Io di stage ne ho fatti cinque. La prima volta avevo ventiquattro anni e stavo finendo l’università. L’ultima ne avevo ventotto, una laurea, un libro e un praticantato giornalistico alle spalle. Non ero un tantino troppo qualificata per fare la stagista? Qualcosa scricchiolava. Intorno a me, amici e conoscenti passavano da un tirocinio all’altro. Sempre più di frequente alla domanda «Hai trovato un lavoro?» la risposta era «Comincio la prossima settimana uno stage». Qualcosa scricchiolava, sempre più forte. Da una parte gente laureata, spesso vicina ai trent’anni o addirittura oltre, ancora costretta a chiedere la paghetta a mamma e papà, e dall’altra un mondo del lavoro chiuso e diffidente, poco disponibile a dare un’opportunità, propenso invece a usare lo strumento dello stage per avere personale a basso costo. Qualcosa, decisamente, scricchiolava. E si è rotto, a un certo punto.

L’ultimo giorno del mio ultimo stage ho deciso di aprire un blog: l’ho chiamato Repubblica degli Stagisti, parafrasando – come già aveva fatto Beppe Severgnini, columnist del «Corriere della Sera» – il primo articolo della Costituzione italiana: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». No, oggi l’Italia è una Repubblica fondata sullo stage: perché centinaia di migliaia di giovani, ogni anno, si avvicinano al mondo del lavoro attraverso uno stage. E ce ne sono troppi che da queste esperienze rimangono scottati – per varie ragioni. Perché vengono messi a lavorare invece che a imparare. Perché non ricevono neanche un minimo rimborso spese, e il periodo di stage finiscono per doverselo pure pagare. Perché vengono piazzati a fare fotocopie e a servire caffè. Perché non viene loro offerta, al termine del tirocinio, la possibilità di proseguire il rapporto lavorativo. Perché si sentono sfruttati.

L’idea era di rendere il blog uno spazio non solo di sfogo, ma anche di confronto e di proposta. Per raccontare ciascuno la propria storia, per discutere sulla normativa, creare un luogo dedicato all’universo stage, nel bene e nel male, dove convogliare informazioni, dritte, consigli, opinioni.

All’inizio c’era chi, tra i miei amici, mi guardava storto. Perché dedicare tanto tempo ed energia a un blog sugli stagisti, se io tanto stagista non lo ero più? È proprio questo il punto. La condizione di stagista è temporanea: questa è la caratteristica che la rende sopportabile, ma è anche il suo tallone d’Achille. Tanti giovani attraversano nella loro vita un periodo da stagisti, lo patiscono, magari lo maledicono: ma sempre dicendosi «È solo per poco». Quanto poco, non è dato sapere. Tre mesi, sei mesi, un anno. Talvolta anche di più. Ma sempre ripetendosi «Tra un po’ ne sarò fuori, mi faranno un contratto vero. Tra un po’ smetterò di essere solo uno stagista». È questo che depotenzia la battaglia: il fatto che quasi tutti, mentre sono stagisti, mirano solo a uscire dal tunnel degli stage; e quando finalmente ce la fanno, dimenticano alla velocità della luce quel che hanno passato. Così il problema dello stagismo viene preso sottogamba non solo dalle istituzioni, ma anche dalla società.

Ho deciso di aprire il blog sugli stagisti perché non volevo dimenticare, e perché penso che le battaglie giuste vadano combattute a prescindere dal proprio tornaconto personale. La Repubblica degli Stagisti è nata così, dall’idea che lo stage stesse pericolosamente perdendo il suo connotato primario di formazione di giovani inesperti per diventare qualcos’altro. Qualcosa di meno positivo. Un escamotage per avere giovani volenterosi per qualche mese nella propria impresa, entusiasti di imparare un mestiere e speranzosi di ottenere alla fine un contratto. Senza la seccatura di doverli pagare. Senza dover versare i contributi. Senza dover fare i conti con ferie, malattie, maternità.

Non tutti gli stage sono così. Ce ne sono tanti che servono davvero. Ci sono migliaia di imprese che trattano bene i loro stagisti, che non li usano come kleenex, via uno avanti l’altro, che erogano generosi rimborsi spese, che offrono concrete possibilità di assunzione al termine del tirocinio. Sono imprese virtuose. La Repubblica degli Stagisti parla anche di quelle, e tanto. Perché l’ultima cosa che mi interessava – e mi interessa – era creare l’ennesimo spazio virtuale antagonista, negativo, disfattista. Fin dal primo giorno ho voluto che avesse un’impronta riformista: denunciare quel che non va per proporre nuove vie, migliorare la condizione lavorativa dei giovani, limitare gli abusi e incentivare le buone pratiche «stagistiche».

Piano piano, il blog ha cominciato ad avere il suo pubblico. Con la forza del passaparola, dei link agli altri blog, del tam tam virtuale. In tanti hanno cominciato a intervenire per raccontare le loro esperienze, fare paragoni con la situazione all’estero, riflettere anche sui motivi socio-politici che hanno portato l’Italia a questo punto. La forma del blog a un certo punto è diventata troppo stretta: la Repubblica degli Stagisti si è trasformata allora in un vero e proprio sito, una testata giornalistica online, sempre con l’obiettivo di fare un’informazione puntuale e approfondita utile ai giovani che si avvicinano al mondo del lavoro, e di lanciare iniziative – come per esempio la Carta dei diritti dello stagista e il «Bollino OK Stage» – con l’intento di incidere concretamente sulla situazione.

Nel primo anno di vita del sito i lettori sono triplicati. In redazione arrivano ogni settimana decine di e-mail, e molti utilizzano direttamente il forum (che conta centinaia di discussioni aperte), specialmente nelle «Storie di stage», per raccontare la propria esperienza, esprimere opinioni o chiedere informazioni e consigli. I lettori hanno quasi tutti tra i 20 e i 35 anni, e spesso alle spalle un percorso universitario. A settembre 2009 abbiamo avviato un servizio di newsletter settimanale, che contiene le notizie e gli annunci più recenti pubblicati sul sito e segnala gli eventi a cui la Repubblica degli Stagisti partecipa in giro per l’Italia: dagli iniziali 3mila indirizzi e-mail, in soli nove mesi si è balzati a oltre 10mila; migliaia sono anche gli iscritti al gruppo su Facebook. A livello giornalistico, il bilancio del primo anno di sito conta quasi 300 articoli di cui una trentina editoriali, oltre 70 notizie, una cinquantina di approfondimenti, 15 video: in più dall’autunno 2009 abbiamo aperto il servizio Help, attraverso il quale agiamo con inchieste su casi segnalati da lettori insoddisfatti.

Migliaia di stagisti ed ex stagisti utilizzano oggi il sito per scambiarsi informazioni e raccontare le loro esperienze. E io, insieme a loro, proseguo ogni giorno il mio viaggio nel pianeta stage.

1. L’anomalia italiana

Nel nostro paese vive un esemplare straordinario di stagista. Ha un’età indefinita tra i sedici e i sessant’anni, un titolo di studio tra la terza media e il master post-universitario, un curriculum lungo dieci righe o quattro pagine. Stagista, in Italia, può esserlo chiunque: la normativa vigente non pone limiti. Questo vuol dire che, se usato con criterio, lo stage può essere una porta d’ingresso sul mondo del lavoro per i più giovani: allievi delle scuole superiori (l’ancor poco applicata «alternanza scuola-lavoro» prevista dalle ultime riforme), neodiplomati, studenti universitari, neolaureati. Persone cioè non ancora in grado di lavorare, non sufficientemente preparate per svolgere in autonomia una professione e quindi bisognose di un periodo di formazione aggiuntivo, sul campo. Ma l’inghippo è dietro l’angolo, perché grazie alle maglie larghe della legge c’è anche chi prende in stage gente di trenta o addirittura quarant’anni, con studi ed esperienze lavorative ragguardevoli già alle spalle. Facciamo allora un passo indietro, e vediamo cosa è esattamente lo stage e come funziona.

In generale, per stage – o internship, all’anglosassone – si intende un periodo di formazione di un giovane in un determinato ambito lavorativo, spesso a integrazione di quella compiuta a scuola o all’università. Può durare da poche settimane a molti mesi: solitamente la durata è standard – tre mesi, sei mesi, un anno – anche se in realtà dovrebbe essere di volta in volta commisurata agli obiettivi formativi (il cosiddetto «progetto formativo»). Lo stagista viene affiancato da un tutor esperto che lo guida e gli insegna il mestiere.

Sull’enciclopedia online Wikipedia (http://it.wikipedia.org/wiki/Tirocinio) gli stagisti vengono definiti «studenti delle scuole superiori, dell’università o persone che intendono reinserirsi in un’attività lavorativa, cambiare lavoro o comunque acquisire competenze professionali. Nel caso dello studente, lo stage può avere una funzione di orientamento nella scelta della facoltà universitaria, per capire se gli piace il lavoro che dovrà svolgere in futuro. Possono offrire stage: aziende private, enti pubblici, organizzazioni no profit».

Molte volte capita di fare confusione tra stage, tirocinio, praticantato e apprendistato: sono tutti termini che indicano una condizione simile, cioè un periodo di formazione per imparare un lavoro (learning by doing), ma in realtà ci sono alcune differenze rilevanti. Lo stage è volontario, o comunque facoltativo: ciascuno sceglie se e quando farlo. Il tirocinio è indispensabile come step di un determinato percorso professionale: l’ingresso a una scuola, il conseguimento di un titolo. Per esempio, i laureati in psicologia devono svolgere un tirocinio di un anno per essere ammessi all’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione di psicologo. Similmente, il praticantato è obbligatorio per accedere ad alcune professioni, come per esempio l’avvocato o il giornalista (la condizione dei praticanti, davvero molto simile a quella degli stagisti, verrà raccontata nel capitolo 10). Nel caso dei giornalisti, poi, può diventare un rapporto di lavoro (regolato dall’art. 35 del contratto nazionale di lavoro); ma nella maggior parte dei casi non è obbligatorio retribuire i praticanti. È invece doveroso, senza dubbio, retribuire gli apprendisti: l’apprendistato¹ infatti, a differenza delle prime tre tipologie, è un vero e proprio rapporto di lavoro (applicabile sia alle qualifiche operaie sia a quelle impiegatizie). Poiché racchiude in sé il concetto di formazione, viene definito «a causa mista»: l’apprendista deve un po’ lavorare e un po’ imparare, insomma, e l’azienda che lo assume ha il vantaggio di pagargli uno stipendio e una quota contributiva più bassi. Secondo le ultime disposizioni normative esistono tre tipi di apprendistato: quello a cura delle scuole secondarie, dedicato ai ragazzi fino a 18 anni; quello professionalizzante, di durata variabile dai due ai sei anni, che ha come obiettivo il conseguimento di una qualificazione attraverso la formazione sul lavoro e l’apprendimento tecnico professionale; e infine quello per il conseguimento di un diploma o per percorsi di alta formazione. Per queste ultime due tipologie, gli apprendisti possono avere un’età compresa tra i 18 e i 29 anni. «L’apprendistato per il conseguimento di un diploma o di un titolo di alta formazione – comunemente indicato come ‘apprendistato alto’ – è stato al momento utilizzato quasi esclusivamente nell’ambito di un progetto nazionale sperimentale» si legge in Apprendistato: un sistema plurale, il rapporto di monitoraggio realizzato dall’ente pubblico Isfol nel 2009. Questa sperimentazione ha coinvolto complessivamente, tra il 2004 e il 2008, soltanto un migliaio di apprendisti in otto regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Lazio) e nella provincia autonoma di Bolzano.

¹ La regolamentazione dell’apprendistato passa per la legge 19 gennaio 1955, n. 25, la legge 28 febbraio 1987, n. 56, la legge 24 giugno 1997, n. 196 (il cosiddetto «pacchetto Treu») e il decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (decreto attuativo della legge 14 febbraio 2003, n. 30, cosiddetta «legge Biagi»).

Gli apprendisti, dato che hanno un vero e proprio contratto e ricevono una retribuzione, si pongono su un piano diverso rispetto ai loro cugini stagisti, tirocinanti e praticanti – sebbene poi, in sostanza, il concetto di formazione sul campo sia lo stesso per tutti. Lasciamo quindi da parte almeno per ora l’apprendistato, anche perché questo tipo di contratto è utilizzato prevalentemente per introdurre nel mercato del lavoro persone con bassa scolarità², e torniamo agli stagisti. Una caratteristica peculiare dello stage è che se ne può fare più d’uno, anche nello stesso ambito professionale: al contrario, una volta terminato un praticantato o un apprendistato (o, in alcuni casi, un tirocinio specifico) nessuno potrà chiedere a un giovane di ripeterlo. Nel linguaggio comune, comunque, stage e tirocinio vengono usati come sinonimi: anzi, c’è addirittura chi pensa che dire «tirocinanti» anziché «stagisti» sia più rispettoso.

² Dei 600mila contratti di apprendistato annuali oltre un terzo riguarda artigiani. E se nel 2002 la percentuale di apprendisti laureati si fermava allo 0,2%, oggi arriva appena al 4,7% (dato del 2007).

Di norma, lo stage viene organizzato e promosso da persone che si occupano di formazione. Al liceo possono essere i professori a suggerire agli studenti di fare un’esperienza lontano dai banchi di scuola, per «assaggiare» il mondo del lavoro. Nelle università ci sono ormai dappertutto uffici stage e job placement che assistono gli studenti prima e dopo la laurea, aiutandoli a individuare il posto giusto per completare il loro percorso di studi, scrivere la tesi o trovare la prima occupazione. Gli stage vengono anche promossi dalle agenzie per il lavoro temporaneo e da molti altri soggetti che a vario titolo si propongono come intermediari tra chi vuole avvicinarsi al mondo del lavoro e chi offre «ospitalità». A volte, però, lo stage nasce in maniera casuale, dall’invio spontaneo di un curriculum, e solo in un secondo momento viene cercato un ente promotore che suggelli l’accordo tra giovane e azienda.

Trovare uno stage oggi è la cosa più facile del mondo: basta digitare la parola su Google e, anche limitandosi alle pagine in italiano, escono milioni di risultati. Ma senza una guida è abbastanza difficile orientarsi nella giungla delle offerte: ecco perché i vari uffici e sportelli stage offrono ai ragazzi consulenza e assistenza. Con alterni risultati, a dir la verità: ce ne sono alcuni che lavorano benissimo, altri che ci mettono buona volontà ma arruolano personale poco preparato e quindi non sanno fornire un apporto adeguato né ai tirocinanti né alle aziende, altri ancora che cercano soltanto di guadagnarci e quindi non prendono alcuna misura per tutelare i giovani dalle fregature.

A livello normativo, un primo tentativo di introdurre questo strumento nel mondo del lavoro italiano era stato fatto già trent’anni fa, con la Legge-quadro in materia di formazione professionale (21 dicembre 1978, n. 845), che all’art. 15 prevedeva: «Le istituzioni [...] operanti nella formazione professionale possono stipulare convenzioni con le imprese per la effettuazione presso di esse di periodi di tirocinio pratico e di esperienza in particolari impianti e macchinari o in specifici processi di produzione oppure per applicare sistemi di alternanza tra studio ed esperienza di lavoro». Già a quell’epoca il legislatore subodorava il pericolo che i tirocinanti potessero essere utilizzati impropriamente dalle aziende, e quindi si affrettava a specificare: «Le attività formative [...] sono finalizzate all’apprendimento e non a scopi di produzione aziendale». In ogni caso la legge rimase quasi lettera morta, e fino agli anni Novanta si sentì parlare pochissimo di stagisti.

Lo stage è diventato di moda solo da una decina d’anni. Più precisamente è riapparso con l’approvazione della legge 196 del 1997, il cosiddetto «pacchetto Treu», tra le Norme in materia di promozione dell’occupazione. Si legge infatti nell’art. 17, comma 1, lettera b: «attuazione dei diversi interventi formativi anche attraverso il ricorso generalizzato a stages, in grado di realizzare il raccordo tra formazione e lavoro e finalizzati a valorizzare pienamente il momento dell’orientamento nonché a favorire un primo contatto dei giovani con le imprese». L’articolo successivo poi spiega più in dettaglio che «Al fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro e di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro, attraverso iniziative di tirocini pratici e stages», dovrà essere fatta una legge apposita. Che arriva puntuale l’anno successivo: è il decreto ministeriale n. 142, firmato dal ministro del Lavoro, quello della Pubblica istruzione e quello dell’Università e della ricerca. Un regolamento articolato in una decina di punti per disciplinare la materia: qual è il numero massimo di stagisti che ciascuna azienda (o ente) può ospitare, chi può attivare gli stage, come devono essere formulati i progetti formativi, quanto possono durare e così via.

Già a una prima lettura si capisce che la normativa è formulata per lasciare il maggior spazio possibile a tutti: non c’è un limite di età o di titolo di studio per gli stagisti, la durata massima degli stage è molto ampia ed è prevista anche la possibilità di proroga. Infine, la retribuzione dello stagista è discrezionale: pertanto ogni azienda o ente potrà decidere se erogare un rimborso spese o meno. La normativa non prevede una sanzione per chi trasgredisce – un particolare che purtroppo rende in pratica «facoltativo» il rispetto dei limiti imposti.

Da quel momento in poi inizia la danza degli stage. Sempre più forsennata: dalle poche migliaia di stagisti all’anno della fine degli anni Novanta si arriva fino alle centinaia di migliaia di oggi. Solo che in Italia lo stage prende una direzione diversa rispetto alla maggior parte dei paesi europei: non viene concepito come parte integrante dei percorsi formativi, e quindi inserito nel corso di studi superiori o universitari degli studenti, ma viene declinato come formazione successiva, aggiuntiva, da fare «dopo» rispetto al diploma o alla laurea. Il risultato è una perdita di tempo notevole – come rileva anche Marina Rozera, responsabile del Programma Leonardo da Vinci per l’Isfol, nelle conclusioni del manuale Progetta il tuo stage in Europa: «Questo tipo di esperienza negli altri Paesi europei è da tempo sviluppata come parte integrante dei curricula di studio e consente una maggiore integrazione tra sistema scolastico e sistema produttivo, evitando quindi lo scollamento tra tempo della formazione e tempo del lavoro, come invece troppo spesso ancora accade in Italia». Il fine principale per il legislatore doveva essere quello di velocizzare il raccordo tra formazione e ingresso nel mondo del lavoro per i giovani: ma l’obiettivo non è stato – finora – centrato.

Quindi gli stagisti italiani sono innanzitutto vecchi, specie se confrontati ai loro colleghi europei o americani. La normativa non prevede indicazioni rispetto a un’età massima: si possono fare stage non solo a vent’anni o venticinque, ma anche a trenta o addirittura quaranta³. Un limite in questo senso proteggerebbe molti adulti dal sentirsi proporre stage – ma c’è chi pensa che limiterebbe la possibilità, per persone che hanno preso una determinata strada professionale, di cambiare idea e rimettersi in gioco, provando a imparare (appunto, attraverso uno stage) un altro lavoro. In ogni caso il limite non c’è e quindi gli stagisti trenta-quarantenni, anche se non numerosissimi, esistono.

³ Alla fine del 2008 è uscito un libro scritto proprio da un quarantenne stagista, Andrea Bove: Stagista a 40 anni, Riccadonna Editori.

Sono vecchi, inoltre, perché non c’è nemmeno un limite massimo di tempo tra la fine di un percorso formativo «accademico» (ad esempio diploma, laurea) e l’inizio di uno stage. C’è chi si illude che i laureati possano fare stage solo nei primi 18 mesi dopo la laurea. In realtà questa è una pura formalità: se è vero che ogni neolaureato, per l’attivazione di uno stage, può rivolgersi per il primo anno e mezzo all’ufficio tirocini della sua facoltà, non è affatto vero che passato questo periodo non potrà più fare lo stagista: semplicemente, dovrà utilizzare come soggetto promotore non più l’università, ma un centro per l’impiego o uno degli innumerevoli altri enti previsti dalla legge (nello specifico: agenzie per l’impiego; provveditorati agli studi; istituzioni scolastiche che rilascino titoli di studio con valore legale; centri di formazione professionale e/o orientamento; comunità terapeutiche, enti ausiliari e cooperative sociali; servizi di inserimento lavorativo per disabili gestiti da enti pubblici delegati dalla regione; istituzioni formative private senza scopo di lucro con specifica autorizzazione della regione).

È un aspetto, questo, molto significativo. Altrove – in Europa, in America – lo strumento dello stage è dedicato pressoché esclusivamente ai giovanissimi: ragazzi di vent’anni che frequentano l’università e che completano la formazione accademica attraverso un’esperienza sul campo. Basti pensare che Monica Lewinsky, diventata famosa per la relazione con il presidente americano Bill Clinton, all’epoca dello stage galeotto alla Casa Bianca aveva solo ventidue anni. Nel momento in cui si laureano, o comunque completano il loro ciclo formativo, all’estero è previsto che i giovani entrino nel mondo del lavoro vero. Loro per primi, e poi le loro famiglie, e in generale tutta la società sanno che una volta finito di studiare una persona deve cominciare a lavorare. Prolungare a dismisura il momento della formazione viene considerato poco lungimirante: chi smette di studiare deve poter iniziare a guadagnare, per conquistare la sua indipendenza economica e costruire una propria vita autonoma, separata da quella del nucleo familiare di provenienza, e entrare nel ciclo economico, guadagnando e spendendo.

A proposito: gli stagisti italiani sono anche poveri. Il legislatore, evitando di prevedere un rimborso spese minimo garantito, non aveva calcolato che lo strumento dello stage in questo modo potesse essere interpretato dalle aziende e dagli enti più scaltri e disinvolti come un modo per poter avere personale a costo zero.

Nella maggior parte degli stage attivati nell’ambito di un percorso formativo è senz’altro vero che il beneficio dello studente stia prima di tutto nella formazione (per esempio, agli universitari vengono assegnati crediti formativi per i tirocini «curriculari»). Ma gli stagisti già diplomati o laureati, che fanno uno stage di orientamento e inserimento lavorativo, perché mai non dovrebbero ricevere un compenso per il tempo e l’impegno che dedicano all’azienda o all’ente presso cui operano?

Uno dei punti più critici della normativa è proprio questo: non fare differenza tra i diversi tipi di stagisti, dal punto di vista della retribuzione, pretendendo che l’apporto fornito da un inesperto diciottenne nel corso di uno stage di poche settimane possa essere equivalente a quello di un venticinquenne laureato, magari già con altre esperienze lavorative alle spalle. Forse il legislatore si aspettava che gli stagisti attempati e qualificati sarebbero stati un’esigua minoranza, ma nei dieci e passa anni che sono seguiti al decreto ministeriale, la situazione è andata in un’altra direzione. Gli stagisti di questo tipo sono decine di migliaia, e se ricevono un rimborso spese devono ringraziare solo l’azienda o l’ente che ha generosamente deciso di erogarlo, malgrado la normativa non lo imponesse.

Anche da questo punto di vista il caso italiano è atipico. In Svizzera, per esempio, perfino gli adolescenti che fanno stage nell’ambito di un percorso formativo percepiscono almeno 800 franchi, cioè circa 550 euro al mese; mentre gli adulti che sono rimasti disoccupati e che fanno stage per riqualificarsi ricevono una retribuzione (nell’ambito dell’«assicurazione contro la disoccupazione»⁴) pari ad almeno 1.200 euro al mese. In Belgio e in Irlanda gli stagisti hanno diritto a essere retribuiti secondo i parametri del salario minimo garantito (che in Italia però non abbiamo). In Francia già nel 2006 un accordo siglato da governo, imprenditori, sindacati, enti di formazione e associazioni studentesche – i cui contenuti erano stati ripresi in una legge e poi, nel 2008, in un decreto attuativo – aveva stabilito che, a partire dal quarto mese di tirocinio, per gli stage in imprese private scattasse il dovere di erogare una retribuzione mensile pari ad almeno un terzo del salario minimo garantito (lo Smic, più o meno 1.300 euro al mese). Nella primavera del 2009 il presidente francese Nicolas Sarkozy ha annunciato l’intenzione di anticipare quest’obbligo a partire dal terzo mese di tirocinio, di estenderlo anche al settore pubblico (comprese le amministrazioni locali e le strutture sanitarie), e di introdurre per gli stage di durata inferiore il dovere di dare un minimo di rimborso spese e di prevedere l’accesso alla mensa aziendale o benefit analoghi. Attraverso la legge n. 1437 del 24 novembre 2009 le promesse si sono trasformate in realtà (l’unica parte del provvedimento annunciato dal presidente francese che non è stata tradotta in legge è quella relativa all’ampliamento dell’obbligo anche per gli enti pubblici).

⁴ Cfr. http://www.espace-emploi.ch/, in particolare http://www.area-lavoro.ch/ueberuns/arbeitslosenversicherung/.

Vi sono anche altri posti, oltre all’Italia, in cui la retribuzione degli stagisti non è normata: ma nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di paesi dove lo stage è concepito, come si diceva prima, solo per i giovanissimi; ed è dato per assodato che una volta terminato il percorso formativo un giovane vada in cerca di un lavoro vero, attraverso il quale a fine mese potrà portare a casa uno stipendio.

La combinazione di questi due piccoli vuoti della normativa, quello sul limite di età e quello sull’obbligo di retribuzione, porta quindi gli stagisti italiani a essere vecchi e poveri. Una situazione che in Europa si ritrova solamente in Germania: lì hanno addirittura coniato una definizione, Generation Praktikum (generazione stage), che viene utilizzata dai media e dalla gente per indicare quei giovani che attraversano il guado degli stage per arrivare nel mondo del lavoro. Gli stagisti tedeschi hanno un’associazione che li difende, Fairwork, che a oggi conta 700 iscritti e che si batte per una normativa più rigorosa. In particolare propone che la durata massima di tutti gli stage sia fissata a quattro mesi, che almeno i tirocinanti già laureati percepiscano un salario minimo, e infine che il concetto di stage venga definito una volta per tutte a livello normativo cosicché le aziende non possano più interpretarlo a proprio vantaggio. L’associazione quattro anni fa ha anche pubblicato un manualetto, Vom Praktikum zum Job (Dallo stage allavoro)⁵, pieno di dritte per i giovani stagisti. Per individuare «lo stage corretto», il libro indica sei criteri. Lo stagista deve innanzitutto acquisire davvero nuove competenze; avere un tutor presente e disponibile; avere poi una sua postazione di lavoro; ricevere precisi compiti da svolgere; e percepire infine un buon rimborso spese. La durata dello stage non deve superare i tre mesi, al massimo sei in casi eccezionali. Gli autori a questo proposito specificano: «In questo lasso di tempo lo stagista impara, mentre dopo il lavoro è già stato imparato; quindi un datore di lavoro corretto non offrirà stage di dodici mesi!». E consigliano ai ragazzi: non fate mai più di quattro stage.

⁵ F. Schneider, B. König, S. Rinecker, Vom Praktikum zum Job, Haufe, 2006. Alla fine del 2008 il libro registrava una tiratura di 5mila copie. Gli autori sono tutti ex stagisti.

Qualche tentativo per dare una mano ai giovani italiani per orientarsi nel mare magnum degli stage è stato fatto in questi anni dall’Isfol, l’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori. Istituito nel 1973, svolge e promuove attività di studio, documentazione e consulenza per le politiche sociali e del lavoro: nel 1999, all’indomani della legge, pubblicò un manualetto dedicato alle scuole superiori, Lo stage e il tirocinio nei percorsi scolastici e formativi – Guida alla progettazione, diffondendolo soprattutto negli istituti tecnici. Poi nel 2006 fu la volta del Manuale di orientamento per il tirocinante in cerca di lavoro⁶, dedicato a chi volesse avvicinarsi a un mestiere attraverso un tirocinio promosso dai centri per l’impiego. Più di recente ha dato alle stampe Progetta il tuo stage in Europa⁷, con l’intento di invogliare i giovani italiani a mettere il naso fuori dall’Italia e diventare «eurostagisti».

⁶ Il libro, a cura di Ginevra Benini, è arrivato alla terza edizione con una tiratura di oltre 20mila copie.

⁷ Sempre a cura di Ginevra Benini, il libro è uscito nel 2008 ed è scaricabile gratuitamente attraverso il sito dell’Isfol (http://www.euroguidance.it/prodotti/Stage.pdf).

Nella sostanza, però, le centinaia di migliaia di giovani e meno giovani che ogni anno fanno stage in Italia si ritrovano nell’incertezza più completa: potranno capitare in enti e aziende rigorosi e generosi, che seguiranno alla lettera i dettami della normativa offrendo progetti formativi seri e condizioni di stage decorose, oppure inciampare in realtà interessate più a utilizzarli come forza lavoro aggiuntiva e gratuita che ad aiutarli a completare la formazione.

Gli stessi enti promotori hanno la loro parte di responsabilità. Vi sono università che hanno uffici stage e job placement che lavorano egregiamente, e al contrario atenei che non effettuano il minimo controllo sui luoghi dove mandano in stage i loro studenti. In un’intervista alla Repubblica degli Stagisti Michele Tiraboschi, direttore scientifico della Fondazione Marco Biagi presso l’università di Modena e Reggio Emilia e autore del libro Un futuro da precari? Il lavoro dei giovani tra rassegnazione e opportunità⁸, ammise che non erano rari i casi di abuso dei tirocini: «Ci sono aziende che utilizzano gli stagisti anche al di fuori dei vincoli di legge, e alcuni ragazzi rimangono intrappolati in una sequenza infinita di stage». Indicando poco più avanti i colpevoli: «La responsabilità è in massima parte delle università: i responsabili degli uffici stage spesso non hanno le competenze necessarie. Così non garantiscono un buon servizio agli studenti che mandano in stage: non sanno nulla dei tirocini, non elaborano buoni progetti formativi, non controllano come viene utilizzato il tirocinante dall’impresa, cosa fa»⁹. Lo stesso discorso vale per i centri per l’impiego e tutti gli altri soggetti che la normativa autorizza a svolgere il compito di intermediazione tra giovani in cerca di stage e aziende o enti in cerca di stagisti. Per ogni ragazzo che si ritrova a fare stage come barista in un locale, come cassiere in un supermercato, come cameriere in un albergo, infatti, c’è un soggetto promotore che ha firmato quel progetto formativo farlocco.

⁸ Il volume, scritto con Maurizio Sacconi, è uscito presso Mondadori nel 2006.

⁹ Dall’articolo Michele Tiraboschi: stage, sono le università che dovrebbero vigilare sugli abusi, pubblicato sulla Repubblica degli Stagisti il 10 ottobre 2008 (http://www.repubblicadeglistagisti.it/article/michele-tiraboschi-stage-sono-le-università-che-dovrebbero-vigilare-su-gli-abusi.

Questi casi limite qualche volta (raramente, a dir la verità) vengono portati davanti ai magistrati: è dell’agosto 2007 una sentenza del Tribunale civile di Trieste che giudica proprio un caso del genere, risalente al 2001, in cui un gran numero di stagisti veniva impiegato in un supermercato per svolgere mansioni elementari (salumeria, cassa, disposizione di merce sugli scaffali). Un caso simile è accaduto a Lecco all’inizio del 2007: la Direzione provinciale del lavoro, su segnalazione di un ragazzo, ha riscontrato un uso improprio di sette stagisti – addetti principalmente alla disposizione dei generi alimentari sugli scaffali – e ora la vicenda passerà in aula.

Stage impropri, di cui parleremo meglio nel capitolo 4. Stage che non sono affatto concepiti per chi li fa, mancando quasi del tutto ogni finalità formativa, bensì solo per essere utili alle aziende ospitanti, che in questo modo guadagnano manodopera a costo molto contenuto, immediatamente produttiva e facilmente sostituibile. Tanto da indurre il giudice del lavoro Annalisa Multari a scrivere nella sua sentenza: «il convincimento che gli stagisti fossero utilizzati dalle società in ragione delle proprie esigenze è fondato anche sulla circostanza emersa dai dati documentali [...], che laddove uno stagista non prendesse servizio per motivi personali di rinuncia, subito era sostituito da altra persona sempre per il medesimo reparto» e ad aggiungere, nelle considerazioni finali, che i proprietari del supermercato utilizzavano lo strumento dello stage «esclusivamente per ‘testare e provare’ gli interessati: finalità peraltro estranea all’istituto che invece ha come scopo istituzionale la formazione e l’orientamento degli stagisti nell’interesse di questi ultimi e non certo dall’azienda ospitante»¹⁰.

¹⁰ Sentenza del Tribunale ordinario di Trieste, Sezione civile, del 30 agosto 2007, consultabile in rete all’indirizzo http://www.unirc.it/documentazione/materiale_didattico/697_2007_65_863.doc.

Oggi lo stage è un passaggio obbligato nella vita dei giovani che si affacciano al mondo del lavoro, ma anche un’incognita: si sa quando si farà il primo ma non si sa quando si farà l’ultimo. Nella maggior parte dei casi si risponde a un annuncio senza sapere se verrà proposto un rimborso spese, né di quale entità. Troppo spesso i ragazzi non hanno elementi in mano per valutare se un’offerta sia buona o nasconda qualche trappola. Anche se qualche trucco c’è – e lo vedremo nel capitolo 3.

2. L’esercito degli stagisti

Un giorno un amico giornalista mi ha chiesto: «Tu che hai quel sito sugli stagisti, mi sai dire quanti sono? Mi servirebbe per un articolo». «Non saprei di preciso, mi cogli impreparata», ho risposto «ma mi informo». E che sarà mai, mi sono detta, scoprire un numero. Ci saranno sicuramente dati ufficiali, rilevazioni del ministero, dell’Istat, qualcuno li conterà questi benedetti stagisti.

L’impatto con la realtà è stato sorprendente. In pochi giorni ho scoperto che non c’è modo di sapere con precisione quanti stagisti ci siano in Italia: forse non è un’informazione di immediata utilità, e così a nessuno è venuto in mente di rendere trasparente (e quindi controllabile) la situazione, istituendo un semplice registro nazionale o regionale degli stage, per monitorare questa fetta di mercato del lavoro. O forse qualcuno preferisce che la questione rimanga in ombra?

Tra i pochi a fornire dati sul numero degli stagisti ci sono AlmaLaurea, Unioncamere e Isfol. AlmaLaurea è una sorta di consorzio delle università italiane, cui aderisce circa il 70% degli atenei, che mette in relazione aziende e laureati e studia le realtà accademiche, l’occupazione e la condizione giovanile. Ogni anno raccoglie nel documento Profilo dei laureati dati sulla formazione degli universitari: gli ultimi disponibili¹ dicono che il 54,5% degli studenti laureati nel 2009 – cioè circa 104mila persone su un totale di 190mila – ha svolto almeno uno stage (in sei anni il numero è più che raddoppiato: nel 2004 erano solo 47mila). Questo vuol dire che all’università si utilizza sempre di più lo strumento dello stage per affiancare alla teoria anche una formazione pratica. Il che è un bene e ci avvicina agli altri paesi europei: a patto però che poi il mondo del lavoro ne tenga conto. E che a qualcuno che ha già fatto uno o due stage all’università non venga proposto, dopo la laurea, l’ennesimo stage. Ma questa è un’altra storia, e la racconteremo meglio più avanti.

¹Indagine 2010, Profilo dei laureati 2009.

Unioncamere, invece, è un ente pubblico fondato nel 1901 per rappresentare gli interessi delle Camere di commercio italiane nei confronti di tutti gli interlocutori istituzionali, incluse le organizzazioni imprenditoriali, dei consumatori e dei lavoratori. Ogni anno redige l’indagine Excelsior, distribuendo un questionario a oltre 100mila imprese con almeno un dipendente di tutti i settori economici e di tutte le tipologie dimensionali, con l’obiettivo di mappare i fabbisogni delle imprese sul versante del mercato del lavoro. Secondo gli ultimi dati disponibili (Rapporto Excelsior 2009²) nel corso del 2008 sono stati attivati circa 305mila stage (con un incremento di quasi il 20% rispetto all’anno precedente) e quasi il 13% delle imprese italiane ha accolto almeno uno stagista. Se si suddivide questa percentuale in base alla grandezza dell’azienda, si scopre che le grandi imprese e le multinazionali usano lo strumento dello stage molto più delle piccole e medie imprese. L’indagine rileva anche che gli stage sono più frequenti al Centro-Nord che al Sud (la regione Lombardia ospita da sola un quinto di tutti gli stagisti italiani, quasi 61mila; a livello di città, Milano e Roma fanno la parte del leone con oltre 25mila stagisti ciascuna) e che la percentuale di assunzione, terminato il tirocinio, si attesta in media sul 9,4%: in generale si ha dunque meno di una chance su dieci di venire assunti.

² Unioncamere, Rapporto Excelsior sui fabbisogni professionali e formativi, vol. II, Sintesi dei principali risultati, Unioncamere, 2009, consultabile in rete all’indirizzo http://excelsior.unioncamere.net/web/Excelsior_2009_Nazionale_Formazione.pdf.

L’Isfol infine effettua due importanti monitoraggi. Il primo sui centri per l’impiego: gli ultimi dati, relativi al 2007, rilevano circa 49mila stagisti. Il secondo sui tirocini attivati dai centri di formazione professionale: nel 2007/2008, dei circa 360mila ragazzi che hanno affollato le migliaia di corsi attivi in Italia, l’80% ha fatto un tirocinio come parte integrante del percorso formativo ai fini di ottenere una qualifica regionale: solo questo segmento numericamente ‘vale’ quasi 290mila stagisti ogni anno (di cui oltre la metà sono adolescenti che compiono percorsi triennali di formazione professionale, alternativi alle scuole superiori, nell’ambito del diritto-dovere all’istruzione e alla formazione)³.

³ Il riferimento normativo è il decreto legislativo 76/2005, «Definizione delle norme generali sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione, a norma dell’articolo 2, comma 1, leggera c), della legge 28 marzo 2003, n. 53», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 103 del 5 maggio 2005.

Sono tutti dati importantissimi ma, purtroppo, parziali. Quelli di AlmaLaurea prendono in considerazione solo gli studenti universitari; quelli di Unioncamere solo chi va a fare stage in imprese private; quelli dell’Isfol solo chi passa attraverso un centro per l’impiego o fa corsi di formazione.

C’è un grande buco nero: quello che riguarda gli stagisti impiegati negli uffici della pubblica amministrazione. Ministeri, comuni, province, regioni, musei, tribunali, ospedali, enti pubblici di varia natura: ormai ufficio che vai, stagista che trovi. Molto spesso fare esperienza in uno di questi uffici serve per la tesi di laurea, e infatti AlmaLaurea conta almeno 53mila stage di studenti universitari attivati tra enti pubblici e università. Ma qui ci sono alcuni aspetti critici da non sottovalutare: primo fra tutti, lo sbocco lavorativo che nel caso degli enti è ridotto ai minimi termini, dato che le procedure di assunzione in questo settore sono regolate attraverso concorsi – quindi uno stagista può aspirare tutt’al più a una collaborazione o a un contratto temporaneo. Un secondo aspetto negativo è che gli uffici pubblici, ancor meno delle aziende private, sembrano poco propensi a garantire agli stagisti una retribuzione dignitosa⁴. E questo malgrado già da cinque anni – era l’estate del 2005 – il ministro competente abbia messo nero su bianco che, se lo volessero, anche loro potrebbero prevedere rimborsi spese: la direttiva 1° agosto 2005, n. 2, infatti, dice chiaramente all’art. 6.2 che ciascun ente ha la facoltà di «valutare l’opportunità di prevedere per i tirocinanti un rimborso spese, sotto forma di borsa di studio, sempre nell’ambito delle disponibilità di bilancio».

⁴ Con qualche luminosa eccezione: come per esempio il comune di Udine, che paga 775 euro lordi ai suoi stagisti laureati; la Camera di commercio di Milano, 600 euro netti per stage part-time; la provincia di Bolzano, 480 euro netti a studenti di scuola superiore e diplomati e 580 a studenti universitari e laureati.

In ogni caso, quanti siano gli stagisti nelle pubbliche amministrazioni nessuno lo sa, perché la rilevazione di AlmaLaurea non conta (e non potrebbe essere altrimenti) tutti gli stagisti extrauniversitari, cioè le migliaia di studenti delle scuole superiori che d’estate vanno in uffici comunali, biblioteche, enti locali, nonché tutti coloro che si auto-candidano, completamente al di fuori di ogni percorso formativo.

Insomma sono tanti, gli stagisti. Almeno mezzo milione all’anno. Troppi? Troppi.

Oltre alla questione quantitativa, poi, c’è quella qualitativa. Tutti questi giovani sono soddisfatti degli stage che fanno? Ben pochi se ne occupano: per questo la Repubblica degli Stagisti ha promosso insieme all’Isfol⁵, tra il maggio e l’ottobre del 2009, un sondaggio online intitolato Identikit degli stagisti italiani, con l’obiettivo di raccogliere la voce dei diretti interessati e far luce su elementi poco indagati come il rimborso spese (scoprendo che uno stage su due non lo prevede) e la congruenza tra le aspettative e i risultati (nella maggior parte dei casi un miraggio). Al sondaggio hanno partecipato in maniera anonima quasi 3mila persone, soprattutto donne (68,9%) e soggetti tra i 25 e i 30 anni (65,2%)⁶. Praticamente tutti i partecipanti erano laureati (la metà con laurea specialistica o vecchio ordinamento; un terzo con triennale e un quinto con diploma di master), a dimostrazione che lo stage è un’esperienza che oggi riguarda in molti casi persone con un alto grado di istruzione. Solo la metà ha partecipato a stage mentre studiava; gli altri lo hanno invece fatto dopo il periodo di formazione – dopo l’università, dopo il master – col risultato di una perdita di tempo che in altri paesi non si verifica. Per quanto riguarda il numero degli stage, i «serial stagisti» – cioè coloro che hanno fatto tre o più tirocini – sono quasi uno su cinque.

⁵ Al sondaggio online Identikit degli stagisti italiani, promosso dalla Repubblica degli Stagisti e dall’Isfol, hanno collaborato: Pietro Taronna, Ginevra Benini, Giuseppe Iuzzolino, Giovanna Di Castro, Silvia Lotito, Paolo Emilio Cardone e Michele Cuppone per l’Isfol, Giuseppe Ciotta per la realizzazione del supporto informatico.

⁶ Elaborazioni a cura dell’ufficio statistico dell’Isfol.

Alla domanda «Cosa ti aspettavi di ottenere dallo stage?» la risposta secca di un terzo dei partecipanti è stata: «trovare un lavoro». Distanziate le altre opzioni: «completare la mia formazione» ha raccolto per esempio meno di un quarto delle preferenze, «orientarmi nel mondo delle professioni» ancora meno (il 18,5%). Dal sondaggio, come prevedibile, è emerso quindi che i ragazzi vedono nello stage essenzialmente una strada per entrare nel mondo del lavoro: eppure questa aspettativa viene quasi sempre frustrata. In più della metà dei casi lo stage si conclude con una stretta di mano e un arrivederci, ed è allarmante che oltre una volta su sei la proposta che arriva sia quella di una proroga – che invece dovrebbe essere una circostanza più unica che rara. I casi in cui lo stage si trasforma in un vero e proprio contratto sono pochi: un 6% dei partecipanti ha dichiarato di aver ottenuto un contratto a progetto, un altro 6% un contratto a tempo determinato, un 7% una collaborazione occasionale. Solo due stage su cento si trasformano nel contratto più ambito, quello a tempo indeterminato.

Dal punto di vista logistico, dal sondaggio emerge che lo stage non sempre è comodo: meno della metà lo ha svolto nella sua città. Uno su quattro ha fatto il pendolare e un altro quarto si è dovuto trasferire in un’altra città: con conseguenti costi di trasporto, vitto e alloggio, il più delle volte bellamente ignorati dai «soggetti ospitanti». Prova ne sia che oltre la metà delle voci raccolte (52%) dichiara di non aver ricevuto nemmeno un euro di rimborso spese, a cui se ne aggiunge un altro terzo che ha ricevuto un compenso poco più che simbolico, meno di 500 euro al mese. Pochi fortunati hanno potuto contare su un rimborso spese sostanzioso: un 11% ha preso tra i 500 e i 750 euro al mese e cinque su cento addirittura oltre 750 euro al mese. Per fortuna c’è almeno l’abitudine a rimborsare i pasti: poco più della metà degli stagisti (58%) racconta di aver avuto a disposizione la mensa o i ticket restaurant.

Per quanto riguarda invece il canale di accesso, per trovare un’occasione di stage pochissimi si rivolgono a un centro per l’impiego. Dei partecipanti al sondaggio, per esempio, l’ha fatto solo il 2%. In quasi la metà dei casi han preferito il fai-da-te delle candidature spontanee e degli annunci su internet (24%) o delle conoscenze (17%), oppure si sono affidati – in poco meno di un caso su tre – all’ufficio stage dell’università o ad associazioni studentesche.

In media gli stage durano dai tre ai sei mesi: rispetto al campione, sette su cento sono durati addirittura di più (tra i sette e i dodici mesi). Un preoccupante 2% degli intervistati ha dichiarato poi una durata superiore a un anno: essendo ciò legale solo per gli stagisti portatori di handicap, questo dato lascia supporre un utilizzo disinvolto dei termini massimi indicati dalla normativa per la durata da parte di imprese ed enti meno seri.

La percentuale di coloro che portano a termine lo stage è schiacciante: quasi il 90%. Chi l’ha interrotto prima l’ha fatto soprattutto perché insoddisfatto o per passare a un’offerta migliore (un tirocinio a condizioni più vantaggiose, o più spesso un lavoro). È però la figura del tutor a rappresentare la nota dolente: nemmeno la metà dei partecipanti è rimasta soddisfatta del suo. Nell’altro 50% dei casi, il tutor viene definito poco presente (20%), o «un altro rispetto a quello indicato sul progetto formativo» (6%), o addirittura «niente di più che una firma sul modulo» (20%). In generale, però, chi ha partecipato al sondaggio conserva un ricordo positivo del suo stage: per quasi la metà degli intervistati la qualità è stata buona (33%) o addirittura ottima (16,5%). A fare da spartiacque, poi, il giudizio «sufficiente» scelto da un partecipante su cinque; sotto questa soglia c’è un 19% che definisce mediocre il suo stage, e uno su dieci che lo bolla senza pietà come «pessimo». A chi ha dato un giudizio negativo, il sondaggio chiedeva infine di spiegare cosa fosse andato storto. Nella maggioranza dei casi il problema evidenziato è quello di aver svolto esclusivamente mansioni di basso profilo (26%), seguito a ruota da quello di non avere avuto un ruolo preciso (23%), e di essersi sentiti abbandonati da un tutor poco presente (18%).

Dal sondaggio, insomma, emerge un quadro molto critico. Trovare uno stage come si deve non è facile: i 500mila stagisti italiani innanzitutto devono avere le spalle coperte dalla famiglia, per poter affrontare le spese che uno stage inevitabilmente comporta. Devono poi incrociare le dita e sperare di imbattersi in aziende corrette e tutor coscienziosi, che non li abbandonino al secondo giorno con una pila di fogli da fotocopiare. E devono modulare al ribasso le aspettative, perché sperare che lo stage apra le porte del mercato del lavoro è, dati alla mano, un’illusione.

3. Gli stage giusti e gli stage sbagliati

Non è facile orientarsi nel mare magnum degli stage. Negli annunci sui giornali o su internet, così come nelle bacheche delle università, le offerte sembrano tutte uguali, interscambiabili: «cercasi neolaureato per periodo di formazione con possibilità di inserimento in organico al termine dello stage». Dietro queste parole generiche e neutre può nascondersi uno stage ottimo, con congruo rimborso spese e concrete prospettive di assunzione, oppure uno stage pessimo, pagato poco o niente, concepito dal datore di lavoro non per offrire una seria formazione ma per ottenere un dipendente a basso costo. Spesso non si riesce nemmeno a capire da quale azienda provenga l’offerta: quando ci si imbatte nel classico annuncio «ricerchiamo stagista per nostro prestigioso cliente...», vuol dire che in quel caso c’è un intermediario che fa da filtro nella selezione. Se ci si vuol candidare, insomma, si deve mandare il curriculum alla cieca, e sperare che l’intermediario lavori in modo serio e che il prestigioso (ma ignoto) cliente sia davvero solido e affidabile.

Come si fa a non sbagliare? La parola chiave è solo una: informazione. Per valutare uno stage è importante conoscere chi lo propone, e in particolare scoprire tutto quel che riguarda l’utilizzo che quella determinata azienda fa degli stagisti. Quant’è il rimborso spese? Quanti stagisti vengono presi ogni anno? Quanti di questi poi vengono assunti? Prima di accettare una qualsiasi offerta di stage è bene fare una ricerca molto accurata su internet, per cercare di saperne il più possibile ed evitare di affidarsi al caso e presentarsi ai colloqui impreparati. Per scegliere uno stagista un’azienda vuole avere in mano il suo curriculum: allo stesso modo ogni giovane, per scegliere uno stage, dovrebbe riuscire a ricostruire il curriculum dell’azienda. L’impresa è ardua ma non impossibile, e un aiuto arriva certamente da internet che permette di incrociare le informazioni, mettere il naso in siti ufficiali, forum e blog.

Dopodiché tutti gli elementi vanno messi nella giusta prospettiva, che dipende essenzialmente dalla domanda: «Cosa cerco nello stage?». Due sono le risposte principali: esperienza formativa o lavoro. Chiaramente la seconda racchiude anche la prima, perché uno stage è formativo per definizione (o quantomeno dovrebbe esserlo). Porsi questa domanda (e rispondersi con sincerità) è un passo fondamentale, perché uno stage può essere buono per chi cerca una semplice esperienza formativa ma cattivo per chi invece cerca lavoro, e viceversa.

Tendenzialmente le caratteristiche che rendono uno stage buono si possono contare sulle dita di una mano. La prima è per così dire qualitativa: l’azienda dovrebbe offrire un percorso formativo serio, fornendo a ogni stagista un tutor disponibile e qualificato, una postazione di lavoro, una concreta possibilità di acquisire nuove competenze. La seconda è monetaria: affinché il peso economico di questa formazione non ricada sulle spalle dello stagista, è importante che l’azienda dia un buon rimborso spese per evitare almeno che il ragazzo debba pagarsi di tasca sua il pranzo, gli spostamenti e così via. La terza caratteristica è prospettica: che ci sia una concreta possibilità che lo stage si trasformi in un posto di lavoro – un’azienda che assume una buona percentuale dei giovani che prende in stage dimostra di utilizzare il tirocinio in maniera responsabile. Questo aspetto ne ricomprende automaticamente un altro: il numero di stagisti non dovrebbe essere troppo elevato, per evitare l’effetto kleenex. La quarta caratteristica è proporzionale, cioè bisogna che lo stage abbia una durata adeguata al percorso formativo: di solito dai tre ai sei mesi, un lasso di tempo ragionevole per imparare più o meno qualsiasi mestiere. Infine, la quinta caratteristica è etica: l’azienda dovrebbe utilizzare lo stage esclusivamente per le risorse più giovani. Vedere stagisti ultratrentenni aggirarsi per i corridoi non è mai un buon segnale. A questo proposito, nella primavera del 2009 la Repubblica degli Stagisti ha lanciato anche la Carta dei diritti dello stagista¹, un quasi-decalogo con nove criteri per definire uno stage buono, e ha invitato le imprese italiane a sottoscriverla. Non è raro trovare stage che soddisfino queste caratteristiche, ma bisogna saperli cercare.

¹ Il testo completo della Carta dei diritti dello stagista è disponibile nell’Appendice in fondo a questo volume.

Di volta in volta, chiaramente, si può decidere di rinunciare a uno degli aspetti positivi descritti poco sopra: per esempio, uno studente che dovesse svolgere un tirocinio obbligatorio per completare il percorso di studi potrebbe decidere di accettare di non essere pagato. In quel caso la valutazione sarebbe: lo stage mi serve per laurearmi, quindi il mio vantaggio è acquisire crediti, e non valuto il rimborso spese come fondamentale. In un’ottica simile qualcuno potrebbe decidere di fare uno stage anche in un posto dove fin dall’inizio viene esplicitato che non c’è prospettiva di assunzione: è il caso della stragrande maggioranza degli stage effettuati in ambito pubblico, quantomeno in Italia, ma anche di non poche aziende private. Qui a contare più di tutto è il prestigio di un grande nome da poter mettere come fiore all’occhiello nel curriculum: uno stage in un ministero, in un’ambasciata, in un’azienda con un marchio conosciuto in tutto il mondo spesso viene valutato dai giovani come una carta in più da giocare successivamente. Qualche volta funziona, qualche volta no. L’importante è avere sempre il controllo della situazione e non subire uno stage ma usarlo a proprio vantaggio.

Proseguendo su questa linea di pensiero, bisogna anche avere la consapevolezza di poter dire no a una proposta poco allettante – anche se la scelta di rifiutare uno stage è un punto assai dolente. Prima di tutto perché, secondo l’antico detto popolare «piuttosto che niente, meglio piuttosto», molto spesso si preferisce accettare uno stage qualsiasi pur di non rimanere a casa. Anche solo 200 o 300 euro al mese sono sempre meglio di zero, e poi c’è il fattore psicologico a giocare un ruolo importante: lo stage evita di sentirsi disoccupati, fornisce un’occupazione – o qualcosa di molto simile – per le otto ore quotidiane, permette se non altro di allungare il proprio curriculum aggiungendo un’esperienza in più che potrà forse servire, un domani, a dribblare l’ennesimo stage e ottenere un lavoro. La responsabilità va probabilmente anche ricercata nella convinzione tutta italiana, un po’ paternalista e un po’ gerontocratica, che per un giovane sottomettersi in fondo sia formativo. Secondo il triste concetto che è giusto che chi entra nel mondo del lavoro si debba prima beccare un bel po’ di pedate e umiliazioni, e solo dopo possa rivendicare il diritto a essere riconosciuto (e pagato) per quel che sa fare e vale. Anche i genitori più illuminati e saggi, quando per l’amato e magari anche brillante figliolo arriva il fatidico momento di trovare un lavoro dopo la laurea, consigliano d

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