psicologico
grave, che Antonio evidentemente ha pagato tutto. In altra moneta, lo ha fatto pagare
anche agli altri. Nel corso degli anni Carlo è venuto a trovarsi in difficoltà economiche.
Antonio glielo rinfaccia come una colpa fin dal 31 agosto 1815: «Nella contrarietà
a me, avete ordito e la vostra rovina ed ogni mio male possibile». Entro il 9 agosto
1819 – giorno in cui Antonio ne scrive a un legale pisano – Carlo ha venduto «tutto
meno la villa, l’orto ed un meschinissimo pezzetto»; ha venduto cioè, come viene meglio
precisato subito dopo, terre per oltre 5.000 scudi, e per 600 la villetta dentro il
villaggio di Caprona. Il fratello maggiore si guarda bene dal tendergli una mano;
o meglio, gliela tende nel modo più conseguente alla propria mentalità e al proprio
carattere: un anno e mezzo più tardi, l’11 gennaio 1821, si offre di comprare da lui
la sua quota della rendita dovuta fin dai tempi di Leonardo dai Bracci di Firenze
al ramo di Pisa, facendo così rientrare per intero nella linea principale un antico
cespite familiare che in seguito al testamento dello zio Lussorio era in parte finito
in quella cadetta. Un mese dopo questa proposta – proposta, a quanto appare da successivi
documenti patrimoniali, accettata – Antonio, negando a un avvocato di Vicopisano di
aver contribuito con le loro vertenze alle difficoltà di Carlo, ne parla con un’indifferenza
sprezzante: «Sono in grado di rilevarle, che per un uomo decotto non qualificano mio
fratello le mie pretensioni».
Anche quello che sembra esser stato l’ultimo importante affare fra Antonio e Carlo
è legato al recupero di un vecchio bene di casa. Come si ricorda, la moglie di Lussorio,
Teresa Cosi del Vollia, si è vista assegnare dal marito quel podere di S. Andrea di
Caprona, fin dal testamento di Leonardo al centro di varie pianificazioni e vicende
familiari. Più rispettosa che non Lussorio della logica del casato, Teresa Cosi, volendo
il 6 settembre 1824 disporre – come dice – «dei beni dei quali la provvidenza divina
e l’amore del defunto mio marito ha voluto favorirmi», ha per così dire restituito
il podere alla famiglia di lui, lasciandolo in parti uguali ad Antonio, a Carlo e
alla sorella socialmente meglio collocata, Eleonora. Dopo la morte della zia, avvenuta
il 4 marzo 1830, e la stima del podere conclusa il 9 giugno successivo, Eleonora e
il marito genovese si sono subito disfatti del loro terzo, vendendolo il 26 giugno
per 2.000 scudi ad Antonio.
Si ha invece come l’impressione che Carlo abbia cercato di tener duro. Proprio a partire
dall’estate del 1830 s’impegna più fittamente che in precedenza in una serie di debiti,
contratti per lo più con delle controparti non del tutto estranee, come il marchese
Antonio Viviani, che è marito di una nipote di Teresa Cosi, o come la Deputazione
per il monumento allo scienziato Vaccà Berlinghieri, di cui è presidente il conte
Mastiani Brunacci. Passano quasi tre anni prima che Carlo finisca col vendere la sua
terza parte del podere di S. Andrea al fratello; e dei 1838. 3. 16. 4 scudi pattuiti
dopo la detrazione degli utensili ne riceve in realtà solo 122. 4. 15. 4, perché il
resto va a coprire i suoi debiti che Antonio si accolla, senza per altro liquidarli
subito.
L’attenzione paziente e ringhiosa di Antonio alle opportunità e ai tempi giusti degli
affari è del resto un tratto che affiora quasi in ogni riga del suo copialettere e
delle sue carte amministrative. Si potrebbe documentare puntualmente, in molti altri
casi oltre quello del podere di S. Andrea, la sua pratica del vecchio metodo di comprare
a prezzo vantaggioso beni immobili di persone in difficoltà: parenti, dipendenti,
vicini: il proprio fratello, come il muratore di Buti Laurentino Frediani, come il
fratello di Teresa Cosi, Pietro, costretto a una vendita giudiziaria nel corso del
1833. Si potrebbe documentare altrettanto puntualmente l’altra pratica di non pagare
un quattrino finché non ci è stato costretto; e di ficcarsi del tutto naturalmente
in una causa legale dopo l’altra, come in una via normale di risoluzione dei problemi,
anzi di gestione degli affari.
«Ognuno ha il suo sistema – ha scritto una volta, il 2 luglio 1821, Antonio a Carlo
–. Io ho quello di ponderare ogni minima cosa». Di questo sistema, inteso nel senso
lato che abbiamo visto fin qui, si deve in effetti dire, facendo un bilancio, che
ha dato i suoi frutti, evidenti nel confronto coi risultati del fratello. Intorno
al 1841, quando vengono descritti a catasto i beni dei proprietari toscani, Antonio
viene tassato per una rendita di oltre 9.000 lire, contro le circa 1.500 di Carlo.
Anche calcolando che il maggiore ha ereditato la primogenitura Pigliù, non c’è più
alcuna proporzione fra le rispettive ricchezze. Quanto ai termini assoluti, capitalizzando
una rendita di 9.000 lire si ottiene un patrimonio di 180.000, cioè di oltre 25.000
scudi: per un possidente campagnolo che si tiene lontano dalle speculazioni finanziarie,
un discreto patrimonio, e comunque tale da reggere il paragone con quello di famiglia
alla vigilia delle divisioni e dei disastri della seconda metà del Settecento e dei
primi anni dell’Ottocento. In questo senso, se il suo bisnonno Leonardo si può considerare
il fondatore del casato, Antonio può ben a ragione rivendicare il titolo di rifondatore.
È vero che alla somiglianza delle capacità affaristiche e organizzative non ha corrisposto
lo stesso rispetto da parte altrui: l’obbedienza che Leonardo pare aver ottenuto facilmente,
Antonio l’ha spesso dovuta perseguire in modo tortuoso, e qualche volta alzando stridulamente,
e magari inutilmente, la voce. La sua stessa madre lo ha costretto a difendersi da
una brutta fama di avidità; per esempio nella lettera a lei indirizzata il 22 marzo
1819 troviamo scritto: «Tali miei sentimenti li renda pure ostensibili nella presente
a quei cavalieri, che Ella mi cita così in genere, e se sono realmente di sentimento,
e sentimento buono, rileverà che invece di caratterizzarmi come Ella dice, comprenderanno
che tutt’al più sono uno che facendo meno caso dell’interesse lo sacrifico e lo sacrificherò
alla mia quiete d’animo e di corpo». Il suo stesso fratello ha scritto di Antonio
nei termini più negativi anche a estranei, come una volta, il 19 aprile 1810, a un
perito agrario: «Le dirò adunque che essendomi per l’addietro fidato ciecamente a
mio fratello, che credevo giusto e non coperto dal velo detestabile dell’ipocrisia,
ne ho ricevuto il frutto di essere ingannato in qualunque genere, e ogni qual volta
ho scoperto delle sue [manca] ho dovuto stralciare sempre a mio danno, non volendo
mettere un fratello per i tribunali, tanto per le spese gravose che per la vergognia».
Per apprezzare con quanta più possibile obiettività una tale immagine si dovrebbe
forse citare per esteso la lunga lettera scritta da Antonio al suo contabile pisano
il 18 gennaio 1819, due settimane dopo la morte dello zio Lussorio, con riferimento
anche al lavoro in corso degli esecutori testamentari. Contiene una strenua ricerca
documentaria sulle rendite del defunto, coronata da un invito ad andare anche più
a fondo:
Ella vede dunque che doveva avere un patrimonio cospicuo. Che il medesimo ne dissipasse,
a chi lo ha conosciuto non par probabile [...] Tuttociò rimarco perché a forma di
quanto Ella mi disse, che non sapeva gran cosa oltre quello che è specificato nel
testamento, osservino minutamente i fogli se vi è memorie o recapiti anche oltre le
impostature dei libri [...] Sicché torno a raccomandare a Lei, ed a quei Signori,
che ricerchino bene se non a riguardo mio, che non meriterò nulla, almeno dei miei
figli, che soffrono oggi tanta falcidia nelle disposizioni dei seniori di famiglia.
Ci si può anche non sorprendere che Antonio abbia avuto a parere di molte persone,
di molte persone che lo hanno conosciuto bene, un carattere non gradevole. Ma rilevare
come sia risultato spesso un uomo per lo meno antipatico conta poco: ben più a fondo
della sua psicologia personale, il suo problema è stato appunto di volersi comportare
da patriarca alla Leonardo in un’epoca nella quale – anche dopo la Restaurazione –
certe idee, certe pretese, certi atteggiamenti, non sono più stati nonché scontati
neppure facilmente accettabili.
Due anni e mezzo prima della morte di Lussorio, a ridosso della registrazione della
volontà testamentaria, c’è stato fra zio e nipote un aspro scambio di lettere, di
cui già conosciamo la parte più specificamente dedicata a quella volontà. Ma l’occasione
dello scambio è stata la morte senza figli avvenuta nel 1816 di Onofrio, ultimo maschio
dei Bracci di Firenze. Fin dal 14 giugno 1807 Antonio aveva chiesto a un prete di
S. Lorenzo, la chiesa e quartiere fiorentino d’origine, di far uso delle sue relazioni
con Onofrio a vantaggio degli agnati pisani:
Esso è ricchissimo, è unico, non ha né moglie, né figli, e presuntivamente finirà
in lui cotesto ramo primogenito di mia famiglia. È uomo piissimo, sebbene non di gran
mente, ed è molto familiare dei padri di S. Marco [...] Le sarà d’ostacolo la di lui
sorella signora Prudenza vedova Roffia, che forse avrà il suo partito anche in S.
Marco, a causa dell’eredità cui aspira la di lei figlia e nipote respettiva, signora
Guazzesi, ma Vostra Signoria molto Reverenda potrà opporre che è meglio ajutare la
casata propria che qualunque altra.
Questo tentativo non ha avuto alcun successo; ma in forza del principio che «è meglio
ajutare la casata propria che qualunque altra», il 22 ottobre 1816 Antonio cerca di
convincere lo zio Lussorio a intraprendere con lui un’azione, amichevole ma eventualmente
anche legale, per ottenere, come maschi sopravvissuti, e contro le disposizioni testamentarie
di Onofrio in favore delle figlie della sorella, almeno la «successione nei livelli,
che sento potesse avere quella casa Bracci con particolari, detti, come leggo nel
celebre Perera, ex pacto». Antonio è di suo un piantagrane prevaricatore, con un tocco di pedanteria da leguleio;
ma bisogna pur dire che cento anni prima una tale rivendicazione su base giurisprudenziale
– e dunque, ad orecchio moderno, cavillosa – delle prerogative agnatizie sarebbe stata
assolutamente normale, e che anzi non è neanche sicuro, su di un particolare punto
come questo, che dopo le leggi del 1814 una sua causa civile sarebbe stata votata
alla sconfitta.
Il fatto è che molte persone, anche più vecchie di lui e ben lontane da tentazioni
rivoluzionarie, persone come il fiorentino Onofrio o come lo zio Lussorio, la pensano
ormai diversamente: non perché abbiano sostituito il sentimento al casato, ma perché
agli interessi e agli affetti propri del casato hanno sostituito più coerentemente
di Antonio gli interessi e gli affetti propri di una più raccolta unità domestica,
quella che del resto Antonio stesso sta forse per un altro verso sperimentando in
famiglia a Castel di Nocco. Ecco la reazione, il 30 ottobre 1816, dello zio al suo
invito, con l’avvertenza che nella sua lettera «Perera» è il giurisperito Benedicto
Pereyra, ma Lussorio, convinto di un’idea moderna di proprietà e impaziente di garbugli
da azzeccare, li taglia corto fingendo di leggere «Pevera», il nome del grosso imbuto
che serve a imbottare il vino:
Rapporto all’articolo livelli, fo di berretta al celebre Pevera fosse anche Peverata,
non solo all’Ex pacto, ma anche al Convenuto [...] L’incontrastabilità che a noi ci pervenghino, mi vien supposto e anche asserito
dal mio Celeberrimo Ortolano che conosce benissimo non solo la Pevera ma anche il
Tino e il Fiasco, e da me consultato, che ognuno è padrone del suo, e di disporre
liberamente a meno che non sia fatta parola speciale e individua di quello che si
vuole eccettuare, e ciò nelle testamentarie disposizioni. Così egli decide ex cattedra
all’articolo Tinello e Barile, e confermato dalla mia cuoca, capitolo Cazzarole [...]
Devo in ultimo dirvi che io non mi sento punto né poco far questioni, né imbarazzarmi
con procuratori, cabalisti, mozorechi ecc. per far intimazioni, e molto meno citar
avanti i tribunali i morti per farli la guerra richiamandoli dalle loro tombe, o dal
Paradiso, o da Casa il Diavolo, cosa turpe e indegna specialmente fra i parenti; lasciando
alla pubblica esecrazione quello che altre volte è stato fatto anche per pochi soldi,
che in ultima analisi sono sortiti a capo rotto, e restati perpetuamente il ridicolo
e il disprezzo delle persone oneste [...] Io ho bisogno di quiete perché gli anni
mi pesano. I miei figli non hanno di me bisogno. In quanto a me, per viver con decoro
secondo la mia nascita e matrimonio contratto, cerco di contentarmi di quel poco che
ho, attaccando spesso delle voglie ai chiodi, e per quattro soldi più o meno non mi
voglio scorciar la vita in aggajarmi. Non mi venite a dire: Lei parla così perché
non ha figli. Io – poi o lo crediate o no, non me ne inporta – ma vi assicuro che
direi l’istesso.
Signorotto di campagna
Per capire ancora meglio come gli sforzi patrimoniali di Antonio non siano dettati
da un’avidità generica e fuori dalla storia – men che meno dalla mentalità borghese
del guadagno –, ma da una specifica visione del mondo reazionaria più che conservatrice,
serve vederlo all’opera anche fuori dall’ambito delle vicende familiari, nella manifestazione
delle sue idee e nella pratica dei suoi rapporti sociali.
Una volta, da giovane, al tempo del matrimonio con la non nobile Carolina Banti, Antonio
mostra per un momento – e ne scrive, lo ricordiamo, a un cugino nell’estate del 1808
– di accettare le massime dei Francesi al potere: una ragionevole presa d’atto dell’opportunità
politica e della propria emergenza finanziaria. Ma niente di serio e profondo: già
l’anno successivo, il 1° novembre 1809, chiede inutilmente al sottoprefetto di Pisa
di poter continuare a portare il distintivo del soppresso Ordine nobiliare di S. Stefano;
e il 5 aprile 1810 prepara addirittura un breve memoriale da inviare al ministro della
Giustizia francese Régnier contro l’estensione alla Toscana dell’abolizione dei fedecommessi.
Gli argomenti sono quelli consueti sull’utilità di mantenere una scala di «gradini
intermedj» di «cospicue famiglie» ai piedi del sovrano – un sovrano del quale Antonio
stenta a cogliere la novità – con una marcata insistenza sui contraccolpi già provocati
nei patrimoni dal finanziamento delle doti, comprensibile per chi è ora alle prese
con Amalia e Luisa. Caratteristico di Antonio è il cavillo linguistico contro la retroattività
dell’abolizione: «L’articolo 896 del Codice si esprime: ‘Toute disposition par la
quelle le donataire, l’heritier instituè ou le legataire sera chargè de conserver et de rendre a un tiers sera nulle’. L’espressione sera non è uopo esser grammatici per conchiudere che denota futuro, non presente, non
passato».
Come non solo lo zio Lussorio, ma molti altri patrizi toscani, Antonio si trova a
dover collaborare con un regime non amato, e il 3 giugno 1813 diventa maire, sindaco, del suo comune di Vicopisano. Il Discorso pronunciato in occasione dell’entrata in carica non brilla per efficacia, né per
attenzione ai principi del governo francese: è un’esortazione a seguire il modello
delle glorie passate di Buti e Vicopisano: «Qualunque sia la giornèa che di allacciarvi
vi piaccia, luminosi non vi mancano esempli, di potenti appoggi non gite sforniti,
per non esser certi di riportare onorifica palma in qualunque agone». I luminosi esempi
sono poi quelli dei personaggi originari dei due paesi, citati come risultato di uno
spoglio delle cronache medievali di Pisa: «Chi sa poi di mai quanti l’edace morso
del tempo i papiri consunse, le membrane e le carte che le di lor rinomate gesta ci
trapassavano».
Giusto un anno più tardi, il 19 giugno 1814, Antonio ha la soddisfazione di tenere
il Discorso di accettazione del giuramento di fedeltà dei consiglieri municipali di Vicopisano
al restaurato granduca Ferdinando III. Bisogna riconoscere che qui perfino lui mostra
di avere il senso della fulminea grandezza di ciò che ha fatto Napoleone, tanto da
cercare, pur goffamente e poco perspicuamente, di darne l’idea con lo stesso effetto
di concitazione che sarà proprio del Cinque maggio: «Che si porti infatti la considerazione sulla prematurità dell’algente stagione,
sulla unanimità del risoluto incendio, sulla segretezza dell’incalcolati abbandoni,
sulla costanza della settemplice amalgamazione, e sostenga quindi chi può, che lo
sfacelo dello smisurato colosso politico, che nel suo pugno tenea non ha guari pur
le nostre sorti, imagine trovi non che prototipo nei monumenti delle nazioni e dei
regni». Per il resto, tutto un prevedibile entusiasmo per il ritorno del legittimo
sovrano, e tutto un sospiro di sollievo per aver esso, di già, «restituito alla Chiesa
il primato, alleviate all’industria le imposte, assicurato alla gioventù l’indirizzo»,
e anche – questo in odio alla burocrazia francese – «semplicizzati i metodi delle
formalità».
Forse più semplici e concrete che in quest’occasione quasi votata all’inane retorica
le idee di Antonio appaiono nello svolgimento di un incarico delicato che è documentato
aver svolto fra 1829 e 1831, revisore preventivo dei testi, cioè censore, per il pubblico
teatro dell’Accademia dei Rinnovati di Buti. Si comincia bene: il 20 gennaio 1829
il vicario regio di Vicopisano lo ha invitato a fare questa funzione anche per il
teatro della vicina Bientina, ma subito dopo gli comunica che i filodrammatici di
quel comune hanno ottenuto di potersi servire come censore del loro medico condotto,
con il plausibile argomento che è più comodo risolvere tutto in paese. «Il motivo
dunque più verosimile – replica puntiglioso Antonio al vicario il 3 febbraio – è che
comprendendo essi che io non potevo esser circuito da alcun lato, si sarebbe voluto
un diverso revisore, che o per un riguardo o per un altro potess’essere maneggevole».
Per loro fortuna invece gli abitanti di Buti possono, nei mesi e negli anni successivi,
godere dei frutti della sua paterna attenzione. A sollevare più spesso questioni sono
le tragedie di Alfieri. Le varie battute anticlericali e un famoso verso – «Seggio
è di sangue, e d’empietade, il trono» – del Saul ispirano ad Antonio un fervorino al segretario dei Rinnovati: «Gli uditori vedono
in ultimo, e gl’istruiti da più storie sanno lo sciaurato fine individuale che subiscono
tutti quei che ledono i sacerdoti nel loro carattere, ma repugna assolutamente al
mio modo di vedere in genere, ed in specie sotto il dolcissimo ed integerrimo governo
dell’attuale ottimo Sovrano, quell’aforismo isolato, che senza bisogno vien lanciato
per bocca di Saul nella scena III dell’Atto 4°». Anche per l’Oreste bisogna intervenire a correzione del poeta, come indicato al solito segretario:
Ormai si sa pienamente che le primitive opinioni di questo checché nobilissimo letterato
erano antimonarchiche. È forse perciò, che tratto tratto emana l’entusiasmo repubblicano.
Uno slancio ne sembra l’epifonema che Clitennestra, Atto 3° Scena 5, della supposta
versutilità del re Strofio indirizza al re Egisto: «Or tu che re sei fatto/ non sai
per prova il cor di un re che sia?». Ora questo credo debba affatto sopprimersi, e
né il senso soffre punto, cominciando la sua risposta «Barbaro!». E proseguendo ove
dice «Amor, virtude/ e fede e onore in voi mutabil cosa,/ giusta ogni evento sono», a quel voi, che ingiustamente ferisce tutti i re in un fascio sostituirei te restringendo la satira al solo Egisto. Tanto potrà servir di norma, se a Lei piace,
mentre Lei particolarmente con cui corrispondo dovrei chiamarne responsabile.
Si capisce che un «regio revisore» – questo il titolo ufficiale dell’incarico di
Antonio – non è comunque il tipo ideale del lettore di manica larga degli attacchi
al trono e all’altare. Ma dopo tutto si tratta di un trono passato alla storia sotto
il motto del lasciar correre. Certo in almeno un caso, un caso più vicino e scottante di Alfieri, il censore
è proprio stato, come si dice, più realista del re:
Ho letto fremendo su «quanto/ permette all’odio una potenza arcana» (Niccolini in
Antonio Foscarini Atto 3° Scena 2 a 42). La tragedia del signor professore d’istoria
e di mitologia nell’Accademia delle Belle Arti in Firenze ecc. signor dottor Gio.
Battista Niccolini intitolata Antonio Foscarini giusta l’edizione del Piatti del 1827 che Ella ha ben voluto inviarmi con stimatissima
sua di questa mattina, e che Le respingo con la presente, «Effectus probavit virtutem».
Altronde se Sua Altezza Imperiale e Regia il nostro beneficentissimo e saggio padre
e Sovrano attuale ha accordato all’editore il privilegio, l’onore che ne riflette
nell’opera la francheggia contr’ogni eccezzione.
La preoccupazione di non contribuire con pubbliche declamazioni a quella che, sempre
rivolgendosi al segretario dell’Accademia di Buti, Antonio definisce l’«odierna veemenza
della gioventù» corrisponde dal suo punto di vista, fra 1829 e 1831, al più elementare
senso comune; ma più in generale la difesa del trono e dell’altare è anche la premessa
e lo sfondo dell’esercizio della sua paternalmente sovrana autorità sul microcosmo
di Buti. Il giovane uomo che abbiamo visto esiliarsi nel 1805 in un ritiro isolato
sotto il segno delle difficoltà e dei sacrifici ci si ripresenta poi tante volte in
età matura come il maggiorente principale e l’ossequiato notabile della sua comunità
paesana, dove ha creato una rete di clientele e dipendenze, in cui non mancano neppure
i sonettisti a rendere più durevoli del bronzo le tappe della sua carriera d’incarichi
e d’onori. Sentiamone uno, Carlo Orlandini: «Crederò che il mio dir non vi dispiaccia/
se Poeta qual son vi metto al pari/ di quei che d’immortal portan la taccia/ e dopo
morti servon d’esemplari».
Anche il palazzo di Castel di Nocco, di cui prima di sposarsi Antonio ha sperimentato
e più volte lamentato la solitudine, appare nei suoi anni maturi e senili il centro
di una piccola corte animata da portatori d’omaggi, impetratori di favori. C’è un
gran via vai di ecclesiastici, soprattutto di frati: ecco come Antonio rimprovera
il 30 gennaio 1840 il guardiano dei Cappuccini di Pisa, che gli ha mandato per posta
una richiesta di elemosina: «Ben molte altre occasioni aveva di farmela pervenire
senza spesa, primieramente per il cappuccino che da Pontedera vien qui, e che jeri
l’altro vi era a desinare, ovvero per lo zoccolante di S. Croce, che pur qui viene,
e che stanotte vi era a dormire, o infine per una delle 2 cappuccine di Pisa, che
ancor esse vi vengono, ed eranvi tre giorni fa a desinare». Questa lettera contiene,
fra l’altro, forse l’ultima testimonianza pervenutaci di Antonio sul fratello Carlo,
ormai malato, e non lontanissimo dalla morte, che avverrà nel 1846. In cambio dell’elemosina
Antonio chiede al guardiano di concertarsi con un altro frate «ampiamente informato,
per visitare Lei pure in nome mio il mio fratello paralitico, onde profitti della
malattia per assestare i suoi interessi spirituali e temporali».
La fitta conversazione fratesca è presumibilmente dovuta all’orientamento della pratica
religiosa di Antonio, accanito collezionista di concessioni, privilegi, diplomi d’appartenenza
di confraternite pie legate a congregazioni regolari; e anche cultore devoto di reliquie:
non solo in un caso d’emergenza quale, nell’agosto 1810, il pericolo di vita della
neonata figlia Diamante, cui viene appesa al collo – come Antonio ha scritto allora
alla sorella Amalia – «la reliquia di S. Filippo Neri protettore della nostra famiglia,
dopo di che a comun sentimento si è prodigiosamente riavuta»; ma anche in tutta calma,
come quando il 5 agosto 1819 chiede a Carlo di metterlo in contatto con un «soggetto,
che mi dite può procurarmi (non rifare) un’altra reliquia di S. Gaetano».
I suoi rapporti non sono stati sempre altrettanto buoni con i preti secolari, parroci
e pievani dell’area dove si estende la sua pretesa di autorità signorile; perché,
come appare evidente dalle tracce di più d’uno scontro rimaste fra le sue carte, non
tutti sono stati disposti ad accondiscendere a quella pretesa. Un esempio – con la
dovuta avvertenza che è il più spiacevole – della combinazione di permalosità e insolenza
nel tratto padronale usato da Antonio col clero della zona. Siccome prete Antonio
Pardini di Buti ha firmato un’istanza popolare per una strada avversata da Antonio,
questi lo critica pubblicamente in una seduta del Consiglio comunale di Vicopisano
dell’agosto 1832, aggiungendo la sprezzante battuta che il Pardini «non mangia se
non celebra», cioè se non trova qualcuno che gli commissiona delle messe da dire qua
e là. Il 22 agosto il prete protesta con una lettera risentita, chiedendo ragione
ad Antonio delle sue parole: come può dire che non mangia se non celebra? quando
mai lo ha fatto nel palazzo di Castel di Nocco? Anzi: «In un’epoca senza riguardo
alla salute, e rispetto al carattere sacerdotale, capricciosamente, e con cabala si
volle ottenere un’indiscreta gita, ed ottenuta, si ebbe il coraggio di far sostenere
un’ora di anticamera e licenziar senza ricevere». La reazione di Antonio dev’essere
stata non solo, al solito, causidica, perché si fa rilasciare da cinque consiglieri
comunali di Vicopisano dichiarazione autografa che non ha pronunciato la frase spregiativa,
ma anche particolarmente rabbiosa e minacciosa. In una lunga lettera del 4 settembre
il prete Pardini è infatti costretto a profondersi in scuse e rimangiarsi il suo precedente
sfogo, concludendo con una supplica: «Mi lusingo che Ella ponendo in oblio il passato
avrà la bontà di rimettermi la mia lettera, che io intendo di ritirare, comecche non
contenga espressione che propriamente possa chiamarsi offensiva». Ma anche quella
prima lettera è rimasta in originale fra i documenti di Antonio.
Da parte di un nobile possidente che vive sulle sue terre, un atteggiamento paternalistico
e autoritario verso i contadini, gli abitanti dei paesi e perfino i loro pastori d’anime
non è, ben inteso, una stranezza. Si tratta di un atteggiamento cui non sono estranei
neppure i più aperti e intelligenti fra i nobili toscani contemporanei di Antonio,
quelli che hanno dato vita alle iniziative del giornale «Antologia», della Società
agraria dei Georgofili, dell’istruzione popolare: un ambiente di liberali moderati
da cui egli è sideralmente lontano. Ma per l’appunto il suo autoritarismo si distingue
dal loro per non corrispondere a nessun progetto di paterna sollecitudine verso i
sottoposti nella gerarchia sociale, a nessuna volontà d’intervento e miglioramento
riformatore.
Nel 1835 c’è stata un’occasione di confronto diretto di Antonio proprio con uno dei
maggiori esponenti della nobiltà liberale toscana, il giovane ma già maturo e impegnato
Bettino Ricasoli, allora non ancora trasferitosi anche lui in campagna nella sua tenuta
di Brolio. Ricasoli scrive il 10 novembre ad Antonio per proporgli l’adesione a una
società per azioni, la Compagnia Enologica Toscana, ideata per fronteggiare l’attuale
crisi dell’agricoltura regionale:
Il progetto è tutto nazionale, interessa ogni individuo che possegga, e per quanto
ognun sul bisogno urgente convenga, io dubito che alla proposta impresa s’opponga
lo spirito della popolazione in generale, la timidità d’altri, la diffidenza, o l’apatia
generale, che mentre si vede gettare rilevanti somme, si nega ad un utile tentativo
non grande sacrifizio. A ciò gioverebbe grandemente se ogni amatore del patrio bene
non limitandosi a contribuirvi direttamente, vi concorresse ancora coll’impiegare
il suo zelo, la sua parola, la sua persuasione presso gli altri in pro di cosa che
egli reputi utile; in somma intraprendesse, dirò, quasi un apostolato.
Rispetto a una tale concezione del ruolo dell’élite come un apostolato, la risposta
di Antonio, che pure alla fine, tra mille cautele e richieste di assicurazioni legali,
sottoscrive un’azione per 600 lire, è però disarmante per impossibilità di mettersi
sulla stessa lunghezza d’onda dell’interlocutore. Non è neanche più tanto una questione
d’incompatibilità ideologica, quanto di abisso culturale, e ormai quasi persino di
diversità linguistica:
Mi unisco inoltre pienissimamente con V.S. Illustrissima a dubitare, che alla proposta impresa si opponga lo spirito, se non della popolazione in generale, almeno, ed è ciò che conclude, dei manifattori condomini del genere, che sono costantemente
in ogni massima «Torys» e ne sia ringraziato Iddio per la parte morale. Per altro
se il governo volesse farsi dell’articolo una speciale occupazione avrei qualche idea
forse peregrina, che sognerei influisse al di lui miglioramento. Ma qui mi sentirei
dire, come il fabbro da Stratonico: «Non sentis te ultra malleum loqui?» A più forte
ragione debbo sopprimere ogni mia idea, in quanto che so bene che parlo ad un consanguineo
di quel Pandolfo del senatore Francesco Maria de’ Baroni Ricasoli, circa il quale
mi fè impressione quanto univocamente ebbe a dire il collegio de’ Teologi Fiorentini
(Prezziner, Storia dello Studio Fior., Tom. I a 54): «laudamus et comprobamus tam
utiles doctosque libros tam eximii authoris».
Due anni più tardi, e in questo caso trattando col governo, Antonio dà una dimostrazione
più grave di sordità e disinteresse. Quando nell’estate 1837 il vicario regio lo invita
a collaborare per il comune di Vicopisano a un’inchiesta sulla situazione del Granducato,
nella sua risposta del 4 agosto Antonio, pur annunciando di cominciare a raccogliere
i dati, si diffonde in una lunga, contorta, falsamente riverente elencazione delle
proprie non riconosciute pubbliche benemerenze. Ha offerto a suo tempo al sovrano
accurate trattazioni sull’Architettura militare, sulle Milizzie Nazionali, sull’Origine delle Mattematiche; ha più di recente steso un memoriale sui confini nell’interesse del Comune. Per
questi lavori, costatigli fatiche e sacrifici, gli sono state promesse le meritate
onorificenze, e dal Consiglio comunale di Vicopisano votato un premio in denaro, il
cui pagamento è stato poi però bloccato da un funzionario malevolo. È tutto questo
che gli preme mettere al centro dell’attenzione del vicario:
Mentre dunque vado ad approntare gli elementi che da me debolissimo all’uopo V.S.
Illustrissima si ripromette, il secondo capo della prenotata mia convinzione mi apre
via a farle rispettosa istanza, che mi lusingo non riuscirà frustranea, di procurarmi
mediante l’autorità medesima superiore, se non grazia, giustizia, fino, deve confessarsi, per l’interesse stesso della cosa pubblica, cui molto cale
incoraggito resti chiunque studia e s’istruisce, non defraudato, come rimprocciarmi
ho sentito da giovini, che avacciati da me alle nobili discipline mi han domandato
quali onori, quali lucri abbia io riportati dall’indefessa mia onnigena applicazione.
Il successivo 11 agosto Antonio invia infine la relazione richiesta, un meschino bozzetto,
più breve della precedente lettera di lamentela, e tutto descrittivo, senza un solo
dato statistico. Al vicario regio che glielo deve aver fatto chiaramente notare, replica
definitivamente il 15 mostrando una irrecuperabile incapacità di considerare un problema
d’interesse generale in termini diversi da quelli dei suoi risentimenti personali:
«Che a V.S. Illustrissima possa esser riuscita inaspettata la precedente mia sotto
il rapporto di cooperazione ad un lavoro per il governo ad intuito del medesimo è
ben plausibile il persuadersene, mentre se per l’impieghi lucrosi, se per le decorazioni
onorifiche si prediligono tutt’altri, l’equità stessa sociale reclama che non si ponga
a tortura un ingegno, che non solo non si corrisponde con incoraggimenti, ma si defrauda
della giustizia».
Col passare degli anni, questa concezione gretta ed egoistica che Antonio nutre della
sua autorevole preminenza locale è anche comprensibilmente destinata a tradursi sempre
di più in una suscettibile e bisbetica pretesa di segni anche esteriori di deferenza.
Per gli amministratori laici ed ecclesiastici della comunità invitarlo a una cerimonia
è diventato un problema, perché se la lettera d’invito non è intestata, intonata e
formulata secondo i gusti del destinatario si vedono recapitare delle involute e
stizzose risposte che accoppiano a un rifiuto immediato un’implicita dichiarazione
di perenne ostilità. È la prova di una vanità ormai senile, certo, ma anche di una
forma di coerenza a una visione del mondo in cui la nascita accorda privilegi senza
richiedere doveri, e l’onore non è separabile dalla sua visibile messa in mostra.
Su quest’ultima debolezza, che è stata anche di tanti borghesi, per decorazioni e
mostrine Antonio ha combattuto nel 1853, a 77 anni, la più difficile e tenace delle
sue ultime lotte, a difesa del suo titolo e grado di ufficiale. Per un nobile di
vecchio stampo – non dimentichiamolo – il mestiere delle armi è una seconda natura;
e Antonio, essendo stato fugacemente coscritto nelle regie bande granducali a fine
Settecento, si è poi per tutta una vita ostentatamente atteggiato a militare, facendosi
chiamare maggiore. Ha sempre avuto la coda di paglia in materia, tanto che quando
ancora nel 1820 l’incaricato della Consulta nobiliare toscana gli si è rivolto per
iscritto senza citare il suo grado, lo ha inondato con più lettere di argomenti storici,
morali e soprattutto giuridici per spiegare che, pur dopo la legge di scioglimento
del corpo delle bande, i gradi sono rimasti assegnati per privilegio agli antichi
ufficiali:
Avvegnaché «privilegium dicitur quasi privans legem, seu lex priva, idest privata». Così Isidoro c. privilegia dist. 3, o come altri definì: «privilegium est dispensatio
legis communis alicui facta» [...] Cresce l’interesse di manutenerlo, perché in ultima
analisi non si tratta che di un privilegio che dee classarsi fra i favorabili, cioè, com’Ella m’insegna, «ita alicui favet, ut nemini noceat, etam si juri communi
deroget». E ne spicca finalmente anche dovere: «nam ad rei publicae bonum et conservationem
valde conducit quod specialia beneficia et exemptiones benemerentibus conferantur»,
come rilevava l’eruditissimo Benedetto Pereyra nel suo Elucidario, lib. I, De Legibus,
sect. 7 § 233.
Nel 1853 però un decreto governativo taglia corto con simili argomenti, semplicemente
ingiungendo ad Antonio di deporre grado e titolo illegittimamente portati. Si tratta
probabilmente dell’applicazione specifica di un provvedimento di carattere generale;
ma Antonio e i suoi più stretti collegati e sostenitori, il pievano di Vicopisano
Santi Acconci e da Firenze il chirurgo militare Francesco Boncinelli, gridano contro
la congiura locale, e le oscure trame di una cricca di avversari, riuniti, a quanto
suggerisce Boncinelli, a Buti, «in casa del pievano, lui consenziente». In ogni modo,
mentre Antonio batte invano la via legale, proprio Boncinelli, ben introdotto in alto
loco a Firenze, vi ottiene un’accettabile soluzione per salvare l’onore del nobile
amico: un’esenzione granducale che gli risparmia l’umiliazione di non farsi più chiamare
maggiore. A Castel di Nocco è festa grande, alimentata dai complimenti dei fiancheggiatori.
Il 10 maggio Boncinelli scrive ad Antonio, schermendosi, di non aver «fatto altro
che testificare i Suoi meriti e combattere la nequizia degl’uomini tristi che senza
pudore oltraggiano al vero merito ed insultano alla venerabile canizie di un campione
della nostra militare famiglia». E lo stesso giorno il pievano Acconci scrive alla
«signora Carolina» che «i buoni il Signore li vuol prima provare, e poi li consola
anche su questa terra. Questo è un bel trionfo che la sua famiglia ha riportato sulla
persecuzione dei suoi nemici».
La vicenda viene archiviata sotto una luce molto diversa in ambito propriamente militare.
Sulla base della prima concessione, Antonio cerca subito di ottenere anche il diritto
di portare la divisa degli ufficiali a riposo; ma una lettera del 15 maggio del Comando
generale al comandante della piazza di Pisa blocca seccamente la nuova richiesta:
Dopo una quistione di diritto promossa dal cav. Antonio Bracci de’ Cambini Pigliù
davanti la pretura di Vicopisano, e nella quale doveva necessariamente restare soccombente
perché in lui non esisteva la qualità di uffiziale, della quale per cinquant’anni
era andato proclamandosi insignito, la benignità dell’Augusto Sovrano volle venire
in soccorso di questo suo antico e fedele suddito abilitandolo in via di grazia a
proclamarsi maggiore come per lo passato [...] Il sig. Bracci poi, che dalle resultanze
di fatto è dimostrato non aver da molto portato l’uniforme qualsiasi, può benissimo
anche oggi appagarsi dell’antico costume di dirsi maggiore senza vestire militarmente.
Ma queste parole poco lusinghiere, che pure provocano una petulante reazione di Antonio,
cui sono state comunicate, non compromettono la sostanziale riuscita della difesa
del suo prestigio, in particolare di fronte alla comunità locale. La fine di questo
stesso anno 1853 vede poi il principale dei successi d’immagine di Antonio, e, per
lui, una soddisfazione profonda: la nomina, con decreto del 19 novembre, alla carica
onorifica di ciambellano granducale. Un voluminoso e accurato fascicolo conservato
fra le sue carte raccoglie i documenti relativi a questo episodio. Fioccano le lettere
di congratulazioni, fra le quali ci sono anche quelle dei figli del fratello Carlo,
cui lo zio risponde con magnanima condiscendenza, e di nuovo compaiono in scena il
pievano Acconci e il chirurgo militare Boncinelli, il quale è stato con tutta evidenza
l’agente fiorentino anche di questa pratica, e qualche mese più tardi incarica l’Acconci
di riferire «al sig. cav. Ciamberlano» – come il pievano fa il 26 febbraio 1854 –
«che Sua Altezza parla spesso con molto interesse ed ha grata memoria della sua persona».
Spesseggiano i sonetti, come i due di Carlo Orlandini opportunamente dedicati all’augurio
«che casa Bracci non può mai perire», e come quello, letterariamente più lavorato,
del non oscurissimo Pietro Frediani di Buti:
Poiché all’Affrica altera e al Trace infido/ Pisa, un tempo apportasti e strage e
morte/ fosti a ragion chiamata invitta e forte/ e il nome tuo varcò di lido in lido.//
Oggi trionfa il cittadin più fido/ d’ordine equestre al tuo valor consorte/ Bracci,
che assurto alla regale corte/ suo Ciamberlan, che ha fra i maggiori il grido.// Sì,
che i gradi maggior si denno al merto/ dal giusto prence, che conobbe in lui/ il più
grande, il più fido, in arme esperto.// Fili dunque la parca i giorni sui/ più lentamente,
e sia di gloria il serto/ propria corona, a benefizio altrui.
In effetti la nomina a ciambellano, che riporta in famiglia un riconoscimento a suo
tempo ottenuto dalla personalità tanto superiore di Lussorio, costituisce per Antonio
un risultato davvero importante, il coronamento ideale di un mezzo secolo di sforzi
per ricostruire un patrimonio familiare come base e legittimazione di una posizione
sociale di preminenza e di distinzione. Per l’uomo ormai vicino agli ottant’anni dev’essere
stata la prova di aver saputo ripristinare il casato, e se stesso quale suo naturale
rappresentante, in una condizione che i rovesci avvenuti durante la prima parte della
sua vita rischiavano di aver compromesso per sempre. Una prova tangibile, come – di
lì a pochi anni, qualche giorno prima di morire – la desideratissima decorazione,
francese ma imperiale, della medaglia di S. Elena istituita da Napoleone III in favore
– figurarsi! – dei «compagnons de gloire» di Napoleone il Grande.
Antonio è morto a 82 anni, a Castel di Nocco, il 16 marzo 1858, un anno prima della
fine del Granducato di Toscana. Di lui abbiamo non un ritratto fisico, ma i connotati,
in un passaporto rilasciatogli il 1° settembre 1814: «Età anni 37. Statura alta. Capelli
castagni. Cigli idem. Occhi idem. Barba bionda. Fronte alta. Naso giusto. Bocca mezzana.
Mento lungo. Viso lungo. Carnagione pallida. Segni particolari nessuno».
Abbiamo invece due ritratti morali, di diversa ispirazione. Il primo, in data 8 novembre
1816, si deve a suo zio Lussorio, nell’ambito della loro polemica patrimoniale di
quell’anno:
Avete fatto il Collo torto, il Bacchettone, il Santo, lo Scrupoloso, il Chiesicola
e tutto spiravi (che che io mai e poi mai ci habbia creduto) un santificetur baciucchiando
tutte le crocette delle strade. Il militare e tutto spiravi cannoni, bombe, fortezze,
eserciti, battaglie, conquiste ecc. Poi come me passasti nella merderia, anzi meeria,
e tutto spiravi entusiasmo, come resulta dai vostri eruditissimi e zelantissimi proclami,
che formano un tesoretto di chi si è dato premura di averne le copie custodite con
la massima gelosia a perpetua memoria. Ora fate il giureconsulto e spirate codici,
ora il letterato ed ecco in campo le belle lettere, la poesia. Finalmente adesso tutto
vi siete dedicato a far quattrini e sempre pigolate, contando miserie ecc., e cercate
scuoprir le famose polle da cui scaturischino. Non è così? Qui ci farebbe bene una caterva di citazioni di
poesie ecc. Confessiamo dunque che siamo tutti d’accordo una gabbia di matti, un ammasso
di contradizioni, e seguiteremo ad esserlo fin che avremo vita.
Il secondo, nel necrologio apparso sul «Monitore Toscano» del 31 marzo 1858, è comprensibilmente
meno spregiudicato:
Nacque egli in Pisa dal Cav. Filippo e dalla Nobil Donna Anna Grassi il 17 Gennajo
1776. Attese fin da giovinetto con amore agli studj [...] Molte furono le missioni
che nello svolgersi delle vicende politiche ad esso furono affidate, e che con onore
compì, onde nel 1800 organizzata la Legione Mobile del Governo Pisano vi fu chiamato
Maggiore. Ritiratosi in seguito nella sua villa di Castel del Nocco fu in varj municipj,
e specialmente a quello di Vicopisano in molti affari di non poca utilità, e nel 1813
il Governo Francese lo volle Maire di quel Comune [...] Sposò nel 1809 Carolina Banti
di Buti, dalla quale ebbe numerosa prole che con decoro educò, e le sostanze avite
anziché diminuire con solerzia aumentò. Nel 1853 dall’Augusto Sovrano fu onorato dall’ambita
distinzione di Suo R. Ciamberlano, e nell’esercizio di suoi doveri incontrò il gradimento
dell’A. S. I. e R. Attaccato da febbre catarrale acuta vide approssimarsi l’estremo
dei suoi giorni, e con fronte serena, e da vero Cristiano i conforti della Religione
richiese incoraggiando i figli, e gli astanti che piangevano. Nel breve corso di sua
malattia gli fu di sommo conforto il dono prezioso della Medaglia di S. Elena che
per i suoi distinti servigj gl’inviava Napoleone III Imperator dei Francesi. Fu cittadino
integerrimo, religioso senza ostentazione, marito e padre amoroso, caritatevole pio,
un vero modello di civili-religiose e militari virtù che i figli, i nepoti, i familiari
dimenticar non ponno.
Atanasio
L’obbedienza
Vi son de’ momenti in cui l’animo particolarmente de’ giovani, è disposto in maniera
che ogni poco d’istanza basta a ottenerne ogni cosa che abbia un’apparenza di bene
e di sacrifizio: come un fiore appena sbocciato, s’abbandona mollemente sul suo fragile
stelo, pronto a concedere le sue fragranze alla prim’aria che gli aliti punto d’intorno.
Questi momenti, che si dovrebbero dagli altri ammirare con timido rispetto, son quelli
appunto che l’astuzia interessata spia attentamente e coglie di volo, per legare una
volontà che non si guarda.
Il dramma di Gertrude – abbiamo appena riletto l’apertura del capitolo 10 dei Promessi sposi – è un riferimento impegnativo, ma non incongruo, per la storia di Atanasio: esso
è il frutto di una logica di casato d’Antico Regime, e ci viene illuminato da un punto
di vista ottocentesco; suggerisce con un’efficacia rivelatrice la complessità psicologica
dell’opera di costrizione di una coscienza giovane e generosa, combattuta, com’è poi
stata quella di Atanasio, fra il ricatto morale dell’obbedienza e il desiderio d’identità.
Atanasio è nato il 5 luglio 1834, ultimo e ormai tardivo frutto dell’unione stretta
fra Antonio e Carolina 25 anni prima. Si aggiunge a un fratello e cinque sorelle sopravvissuti
all’infanzia, quelli di cui il padre, come abbiamo visto sopra, dà qualche informazione
domestica nel suo copialettere. Almeno altri tre sono morti durante i primi anni di
matrimonio; e Antonio ha lasciato alcune tracce del suo dolore nelle comunicazioni
che ne ha dato a vari corrispondenti. Si tratta di frasi piuttosto formali e anodine,
ciò che non costituisce affatto una prova di scarsa emozione, dato che sono rivolte
a interlocutori non intimi da un uomo spesso lamentoso, ma mai disposto a mostrare
un fianco davvero debole. Dei tristi episodi non si parla coi parenti di Pisa: segno
probabilmente che pur attraverso le liti del marito Carolina ha mantenuto canali di
contatto diretto con la suocera e la prima cognata.
A lungo il cruccio di Antonio è stato la mancanza del figlio maschio; e non per nulla
il bambino morto di cui rimane il ricordo più rilevante è un piccolo Antonio, per
il quale il 23 marzo 1812 il padre chiede invano al suo predecessore come maire di Vicopisano un’eccezione alla legge sepolcrale che vieta l’uso di lapidi personalizzate.
Ora che l’abbiamo un po’ conosciuto nelle sue relazioni sociali e nella sua posizione
nel mondo, non ci meravigliamo che la disponibilità di Antonio agli affetti familiari
si sia accoppiata con un’idea nobiliare di grandezza del casato, e dunque di ovvia
superiorità dei maschi, oltre che per la verità anche con un antifemminismo spesso
ottuso, quale gli capita di esibire nelle lettere alla sorella monaca Laura Teresa,
la confidente eletta della sua passione gentilizia e consueta vittima/complice delle
sue uscite contro «le teste deboli di voi altre donne».
Il primo figlio maschio destinato a raggiungere la maturità è Nemesio, nato nel 1818.
Il nome è quello del santo del giorno della nascita, ma rimanda anche alla greca nemesi;
e in effetti nelle parole, di un’esultanza volgare, con cui Antonio risponde il 10
dicembre alle congratulazioni di Laura Teresa vibra un accento di rivincita, non senza
una finale allusione polemica ai recenti codicilli testamentari di Lussorio:
L’espressione di cui vi servite nella vostra de’ 30 or caduto, che le vostre orazioni
siano efficaci, è tanto vanagloriosa che certamente dovrete farne penitenza con applicarvi
sul culo 6666 battiture. Non tardate dunque, e quando la cominciate scrivetemelo,
che io le conterò, e poi vi risponderò quando avrete a smettere. Comunicherò detta
vostra a Carolina, ed essa credo farà altrettanto alle bimbe rapporto a quanto incaricate
me. Circa poi a Nemesio non ve ne parlo più, perché le monache tutte non devon sentir
d’uomini altri che di me. Solo vi rileverò, che anzi perché questo santo martire insignissimo,
come potrete verificare nel Martirologio, e nel cui giorno nacque, non è frequentemente
menzionato conveniva darli loda, e se il mio bimbo solo ha il suo nome, a lui solo
dal Cielo dovrà più specialmente pensare, onde ne spero ottimamente in specie per
l’anima, giacché per il corpo rilevo, da quanto ha stipulato anche di fresco chi potrebbe
ajutarlo, che non ha molto da lusingarsi.
Domesticità, scherzi di una familiarità oltre i limiti dell’indiscrezione, ancora
una volta mescolati con l’ossessione della ricomposizione del patrimonio nella linea
primogeniturale maschile. Si capisce che Nemesio, primo figlio maschio di un capo
di casata quale Antonio si sente di fronte all’inadempiente zio Lussorio – «capo»,
com’egli ripete ad ogni occasione, «solo della linea cadetta» –, venga a rappresentare
il senso, la speranza e il futuro del microcosmo di Castel di Nocco. Bisogna riconoscere
a suo padre di non avergli sacrificato completamente le sorelle: tre di queste, Diamante,
Paola e Giovanna, verranno maritate con ragionevoli doti, mentre Isidora resterà nella
casa paterna e solo Zoe andrà in monastero col nome Maddalena Luisa; ma sta di fatto
che quando accanto al sedicenne e sano Nemesio la nascita, forse ormai inaspettata,
di Atanasio pone un altro figlio maschio, il nuovo arrivato viene trattato come un
problema.
Impossibile dire se l’insolito nome impostogli, che è quello di un dottore della Chiesa
dei primi secoli, grande campione dell’ortodossia, esprima una decisione già presa
sul suo destino; ma certo la decisione non tarda a lungo. Undicenne, nel 1845, Atanasio
viene avviato alla carriera ecclesiastica nel seminario arcivescovile di Pisa. Sono
questi gli anni in cui Nemesio, sposatosi dal 1842, sta assicurando la discendenza
maschile in famiglia, con un primogenito Antonio, e poi con un Faustino e altri; ad
Atanasio viene dunque chiesto di svolgere, all’antica, il ruolo del cadetto cooperante
alla tutela dell’integrità patrimoniale. Ma il ragazzo non sta volentieri in seminario,
e nel 1848 ottiene di uscirne, per essere del resto sistemato a studiare in casa di
un canonico a Lucca. È fra qui e Castel di Nocco che nei due anni successivi matura
qualcosa di determinante, qualcosa di cui ci sfuggono i dettagli, ma non le radicali
conseguenze. L’8 settembre 1850 Atanasio entra infatti come novizio nella casa lucchese
della Congregazione agostiniana dei canonici regolari lateranensi, una delle compagnie
fratesche con cui è in rapporto suo padre, e qui il 14 settembre 1851, a poco più
di 17 anni, fa la sua professione religiosa.
Il passo rappresenta, rispetto all’entrata in seminario, una garanzia anche maggiore
di indivisione dei beni di famiglia: da un prete ci si aspetta che riconsegni ai nipoti
la sua parte di eredità; un frate non può neppure ereditare. E comunque, tanto per
chiudere la questione una volta per tutte, il giorno prima della sua professione il
diciassettenne Atanasio è stato condotto davanti a un notaio di Lucca, che ha rogato
il suo atto di universale rinuncia presente e futura a ogni diritto sul patrimonio
paterno. C’è dell’altro: un prete non taglia netto con le sue origini, mantiene il
suo nome e cognome, e resta di solito nella sua diocesi, un prete nobile può quasi
restare a casa; un frate annulla la propria identità nella nuova grande famiglia in
cui entra, cambia nome, e si sposta per il mondo, o almeno per l’Italia, da un convento
all’altro della propria congregazione. È così che dopo la professione il ragazzo Atanasio,
anzi – come ora si chiama – il frate Raffaello, parte per Roma, da dove verrà poi
trasferito a Napoli e infine in Puglia, a Bitonto.
Ha avuto un ruolo in tutto ciò una vocazione da parte dell’interessato? L’ultima immagine
che abbiamo di sua madre è quella dello strazio per il distacco da quest’ultimo figlio
che si allontana da lei ormai vecchia. Sappiamo, anche da una fonte avversa ad Atanasio,
che già l’invio nel seminario di Pisa è stato fatto «malgrado il pianto della Madre
che voleva tenerlo presso di sé»; possiamo immaginare l’effetto della partenza dalla
Toscana, sulla quale – lo apprendiamo dalla stessa fonte – Carolina scrive al figlio
una lettera che «gli dipingeva la professione come un fatto foriero di grande sventura».
Sì: ci sono dei momenti in cui l’animo, specie dei giovani, si lascia facilmente disporre
a ogni cosa che abbia l’aspetto del bene e del sacrificio. Atanasio, che ha un animo
caldo e generoso, parte per un remoto destino; e la madre, che forse poi non l’ha
nemmeno più visto, deve chinare il capo, e accettare fino in fondo la logica di famiglia.
Nel suo testamento del 7 marzo 1856 Carolina lascia l’usufrutto dei beni al marito
Antonio, sceglie come esecutore il solito pievano Santi Acconci, assegna due vitalizi
alla figlia monaca e ad Atanasio – anzi «a don Raffaello Bracci mio figlio canonico
regolare lateranense attualmente dimorante a Bitonto nel Regno di Napoli» – e ignorando
le altre figlie nomina erede universale il solo Nemesio. L’esclusione di Atanasio
è sancita in modo più esplicito di lì a due anni, il 5 marzo 1858, nei codicilli testamentari
di Antonio in favore di Nemesio: il padre fa legato di quattro stanze con libreria
del palazzo di Castel di Nocco al diletto figlio don Raffaello, «all’oggetto, che
se al medesimo piacerà di tornare per qualche giorno in famiglia possa godere per
detto tempo, conforme gli lascio a titolo di legato, dell’abitazione ed uso di dette
quattro stanze mobiliate, libreria, e quant’altro, ma non gli dovrà però esser permesso
tuttociò, qualora sortisse dall’Ordine al quale è addetto».
Un secolo dopo le critiche di Beccaria, un quarto di secolo dopo la possente denuncia
di Manzoni, l’antica logica del sacrificio individuale all’interesse collettivo del
casato si ripropone dunque in questo caso con grande forza. Atanasio, che di conseguenza
è lontano, scrive a casa; e le sue lettere – fra cui purtroppo nessuna alla madre
– conservate dal fratello Nemesio, raccontano la sua storia con accenti via via più
appassionati e incalzanti, costituendo uno sfogo che per il fatto di trasformarsi
poco a poco in una strategia non perde nulla della sua sincerità.
All’inizio Atanasio, che è stato sicuramente plasmato con maggiore efficacia che non
Gertrude, comincia a recitare con obbedienza il suo ruolo di cadetto e con zelo religioso
il suo ruolo di frate Raffaello. In una lettera del 3 marzo 1853 da Roma alla sorella
Isidora, una fanciulla malinconica e infelice, forse malata, e che morirà poi ancora
giovane, arriva a consigliarle, con i toni saccenti di un ragazzo e qualche tratto
pittoresco da predica di frate, la via del chiostro:
In quella tua del 30 Gennaio p.p. vi intesi un non so che, il quale per dire il vero
moltissimo mi consolò: ma esaminiamola un poco. Mi dici che il mondo ti dà molte amarezze,
e se hai conosciuto ciò perché non ti determini ad abbandonarlo? forse credi che in
seguito ti voglia dar delle consolazioni? ah! cara sorella, non creder ciò, perché
esso sempre maggiormente ti amareggerà, e attendi bene a non voler resistere alle
ispirazioni ed alle chiamate di Dio, giacché guai a te se tu gli resisti, un fuoco
eterno t’aspetta, ed ivi sempre pagherai il fio delle tue resistenze alle voci di
Dio. Ed anche che tu voglia seguir il mondo, che ti pensi che dia alla fine, ti manderà
nell’inferno a brugiarti, ecco il premio che ti darà.
Il 3 dicembre dello stesso anno, comunicando al padre il trasferimento a Napoli, si
congratula con lui per la nomina a ciambellano nei termini, ufficiali in casa, del
partito/famiglia aggredito dai nemici: «Questa notizia m’ha arrecato sommo contento,
giacché la tracotanza di alcuni invidi sarà abbassata». Sette giorni dopo, nel fare
al padre per lui e per tutti gli auguri di Natale gli annuncia con compunzione l’inizio
dei propri studi di teologia sotto un dotto maestro.
Fra quest’ultima e la successiva lettera di Atanasio pervenutaci c’è però già un sensibile
scarto: scrive, il 9 marzo 1855 da Bitonto, al «caro ed amato fratello», dal quale
ha ricevuto una lettera «sospiratissima», dove tuttavia Nemesio gli dice poco di sé
e di casa. Addirittura: «non ho più saputo se tua figlia Quartilla si è rimessa, oppure
se il Signore a sé l’ha chiamata». Atanasio – anzi Raffaele, come si firma lui stesso
– si aspetta come cosa ovvia di essere considerato non un escluso ma un membro lontano
di quella comunità familiare nel cui interesse sta facendo la sua parte. C’è già forse
anche qualcosa di più, il maturare di una sofferenza per tale lontananza, e una prima
ombra di rimprovero: «Bramerei di avere una lettera di raccomandazione per il Console
toscano residente in Molfetta o in Bari; ma bramerei che non succedesse come quella
che ti chiesi per Napoli».
Due anni e mezzo più tardi, queste prime incrinature nella tranquillità di Atanasio
sono diventate inquietudini gravi, alimentate dai conflitti in cui si trova coinvolto
nel suo convento e congregazione. Lo testimonia una nuova lettera di auguri natalizi,
scritta il 14 dicembre 1857 da Bitonto al padre, e tesa a giustificarsi di fronte
alle possibili conseguenze di tali conflitti. È un ragazzo che si esprime, e che ha
già perso la madre: usa comprensibilmente parole grosse su giuramenti e doveri, ma
sta anche cercando di dire a suo padre che non vuol restare dove l’ha mandato:
La mia salute è buona in tutte le singole parti, e mi spero sentire il medesimo di
Lei nonché di tutti di casa. Suppongo (e n’ho ben donde) che qualche maligno sia venuto
a raccontare mari e monti contro di me, ma intanto signor Padre l’obbligo, il dovere
mi costringe ad agire come feci nel passato. Una è la regola che ho giurato innanzi
a Dio, questa manterrò anche a costo del sangue mio. Uno è il mio superiore giustamente
eletto, ad esso sto attaccato, non ad altri. Questo è il mio procedere, non credo
di agire da sciocco e da imbecille come altri hanno supposto. Al mio signor Padre
me ne appello. Tutto questo la prego tenerlo occulto a chiunque, poiché altrimenti
sarebbe un sommo dispiacere per me. Sono cose che dico solo al mio superiore.
A questo sfogo di un animo giovane e chiaramente in preda a una tempesta di emozioni,
il vecchio disciplinatore di coscienze e di penne risponde – a parte un paio di telegrafiche
informazioni familiari – nel seguente modo. Antonio a Raffaello, Castel di Nocco,
17 dicembre 1857:
Ti ringrazio, e ricambio per me e per tutti noi dei graziosi augurj, con i quali esordisci
la veramente gratissima tua 14 corrente, sebbene quanto a me in conseguenza dei miei
trascorsi Dio non permetta che si realizzino. Mi avrebbe però destato più piacere
se vi avessi scorto impegno di formarne il carattere con eleganza, quale in un collegio
è per anco dovere, mentre, credilo pure, la calligrafia su forbiti esemplari è un
primo allettativo di raccomandazione dei concetti. Avrei pur gradito non trovarci
errori di lingua che in te Toscano son più vistosi, mentre ve ne hai inserto uno qual
è «io mi spero». Infatti le particelle «mi – ti – ci – vi» non si antepongono che
ai verbi neutri, in equipollenza delle loro desinenze in «si». Adunque se scrivo «io
mi lusingo» andava bene perché viene da lusingarsi, ma spero venendo da sperare attivo
con desinenza in «e» non ammette preventiva particella, e bisognava scrivere «io spero».
Qualche settimana più tardi, la lettera che sempre da Bitonto Atanasio scrive il 7
febbraio 1858 a Nemesio mostra chiaramente la ragione delle sue difficoltà nella congregazione,
aver denunciato al visitatore apostolico le malefatte del precedente presidente: «Quando
la sacra Visita mi ha interrogato sul conto di lui ho dovuto rispondere ch’egli è
stato un ladro depauperando questa comunità con debiti di 6mila ducati, che egli era
un donnajolo, che egli era un tiranno verso de’ suoi sudditi». Accuse che ora vengono
in parte ritorte sul giovane frate, con l’aggiunta di quella d’irreligiosità. Ma il
vero tema della lunga, tumultuosa e risentita lettera è la protesta di Atanasio per
l’atteggiamento di quello cui si rivolge qui col solo appellativo senza aggettivi
«Fratello»: perché Nemesio è informato di tutta la vicenda, carteggia coi superiori
della congregazione, presta ascolto ai calunniatori, e, ancora, paternalisticamente,
ricorre alla tattica di tacere, tenere il giovane all’oscuro, farlo sentire solo,
indifferente ed escluso:
Non temo di nulla, fo il frate nella mia cella, e non mi brigo di niente. Ma intanto
tu credi impormi col tuo silenzio alla mia quiete, ma non credere che tanto sia bambolo
da farmi menar pel naso. No, sono di casa Bracci, cioè imperterrito, non ho paura
né di te né di altri. Solo mi dispiace che sia rotta fra me e te quella dolce armonia
necessaria fra fratelli. Io sempre t’ho amato con sincero affetto, ed anche che un
tuo superiore venisse da me e plagas dicesse di te le mie 5 dite sarebbero impresse sul volto suo impudico, ma tu non
hai fatto così per me. Anche adesso t’amo ma solo in cuor mio, all’esterno non più
anzi...non ti dico altro [...] Vedi, questa lettera è stata scritta nel più grande
dolore del mio animo. Dico dolore poiché sono costretto ad usare simili maniere con
quelli che amo con sincerità, ma che poi da essi sono denigrato, non corrisposto.
Dico anche dolore giacché un fratello che mi dice tanto amarmi, non si degna neppure
rispondere ad una mia la quale ti scongiurava farmi sapere a posta corrente notizie
del signor Padre. Mi dò a credere che forse ti darai alle furie nel leggere questa
mia, che ne darai parte a’ miei superiori. Sia, a me nol preme un fico, sono torre
preparata a qualunque tenzone [...] Adunque fratello decidiamo una volta: o tu muti
pensiere verso di me credendomi giusto, leale, religioso, e non dando retta alle ciarle
altrui, o fra noi sarà finita per sempre, non già che ti voglia odiare, ma [non] vi
sarà più relazione intima fra noi. Se tu mi rispondi subito, e tutte le volte che
ti scriverò mi risponderai non facendo passare i 20 giorni, allora conoscerò che ti
sei pentito de’ torti fattimi, e saremo fratelli veri e ti amerò come ho fatto per
l’innanzi. Ti ripeto, monterai in furia, scriverai, dirai, a me però poco preme [...]
Finisco non perché mi mancasse materia per dire ma perché stanco sono, giacché è poco
che sono uscito da letto ove sono stato inchiodato per otto giorni da un catarro,
frutto di stagione; ora però, la Dio mercé, la passo meglio a dispetto di chi desiderava
il mio male. Addio aspetto tue risposte se vuoi, altrimenti Addio in eterno, fra noi è rotta, meglio per me peggio per te.
Questa lettera, per quanto ancora firmata Raffaele e priva di qualsiasi cenno alla
volontà di mutar condizione, oltre che attraversata da una malcelata paura delle reazioni,
deve aver provocato a Castel di Nocco un forte allarme. Qualche giorno dopo il suo
arrivo, il 5 marzo 1858, Antonio, «sano di tutti i sentimenti di mente – come registra
il notaio – sebbene infermo di corpo, giacente in letto aggravato da seria malattia»,
detta i codicilli testamentari che conosciamo, per ribadire il destino di esclusione
del figlio minore. Certo, accanto a quel letto non è adesso difficile immaginare
la presenza vigile di Nemesio, ormai quasi un capofamiglia, un posato quarantenne
che ha moglie e figli, e affari e preoccupazioni, e proprio in un momento come questo
deve anche pensare alle pazzie di quel ragazzo. Si tratta del resto – diciamolo qui
in due parole – davvero di un degno erede di Antonio, un cattolico reazionario, un
legittimista che durante il Regno d’Italia manterrà rapporti di deferente suddito
con l’ex dinastia granducale.
Il giorno stesso della visita del notaio, Nemesio si decide finalmente ad avvisare
Atanasio della gravità delle condizioni del padre, che infatti muore il successivo
16 marzo. La lettera, giunta a Bitonto solo tre giorni più tardi, ispira al giovane
una risposta in cui la piena dei sentimenti familiari travolge le precedenti recriminazioni:
Mio Caro Fratello
In grandissima agitazione m’ha posto la tua de’ 5 Marzo ricevuta quest’oggi 19, e
voglia Dio che non s’avverino i tuoi e miei sospetti, che invero temo sieno già avverati,
vale a dire temo che il nostro signor Padre più non viva. E se ciò vero è, che cosa
ho commesso che non mi sia dato ricevere la benedizione estrema dai genitori? Mio
Dio gastigatemi in altra guisa, ma ricever fatemi il conforto e benedizione estrema
del mio superstite genitore! Fratello, la mia pace è nelle tue mani, da te aspetto
subito lettere, se ami tuo fratello concedigli questa grazia, scrivimi subito che
il cielo ti rimunererà. Il cavaliere della Rocca non mi ha risposto, non so il perché.
Addio ti lascio con il cuore lacerato, e scrivo al Generale con altra del Presidente
onde mi sia concesso il permesso di venire in famiglia. Avendolo, sarò in breve da
voi. Amami come sempre t’ha amato il
Tuo Afflitto Fratello Raffaele.
Per Atanasio questo 19 marzo dev’essere stato davvero difficile. Lo stesso giorno,
il superiore religioso che da Bitonto è in corrispondenza con Castel di Nocco offre
a Nemesio, che gli è parso comportarsi con ingenuità, una lezione dettata da una più
antica sapienza di come si guida l’animo umano: «Questa mattina don Raffaele ha ricevuto
una sua lettera per la quale si è posto in grandissima agitazione per la notizia avuta
della malattia del padre. Egli voleva quasi fuggire. Mio carissimo, lo scriva a me
quando vi è qualche disturbo in famiglia, che io allora cercherò di manifestarlo a
lui con prudenza, e a poco a poco».
In un modo o nell’altro – pare senza avere tutte le licenze richieste – Atanasio riesce
comunque a partire per la Toscana, per passare un periodo nella casa paterna, e certo
per dare un po’ di sfogo al gran bisogno di famiglia che gli è montato dentro in sette
anni di lontananza, e che ha confidato con tanta concitazione al fratello nella sua
ultima lettera. A Castel di Nocco, fra i ricordi della sua infanzia, vicino alle tombe
dei suoi genitori, il giovane si dev’essere commosso al punto da disporsi di nuovo
a ogni cosa presentatagli con un’apparenza di bene e di sacrificio. E questo suo abbandono
non è stato ammirato con timido rispetto.
C’è già un programma in famiglia, conosciuto o dato per scontato anche dalla zia monaca
Laura Teresa, l’antica complice del capocasato Antonio, la quale, il 7 aprile 1858,
scrive a Nemesio di essere preoccupata per le sue «tante angustie»: «ora mi sono
consolata in sentire che avete il fratello, il quale non lascerete partire prima di
sistemare i vostri interessi». La sistemazione avviene il 7 maggio 1858 davanti a
un notaio di Vicopisano: in riferimento al contratto di rinuncia patrimoniale di Atanasio
del 1851, fatto, anche se non lo si dice esplicitamente, senza avere l’età richiesta
dalla legge, lo stesso, «desiderando che il detto contratto non ostante qualunque
evento, causa o nullità intrinseca o extrinseca abbia sempre il suo pieno vigore»,
lo rinnova contro ogni possibile eccezione come se fosse concluso alla presente data.
Nemesio, volendo dimostrare al fratello «il suo gradimento, e la sua gratitudine»,
si impegna con lui che se «dietro il beneplacito apostolico potesse ottenere di secolarizzarsi
e di abbandonare l’Ordine al quale presentemente è addetto», gli aumenterà il vitalizio
annuo da 560 a 2.000 lire toscane. Testimoni dell’accordo il pievano Santi Acconci
e il possidente e chirurgo militare Francesco Boncinelli: sono, come si ricorda, i
due vecchi amici e sostenitori di Antonio.
C’è però anche stato, insieme con quello messo su carta legale circa il patrimonio,
un accordo verbale, di cui Acconci e Boncinelli si sono fatti garanti, sul futuro
prossimo di Atanasio. Da Bitonto, dov’è dovuto tornare, il giovane lo ricorda a Boncinelli
già il 22 giugno: «Stimatissimo signor Francesco. Memore della parola datami di difendermi,
adesso che ne ho bisogno imploro soccorso». Atanasio – ancora si firma Raffaele –
vuol essere trasferito al clero secolare, per uscire dalla congregazione e per tornare
definitivamente in Toscana. Al momento di fargli sottoscrivere il rinnovo della rinuncia
ai beni di famiglia gli si è anche data la soddisfazione di contemplare questa eventualità
con la clausola dell’aumento del vitalizio. Ma per ottenere il suo scopo Atanasio
ha bisogno di essere ordinato prete, e temendo di incontrare ostacoli in proposito
nella congregazione si è fatto promettere aiuto da casa. «Giusta il combinato», riferisce
ora a Boncinelli, ha scritto al generale lateranense per sollecitare l’ordinazione,
ma ricevendone un rifiuto, col pretesto della sua «partenza per la Toscana senza attendere
il beneplacito», e delle «notizie avute di colà» sulle sue asserite «leggerezze nella
temporanea dimora in quello Stato, specialmente nella ricercatezza del vestire». Tuttora
speranzoso nella famiglia e negli amici, il giovane è però già molto inquieto:
Ecco adunque signor Francesco avverato quanto le diceva, la mia venuta in Toscana
sarebbe stata causa a disturbi per me, ed il ritorno che con grande sacrificio feci
avrebbe messo potenza nelle mani del Generale per non ordinarmi come mi si spetta.
Intanto rispondo colla stessa posta al Generale per giustificarmi sui nei d’imperfezione
che egli in me trova. Gli addito per giustificazione il modo di vestire come usava
in Toscana, non che il modo di vivere in famiglia. Ciò non pertanto sono di credere
che il Generale non accondiscenderà alle mie giuste pretensioni, per il che a Lei
signor Francesco mi rivolgo chiedendole che agisca per la mia secolarizzazione, onde
possa uscire da questa più che matrigna Congregazione, e se io a Settembre non vedo
essere uscito da questo maledetto Ordine, per separarmene andrò alle Missioni estere.
Vede, io le parlo franco giacché so di parlare ad uomo franco, leale, e di onore e
da cui mi aspetto di essere esaudito, perciò mi spero che vorrà scusare al mio dire
ch’è di uno ch’ha il cuore di troppo amareggiato. Ella sa che riponendomi alle di
Lei buone volontà tutto sacrificai per mio fratello, onde questi potessi vivere bene,
ma anche io imploro la di Lei protezione, affinché possa giungere a percepire un qualche
po’ di bene, che non godo da 7 anni. Le ripeto che pronto sono a fare altri sacrifizi
meno quello di rimanere nell’Ordine.
Concetti simili, espressi con un’impazienza crescente, animano la lettera che il successivo
13 luglio Atanasio indirizza all’altro autore della sua persuasione, il pievano Acconci.
Con lui entra in dettagli più tecnici sul modo di aggirare l’opposizione del generale
tramite un intervento sovrano da parte toscana, e torna a rivendicare l’adempimento
della promessa, e cerca di far vibrare qualche corda sensibile per un uomo di Chiesa:
Lo sventurato ha bisogno del soccorso e d’ajuto, e tale essendo io nello stato presente
mi rivolgo a Lei che tante volte ho sperimentato vero e sincero amico. Ella ben sa
che per lo amore a mio fratello tutto lasciai a lui, e più, in fretta e furia abbandonai
la patria e la famiglia invitato dalle parole di Lei e del signor Francesco onde mi
recassi qua affin di essere ordinato; difatti trovando piene di ragioni le loro avvertenze
ben volentieri mi accinsi all’opra con la condizione che presto sarei ritornato fra
di loro, e in caso avutone bisogno avessi a loro ricorso [...] Su via, signor pievano,
mi ajuti ne ho bisogno, altrimenti per uscire da quest’Ordine benedetto io sono costretto
a far cose che forse potrebbero dispiacere. Vale a dire cercherò andare alle Missioni
estere, e così sarò libero da questi signori, giacché non avendo l’Ordine le Missioni
stabilite, chi vuole abbracciare tal cosa conviene dirigersi alla Sacra Propaganda
Fide, e questa rende indipendenti gli individui, e così sarei io. Ma se realmente
mio fratello m’ama, e desidera il bene de’ suoi figli, credo che gli sarebbe di dispiacere
tal cosa, ma io per me sono risoluto far tal cosa; egl’è vero che per me è una cosa
dispiacente; che vuole, a tale cosa verrò onde si finiscano tali persecuzioni. Se
qualora mio fratello mi mantiene la promessa tutto farò e di più anche sacrificherò,
la mia vita sarà a lui e per lui. Adunque signor pievano adesso le ho esternato il
mio cuore, e credo vorrà ajutarmi, gl’è un’orfano che lo supplica, e forse anche le
ceneri della mia genitrice che si commovono implorando soccorso per me.
Cosa possiamo dire delle reazioni dei destinatari di queste due ultime lettere? Che
ognuno ha consegnato la sua a Nemesio – fra le cui carte si trovano entrambe – e non
certo allo scopo di affrettare la liberazione di Atanasio. Nell’agosto 1858, presumibilmente
pochi giorni dopo l’arrivo della seconda lettera a Vicopisano, Nemesio si rivolge
a un importante avvocato di città, Giuseppe Puntoni, per sottoporgli i documenti
della successione patrimoniale, compresi i due di rinuncia del cadetto. Quanto agli
accorati appelli di questo, continua a ricorrere alla tattica dell’esclusione e del
silenzio. Il giovane un po’ protesta direttamente, come nella lettera del 10 ottobre
in cui ricorda al fratello il suo impegno: «Ti rammenti che sopra la salita del Termine
ti dicea, vuoi che parta? partirò, ma sappi che andrò tra le persecuzioni, sapendo
io con che razza di gente dovea vivere, e tu mi dicesti: va, che ti ajuterò in tutto,
fede di uffiziale di onore. Parole espressemi anche dal signor Francesco, ed io in
tutto mi rimisi». Un po’ torna a rivolgersi per disperazione a Boncinelli, il signor
Francesco, che per altro persiste nel trasmettere a Nemesio le lettere che gli arrivano
da Bitonto, come questa del 5 novembre:
Ella capirà che non per una qualche giusta ragione le dirigo la presente, ed Ella
al certo vorrà esaudirmi nella preghiera che le sarò per fare. In 5 mesi ho diretto
da 6 in 7 lettere a mio fratello onde la mi facesse conoscere lo stato di famiglia
nel fisico e nella sistemazione; più per 3 volte le chiedeva che mi spedisse una cambiale
di 50 ducati. Ora egli in 5 mesi una sol volta mi ha scritto, e tutt’altro di quello
le chiedeva, e neppure mi ha spedito la somma che le chiedeva. Adunque le fo istanza
di scriverle ancora Lei e così costringerlo a scrivermi e mandarmi la cambiale.
Una lettera, anche a prescindere dal suo contenuto, colma, per il fatto stesso di
esistere, un’assenza; alimenta, per il fatto stesso di essere scambiata come un dono,
una relazione. Una reciproca corrispondenza epistolare mantiene di per sé una vita
di famiglia fra parenti lontani. È questo che Atanasio cerca con un’insistenza commovente
di fare dal suo esilio pugliese; ed è precisamente questo che Nemesio gli nega: nonché
rifiutargli conveniente soddisfazione, gli rifiuta il legame stesso di appartenenza.
Tutto il suo sgradevole apparato di ostentate reticenze e di manovre dietro le quinte
mette capo al tentativo di cancellare un’identità.
Un anno più tardi, l’8 settembre 1859, la tanto desiderata ordinazione sacerdotale
viene a rasserenare un poco Atanasio, che a Bitonto pare riuscire a svincolarsi in
parte dalla congregazione, con dir messe in proprio e far scuola a un gruppo di bambini.
Cadono invece ancora nel vuoto i suoi sforzi per trovare una via di ritorno in Toscana,
così come in parallelo altrettanto vani si dimostrano i suoi approcci fraterni per
conquistare un posto nella rete dei rapporti e degli affetti familiari. Nemesio gli
scrive solo una volta, per sollecitare l’invio di una ricevuta del suo vitalizio.
Atanasio non si stanca di ripetere strenuamente – siamo al 25 novembre 1859 – un’estrema
amichevole protesta:
Niente mi dici di te (osserva bene) di te e di nostra famiglia, mi scrivi che sei
stato a Vinci e non mi fai conoscere come se la passa la Giovanna, io non so come
ti sei cambiato. Dio ce la mandi bene. Nel rispondermi fammi conoscere se Antonio
è vivo ovvero morto, sono quasi due anni che non si degna scrivermi – si fosse imbevuto
di pessima atmosfera? – per cui prego te a farli (se ti piace) i miei rimproveri.
Mi dirai ancora se tuttora conservi quel mio cappello, mi è di bisogno il saperlo.
Desidero sapere ancora come te la passi tu in particolare. Ti invio la sospirata da te ricevuta, adesso sarai contento.
La ribellione
Un anno più tardi – è il 1860 – ecco un colpo di scena improvviso, o forse piuttosto
l’esito finale di un processo a lungo covato. Non lo veniamo a sapere da una lettera
di Atanasio, ma da un diffuso mormorio di scandalo e di orrore che sale dalle celle
monacali e dai palazzi prelatizi. La zia Laura Teresa, ancora non bene informata,
scrive a Nemesio, il 24 dicembre: «Ho inteso con molto mio dispiacere che siate nella
massima costernazione, ma quello che accrescie il mio dolore è di non sapere il motivo».
La sorella Zoe, monaca col nome di Maddalena Luisa, che invece nello stesso giorno
è ben al corrente: «Questo colpo mi è stato sensibilissimo; sapevo che questo infelice
era una testa calda, ma mai mi sarei immaginato che volesse giungere a tanto». Addirittura
un cardinale, il 4 gennaio 1861, per rispondere agli auguri di Nemesio di festive
felicità: «Non sia l’ultima il ravvedimento del traviato, il rinsavire del forsennato».
C’era stata qualche avvisaglia di temporale nel corso del 1860, un cambiamento di
tono ben percepibile nelle lettere di Atanasio – ora poche anche queste – a Nemesio,
un’ormai consapevole disillusione, giudizi sferzanti, parole di sfida. Il 19 giugno,
a proposito della sorella Isidora, un tempo da lui stesso consigliata al convento:
«Ti vitupero in quanto che la faceste entrare in monastero, cosa contraria al temperamento
di lei, e l’esperienza ha dimostrato il mio detto, giacché è dovuta uscire di colà».
E in generale anche più polemicamente già il 15 maggio: «Tu al certo dirai che altamente
t’infotti di me, ma anche io dirò allora di te. Una volta solo ti fui necessario,
il 7 maggio 1858, ti ripeto che ritornerà un altro 7 maggio». Tra i due fratelli era
dunque ormai pronto uno scontro aperto; ma in questa divergenza familiare inasprita
per suo conto fino alle soglie di un conflitto fa ora una clamorosa irruzione la grande
politica, anzi precisamente il Risorgimento d’Italia: perché quando dalla Sicilia
Garibaldi ha cominciato a risalire il Mezzogiorno, Atanasio ha gettato la tonaca fratesca
e vestito la camicia rossa.
Impulso di giovanile entusiasmo? Lenta maturazione ideologica nella solitudine morale
del convento? Ricerca di un aiuto esterno alla rottura col proprio passato? Non conosciamo
i dettagli; ma forse quelle alternative non hanno ragione. Non si sminuisce l’importanza
della scelta pubblica di Atanasio considerandola parte di un’esperienza di vita che
gli ha permesso di provare personalmente l’ingiustizia delle regole e degli usi anche
privati delle vecchie società ora messe in discussione dalla nuova Italia. È come
se facendosi garibaldino sia riuscito con l’immediatezza di un corto circuito a liberarsi
insieme dall’obbedienza clericale e dall’esclusione familiare.
Conclusa la sua prima campagna militare, in cui ha combattuto a Capua e sul Gargano,
quello che abbiamo conosciuto finora come un ragazzo irrequieto ma incapace d’indipendenza
si ripresenta al mondo con la sicurezza e l’autorità di un giovane uomo deciso. Rientrato
in possesso della sua vita, vuole fare altrettanto coi beni patrimoniali cui lo si
è indotto a rinunciare. Deve averlo chiesto con fermezza al fratello, fino a un ultimo
pacato ma inflessibile invito contenuto in una breve lettera del 25 febbraio 1861,
ora finalmente firmata col nome che noi soli gli abbiamo sempre conservato lungo gli
anni in cui è stato vittima di un furto d’identità: Atanasio.
Il fratello rifiuta; di conseguenza il 13 marzo 1861 Atanasio apre una causa presso
il tribunale di Pisa per ottenere l’annullamento dei voti religiosi e della rinuncia
alla sua quota ereditaria. Il memoriale, in data 23 maggio 1862, del suo avvocato,
Robustiano Morosoli, prende di petto la questione di sostanza, cioè, come la chiama,
«la mala consuetudine invalsa nei tempi trascorsi per le seduzioni, e le violenze
con che i padri mossi da pregiudizi aristocratici, destinavano i figli alla vita claustrale».
Il punto di diritto è come sempre un po’ più complicato.
Tutto ruota intorno a una legge, sempre in vigore, del 1° maggio 1775 – una delle
leggi granducali di riforma e limitazione dell’immunità ecclesiastica – sull’età,
24 anni, e le condizioni necessarie per la professione religiosa. Secondo Morosoli
tale legge rende nulli i voti del diciassettenne Atanasio, e di conseguenza la sua
rinuncia patrimoniale del 1851 col rinnovo del 1858; ma la parte avversa, rappresentata
da Giuseppe Puntoni, che per desiderio di Nemesio ha consultato anche l’avvocato fiorentino
Vincenzo Landrini, ribatte che il divieto granducale provoca sanzioni per i contravventori,
non invalidità dell’atto; e che comunque anche in quest’ultima eventualità resterebbero
valide le rinunce patrimoniali, come fatte a prescindere dallo stato clericale: infatti
don Raffaello – così continua a chiamarlo chi lo vuole riescludere – non poteva ignorare
in quel caso la nullità dei suoi voti, e dunque se rinunciava lo faceva liberamente
per affetto fraterno.
Non andremo oltre nel problema tecnico della contesa, che contempla da ambo le parti
le consuete allegazioni e argomentazioni; né molto sappiamo delle vicende che l’hanno
accompagnata: un’apparente iniziale disposizione di Nemesio all’accordo, che ispira
due interlocutorî biglietti di Atanasio nel settembre 1861; una qualche attività orchestrata
da Castel di Nocco per controllare le mosse di Atanasio, che intanto, dopo aver seguito
Garibaldi anche fino al fatto di Aspromonte dell’agosto 1862, insegna in una scuola
a Siena, e del quale l’avvocato Puntoni crede di essere in grado di comunicare il
6 novembre 1862 un progetto matrimoniale. In ogni modo, il 31 marzo 1863 il tribunale
di Pisa emette una sentenza favorevole ad Atanasio. Ciò provoca l’appello della controparte
e un nuovo processo a Lucca, sui cui retroscena le carte di Nemesio sono più abbondanti.
Fin dall’inizio, 16 aprile 1863, Puntoni si preoccupa di ricordargli quale sia sempre
stata, e quale resti, la sua opinione:
Per ora nulla di nuovo nella causa contro don Raffaello. Io non mi sono stancato;
ho cercato e cerco sempre, ma ho sempre dovuto convincermi che è una causa che, come
le mille volte le ho detto, si decide bene tanto contro che in favore di noi. È una causa eminentemente arbitraria, sulla quale nessuno potrà mai esser tranquillo. Meglio vedrò la sentenza quando
sia notificata. E torno a ripetere che la causa sarà in appello difesa col massimo
impegno quando non possa concludersi una sistemazione, alla quale sempre l’ho consigliato
e sempre lo consiglierò.
Questa posizione Puntoni la manterrà con coerenza per tutto il corso del processo:
nel comunicare il 17 settembre 1863 a Nemesio un «vantaggio piccolissimo» di tipo
procedurale, si affretta a commentare: «Piccolissimo ripeto, però non s’illuda e cerchi
sempre d’accomodare». E nell’inviargli il 1° novembre 1864 una copia del proprio memoriale
a stampa, aggiunge: «Rileverà, me ne lusingo almeno, che io ho fatto quel più che
per me si poteva, ma non cesserò mai dal consigliarla all’accomodamento, perché è
questa una causa nella quale si rischia troppo».
Anche da altre parti Nemesio riceve questa raccomandazione, e uno dei suoi interlocutori
ecclesiastici, il canonico Bozzi, gli rivolge il 6 giugno 1864 un’accorata lettera
di invito all’accordo, col ritiro dell’appello in tribunale, e un compromesso sull’esborso
di una parte nettamente inferiore a quella dovuta in caso di sconfitta. È una lettera
interessante. Sia perché implicitamente attesta il buon andamento degli affari di
famiglia: «Voglia poi osservare, che sopra un diritto di 24 mila scudi, come mi dice
anche il Puntoni, pagare 12 o 13 mila, o in contanti o in beni, e con tutte le possibili
facilitazioni, non lo fa decadere dal suo stato, ed è un affare nell’attualità delle
circostanze fatto bene». Sia perché dimostra l’incipiente isolamento di Nemesio nella
pretesa di persistere a trattare il fratello come ciò che non vuol più essere: «Spinto
dalla forza dell’amicizia che ho sempre avuto per la di Lei rispettabile famiglia
vengo con questa mia – e forse per l’ultima volta – a suggerirle pensieri di conciliazione
nel doloroso affare di suo signor fratello Atanasio». Ma quanto a questo, per immaginare
che ascolto trovi un tale consiglio, basti sapere che intanto Nemesio sta raccogliendo
informazioni presso i Francescani di Pisa su di un loro confratello a suo tempo «fuggito»
di convento, e poi rientratovi pentito; e facendo fra l’altro una domanda tale da
suggerire, nella risposta dell’informatore del 13 aprile 1864, una frase circa la
perseguibilità penale dell’«apostata»: «Non vi fu mai cose da potere iniziare verun
atto ai tribunali».
Invece, è come se i corrispondenti e consiglieri di Nemesio cerchino di avvertirlo
che intorno al piccolo regno trasmessogli da suo padre a Castel di Nocco il mondo
sta cambiando. Anche i più pii fra di loro lo fanno, come il prete Ghilardini, che
il 30 gennaio 1865, avvisandolo di avergli mandato «la nota reliquia, che da molto
tempo tenea presso di me, ricevuta gratis dall’Arcivescovato», gli riferisce la «bellissima
impressione» fatta dalla memoria di Puntoni a un avvocato di sua conoscenza, «per
cui egli crede che al cospetto di un tribunale integerrimo si dovrebbe tenere per
certa la vittoria. Ma disgraziatamente trattasi di una causa in cui la parte contraria
di troppo si presenta unisona ai sentimenti ed opinioni del giorno, i quali tante
volte possono piegar l’uomo a danno della giustizia».
Avvicinandosi il momento della sentenza, questo tema del condizionamento extragiudiziario
torna da più parti nelle lettere a Nemesio. Viene ripreso dallo stesso Ghilardini,
che ha sentito altri due avvocati, e il 15 dicembre 1865 riporta il loro timore di
un «esito infelice» nonostante la ragione, per colpa dei «tempi che corrono». Soprattutto
viene ora più autorevolmente espresso a chiare lettere da Puntoni, che è sulle spine
in attesa del risultato, e il 9 dicembre si è lasciato andare anche a una nervosa
recriminazione per la poca fiducia dimostratagli da Nemesio col chiedere il consulto
del collega fiorentino Landrini:
I giudici non parlano più perché dicono che la corte ha prese le sue determinazioni,
e che l’ufficio dei difensori è finito. Di straforo però potei sapere che la corte
sente repugnanza a spogliare il di Lei fratello, e questo sarebbe un bruttissimo cenno.
Lo stesso mi vien ripetuto con lettera di questa sera. Vedremo! Voglia Iddio che non
debba pentirsi di non avere atteso a quell’accomodamento che sempre ho inculcato.
Se accadesse un disastro che ne direbbe il signore avvocato Landrini che Le diceva
esser certa la vittoria? E ciò diceva citando come puntuale la causa Degli Azzi, la quale invece è dissimilissima
dal caso nostro? Le autorità precise le avrei trovate io (e le ho fatte riscontrare a persona amicissima a Lei) ma varranno
nei tempi attuali?
Repugnanza a spogliare, tempi attuali. Sono valutazioni che portano lontano dalla
fattispecie giuridica in questione. E bisogna riconoscere che se è difficile misurare
le rispettive forze e debolezze delle parti in tale fattispecie, i corrispondenti
di Nemesio non hanno certo torto nel percepire intorno al processo un clima acceso
di passioni estranee alla tecnica legale. Gli anni della sua vertenza con Atanasio
non sono solo quelli delle imprese garibaldine e dell’inizio del Regno d’Italia; ma
anche quelli di una fase acutissima di conflitto fra Stato e Chiesa – un conflitto
inevitabilmente evocato nella causa in corso tra i fratelli – e di preparazione, anche
se non ancora di applicazione, di un codice civile, chiamato Pisanelli dal nome del
ministro, molto più vicino ai principi egualitari del periodo francese che non alle
leggi degli Stati della Restaurazione.
Le passioni politiche del momento non fanno solo da generico sfondo, ma stringono
da presso le vicende del processo di Lucca. Il 12 gennaio 1864 un amico di Nemesio
gli scrive per dissuaderlo dal montare una protesta, che rischierebbe di diventare
controproducente, a proposito di una breve cronaca da Siena, apparsa sulla «Nazione»
di Firenze il giorno 5, dedicata al fallito tentativo di persecuzione di un B. C.,
cioè Atanasio, da parte della cricca reazionaria, qui comprendente il moderato ministro
dell’Istruzione e grande storico Michele Amari. L’amico riporta il trafiletto:
Il municipio si comporta bene quest’anno: vi racconterò una storiella che vi proverà
quanto sia vero quello che sopra vi diceva. Un tal B. C. maestro nel Ginnasio Comunale,
giovane garibaldino, e, dirò ancora la tremenda parola, frate sfratato, è accusato
appresso il ministro Amari come uomo immorale ed incapace. Il ministro accoglie le
segrete accuse ed impone al municipio di gettare il maestro sulla strada. Il municipio
respinge l’ordine ministeriale, dichiarando che del suo impiegato da lui pagato è
buon giudice lui stesso e mantiene il maestro che non dà nulla da dir di sé, ma che
si può sospettare essere perseguitato dal clero e da un fratello per una lite di divisione
di patrimonio, pendente davanti ai tribunali. Vedete ora che razze di persecuzioni,
e fin dove arriva l’influenza clericale. Tutti i Senesi hanno battuto le mani a questo
deliberato municipale, e i Senesi hanno plaudito perché sanno come stanno le cose.
Più vicino alla sentenza, il 25 novembre 1865, il «Foglio della Domenica per il Popolo»,
un giornale «che si stampa a cura del Comitato Senese per l’Unità d’Italia», offre
questo commento di una promozione scolastica che riconduce Atanasio in Puglia, ma
libero e con l’importante incarico di direttore del Collegio ginnasiale di Ostuni:
Questa notizia ci ha rallegrati sì per la persona che per il fatto: per la persona,
che ha difeso col sangue quei principî di libertà che le sono più cari della stessa
sua vita; per il fatto, che è un nuovo tributo di onore e di gratitudine alla causa
del liberalismo e della patria. Oltre di ciò ce ne congratuliamo come di una nuova
sconfitta dell’iniqua setta clericale che ha fatto al Bracci una guerra ipocrita e
continua per la eccezionale condizione in cui questi si trova dinanzi a certe idee
superstiziose e fanatiche che da qui innanzi meritano di essere relegate fra le favole
delle antiche mitologie. Eppure quella setta che ha il fanatismo e non la convinzione
della pietà religiosa, la quale non è altro che sentimento umanitario e benefico,
abusando della ignoranza e della credulità delle moltitudini ha suscitato odii e vendette
contro la giustizia e l’onestà, e mediterebbe tuttora le carceri e i roghi della Inquisizione
contro gli amici del progresso e della Nazione. Ma quei tempi sono passati per sempre,
e la storia li ha registrati tra le infamie del mondo a vergogna perpetua della intolleranza
religiosa.
Non si tratta delle parole più adatte a mantenere un clima di raccoglimento e serenità
intorno ai giudici di Lucca che si apprestano a prendere la loro decisione. Ma va
subito detto che da parte di Nemesio è stato dato, anche senza contare i suoi intrighi,
un non minore contributo all’aspra contrapposizione degli animi. Il «bellissimo» memoriale,
che abbiamo già sentito rammentare, presentato alla corte dall’avvocato Puntoni con
la data del 30 settembre 1864 per rispondere a quello in favore di Atanasio è tutt’altro
che un freddo esame solo legale, bensì accetta in pieno anche la provocazione della
controparte sul versante ideologico e morale della vertenza, cercando di volgerne
ironicamente in burla le argomentazioni e i racconti. Come lettori noi siamo prevenuti,
ma il risultato appare in ogni modo un infortunio del prudente Puntoni.
Sotto il titolo Il Signor del Castello l’avvocato cerca di affogare nel ridicolo il ritratto che gli avversari hanno disegnato
del padre dei contendenti:
Di qui il cavalier maggiore Antonio Bracci, non padre rispettato dai figli ma signore
del Castel di Nocco, assiso sulla sua sedia, circondato da microscopica corte. Di
qui la tenda tirata all’ombra dei castagni di Buti, i profondi inchini, la militare
obbedienza. Di qui un ente del medio evo, avanzo delle crociate, annidato nei monti,
fisso nella dispotica idea di coartare il secondogenito all’abbandono del secolo per
far trapassare nel primogenito i beni tutti, e mantenere nella grandezza delle fortune
il lustro della casata.
Nel paragrafo dedicato alla Vestizione dell’abito chiericale addita ostentatamente l’assurdità della pretesa che un serio capofamiglia come Antonio
desse ascolto ai lacrimosi capricci di Carolina, disperata per l’allontanamento del
figlio con una debolezza femminile foriera di disordine sociale:
Doveva, a quanto sembra, ai pianti della madre intenerirsi, e lasciare o che il figlio
vagabondeggiasse spensierato per il paese di Buti, o doveva mandarlo a Lucca in balìa
di sé stesso esposto alle insidie e ai pericoli della città, o per lo meno doveva
affidarlo a persona che differentemente dal canonico Bartolommei nutrisse idee libere
ed esaltate, quelle idee che nella tempestosa epoca del 1848 nacquero e subito in
licenza degenerarono. Così d’ora innanzi sapranno i figli quali sieno i diritti loro
al dirimpetto dei Padri!
Giunto a trattare l’uscita di convento, abbandona il tono ironico per passare a un’invettiva
che diventa inevitabilmente anche antinazionale: «Là nella zuffa è uno che pochi momenti
fa l’incruento sacrificio celebrò, ora si bagna di sangue fraterno. Pochi momenti
fa stringea la destra ai suoi Sovrani legittimi, ora si affatica a rovesciarli nel
fango». E più avanti, finisce senza volere con l’enfatizzare l’impeto liberatorio
dell’adesione del giovane a Garibaldi:
Non determinazione propria, decisa, spontanea, ma una combinazione fu che lo trasse
fuori dalla intrapresa carriera, fu lo ingresso delle truppe garibaldine nel territorio
di Napoli. E se lo strepito di Marte non fosse colà risuonato, don Raffaello sarebbe
tuttavia nella canonica di Bitonto; tuttora sarebbe monaco, sarebbe sacerdote, sarebbe
retrogrado genuflesso avanti il ritratto degli antichi Sovrani; mentre il lampo della
spada di Garibaldi fece sì che, appiccati gli abiti tutti all’arpion del convento,
varcasse la soglia e venisse fuori uomo nuovo, con faccia nuova, con sentimenti religiosi e politici del tutto nuovi, cambiati colla facilità colla quale la veste pesa si cambia colla veste leggera.
Ma l’aspetto più infelice, e del resto inevitabile, della memoria di Puntoni è la
trattazione della questione delicata e decisiva della libertà o meno della scelta
ecclesiastica e della rinuncia ai beni di famiglia da parte di Atanasio. Non potendo
cancellare l’evidenza delle testimonianze che «il padre e il fratello lo esortavano
alla pazienza, alla fermezza, alla costanza, alla rassegnazione», e dunque non potendo
insistere più che tanto a negare che Atanasio non voleva stare dov’era, Puntoni deve
battere su di un altro tasto, cioè il fatto che comunque all’atto della ratifica del
7 maggio 1858 il giovane rinunciava ai beni liberamente per affetto fraterno, e non
in virtù della sua condizione clericale, non potendo ignorare che i voti a suo tempo
pronunciati erano nulli:
È inverisimile che don Raffaello abbenché sicuro per le sue forze non si rivolgesse
ai lumi, alla dottrina, ai consigli d’un savio. Avesse pure in tanta copia di giureconsulti
incontrato un Pigmeo; avesse pure imbattuto l’Azzeccagarbugli dello illustre Manzoni, gli avrebbero manifestato quello che il signor pievano della
chiesa di Vico, il signor Boncinelli che all’atto del 7 maggio 1858 furono testimonj,
il notaro che riconobbe le firme, e i di lui copisti sapevano, e tutti sanno, che
la professione religiosa si fa agli anni 24 compiuti.
La chiamata in causa di Acconci e Boncinelli, che dagli atti del processo non possono
non risultare ai giudici di Lucca, come a noi, i principali coautori della persuasione
di Atanasio, è molto autolesionistica, ma pure lo è meno della citazione dell’illustre
Manzoni, l’ennesima che Puntoni fa – insieme con Montaigne, Beccaria, e addirittura
Voltaire – di autori decisamente ascrivibili fra gli ideali patrocinatori morali della
controparte. L’avvocato, nel frattempo invano operante presso il suo cliente per un
compromesso, cerca evidentemente di diminuire la «repugnanza» della corte presentandone
le ragioni in uno spirito non troppo difforme dai «tempi attuali». Ma è davvero inevitabile
pensare che in questa fattispecie il creatore di Gertrude avrebbe riconosciuto il
suo Azzeccagarbugli proprio sotto le spoglie dello stesso Puntoni.
La sentenza dei giudici di Lucca, emessa il 18 dicembre 1865, contiene ovviamente
le motivazioni tecniche del rigetto dell’appello di Nemesio contro il giudizio del
tribunale pisano, ma comprende anche un paio di pagine di scandaglio del cuore del
giovane qui chiamato col suo nome di Atanasio. Nei documenti risultanti alla corte
circa l’atto di rinuncia del 7 maggio 1858, «lungi da scorgervisi il più lieve segno
di espansione e di tenerezza tra i due fratelli, da rendere verisimile la supposta
affezione dedotta come causa finale dell’atto stesso, si rileva invece che il cav.
Nemesio con tuono di superiorità e talvolta con asprezza e in modo irritante rampogna
al fratello le sue leggierezze e il suo contegno»; mentre intanto un ecclesiastico
amico di Atanasio «senza fargliene mistero, lo compiangeva come vittima sacrificata alle mire aristocratiche della famiglia»; il tutto, a dimostrare in Atanasio «l’angoscia che provava per la vita del chiostro,
il che repugna alla pretesa scienza della nullità della sua professione (dacché per
essa non avrebbe indugiato a provocare la propria liberazione)».
Atanasio vince la causa. E noi con la sua vittoria concluderemo il nostro racconto,
solo aggiungendo qualche informazione ulteriore e qualche parola di commento su questo
che ha finito per configurarsi ai nostri occhi come un piccolo trionfo del bene sul
male. Nemesio si trova costretto a una spartizione dell’eredità paterna, che dopo
varie difficoltà e aggiustamenti viene conclusa, e registrata da un notaio, il 17
marzo 1866. La spartizione non chiude i rapporti e i conflitti fra i fratelli, perché
Nemesio riesce a creare qualche strascico ritardando alcuni atti legali necessari
da parte sua, e almeno fino all’estate 1866 continua a tramare in ambito ecclesiastico,
non senza mandare spioni negli uffici pubblici, per impedire il matrimonio di Atanasio,
quasi in un estremo tentativo di imporgli indirettamente una solidarietà da cadetto.
Tempo perso. Atanasio gli scrive intanto da Bari il 10 giugno 1866 questo epigrafico
e militaresco biglietto: «Mio fratello. Parto volontario. Ho fatto il mio testamento
segreto, ed è depositato presso il notaro Nicola Vito Colella qui in Bari, via degli
Orefici. Saluto tutti. Tuo fratello Atanasio. P.S. Ti prego dare avviso di tutto anche
alla Paola». In effetti il giorno prima, «essendosi fatto volontario garibaldino per
pugnare nelle ultime battaglie per la libertà e nazionalità della Patria Italia» –
la terza guerra d’indipendenza – ha fatto testamento, e senza prospettive per la discendenza
di Nemesio. Ha nominato erede un figlio della sorella Giovanna maritata Corsi, aggiunto
legati per le sorelle e la fidanzata, uno stipendio annuale «in perpetuo al maestro
elementare del paese di Buti, purché costui non fusse prete», e ordinato il «sepolcro
ov’è sepolta la madre [...] vestito della camicia rossa garibaldina con le decorazioni
sul petto».
Sarebbe difficile inventarsi per la nostra storia un finale che da entrambe le parti
corrispondesse meglio di così, nella vita pubblica come nella vita privata, all’immagine
del progresso e a quella della reazione. Atanasio, in una delle sue lettere a Nemesio
di questo per loro drammatico anno 1866, il 29 marzo, lo ha anche quasi programmaticamente
enunciato: «Parlando dei Tedeschi noi liberali (essendo tu codino) diciamo ‘ripassin
le Alpi e tornerem fratelli’. Io dico a te ‘restituisci il mio e tornerem fratelli’».
A noi, dopo esserci giustamente riscaldati per la sorte del giovane perseguitato,
tocca ora, in conclusione, fare qualche riflessione sul senso del suo atteggiamento
di rottura con le aspettative di famiglia. Ci aiuterà a farle la lunga lettera da
lui scritta a Nemesio da Ostuni il 28 dicembre 1865, all’indomani della vittoria nel
processo. È una lettera ancora un po’ polemica, ma positiva e bella, di cui leggeremo
almeno qualche brano:
Carissimo Fratello. Grandissima meraviglia mi ha recato la tua del 24 corrente ricevuta
questa mane, mentre se in altri tempi per te era come non esistente, ora vedo che
mi vieni a trovare anche qua nelle provincie meridionali. Accetto però il tuo buon
volere; buon volere che sarebbe stato necessario molto pria, e non avessi spinto le
cose a tal segno da far penare me fin’oggi, e gettare per un tuo capriccio in un mare
di spese e di amarezze e di odio insuperabile. Mi dici che al seguito di un documento,
cioè della sentenza pronunciata con giustizia dalla R. Corte di Lucca, brameresti
che ci vedessimo; ma dovresti però conoscere che Ostuni trovasi all’estremo confine
del regno d’Italia e che noi siamo separati l’uno dall’altro da circa 1000 Kilometri,
perciò comprenderai che non è la via dell’orto, e che io possa venire a mio talento.
Molto più comprenderai che come dipendente dal Governo Nazionale, e che come capo
di uno stabilimento che deve sorgere per opera mia, [s]e m’è dato muovermi a beneplacito
mio [...] Se ti pongo fuori queste difficoltà, non dovrai tirare l’illazione falza
che la ruina venga da me, mentre devi sapere che tutte volte che ho cercato un accomodamento,
fra le tante condizioni io volea che tuo figlio Faustino mi fosse dato, e che io lo
avrei educato con affetto, dando campo a svolgere quei talenti che la natura potentemente
lo ha dotato, e che forse altrove attutiranno, come hanno fatto al tuo figlio maggiore.
La ruina de’ figli tuoi viene non da me, ma da tuoi pessimi consiglieri, i quali vedendosi
ora svergognati non osano dirti, come all’Ebreo errante, «cammina, cammina». La ruina
de’ figli tuoi viene dalla tua capricciosa caparbietà (perdona la mia espressione) che mai ài voluto dare ascolto alla voce del sangue,
ma ad una sparità incomprensibile. La ruina de’ figli tuoi verrà da te se non darai
ascolto a me che unico e solo, vero e sincero consigliero ti darò quei sinceri avvertimenti
per toglierti dalle pastoie di coloro che ti tengono imbavagliato [...] Nemesio, deposto
ora il rancore, ti prego in nome della Mamma nostra, ascoltami. Consulto il mio cuore,
ma pensa che tu mi hai fatto patire fin qui la miseria, ma io ti perdonerò qualora
tu riconosca il male passato. Vincitore, ma senza superbia, ti dirò: ora sta a te
che hai cuore, esponi le tue idee, e se saranno eque e leali, troverai uno che non
ama la ruina de’ figli tuoi, ma il bene [...] Finalmente mi preme avvertirti che il
mio nome è Atanasio, per cui un’altra volta ti sia di norma il dirlo nelle sopracarte,
e se altre volte io ti consigliava diversamente ora voglio che si esprima, e così
incominci a farmi comprendere che sei pronto a riconoscermi come vero figlio e legittimo
erede del fu nostro Genitore, e della nostra santa e buona Mamma.
La coincidenza fra ribellione personale e sollevazione politica enfatizza al massimo
l’aspetto di rottura netta col passato nella vicenda privata di Atanasio, e la sua
vibrante rivendicazione d’identità induce a esaltare nel suo atteggiamento l’aspetto
dell’individuo che afferma i suoi diritti di fronte al gruppo collettivo. Questa sostanzialmente
giusta impressione non deve per altro cancellare una sfumatura importante, che è stata
del resto sempre presente nella lotta del giovane, e che qui ritorna appunto con parole
commosse e toccanti: egli ha sempre lottato perché gli fosse riconosciuto il suo posto
individuale all’interno della compagine familiare.
In questo senso, il suo rifiuto della logica del casato, benché reso dalle circostanze
assai più clamoroso di quello del suo prozio Lussorio, non è però più radicale. Nel
testamento barese del 9 giugno 1866, nominando erede il nipote Antonio Corsi, Atanasio
ha disposto «che aggiunga al suo cognome quello di Bracci». Tornato dalla guerra e
sposatosi, fa un nuovo testamento il 15 ottobre 1866 ribadendo, in caso di mancanza
di figli propri, la scelta in favore del nipote Antonio e l’obbligo per lui del cognome
Bracci, e riservando alla moglie, oltre alla quota legittima dell’eredità, il solo
usufrutto del resto. La famiglia, nella mente di Atanasio, resta un valore da perpetuare
nel rispetto dei diversi ruoli di maschi e femmine.
Rimane – sia ben chiaro – ferma, come soluzione, anzi come conquista, delle storie
familiari che siamo venuti raccontando a partire dalla fondazione del casato da parte
di Leonardo, una definizione meno squilibrata dei diritti e dei doveri, una possibilità
meno ristretta per le inclinazioni e le speranze, rispetto a quell’antico e ferreo
progetto. E rimane altrettanto fermo il nesso fra i momenti di effettivo progresso
politico e legislativo – il Codice Napoleone, il Codice Pisanelli – e i miglioramenti
nelle condizioni di vita dei membri meno forti delle famiglie. Con questo, non si
sono certo affermate l’uguaglianza e l’autonomia di scelta. Ma qualcosa è cambiato.
Gli interessi, gli affetti, le libertà e le obbedienze di una famiglia ottocentesca
come quella che può aver creato Atanasio saranno ormai parte di un mondo diverso.