La Cappella Paolina
Problemi di economia domestica
Gli anni Quaranta del Cinquecento trovarono un trono di Pietro sempre più rimpicciolito
dall’espandersi dell’influenza luterana nel Nord Europa, mentre la basilica simbolo
della cristianità, che ormai da decenni si stava costruendo a Roma in onore dell’apostolo,
stentava a crescere, tra mille problemi e mille miserie. Roma era presa d’assedio
come non mai dai problemi religiosi e dalle sconfinate ambizioni della famiglia papale,
che proprio nel 1540 iniziò a consolidare la propria posizione mondana sulla scena
europea con alcune furbissime alleanze matrimoniali.
Purtroppo, anche impegnato nell’altissimo combattimento con lo spirito, Michelangelo
non poté trascurare il confronto molto più prosaico con la carne e lo stomaco. Quelli
di Urbino, in particolare: un assistente a cui si era legato molto più di quanto avrebbe
dovuto e che si approfittava vergognosamente di quella vita e di quel talento preclusi
ai principi e potenti di tutto il mondo. Francesco di Bernardino d’Amadore da Casteldurante,
detto appunto Urbino, era entrato come servo e garzone al servizio di Michelangelo
dopo la partenza di Antonio Mini per la Francia, intorno al 1530. Non aveva nessun
talento e la vita in comune con Michelangelo, durata fino all’anno della sua morte,
il 1556, non riuscì a renderlo accettabile né come pittore né come scultore se non
agli occhi del suo padrone, che pianse per lui lacrime che non aveva pianto né per
il padre né per i fratelli e tanto meno per gli amici più nobili e affezionati. Grazie
alla generosità di Michelangelo, alla sua morte aveva accumulato una fortuna valutata
intorno a 2800 fiorini fra terreni e proprietà.
Urbino aveva un potere enorme sul vecchio artista e spesso uomini di elevatissima
condizione si rivolgevano a lui per ottenere dallo scorbutico padrone favori che non
avevano il coraggio di chiedergli direttamente. Benvenuto Cellini fu testimone della
sua arroganza quando a nome del duca Cosimo I chiese all’artista di tornare a Firenze.
Meravigliato, vide Michelangelo interpellare il suo garzone su questa possibilità:
«io non mi voglio mai spiccare dal mio messer Michelagniolo, insino o che io scorticherò
lui, o che lui scorticherà me». Era una frase tanto insolente, tanto rivelatrice della
dipendenza dell’artista nei confronti del suo servitore, che l’amico orefice si trattenne
a stento dal prenderlo a schiaffi, lui che per molto meno aveva passato a fil di lama
gente di ben altra condizione. Urbino – scrisse Cellini – lo aveva servito «più di
ragazzo e di serva che d’altro; e il perché si vedeva, che ’l detto non aveva inparato
nulla dell’arte»1.
Urbino macinò i colori per Michelangelo sia durante la realizzazione del Giudizio Universale nella Cappella Sistina che durante i lavori nella Cappella Paolina. Con un breve di
Paolo III del 26 ottobre 1543 era anche riuscito a farsi nominare mundatoris picturarum Cappellarum palatii apostolici, il che comportava un congruo compenso di 6 ducati al mese: un vitalizio che avrebbe
fatto gola ad artisti di molto maggior talento. Intorno al grande maestro, però, sembrava
poter allignare soltanto la mediocrità senza fine di servi profittatori. Quel che
più meraviglia è che Michelangelo gli regalò due dipinti che compaiono nell’inventario
redatto alla sua morte nel 1556: «in uno un Cristo et in l’altro una Nonciata»2.Sono dipinti rarissimi, perché pochi ne fece Michelangelo dopo gli anni Quaranta e
ormai neppure i cardinali a lui più vicini avevano il coraggio di chiederglieli. Come
egli stesso ripeteva, non faceva bottega della propria arte, concessa solo in segno
di stretta intimità e di profondo affetto.
Non contento della rendita assicuratagli dalla sua posizione di assistente, nel 1542
Urbino convinse il povero Michelangelo, oppresso dalle richieste del papa e del duca
di Urbino, ad appaltargli metà dell’«opera di quadro» – corrispondente all’intelaiatura
di marmo del piano superiore – necessaria per completare la tomba di Giulio II in
San Pietro in Vincoli. Non completamente accecato dal suo amore, Michelangelo gli
mise a fianco un valente professionista, mastro Giovanni «scarpellino in piaza di
Branca», che avrebbe certo vigilato sulla buona riuscita del lavoro. Ben deciso ad
approfittare delle debolezze del padrone, Urbino ampliò una parte della casa di Macello
dei Corvi utilizzandola come proprio atelier e appartamento riservato, e nel giro
di pochi mesi impose all’artista di estromettere mastro Giovanni dall’appalto per
poterlo condurre da solo. Fu un momento molto difficile per Michelangelo, che s’impegnò
personalmente a dirimere la lite provocata dal suo garzone e alla fine si risolse
(come dubitarne?) a darla vinta al suo protetto. Questi fece un lavoro così scadente
che si stenta a comprendere come Michelangelo abbia potuto sopravvivere a tanta cialtroneria,
lui che per la tomba aveva scolpito le sue statue più belle.
Ma la sicurezza del servo che era riuscito a conquistare la fiducia di Michelangelo,
impresa riuscita nella sua lunga vita davvero a pochi, lo convinse a non accontentarsi
di quell’appalto lucrosissimo. Oppresso dalle richieste del suo servo, dal papa che
voleva che iniziasse al più presto le pitture della Paolina e dal duca di Urbino Guidobaldo
che pretendeva l’ultimazione della tomba, nell’autunno del 1542 Michelangelo sprofondò
in un’angosciosa disperazione. Ancora una volta tentò di cambiare le condizioni del
suo accordo con i Della Rovere, chiedendo il permesso di far finire a Raffaello da
Montelupo, al quale aveva già affidato nell’inverno precedente l’ultimazione delle
statue della Madonna, della Sibilla e del Profeta3, anche le due sculture della Vita Attiva e della Vita Contemplativa che erano già molto avanti nella lavorazione. Ancora una volta chiese con insistenza
l’intervento del papa, che mobilitò suo nipote, l’abilissimo cardinale Alessandro
Farnese, vero segretario di Stato, nella trattativa con Guidobaldo.
Le pressioni non servirono a niente e il duca di Urbino tenne fermo il suo proposito:
Michelangelo doveva finire personalmente le sculture. Lamentandosi e compiangendosi,
il vecchio artista si rassegnò ad affrontare una fatica immane e cominciò la pittura
ad affresco della Cappella Paolina mentre ancora finiva di scolpire nel suo studio
il Mosè e le due statue femminili. I due lavori richiedevano energie difficili da pretendere
per un quasi settantenne, e gli amici si dissero preoccupati per lo sforzo a cui era
costretto. Sebastiano del Piombo, il più fedele e premuroso, oltre che l’unico dotato
di un sicuro talento per l’arte e la politica, gli aveva consigliato già nella Sistina
di dipingere a olio o a secco sul muro, perché non fosse schiavo dei tempi faticosi
dell’affresco. In cambio ricevette però uno di quei grugniti che resero leggendaria
la spigolosità di Michelangelo: «il colorire a olio era arte da donne e da persone
agiate ed infingarde come fra Bastiano». La questione era chiusa: Michelangelo non
concepiva l’arte se non attraverso la bellezza della materia che la concretizza.
L’emozione della luce
Michelangelo cominciò a dipingere le mura della Cappella Paolina in Vaticano tra la
fine del 1542 e l’inizio del 1543. L’impresa lo avrebbe impegnato per i successivi
otto anni, nonostante la dimensione dei dipinti fosse molto più ridotta rispetto alle
superfici sterminate del Giudizio Universale, che pure aveva portato a termine in soli sei anni.
I primi documenti che attestano l’impegno nella Cappella Paolina registrano i pagamenti
ad Urbino per la macinazione dei colori: «16 Novembre 1542. D. Otto pagati ad Urbino
servitore di messer Michelangelo pittore, per sua solita provisione di macinarli li
colori per depingere la capella nova di San Paulo»4. L’incarico a Urbino, che seguiva Michelangelo sui due cantieri con mansioni del
tutto differenti, era la fase preliminare alla pittura del maestro. Urbino doveva
raffinare i colori macinandoli e pestandoli in un mortaio di marmo e liberarli da
ogni impurità attraverso lavaggi ripetuti.
La tavolozza della Paolina è in tutto simile a quella del Giudizio: terra d’ombra e bianco sangiovanni per gli incarnati; terra verde, ocra gialla,
bruno di Marte, ocra rossa, morellone per il paesaggio e i vestiti; per il cielo,
di nuovo il pregiatissimo lapislazzuli fatto arrivare dalla Persia via Ferrara.
I dipinti realizzati tra il 1542 e il 1549 nella cappella sono due grandi «quadroni»
lunghi 6 metri per 6, realizzati ognuno, stando al rilievo pubblicato dopo i restauri
del 1930, in più di ottanta giornate di lavoro. Sempre stando alle informazioni preziosissime
offerte da questo rilievo, possiamo dedurre che il vecchio artista non cambiò di molto
la quantità di pittura condensata in una giornata5. Ci si potrebbe aspettare che nell’estrema vecchiezza, intorno ai settant’anni, arrampicato
su un’impalcatura di legno che per quanto ampia non poteva essere in nessun modo comoda,
riuscisse a realizzare poca pittura nello spazio di presa di una giornata d’intonaco.
Ma in una sola giornata Michelangelo affrontava ancora porzioni molto significative
di pittura, dimostrando di essere in pieno possesso del suo vigore.
Questa semplice constatazione smonta senz’appello la convinzione molto diffusa che
i dipinti della Cappella Paolina siano il frutto inaridito di un uomo ormai in piena
decadenza. La loro particolarità va spiegata con altre ragioni, se è vero che a testimoniare
la forma smagliante di questi anni è lo stesso Michelangelo, che in una lettera alla
nipote, liberatosi per un momento dalle ossessioni ipocondriache, confessava di non
sentirsi per niente diverso da quando aveva trent’anni. La pittura ce lo conferma
appieno. Nella Conversione di san Paolo, la complicata testa del Cristo occupa una sola giornata, mentre un’altra ne occupano
le due braccia e lo scorcio superbo del torso. Né si notano défaillances nell’articolato chiaroscuro con cui vengono modellate le braccia in fuga della figura.
Se soltanto avviciniamo a questo scorcio quelli che faticosamente il Vasari dipingeva
negli stessi anni nella Sala dei Cento giorni alla Cancelleria, siamo costretti a
prendere atto di quanto poco possano la giovane età e la comodità di fronte a uno
smisurato talento e a una passione divorante.
In una sola giornata furono dipinti anche le braccia e il torso del guerriero che
sfodera la spada a sinistra di san Paolo. E ugualmente in una giornata fu dipinto
il soldato di spalle che emerge con le salmerie nella parte inferiore del dipinto,
quasi una citazione testuale dal rilievo sud dell’Arco di Costantino a Roma: a riprova
che anche nel momento di massimo coinvolgimento con la spiritualità cattolica Michelangelo
conservava intatto il suo amore per i modelli e la cultura dell’antichità classica,
che proprio in quegli anni veniva disprezzata sia dalla fazione luterana che da quella
controriformista.
Solo un po’ più frazionato appare il diagramma della Crocifissione di san Pietro. Molte teste, quasi tutte, sono qui dipinte in una giornata, mentre nel caso della
Conversione di san Paolo la giornata comprendeva oltre alla testa anche una parte del busto. La figura di
san Pietro richiese otto giornate contro le quattro di san Paolo, anche se il primo
vicario di Cristo viene presentato in uno scorcio anatomico che risulta inarrivabile
per perfezione e fluidità. L’altra caratteristica che distingue la Crocifissione dalla Conversione riguarda la meticolosità con cui le giornate seguono l’andamento del disegno, scomponendolo
in frammenti minuti. Nella Conversione di san Paolo, le giornate sono isole larghe che comprendono in una sola porzione braccia, gambe,
teste e piedi [fig. 9]. Nella Crocifissione di san Pietro, il bordo della giornata delimita dettagliatamente le forme e quasi coincide con
esse. Se oscurassimo il colore e guardassimo al solo rilievo dei contorni, avremmo
ancora la possibilità di leggere molto nel disegno delle giornate della Crocifissione, per quanto coincidono i profili del disegno con quelli delle porzioni di intonaco.
Questa particolare evoluzione della tecnica pittorica sembra l’unico elemento valido
a favore di una posticipazione della Crocifissione rispetto alla Conversione, vista la mancanza di altri seri indizi atti a chiarire la cronologia dei due dipinti.

Fig. 9. Diagramma delle giornate di lavoro dell’affresco con la «Conversione di san
Paolo» nella Cappella Paolina.
L’esperienza accumulata negli anni permise a Michelangelo di migliorare la graduazione
degli effetti chiaroscurali fino ad arrivare a un pieno coinvolgimento emotivo dello
spettatore. La luce diffusa proveniente dall’alto a sinistra, ancora più in alto di
Cristo, esalta i gesti e le espressioni di ogni singola figura. Senza troppi contrasti,
senza sbattimenti violenti, scivola sui corpi con morbidezza seguendo le anatomie
guizzanti e i dettagli dei vestiti. Una luce «emotiva» nel senso che sottolinea la
passione dell’azione e che sarà capita ed esasperata soltanto sessant’anni dopo dall’altro
grande Michelangelo della pittura italiana, Caravaggio. Quasi mai nell’esegesi michelangiolesca
si riflette sulla luce, perché si è sopraffatti da quel disegno che già nelle semplificazioni
critiche cinquecentesche diventò il carattere distintivo dell’artista. Ma nelle pitture
della Paolina la selezione luministica delle azioni e dei dettagli essenziali raggiunge
una perfezione che non era stata toccata neppure nel Giudizio Universale, con i suoi eccessi di contrasto che lo rendevano ancora violento e teatrale. In
particolare nella Crocifissione di san Pietro, la luce tira fuori da ognuno il gesto che caratterizza il suo ruolo nella rappresentazione
e lo propone allo spettatore. Colpisce il braccio e la gamba del soldato curioso che
si sporge per guardare il martirio. Isola il braccio del capitano che arriva a cavallo
e che indica la croce. Sottolinea la sospensione del galoppo dei due cavalli. Mette
in risalto il gesticolare del devoto che vorrebbe ribellarsi e dell’amico che lo invita
al silenzio indicando il cielo, dove si è già deciso il destino che si sta compiendo.
Va infine rilevata l’assoluta omogeneità della tavolozza dei colori nelle due opere.
L’ocra gialla e la terra verde prevalgono nel paesaggio di entrambi i dipinti, insieme
a chiazze isolate di rosso e di bianco che sottolineano i momenti di maggior tensione
della narrazione, come note acute che irrompono all’improvviso in una partitura andante.
In entrambe le scene prevale una base fluida che accorda le sfumature delle terre
naturali senza creare eccessivo rilievo ai singoli episodi. Anche se la loro esecuzione
si protrasse per sette lunghissimi anni, e anche se la loro storia fu senza dubbio
molto travagliata, i due dipinti mantennero un’indiscutibile omogeneità stilistica.
Purtroppo sono pochissimi i documenti che ci consentono di indagare le vicende che
li riguardano. Sicuramente ci furono varie interruzioni. Non però legate all’età del
maestro, se facciamo eccezione per una seria malattia che nel giugno 1544 lo bloccò
a letto per molti mesi in casa degli Strozzi a Roma. Ma con buona probabilità nell’autunno
del 1545 Michelangelo era già al lavoro per dipingere il secondo quadrone, quello
della Crocifissione, perché il 10 agosto del 1545 erano stati pagati a «Francesco (alias) Urbino, servitore
de messer Michelangelo pictore Scudi quattro Y. cinquantaquattro et mezzo per tanti,
che lui ha speso in fare spicanare e arricciare una facia della cappella Paulina,
fatta novamente in palazzo Apostolico, dove esso messer Michelangelo depinge, come
appare per la lista, dove è fatto il mandato»6.
La «Conversione di san Paolo»
Nella scena della conversione di san Paolo, contrariamente ad ogni consuetudine figurativa,
il centro è spostato in alto a sinistra, nella figura di Cristo. I gruppi di angeli
ed eletti che circondano la figura di Cristo convergono verso di lui come cunei inzeppati
in uno spazio che si addensa fino quasi a diventare solido. Questa spinta centripeta
si accumula nella figura del Cristo, che la assorbe e comprime nelle spalle poderose
per scioglierla poi nel mantello rosso. Solo in piccola parte questa forza si disperde
verso l’alto attraverso il piede destro e lo svolazzo del manto. La tensione maggiore
si scarica come un fulmine attraverso il braccio muscoloso e il raggio di luce che
schiaccia a terra il vecchio san Paolo, fisicamente annientato dall’improvvisa irruzione
di questa forza innaturale. In questo modo e a dispetto dell’asimmetria, il centro
della narrazione risulta immediatamente e drammaticamente evidente e la storia si
riassume tutta nel dialogo diretto tra Cristo e Paolo.
Per assecondare questo schema, per renderlo più vivo, Michelangelo abbandonò la tradizione
iconografica ufficiale. Il suo Cristo vigoroso, spinto dagli angeli e dai gruppi di
eletti, compare totalmente capovolto e proteso verso il basso, in una posa che non
era stata mai adottata prima e mai lo sarà dopo, soprattutto nelle composizioni di
carattere ufficiale. I contemporanei rimasero sconcertati da quella libertà e i più
zelanti, quelli convinti che l’arte dovesse mostrare e non interpretare le scritture,
appena poterono criticarono violentemente quel Cristo, come fece monsignor Andrea
Gilio nel 1564: «Però mi pare che Michelagnolo mancasse assai nel Cristo che appare
à San Paolo ne la sua conversione; il quale fuor d’ogni gravità, e d’ogni decoro;
par che si precipiti dal cielo con atto poco honorato, dovendo fare quella apparizione
con gravità, e maestà tale, quale appartiene al Re del Cielo et de la terra, e ad
un figliuolo di Dio».La Chiesa istituzionale che era uscita vittoriosa dal Concilio di Trento stentava
a riconoscersi nella libertà di sentimento religioso espressa da Michelangelo. Si
era ben guardato dal correre questo rischio Raffaello negli arazzi della Sistina [fig.
10], così come il Salviati della cappella di Alessandro Farnese alla Cancelleria [fig.
11], quasi contemporanea al dipinto della Paolina. Lo stesso dicasi del Cristo che
appare in altre due importanti rappresentazioni della conversione di san Paolo: l’incisione
di Francesco Rosselli, databile al secondo decennio del Cinquecento, e quella di Domenico
Campagnola del 1511. Sono queste le principali fonti iconografiche con cui si può
confrontare il dipinto di Michelangelo.

Fig. 10. Raffaello, «Conversione di san Paolo» (arazzo per la Cappella Sistina). Roma,
Musei Vaticani.

Fig. 11. Francesco Salviati, «Conversione di san Paolo», particolare. Roma, Palazzo
della Cancelleria.
In tutte queste rappresentazioni Cristo si sporge maestosamente dalle nuvole senza
rinunciare al decoro che conviene alla sua figura divina. Nell’arazzo di Raffaello,
l’impossibilità di inclinare la figura di Cristo impedisce di mettere in relazione
Cristo con Paolo. È piuttosto al soldato che fugge alle spalle di Paolo che sembra
rivolgersi il Cristo, collocato naturalmente al centro della scena in perfetta simmetria
tra il gruppo dei soldati che sopraggiunge e il gruppo di Paolo annientato dallo spavento.
Capovolto in quella posizione così poco regale, ma dinamica e potente, il Cristo di
Michelangelo diventa invece il motore di una forte energia vitale. Lo stesso vale
per la figura di san Paolo, che compare come un uomo maturo già in dipinti precedenti
a quello di Michelangelo, ma mai come un vecchio totalmente annientato dalla visione,
che lo trasforma repentinamente da soldato aggressivo in un profeta santo e consumato
dalla fede. Raffaello aveva insistito nella descrizione puntuale delle sue insegne
militari per conferirgli decoro e forza. Lo aveva vestito di tutto punto con un’armatura
ricchissima. Michelangelo lo veste invece di semplici panni e solo l’impugnatura della
spada, appena intravista sul fianco, ci ricorda che era un soldato.
Intorno a questa scena, che sottolinea il carattere tutto spirituale e diretto del
dialogo tra Cristo e san Paolo, si dipana una narrazione accessoria che deve enfatizzare
l’esclusività di questo dialogo. Così come in cielo gli angeli e gli eletti addensano
l’energia intorno alla figura di Cristo caricando la forza del fascio di luce, nella
parte bassa del dipinto la stessa energia si disperde in ogni direzione. La curva
disegnata dal corpo di san Paolo si prolunga da un lato nella figura dell’uomo che
lo soccorre, per poi dissolversi nell’impennata del cavallo, dopo un rapido turbinio
che la avvolge intorno alla testa sbigottita dell’uomo subito dietro il santo.
La forza violenta sprigionata da Cristo si addensa nel gruppo di san Paolo e delle
figure a lui prossime e si disperde verso l’ampio e desolato paesaggio. La fuga del
cavallo è la prima cosa che vediamo, e ci annuncia che è in atto un dramma. Nelle
rappresentazioni tradizionali la figura del cavallo era spesso presente e conferiva
all’evento un carattere innaturale e drammatico, come di battaglia. Mai nessuno però,
prima di Michelangelo, aveva dato tanto spazio a questo dettaglio affidandogli un
ruolo così importante nella composizione. Le figure che sciamano in ogni direzione
hanno anch’esse la funzione di disperdere verso l’esterno l’energia accumulata e rimandare
così l’attenzione al suo centro generatore, il legame tra Cristo e Paolo. Vedere gli
uomini e il grande cavallo in fuga obbliga lo spettatore a cercare la ragione della
fuga. Senza contare che per esaltare la centralità del dialogo divino il paesaggio
in cui avviene il dramma è semplice fino all’autodissoluzione, con i profili delle
colline a formare un cono ottico che converge verso la valle in cui avviene l’incontro.
Con un gesto imperiosamente intellettuale, Michelangelo cancella gli alberelli umbri
dalle chiome sfrangiate, le nuvolette leziose che solcano i cieli e le gole marine
in cui ancora avevano indugiato tutti i pittori contemporanei, incluso il grande Tiziano
che aveva utilizzato lo sfondo paesaggistico per rafforzare la psicologia dei suoi
personaggi.
Lo schema inventato da Michelangelo frantuma definitivamente il linguaggio retorico
che da almeno un secolo la Chiesa e gli artisti al suo servizio avevano ripristinato
elaborando i modelli romani. La simmetria e l’equilibrio statico, le corrispondenze
e le gerarchie prospettiche, tutto quello che faticosamente era stato messo a punto
negli anni precedenti e che aveva trionfato nelle Stanze di Raffaello, vero manifesto
della retorica curiale, sparivano sotto l’impatto distruttivo di una forza sentimentale
che urlava un linguaggio innovativo al punto tale da non poter avere continuatori.
A rendere perfettamente drammatico questo schema contribuisce una tavolozza essenziale,
che sottomette sapientemente anche i colori alla gerarchia narrativa. Il mantello
rosso fuoco di Cristo è la prima cosa che si percepisce guardando il dipinto ed è
un modo di spostare il centro della rappresentazione da san Paolo (che nella tradizione
occupa la scena da protagonista) alla figura di Cristo, che si impone subito come
origine dell’evento e suo protagonista assoluto. Il rosso è il colore più violento
dopo il nero, che non poteva essere utilizzato per ovvi motivi simbolici. Per rafforzare
la spinta centripeta degli angeli senza ali e delle figure circostanti, compaiono
anche tra loro panneggi rossi, disegnati come sciabolate nel cielo spirituale, per
il quale Michelangelo volle di nuovo il prezioso lapislazzuli orientale. Il blu freddo
del lapislazzuli è la migliore preparazione all’esplosione di rosso del mantello e
al fascio di luce gialla che si abbatte sul vecchio abbagliandolo. Blu, rosso e giallo
sono tre colori primari, che si rafforzano reciprocamente provocando un forte impatto
visivo.
Per esaltare cromaticamente il suo legame con Cristo, intorno a cui è costruita tutta
la composizione, anche san Paolo è avvolto in un bellissimo manto rosso, che riceve
il raggio luminoso ed esalta ancora di più il primo piano su cui è disposto. È così
vicino al bordo del dipinto da sembrare sul punto di rotolarne fuori. Anche così,
con la forza cromatica dei panneggi, Cristo e Paolo sono isolati e immediatamente
percepiti nella pittura come protagonisti di un dialogo esclusivo. Pur di ottenere
il rafforzamento della loro relazione, Michelangelo non esitò a forzare il realismo
della rappresentazione, avvolgendo interamente il santo nel rosso vivo e facendo vedere
alle sue spalle il mantello sollevato, laddove dovrebbe essere a terra come nella
parte anteriore e quindi invisibile. Ma in questo modo, rispettando una rappresentazione
più naturalistica, Paolo sarebbe stato meno isolato, meno immediatamente percepibile
e meno legato alla figura del Cristo soprastante.
Questa forzatura così evidente non poteva non avere una forte intenzionalità creativa.
Ma non è l’unica deroga al naturalismo che troviamo nel dipinto. Le figure in primo
piano sulla destra, che emergono da un piano sottostante, dovrebbero avere dimensioni
uguali se non superiori a quelle del santo, mentre sono incongruamente più piccole
nelle proporzioni. Con un accento mistico che vedremo ancora più evidente nella Crocifissione di Pietro, la centralità narrativa segue una gerarchia compositiva che prescinde dalla proporzione
naturale. Anche in questo c’è il precedente del Giudizio Universale, dove le figure più significative della narrazione hanno dimensioni maggiori delle
altre, pur essendo rappresentate dall’artista in uno spazio naturale che le include
tutte.
Altre sciabolate di rosso compaiono nei busti di alcune figure più esterne per aiutare
l’occhio a seguire la dispersione di energia provocata dai corpi in fuga. Sono però
piccoli guizzi, per stimolare la fuga prospettica senza interferire con le due chiazze
rosse del Cristo e del Santo. Il resto dei colori è graduato sui toni del paesaggio
desolato: il verde, il giallo e il viola, distribuiti in maniera da assecondare la
dispersione delle forze, mediano tra i rossi e i bruni che sfumano nella campagna.
Nella parte inferiore del dipinto, infine, una volta catturato dalla conchiglia aperta
del manto di Paolo, l’occhio è attirato sui due lati da due vestiti che hanno uguale
peso nella percezione: il bel viola della casacca del soldato che si protegge con
lo scudo e il giallo oro del soldato che in splendida torsione si ottura le orecchie.
Basterebbero queste due figure, insieme alle tre subito vicine al santo, a rendere
perfetta e conclusa la narrazione. Per questo la loro evidenza formale è sottolineata
da colori tanto eclatanti, mentre il resto delle figure serve a colorire ulteriormente
il racconto e declina le varie sfumature dello stupore e dello sgomento.
Immagini pericolose
Le scelte compositive della Conversione di san Paolo comportavano uno spostamento deciso dei significati del racconto rispetto all’iconografia
precedente. Nelle non frequentissime rappresentazioni dell’episodio ci si rifaceva
a quanto riportato negli Atti degli Apostoli: il soldato Saulo o Paolo, persecutore
dei primi cristiani, mentre si reca a Damasco viene folgorato sulla strada da una
visione che lo converte alla nuova religione. Alla scena della conversione l’iconografia
tradizionale preferiva la vicenda del martirio, visto come un fondamento, insieme
a quello di Pietro, dell’autorità della Chiesa di Roma. È questo che troviamo rappresentato
nei cicli decorativi di importanti chiese cattoliche, tra cui il vecchio Vaticano
[fig. 12], San Paolo fuori le Mura a Roma, la chiesa di San Piero a Grado vicino Pisa.
La figura di san Paolo aveva un’importanza secondaria nell’arte cristiana del Medioevo,
e della sua vita venivano rappresentati generalmente solo quegli episodi che si riconnettono
con la vita di san Pietro e che meglio ne esaltano le azioni.

Fig. 12. Affreschi del portico del vecchio San Pietro in Vaticano, dal Cod. Barb.
Lat. 2733, f. 137r.
Ma intorno al 1540 san Paolo era al centro del dibattito tra riformatori e conservatori.
Ad autorizzare l’interpretazione luterana della salvazione erano proprio i suoi scritti,
che pertanto venivano sottoposti a continue e minuziose esegesi. La sua figura aumentò
d’importanza e necessariamente anche la rappresentazione della sua vita diventò un
modo per intervenire nel dibattito in corso. Negli stessi anni in cui Michelangelo
lavorava nella Cappella Paolina, il cardinale Alessandro Farnese, anche per rendere
omaggio al nome scelto dal nonno Paolo III, si fece affrescare dal Salviati nella
cappella del Palazzo della Cancelleria una Conversione di san Paolo che aveva caratteri profondamente diversi da quella michelangiolesca, ma che proprio
per questo può aiutarci a comprenderne la portata innovativa.
La precedente rappresentazione di Raffaello possedeva tutti i caratteri dell’ufficialità
istituzionale. Disteso per terra, un centurione romano giovane e vigoroso, vestito
con precisione antiquaria di tutti gli attributi del soldato, vi si torceva come colpito
da una saetta invece che da una chiamata. Il tentativo di produrre uno scorcio virtuoso
si arenava in un effetto grottesco che non riusciva ad essere sostenuto neppure dalla
perfetta simmetria della scena. Il protagonista della scena sembra piuttosto il soldato
che cerca di recuperare in primo piano il cavallo imbizzarrito, bardato anch’esso
con i finimenti di una battaglia all’antica. Tutt’intorno, scene di sgomento fanno
assumere alla truppa delle posture forzate più caratteristiche di una battaglia che
di un evento spirituale. Nella Conversione di Salviati (che già nel 1545 aveva disegnato una Conversione incisa da Enea Vico) troviamo lo stesso schema, con in più un virtuoso compiacimento
per la teatralità dei gesti e per le anatomie contorte (soprattutto quelle dei cavalli
spaventati). Anche qui il racconto ha la precisione di una cronaca antiquaria, come
voleva evidentemente la committenza e come di lì a poco si sarebbe raccomandato di
fare il Concilio di Trento. Niente divagazioni e interpretazioni ambigue: le Scritture
dovevano essere rappresentate con efficacia e puntualità.
Rispetto a questi due precedenti, la rappresentazione di Michelangelo introduce una
novità importante, che certo dovette essere molto pensata e che deve perciò costituire
la principale chiave di lettura del dipinto. Intorno alla figura di Cristo, non compaiono
solo gli angeli che tradizionalmente lo sostengono nell’apparizione, ma con ogni evidenza
anche gruppi di uomini e donne identificabili come le schiere di «eletti»che già coronavano il Cristo del Giudizio Universale. Occorre riflettere attentamente su questa innovazione iconografica per comprendere
appieno lo spirito con il quale l’artista concepì il dipinto e nello stesso tempo
intervenne nel dibattito sulla salvazione. Non c’è dubbio che se decise di variare
lo schema tradizionale è perché intendeva affermare una prospettiva particolare nell’interpretazione
dell’episodio altre volte rappresentato prima di lui, per di più in importanti sedi
istituzionali. La scelta di enfatizzare fortemente la presenza di Cristo e la corona
di «eletti» posta intorno a lui doveva servire soprattutto a questo. La loro riconoscibilità
non è in questione: l’uomo che si sporge in primo piano dalle nuvole più basse aprendo
le mani in meravigliata e timorosa contemplazione del Cristo è quasi una replica della
figura che compare nel Giudizio a sinistra del Cristo sopra la testa di san Pietro. Intorno a lui la folla di personaggi
che sembra contenuta dagli angeli in primo piano ha le stesse caratteristiche formali,
la stessa mimica, gli stessi semplici vestiti delle turbe di eletti che coronavano
il Cristo del Giudizio, visibile a pochi passi dal nuovo dipinto: la citazione era un richiamo chiarissimo.
L’identificazione di questi personaggi come il popolo dei primi martiri e dei più
autentici seguaci della dottrina di Cristo aiuta senza dubbio a comprendere il significato
della loro presenza nella rappresentazione michelangiolesca.
Il racconto degli Atti degli Apostoli era in realtà molto scarno, ma nella traduzione
in volgare curata da Antonio Brucioli, l’amico presso cui Michelangelo si era rifugiato
nel 1529 durante la sua fuga da Firenze, il racconto aveva avuto un’interpretazione
puntuale. La traduzione di Brucioli fu una delle prime a comparire in Italia e non
c’è dubbio che Michelangelo la utilizzò come fonte per la sua rappresentazione della
conversione di san Paolo, anche se la stessa Vittoria Colonna e Reginald Pole non
poterono essere estranei all’elaborazione del programma iconologico, come non lo furono
a quello della tomba di Giulio II, messo a punto negli stessi mesi. L’interpretazione
di Brucioli ci aiuta a capire il senso della forzatura iconografica con cui Michelangelo
introdusse improvvisamente dei personaggi che non erano mai comparsi nelle rappresentazioni
precedenti, almeno in quelle significative per la propaganda della Chiesa istituzionale.
Et Agrippa disse a Paulo, egli ti si permette parlare per te stesso (...). Per la
cura delle quali cose, andando in Damasco, con autorità, e commissione de principi
de sacerdoti, nel mezo giorno, o rè, viddi per via, dal cielo, sopra lo splendore
del sole, splendermi uno lume intorno, e intorno à quegli che camminavano meco. Et
essendo tutti noi caduti in terra, udimmo una voce, che mi parlava, e diceva in Hebraica
lingua, Saul, Saul, perché mi perseguiti? Egli ti è dura cosa à repugnare agli stimoli.
Et io dissi, chi sei Signore? Et quello disse, io sono Giesu che tu perseguiti. Ma
rizati, e sta sopra i tuoi piedi, perché à questo ti apparsi, accioché io ti constituissi
ministro, e testimonio di quelle cose che tu vedesti, e di quelle ne le quali io ti
apparrò, cavandoti dal popolo, e da le genti ne le quali hora ti mando, acciocché
tu apra gli occhi di quegli, à fin che si convertino da le tenebre, alla luce, e dala
potesta di Satan a iddio: a fin che ricevino la remissione de peccati, e la sorte
fra quegli che sono santificati per la fede, che è verso di me7.
Fu proprio a questo passo, con ogni probabilità, che Michelangelo fece riferimento
quando mostrò per la prima volta coloro che sono stati santificati per la fede in
Gesù e che lo attorniano insieme agli angeli. La novità iconografica, pensata e coraggiosamente
introdotta nel cuore stesso della sede apostolica, serviva a ribadire la centralità
della fede nel cammino verso la salvezza. Quale altro significato possiamo dare alla
forzatura iconografica introdotta da Michelangelo nella sua versione della Conversione? Rappresentare intorno al 1543, in pieno scontro teologico, «quegli che sono santificati
per la fede, che è verso di me» era una presa di posizione evidente nel dibattito
sulla salvazione che lo occupava in quegli anni insieme agli amici della «scuola»
di Pole, i quali erano certamente in grado di cogliere con soddisfazione il valore
di quella sottolineatura, considerato che erano anch’essi convinti come i luterani
che la salvezza fosse assicurata dalla fede viva e non dall’esercizio delle opere.
Contrariamente a quanto avveniva nelle rappresentazioni precedenti, la presenza degli
eletti carica l’apparizione di Cristo di significati molto particolari. Non soltanto
causa la conversione, ma mostra la via della salvezza attraverso la visione di quanti
popolano il regno eterno per aver creduto in lui. La presenza degli eletti era molto
più evidente prima che i dipinti venissero censurati con drappi per coprirne le nudità.
Gli angeli, nudi, si distinguevano immediatamente dagli eletti che si affollano timorosi
e pieni di pietà dietro di loro, come si vede benissimo in una incisione del Beatrizet
realizzata prima della censura [fig. 13]. Quando, pochi anni dopo, le nudità degli
angeli furono ricoperte da panneggi grossolani, la loro identità e soprattutto la
loro differenza con le figure retrostanti si affievolì, in maniera che una censura
apparentemente di carattere «sessuale» finì per coprire una censura ben più urgente
di carattere teologico. Solo un ripristino delle condizioni originarie del dipinto
potrebbe dare pienamente conto del messaggio teologico di Michelangelo.

Fig. 13. Nicolaus Beatrizet, «Conversione di san Paolo» (incisione). Reggio Emilia,
Biblioteca Panizzi.
Il valore teologico della rappresentazione è come sempre di difficile valutazione,
ma è forte l’impressione che Michelangelo prendesse così una posizione esplicita nel
dibattito in corso ribadendo, proprio nella cappella che il papa voleva destinare
al conclave, il valore salvifico della fede in Cristo. La turbolenza dei tempi avrebbe
certamente consigliato all’artista di attenersi scrupolosamente alla tradizione precedente,
omettendo quella popolazione di santi, di devoti barbuti ed emaciati, di donne caritatevoli
estasiate dalla fede. Né la sua scelta gli costò poco in termini di tempo e di denaro.
Nel cielo che avrebbe potuto lasciare vuoto come quello della Crocifissione sono raccolte circa un terzo delle giornate di lavoro di tutto il dipinto. È un universo
di corpi che ha quasi lo stesso peso di quello sottostante. Perché affrontare questa
fatica? Perché l’unico motivo valido per dipingere la cappella era per lui dipingerla
a modo suo, affermare la parola in cui credeva, confortare i suoi amici, segnare con
la sua devozione il centro stesso della Chiesa: opporre alla retorica delle gerarchie
istituzionali quel popolo di fedeli semplici come pastori, trasfigurati dalla fede,
senza insegne, vestiti di bende e veli come quasi tutte le figure scolpite o disegnate
in quegli anni. Identificare così il popolo della fede e contrapporlo al popolo dei
prelati, che come principi dovevano riunirsi in quella sala per eleggere un re ormai
sempre più lontano dalla spiritualità della fede viva.
Con la Conversione di san Paolo Michelangelo mostrava nello stesso tempo le origini e le conseguenze della fede. Il
raggio di luce fortissima che lega il santo a Cristo mostra subito che la fede ha
un carattere individuale, diretto, interiore. Non è la luce che traspare intorno al
Cristo di Raffaello, emanazione di potere e regalità, lume istituzionale che di lì
a poco sarebbe stato ulteriormente connotato dalla presenza dello Spirito Santo, simbolo
dell’ortodossia di Roma. È la luce della chiamata individuale, del dialogo tra le
anime. Non si sparge come gloria rivelata, si concentra sullo spirito dei semplici.
Il carattere mistico, spirituale e sovrastorico del racconto è sottolineato anche
da altre variazioni all’iconografia corrente. Il paesaggio è ridotto a paesaggio spirituale.
La città di Damasco sullo sfondo sfuma nel profilo di una città simbolica, senza connotati
precisi. Cristo sembra indicarla a Paolo come luogo in cui deve compiersi il suo destino
di predicatore, di convertitore di anime alla giusta fede. Anche la rappresentazione
dolente del santo, dal quale scompaiono gli attributi del guerriero, è un’altra forte
novità del racconto. Dobbiamo aguzzare gli occhi per scorgere un manico di spada sporgere
dal fianco del vecchio atterrato. Nessuno scudo, nessun elmo, e soprattutto nessuna
corazza. Il corpo dell’uomo ancora vigoroso si offre senza riserve alla colonna di
luce. Persino i commilitoni abbandonano il piglio militare per trasformarsi senza
aggressività in un drappello di uomini sbandati sotto la potenza della divinità. Le
figure che affiorano dal basso in primo piano sono soldati, forse, ma portano sulle
spalle i propri bagagli come transfughi o pellegrini. Sono scomparsi i simboli della
guerra, dell’offesa, del dominio temporale. L’evento è tutto racchiuso nelle coscienze
e collocato nella dimensione sovratemporale della fede. La riduzione spirituale serve
a rinnovare, a rendere attuale l’evento della conversione trasformando, come raccomandava
Ochino, una rappresentazione in una meditazione. L’episodio è sottratto al passato
storico, ad una data precisa, ed è consegnato al presente infinito della coscienza
e della «fede viva», partecipata con tutti i sensi.
Chi guardava il dipinto, dai cardinali del conclave fino al papa appena eletto, doveva
sentire la necessità di rinnovare il proprio atto di fede in Cristo e ricordare che
è la fede che salva e distingue il vero cattolico dal superstizioso. La perdita o
l’indebolimento dei connotati storici della rappresentazione mirava a coinvolgere
lo spettatore e a farlo sentire non distaccato testimone di un episodio vecchio di
millecinquecento anni, ma partecipe di un atto di fede che si deve continuamente rinnovare
nello spirito. Michelangelo non poteva accontentarsi di ribadire una «storia» già
altre volte rappresentata, chiusa nella sua struttura iconografica e nel suo valore
simbolico. Aveva invece urgenza di piegare quell’occasione alla devozione che gli
riempiva l’anima e trasformava la vecchia parabola in una storia nuova. Ribadiva così
ancora una volta il vero esclusivo sentimento che lo pervadeva, la fede in Cristo
che salva e il suo carattere individuale, imponendo quell’astrazione e quella sospensione
del tempo storico proprio nel luogo dove doveva nascere il potere supremo del papa:
la cappella del conclave.
Lo sguardo di Pietro
Come quello della Conversione di san Paolo, anche lo schema compositivo della Crocifissione di san Pietro non ha precedenti per la sua forza visionaria nella pittura rinascimentale. Né avrà
seguito per moltissimo tempo ancora.
Protagonista assoluto della rappresentazione è san Pietro, ritratto in scorcio come
un atleta che raccoglie tutte le sue forze per rivolgere un ultimo sguardo di monito
a chi assiste, dentro ma soprattutto fuori del dipinto, al suo martirio. Con la sua
tensione muscolare, la figura del santo è il vero soggetto attivo e motore della scena,
anziché l’oggetto passivo di un martirio simbolico come in molte rappresentazioni
precedenti. Essa viene isolata e messa in risalto attraverso l’esagerazione delle
dimensioni e il vuoto creatogli intorno. Nonostante lo scorcio arditissimo e la sua
collocazione arretrata rispetto alle figure più vicine allo spettatore, la figura
di Pietro è più grande di tutte le altre, il che crea un primo grado di indiscutibile
evidenza.
Il ricorso di Michelangelo alla differenza di scala delle figure resta d’altronde
prudente, perché la maestà assegnata al santo non arriva al punto da squilibrare la
scena, con effetti che i contemporanei avrebbero senza dubbio giudicato grotteschi.
In questo modo l’attenzione dell’osservatore viene attirata su alcuni passaggi narrativi
senza però sconvolgere la verosimiglianza e la credibilità del tutto, senza rendere
troppo percepibile la differenza di scala.
La croce inclinata crea un piano di luce, una pausa spaziale e un silenzio di forze,
su cui si mostra lo sforzo titanico del santo, che raccoglie come in un esercizio
ginnico le gambe e la parte superiore del torace. L’andamento centripeto di questo
movimento, che gira e si richiude su se stesso attraverso l’intero corpo, si prolunga
in tutto il piccolo gruppo di uomini impegnato a sollevare la croce. L’intreccio di
braccia contratte dallo sforzo, illuminate da una forte luce diretta, compone un cerchio
che lega il martire ai suoi carnefici. Ancora una volta, uomini separati soltanto
da un diverso destino confondono i propri ruoli senza concedere nulla all’esteriorità
del divino e dell’umano.
Le luci che guizzano sulle braccia del santo e dei carnefici disposti in cerchio fanno
l’effetto di un fulmine che gira in tondo e che sostiene con la propria energia lo
sforzo di Pietro, rimasto sospeso in una faticosa posizione che rende ancora più impellente
il suo sguardo di rimprovero. L’occhio ripercorre continuamente questo cerchio in
movimento, costituito almeno per metà dal suo corpo in tensione. Anche in questo caso
il colore sostiene il dinamismo dei corpi. La luce chiara sul corpo del santo continua
senza interruzione nei pantaloni bianchi degli operai, nelle loro braccia nude. Il
centro si impone attraverso la luminosità del gruppo di figure, brevemente interrotto
con una pausa equilibrata, dai due colori otticamente equivalenti della casacca viola
a sinistra di Pietro e di quella giallo oro alla sua destra. Come accadeva sul muro
di fronte, nella scena della Conversione di san Paolo, i colori viola e giallo incastrano e impreziosiscono l’evento centrale, sottratto
alla partitura geometrica attraverso la luce e la composizione.
La luce che attraversa la scena viene catturata nella parte alta della croce, si materializza
con lo sforzo contratto delle gambe e si dirige verso il torace, le spalle e finalmente
la testa sollevata del santo, inchiodandosi in quello sguardo ammonitore da cui la
narrazione parte e a cui continuamente arriva. Lo sguardo di Pietro è il vero soggetto
del dipinto. La macchia rossa della casacca dell’uomo che scava la buca sotto le sue
spalle serve a dargli forza, a supportarlo come un pilastro. Noi non vediamo l’espressione
dell’uomo che scava, niente del suo disegno ci distrae: vediamo soltanto una macchia
rossa che ci allarma e ci mette sull’avviso, una macchia informe che cattura lo sguardo
per intrappolarlo negli occhi severissimi di Pietro.
A partire da questo centro, la storia aneddotica si organizza con ritmo via via decrescente
verso l’esterno. Separato il gruppo centrale dalla pausa del fosso, la narrazione
si svolge ancora con un moto circolare ma pacato, condensata in una corona di figure
che abbraccia l’azione e la riconduce sempre al suo centro in un perpetuo, forte movimento.
Le figure di spalle che salgono da sinistra ci portano al soldato che si sporge in
avanti per meglio vedere quello che anche noi andiamo a guardare: il martirio di Pietro.
Anche il gruppo centrale di figure ci riporta immediatamente all’azione attraverso
il braccio e poi l’indice teso dell’uomo in primo piano. Nelle figure a destra della
croce c’è poi come uno scioglimento della tensione, una dispersione di forze che esprime
gli effetti del martirio. Il dolore, lo sgomento, la rassegnazione e la pena sono
tutti racchiusi nel bellissimo personaggio in primo piano, quasi un fratello di Pietro
per la sua possanza fisica, monumento a quella devozione purissima, sprezzante verso
ogni seduzione mondana che si celebra con gli stracci, scalza, sola anima dolente.
Ai suoi piedi, in una posizione poco spiegabile in termini prospettici e proporzionali,
ci imbattiamo infine nelle quattro donne i cui bianchi abbaglianti dei veli e dei
volti di nuovo catturano sfacciatamente lo sguardo dell’osservatore per riportarlo
su quello di Pietro. Tutto ricomincia con il moto circolare intorno alla croce, mentre
il paesaggio viene risolto nel cielo sospeso e nei profili astratti dei colli che
si avvallano in corrispondenza dell’azione, guidando anch’essi al centro dell’evento.
Michelangelo risolveva così brillantemente (se la modestia della parola non offendesse
l’evidente prova di genialità) i problemi connessi ad una rappresentazione che era
sempre stata infelice, con quella crocifissione capovolta che portava incongruamente
la testa del martire ben al di sotto delle teste delle comparse. Filippino Lippi,
nella Cappella Brancacci a Firenze, aveva avuto per primo l’idea di rappresentare
la crocifissione di Pietro non come fatto avvenuto ma nel suo compiersi, mostrando
lo sforzo degli operai al lavoro e quindi umanizzando la scena secondo il dettato
rigoroso dell’umanesimo fiorentino di fine Quattrocento. Si era però dovuto piegare
all’infelice soluzione della testa del martire quasi a terra, dove guardano tutti
gli astanti. Certamente Michelangelo colse la tensione di questo dipinto e la sua
potenzialità comunicativa, ma non volle arrendersi a riportare il protagonista della
scena in una posizione tutto sommato ridicola. Per ottenere il suo obiettivo abbandonò
allora la composizione simmetrica a vantaggio di un sistema di forze che assecondava
uno schema formale più articolato. Alla simmetria e alla centralità geometrica sostituì
delle forze attive rese più evidenti da un tessuto cromatico accuratamente pensato
e da una luce che stabiliva le gerarchie dei ruoli e le sequenze delle azioni.
Il confronto con l’iconografia precedente ci aiuta a capire non soltanto i modi attraverso
i quali Michelangelo innovò la tradizione, ma anche i motivi per i quali non poteva
più seguirla. L’iconografia tradizionale della crocifissione di Pietro ci è testimoniata
efficacemente dai dipinti nell’abside della basilica superiore di Assisi, da quelli
che decoravano il portico di San Pietro in Vaticano (e stavano ancora sotto gli occhi
di Michelangelo, perché furono demoliti soltanto sotto papa Borghese) e dai dipinti
della chiesa di San Piero a Grado a Pisa, vicino a un mare molto frequentato dall’artista
nei suoi anni carraresi. Altri precedenti significativi erano certamente la predella
dipinta da Giotto oggi ai Musei Vaticani e l’affresco di Filippino Lippi nella Cappella
Brancacci a Firenze. Le fonti su cui si basavano tutte queste rappresentazioni, e
su cui poggiava anche quella michelangiolesca, erano alcuni passi dei Vangeli apocrifi,
ma principalmente la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine. Nei cicli duecenteschi e trecenteschi lo schema era molto rigido
e quasi invariabile: san Pietro appare frontalmente crocifisso, tra due ali di folla
che rappresentano i soldati romani e i primi fedeli che si disperano impotenti di
fronte all’accaduto. Sullo sfondo sono riconoscibilissimi due monumenti che caratterizzavano
la rappresentazione medievale della città di Roma: la piramide Cestia e l’obelisco
di Nerone, presso il quale si voleva fosse stato martirizzato San Pietro. «Grande
è la discordia che regna tra gli scrittori per la identificazione del luogo del martirio
del Principe degli Apostoli (...) Alcuni sostengono che San Pietro fu crocifisso al
Vaticano, altri sul Gianicolo. Inoltre secondo una tradizione, derivata dagli atti
apocrifi, San Pietro sarebbe stato martirizzato apud palatium neronianum iuxta obeliscum»8. Simboli che scompaiono nel dipinto di Michelangelo.
Il martirio aveva una rappresentazione fortemente simbolica e non somigliava in nessun
modo a un’azione in corso. La sua rappresentazione ha una tradizione iconografica
rigidissima. La croce era capovolta con il corpo immobile del santo, vittima inerme
della crudeltà di Nerone. Nella basilica di Assisi Cimabue tentò di risolvere l’inconveniente
della testa troppo abbassata del santo disegnando una croce enormemente allungata
verso il basso, in maniera da portare la testa alla stessa altezza di quella degli
altri protagonisti. In San Piero a Grado e (come ci testimoniano i disegni realizzati
prima della distruzione) nel portico di San Pietro in Vaticano, l’effetto è sconveniente
perché lo sguardo dei presenti viene rivolto verso le gambe e non verso la testa del
martire.
Nella rappresentazione di Giotto troviamo un colpo di genio: per ovviare al vuoto
che veniva necessariamente a crearsi nella parte superiore della scena, alcuni soldati
sui loro cavalli entrano in scena dai lati, colmando in parte anche la zona più alta
del dipinto. L’arrivo dei soldati a cavallo fu ripreso da Michelangelo anche nella
gestualità dialogante, seppure in un diverso contesto. Ma certamente ad ispirare Michelangelo
fu soprattutto il martirio dipinto nella Cappella Brancacci a Firenze. Anche se san
Pietro vi compare immobile in posizione frontale sulla croce, intorno a lui si affannano
gli operai a sistemare e sollevare la croce, sostenendola con le proprie braccia e
trasformando la scena in un’azione reale che vede coinvolti i carnefici intorno al
santo in un’azione molto credibile. Che Michelangelo avesse bene in mente questo dipinto
quando ideò il suo martirio lo conferma la presenza, quasi una citazione testuale,
del soldato che si appoggia ad una lancia per guardare il martire nel gruppo di figure
alla sua sinistra.
L’azione iniziata nella Cappella Brancacci diventa nella Paolina ancora più coinvolgente,
perché la partecipazione attiva del santo ottiene due effetti immediati. Per prima
cosa la rende più drammatica: secondo lo schema già adottato nel crocifisso per Vittoria
Colonna, infatti, la rappresentazione del tormento viene enfatizzata dalla vitalità
del martire che proprio sotto i nostri occhi ferma l’azione nel suo compiersi e ci
trascina dentro il suo svolgimento. Se l’esibizione del corpo morto, immobile seppur
martirizzato, allontanava l’azione dal nostro sentimento collocandola nel passato
anche molto prossimo, l’esibizione di un corpo vitale ci fa entrare nella scena e
partecipare al dolore e all’azione del martirio. La capacità di inscenare una rappresentazione
credibile dal punto di vista emotivo perché credibile dal punto di vista naturalistico
è l’inarrivabile forza dell’arte di Michelangelo. Quel gesto pieno di tensione di
Pietro che si torce sulla croce ci inchioda sospesi nell’attesa della sua risoluzione
dinamica. Cogliere una forza in atto era per Michelangelo, nella scultura come nella
pittura, un modo per rendere attuale la rappresentazione e coinvolgere lo spettatore.
La sua capacità persuasiva discende dalla capacità d’immaginare l’attitudine più efficace
e la forma più naturale agli occhi dello spettatore.
Certo, sul piano della narrazione lo spettatore aveva bisogno di una condivisione
di fonti per interpretare l’azione. E Michelangelo si mantenne abbastanza fedele alle
fonti tradizionali. Ma non c’è dubbio che il suo obiettivo era quello di piegare la
narrazione a un sentimento nuovo: il suo stesso sentimento religioso, che in questo
caso si esprimeva obbligando i prelati riuniti a conclave a pensare al martirio, fondamento
della Chiesa come fatto in essere e non come fatto passato, liturgia celebrativa.
Era di nuovo il senso delle meditazioni condivise con Vittoria Colonna a ritornare,
a riportare alla luce il valore profondo delle Scritture e della storia per renderle
attuali, perché il fedele potesse rivivere emotivamente quegli eventi.
Nella Legenda aurea si racconta che durante il martirio di Pietro qualcuno nel popolo dei neofiti rumoreggiò
di fronte a tanta empietà ed accennò quasi a una ribellione. Fu lo stesso Pietro che
intimò loro di calmarsi, perché doveva compiersi il suo destino di martire. Il dipinto
dà fedelmente corpo al racconto. La figura in piedi al centro della scena indica sdegnata
il martire ai soldati romani, accorsi per assistere al martirio, come già nel dipinto
di Giotto. I suoi amici lo trattengono e lo placano, intimandogli il silenzio con
l’eloquente gesto dell’indice posato sulle labbra. Con l’altra mano, il neofita che
si trova in asse con la testa di Pietro indica il cielo con l’indice destro, richiamando
senza dubbio la volontà celeste a cui tutto è riconducibile. Anche in questo caso
il martirio si manifesta come attuazione di un piano divino, anche se poco comprensibile
agli uomini smarriti.
La piccola scena è molto importante perché ci aiuta a identificare le numerose persone
che a destra di Pietro assistono al martirio. Una fiumana di gente, semplice se non
addirittura miserabile nell’apparenza, attraversa tutta la parte destra del dipinto.
Dalla sommità del monte, contrapposti ai soldati di Nerone che arrivano sui cavalli
da sinistra, compaiono persone di ogni età. Sfilano avviliti scendendo dal monte,
mentre sull’altro lato i soldati visti potentemente di schiena, lo risalgono. Sono
uomini vestiti di stracci, quasi che la Chiesa delle origini non facesse proseliti
se non tra i semplici e i poveri. Umili, totalmente identificati in un sentimento
piuttosto che in un carattere sociale o storico, i testimoni del martirio sono presumibilmente
i primi cristiani, il popolo che segue la predicazione di Pietro. Questo popolo è
la Chiesa stessa, intesa come la comunità di coloro che condividono il medesimo sentimento
di fede e sono il vero fondamento della tradizione cattolica. Anche nella loro caratterizzazione
così dimessa, così lontana dalle forme di rappresentazione istituzionali inscenate
in quegli stessi anni intorno a Michelangelo, la raffigurazione del martirio diventava
un proclama a favore della Chiesa dei fedeli contro la Chiesa istituzionale: un’idea
che Michelangelo condivideva con gli Spirituali e che veniva considerata già da qualche
anno come eversiva da parte dell’ambiente più conservatore della Curia romana. Sparite
le guglie della piramide e dell’obelisco, che avevano accompagnato da sempre la rappresentazione
del martirio, neppure Roma era più riconoscibile in quell’evento definitivamente spirituale.
A caratterizzare la purezza di fede dei primi cristiani, come già succedeva nella
schiera di uomini che circonda Cristo nella Conversione di san Paolo e come accadeva nei disegni di devozione per Pole e la Colonna, tornava anche la severa
essenzialità dei dettagli. I vestiti sono brandelli di tela senza foggia, fasce per
un corpo ridotto a puro prolungamento dell’anima. Il paesaggio diventa una pura astrazione
d’aria e terra. La bellezza, la forza e l’armonia dei muscoli mettono in moto una
macchina teatrale che nel gesto e nella mimica racconta il sentimento senza cedere
niente al decoro, all’istituzione, alla riconoscibilità gerarchica dei personaggi;
soprattutto senza cedere nulla alla storia come fatto circoscritto a un’epoca precisa.
Michelangelo approda ad una rappresentazione spirituale collocata in un’eternità che
coincide con la perennità della fede.
Siamo, ricordiamolo, nella cappella che Paolo III voleva destinata al conclave. Lo
sguardo di Pietro era dunque rivolto ai cardinali che eleggevano il papa ed era la
prima cosa che il nuovo papa avrebbe visto subito dopo la sua elezione. A quel papa,
Pietro ricordava la sua Chiesa, fatta non di armati e potenti ma di un popolo toccato
dalla fede devota: un popolo eletto che giustamente occupa la destra del crocifisso,
come nel cielo occuperà la destra dell’altro Crocifisso, primo e più santo simbolo
di salvezza.
Naturalmente non è possibile spingere troppo in là questa lettura di un dipinto per
molti aspetti ancora oscuro. Eppure le piccole variazioni rispetto a una tradizione
rigidamente codificata e molto presente nei luoghi istituzionali comunicano qualcosa
che ogni contemporaneo di Michelangelo non poteva non rilevare facilmente: la sparizione
di Roma e quindi della fisicità della Chiesa istituzionale, lo sguardo severo di Pietro
e il suo gesto ammonitore all’osservatore, infine la presenza di quel popolo che non
era mai entrato così da protagonista nella rappresentazione. Quel popolo che nel suo
stesso connotato fisico si richiamava alla purezza e semplicità della viva fede che
ritroviamo in tutte le opere tarde di Michelangelo, dalla Vita Attiva e Contemplativa alle Marie ai piedi del crocifisso nei tanti disegni di questi anni, dai dipinti regalati
a Vittoria e a Pole e a Morone fino alle figure di pietra che compaiono nelle ultime
Pietà.
Ma i cardinali raccolti in conclave e il futuro papa non avrebbero potuto non registrare
un’altra evidenza iconografica del dipinto: la tonsura di Pietro. La posizione pensata
per il santo sembra fatta apposta per mettere in evidenza la sua testa tonsurata.
La stessa puntigliosa lavorazione che si coglie a un’osservazione ravvicinata dell’affresco
dimostra quanto fosse importante per Michelangelo quella piccola porzione del dipinto
e ne collega idealmente l’importanza al braccio del Cristo del Giudizio Universale, frutto anch’esso di molti pentimenti. Nelle rappresentazioni precedenti questo dettaglio
non era mai stato messo così in evidenza. Nonostante lo stato di degrado dei dipinti
di Assisi, i disegni tratti in seguito ci danno la certezza che la testa di Pietro
non era tonsurata. A San Piero a Grado i capelli sono ben visibili, come lo sono,
seppure molto in ombra, nel dipinto della Cappella Brancacci.
Che significato aveva quella tonsura così ostentata nel dipinto michelangiolesco,
già rappresentata nel san Pietro del Giudizio Universale? È sempre la Legenda Aurea, nella narrazione delle celebrazioni della Cattedra di San Pietro, a ricordarcelo:
Il quarto motivo di questa festa è l’onore tributato alla tonsura poiché secondo una
tradizione ebbe inizio proprio con S. Pietro; quando il santo predicava ad Antiochia
gli tagliarono i capelli sulla sommità della testa, in segno di disprezzo verso la
fede cristiana; poi ciò che era stato fatto con offesa al primo degli apostoli divenne
un segno di onore per tutto il clero. La tonsura dei capelli sta a significare la
purezza della vita poiché nei capelli si raduna l’impurità della testa; l’abbandono
di ogni esteriore bellezza perché i capelli servono da ornamento; la rinuncia ai beni
terreni perché niente deve intromettersi fra il sacerdote e Dio ma stretto deve essere
il loro abbraccio e senza velo la visione della divina gloria. La tonsura è poi di
forma circolare perché tale figura non ha né principio né fine così come non ha né
principi né fine Iddio di cui i sacerdoti sono i ministri9.
Negli anni in cui Michelangelo dipingeva la Cappella Paolina la questione della tonsura
era molto dibattuta tra i riformatori proprio per il suo alto valore simbolico. Il
valore polemico di quella testa non poteva dunque sfuggire a nessuno dei cardinali
riuniti in conclave. Né sembra forzato leggere in quella scelta un ulteriore richiamo
al carattere spirituale che doveva avere il papato, alla sua umiltà e alla sua purezza
evangelica. Erano le posizioni espresse chiaramente da Reginald Pole, che proprio
per la forza con cui le sostenne vide fallire la propria elezione al soglio pontificio
nel conclave del 1549, tenuto sotto gli affreschi ancora umidi di Michelangelo e lo
sguardo certamente indignatissimo di Pietro.
L’ombra della censura
Non c’è dubbio che con la decorazione della Cappella Paolina Michelangelo intervenne
ancora una volta, e pesantemente, nel dibattito in corso sulla riforma della Chiesa.
Generalmente si sostiene che l’iconografia non era in potere dell’artista, il quale
si limitava a rappresentare un programma definito dal committente. E soprattutto qui
nella Cappella Paolina, luogo della massima ufficialità della Chiesa, non possiamo
immaginare che Michelangelo stabilisse autonomamente il programma della rappresentazione.
Tuttavia quando Paolo III chiese a Michelangelo di affrescare la cappella, l’artista
era vicino ai settant’anni e aveva ottime ragioni per rifiutare l’incarico. La libertà
d’espressione fu sicuramente uno degli elementi della contrattazione, come era già
accaduto per il Giudizio Universale e come accadde per la continuazione di San Pietro, dove l’intervento di Michelangelo
fu devastante per gli assetti di potere della Curia e dove persino i cardinali dovettero
abbassare la testa di fronte alle richieste dell’artista. Ne fanno fede proprio le
polemiche dotte del Gilio, del Dolce e degli altri censori, che non si lamentavano
degli intellettuali di Curia ma criticavano direttamente Michelangelo, riconoscendogli
la responsabilità delle scelte e delle trasgressioni operate: segno che al Buonarroti
era accordata una libertà creativa non concessa ad esempio ad artisti come Giorgio
Vasari nella Cancelleria, al quale Paolo Giovio, erudito al servizio del cardinale
Alessandro Farnese, dettò fin nei minimi dettagli il programma dei dipinti, arrivando
a stabilire in che posizione si dovesse trovare ogni singolo personaggio.
La libertà di Michelangelo in quegli anni era tale che gli permise di rifiutare perfino
al cardinal nipote Alessandro Farnese i cartoni che gli erano serviti per il Giudizio. Era ormai al di fuori delle regole e degli schemi validi per tutti gli altri artisti
del Rinascimento. Del resto in entrambi i dipinti della Paolina non si può davvero
parlare di rivoluzione, ma piuttosto di un trasgressivo slittamento iconografico.
A rigore la tradizione era rispettata. Eppure il messaggio che alludeva alla devozione
particolare di Michelangelo si faceva strada attraverso la comparsa di nuovi dettagli
(gli eletti), e soprattutto attraverso un linguaggio abilissimo nel dare peso differente
ai vari elementi da sempre rappresentati in maniera da comunicare un sentimento di
sofferta partecipazione individuale alla fede. A essere celebrata non era l’autorità
della Chiesa istituzionale, come accadeva negli affreschi della Cancelleria (e come
sarebbe in seguito accaduto nel completamento della stessa Paolina), ma la purezza
di una devozione spirituale che si nutre del rapporto diretto con le Scritture e con
gli insegnamenti dei martiri. Siamo ancora una volta di fronte a una «meditazione»
piuttosto che a una celebrazione passiva dell’istituzione: di fronte ad eventi ai
quali siamo chiamati a partecipare con la forza del sentimento e che dovrebbero spingerci
a una riflessione attiva sulla fede e le sue radici.
Questo sentimento, che nasce da un ben più vasto progetto di riforma e da una profonda
riflessione sullo stato della Chiesa e della religione in quegli anni, era perfettamente
compreso dai contemporanei di Michelangelo. Fino ad un certo punto esso derivava da
un progetto condiviso, se non dalla parte più influente della Curia, certamente da
un circolo di uomini sufficientemente potenti a legittimarlo in quella sede: il gruppo
di Pole, Morone, Bembo, Sadoleto e dello stesso Giovio, quello stesso circolo che
per scelta dei Farnese venne ritratto negli affreschi celebrativi del Palazzo della
Cancelleria alle spalle di Paolo III, per sottolinearne la virtù morale e religiosa
[fig. 14]. L’intreccio fra rigore morale e cinismo politico rendeva estremamente complessi
i rapporti nella Curia romana alla vigilia del Concilio di Trento. Ma il progetto
di Pole e dei suoi amici era destinato a perdere, sconfitto da un richiamo autoritario
alla tradizione della Chiesa e alle sue chiare liturgie, ai suoi secolari strumenti
di controllo e di dominio.

Fig. 14. Giorgio Vasari, «Paolo III attorniato dalle Virtù». Roma, Palazzo della Cancelleria.
Accanto al papa sono riconoscibili i ritratti del cardinale Reginald Pole, con la
barba nera nello sfondo, e del cardinale Pietro Bembo.
Le vicende della Cappella Paolina provano proprio questo. I due dipinti che ci sono
pervenuti sono infatti solo la parte realizzata tra il 1542 e il 1549 di un più vasto
programma messo a punto da Michelangelo, che lo avrebbe portato a termine se la morte
di Paolo III non lo avesse bruscamente interrotto. Il 13 ottobre del 1549, pochi giorni
prima di morire, il papa, secondo la testimonianza certa dell’ambasciatore del duca
di Firenze a Roma, era andato a trovare Michelangelo che dipingeva sul ponteggio,
arrampicandosi su una scala di dieci pioli e lasciando tutti esterrefatti per la sua
vitalità. Niente allora faceva presagire la sua morte e l’interruzione dei lavori
allo stato in cui poi ci sono pervenuti. Erano già pronti i cartoni per gli altri
dipinti che avrebbero dovuto completare il ciclo e che Michelangelo, d’accordo con
Paolo III, avrebbe affidato all’esecuzione materiale di Marcello Venusti. È quanto
ci dice l’importantissimo documento conservato nell’Archivio Vaticano accanto alla
cronaca del conclave del 1549, nel quale il segretario del conclave chiedeva ai cardinali
che Marcello Venusti potesse continuare la decorazione della cappella come stabilito
da Michelangelo e da Paolo III:
[Tra il 10 novembre 1549 e il 7 febbraio 1550]
Al R.do messer Giovanni Francesco [Bini] maestro di Cerimonie.
Trovandosi il Mantoano dipintore deputato già da Papa Paolo B: M. à seguitar la cappella
nuova, havere incominciati i cartoni d’essa, ne potendo per sua povertà senza provisione
finirli, prega i R.mi et Ill.mi tutti a far commettere et provvedere, che possa lavorare.
E li bascia reverentemente le mani10.
La preparazione dei cartoni era la fase conclusiva del complesso e laborioso processo
preliminare alla realizzazione di un affresco. Se esisteva un cartone, si può dire
che il dipinto fosse cosa fatta. Dunque nel 1549 c’era un avanzato progetto di Michelangelo
per l’ultimazione della decorazione della Cappella Paolina. O forse sarebbe più corretto
dire che i dipinti di Michelangelo mancavano solo della loro fase conclusiva. Il cartone
si realizzava infatti quando tutto era stato deciso in ogni minimo dettaglio. E Michelangelo
aveva praticamente predisposto l’ultimazione della cappella con i cartoni anche di
altre scene. Il celebre cartone conservato al Museo di Capodimonte di Napoli, destinato
al riquadro della crocifissione, può dare un’idea di quale fosse il livello di approfondimento
raggiunto dall’artista per ultimare la decorazione della cappella.
Perché questo ciclo pittorico non fu eseguito? Perché, a dispetto della considerazione
universale di cui godeva Michelangelo in quegli anni, dopo che il papa lo aveva quasi
scippato ai Della Rovere pur di fargli dipingere la sua cappella, si rinunciò al suo
genio proprio quando era a completa disposizione del papato, libero da ogni impegno
verso altri committenti? È azzardato pensare che il divieto che bloccò l’opera di
Michelangelo fu la forma che prese la censura inquisitoriale rivolta all’opera dell’artista?
Sul se e il come la censura intervenne ai danni di Michelangelo non possiamo fare
altro che congetture. Ma sul fatto che il sentimento delle sue opere fosse ormai lontano
dalle necessità di rappresentazione della Curia e dai nuovi equilibri che vi si andavano
affermando non possono esservi dubbi. Basta vedere il carattere dei dipinti realizzati
a partire dal 1572 accanto a quelli di Michelangelo per misurare la distanza abissale
tra la sua devozione e quella dispiegata, sotto la vigile guida dei teologi post-tridentini,
dal Sabbatini e poi da Federico Zuccari [fig. 15].

Fig. 15. Lorenzo Sabbatini, «Il martirio di santo Stefan». Roma, Palazzi Vaticani,
Cappella Paolina.
L’interruzione dei lavori provocata dal conclave seguito alla morte di Paolo III coincise
con l’inizio delle ostilità di Giampietro Carafa contro il gruppo degli Spirituali.
La denuncia dell’eresia di Reginald Pole, nella seduta del 5 dicembre 1549, proprio
sotto le pareti umide appena affrescate da Michelangelo, ebbe come effetto immediato
la sua esclusione dalla candidatura al soglio pontificio11. Da quel momento in poi la lotta proseguì sotterranea ma implacabile. I dipinti che
secondo l’aspettativa di Michelangelo avrebbero dovuto celebrare l’elezione del suo
amico Pole e la svolta tanto aspettata della Chiesa assisterono invece alla sua sconfitta.
Il nuovo papa, Giulio III, era un grande ammiratore di Michelangelo e non fu particolarmente
ostile al gruppo dei riformatori, ma il Sant’Uffizio, sempre più tenacemente controllato
dal Carafa, procedeva ormai senza soste nella raccolta di elementi contro Pole e la
sua scuola, tanto che intorno a loro veniva sempre più materializzandosi la possibilità
di un processo per eresia. Le contrattazioni politiche che l’imperatore Carlo V intratteneva
con i principi protestanti e i legami fortissimi che legavano Pole e il suo entourage
all’imperatore rendevano la posizione del circolo relativamente sicura perfino a Roma.
Ma nel clima sempre più avvelenato della Curia non ci poteva essere più spazio per
un’espressione aperta della devozione che caratterizzava il gruppo attraverso i dipinti
di Michelangelo. Nonostante i cartoni dovessero essere solo trasferiti sul muro, il
lavoro non fu portato a termine.
A rafforzare questa ipotesi interviene anche la considerazione enorme in cui furono
tenuti i cartoni di Michelangelo in quegli stessi anni. Se autografi, i suoi disegni
preparatori bastavano a decuplicare il valore di un quadro dipinto da un suo assistente.
I due piccoli quadri regalati a Urbino erano ad esempio quasi certamente di mano di
Marcello Venusti, ma realizzati su cartonetti del maestro: tanto bastò nel 1557, ancora
vivi l’artista e il Venusti, a farli valutare infinitamente più di quanto potesse
valere una semplice copia da Michelangelo di mano dello stesso Venusti12. Non c’è dubbio quindi che i contemporanei fossero consapevoli anche del valore inestimabile
che i cartoni preparati per la Paolina avevano sul mercato. Eppure li rifiutarono,
con un gesto che equivaleva quasi alla distruzione di dipinti esistenti, solo meno
scandaloso perché meno pubblico. Il rifiuto di continuare le decorazioni secondo il
progetto di Michelangelo era una sconfessione radicale della sua poetica e un’ammissione
della distanza che ormai esisteva tra le esigenze di rappresentazione della Curia
pontificia e il sentimento devozionale del grande artista ormai vicino alla propria
fine.