I campi incolti in cui fiorisce la solidarietà

Adriano Favole legge Stefano Allovio

Adriano Favole | la Lettura | 19 novembre 2023

Kili significa «l’ago», il grande ago di legno che serve per cucire con possenti liane i fasci di paglia sui tetti delle grandi capanne kanak, regione Hoot-ma-Waap, estremo Nord della Nuova Caledonia. Alla fine degli anni Novanta, un artista caledone, Norman Song, intitolò Kili la sua slanciata scultura che riproduce il grande ago ed è oggi esposta al Centro culturale Jean-Marie Tjibaou, voluto dai kanak per celebrare l’arte, la creatività e le connessioni tra i popoli che abitano il Pacifico e progettato, per la parte architettonica, da Renzo Piano. Kili, si legge nella locandina, «e il simbolo di tutti i legami che uniscono la gente e i clan attorno alla Grande Capanna che essi costruiscono per il loro capo, il primogenito». Come diceva Jean-Marie Tjibaou a cui il Centro è intitolato, leader kanak ucciso nel 1989, «le nostre feste sono il movimento dell’ago che serve a legare la paglia sulla sommità della nostra casa, affinché tutti i fili non formano che un solo tetto, così come tutte le nostre parole non formano che un solo discorso».

L’ago che cuce e tiene insieme, così come l’intreccio di vimini che crea le ceste o quello delle foglie di pandano con cui si realizzano stuoie sono potenti metafore della socialità umana in molte isole dell’Oceania: si ritrovano spesso nelle mitologie e nella retorica politica contemporanea. Il grande antropologo francese Claude Lévi-Strauss usò la metafora dell’ago che cuce per introdurre la sua teoria più importante, quella dell’alleanza: attraverso i matrimoni e lo «scambio» di donne (e di uomini, diremmo oggi), le società tessono i fili delle alleanze che danno spessore di stoffa al «tessuto» sociale. L’alleanza attraverso il matrimonio ovvero l’obbligo di sposarsi fuori dal proprio gruppo di appartenenza (l’esogamia) è per Lévi-Strauss il fondamento della reciprocità dei sistemi di scambio, che sono alla base della coesione e del legame sociale. Lévi-Strauss e il suo maestro Marcel Mauss avevano tratto la metafora dell’ago dal pastore Maurice Leenhardt che, a sua volta, l’aveva ascoltata nelle parole dei kanak della Nuova Caledonia, durante il suo lungo soggiorno a inizio Novecento. La metafora dell’ago ha viaggiato dai miti nativi ai testi degli antropologi, con curiosi ritorni: Tjibaou, il leader indipendentista kanak che abbiamo citato in precedenza, studiò etnologia a Parigi negli anni Sessanta e ritrovò la metafora dell’ago nei libri degli antropologi, riportandola poi nei contesti nativi!

Il nuovo libro di Stefano Allovio edito da Laterza, Ricreare mondi. Mobilità e mutuo aiuto tra Kinshasa e Cape Town («Città del Capo»), prende avvio dall’ago che cuce e da un curioso aneddoto che riguarda Lévi-Strauss e il suo maestro Marcel Mauss. Pare che quest’ultimo si fosse un po’ risentito quando Lévi-Strauss gli espose per la prima volta un abbozzo della sua teoria dell’alleanza e che gli avesse risposto: «Ne sono io il teorico!». Si sa che nelle accademie a volte i maestri non sono pronti a riconoscere l’originalità degli allievi e tuttavia non è questo il punto che interessa sollevare ad Allovio. Piuttosto l’aneddoto introduce una considerazione che percorre tutto il libro e che possiamo riassumere così. Perché gli esseri umani sono solidali tra loro? Perché si legano in stretti rapporti sociali attraverso la parentela, l’amicizia, lo scambio? Qual è il contributo dell’antropologia culturale, con i suoi «giri lunghi» tra le culture, alla comprensione della socialità umana?

Allovio torna alle premesse della disciplina. Capire la solidarietà umana era la questione chiave che animava Emile Durkheim, uno dei fondatori delle scienze sociali. Suo nipote Mauss portò avanti questo lavoro e ne fece anche occasione di un forte impegno politico, dato che militava attivamente nel Partito socialista, nei primi decenni del Novecento. Mauss non era un ricercatore di casi, esempi, narrazioni di differenti forme di socialità umana, come quelle che si manifestano nel «dono», a cui dedicò il celebre Saggio (Einaudi, 2002). Mauss però si ferma alla teoria, alla proposta di una cornice d’insieme della reciprocità umana. Lévi-Strauss invece, con il suo strutturalismo, va alla ricerca dei fondamenti, della base, dello strato roccioso su cui si ancora lo scambio e lo identifica nella proibizione dell’incesto e nell’obbligo di sposarsi fuori dal gruppo. Il libro di Allovio ci mette in guardia contro queste «fughe» verso la ricerca del Sacro Graal della natura umana. Molta scienza contemporanea si basa sull’idea che i comportamenti umani siano radicati in «basi» o «fondamenti» che stanno «al di là» delle loro manifestazioni concrete e che questo sia il «vero» oggetto delle scienze sociali.

AI contrario, nel suo saggio, Allovio preferisce indugiare sui «repertori» della socialità. Le sue ricerche etnografiche si svolgono tra Kinshasa, la capitale della Repubblica democratica del Congo, e Città del Capo, in Sudafrica. In entrambi i luoghi, tra i migranti congolesi, l’antropologo ritrova una grande efflorescenza di associazioni di mutuo aiuto. Dai gruppi che assicurano un funerale decoroso e a volte il rimpatrio della salma; alle tontine (il microcredito che fornisce a turno agli aderenti una piccola somma per gli investimenti); alle associazioni che prendono in carico l’organizzazione di cerimonie per il ciclo di vita, le nascite, i matrimoni e appunto la morte; dalla curiosa associazione Sape, un acronimo che sta per Società delle persone creatrici di Atmosfera (ambianceurs) e di Persone Eleganti, che promuove il «ben vestire»; alle muziki, associazioni di empowerment femminile, queste forme di mutualismo appaiono diffusissime nei contesti migratori che attraggono i congolesi dai villaggi alla città (Kinshasa) o dal loro martoriato Paese ad altri Stati africani (Città del Capo, Sudafrica). Ù

Allovio si era già occupato di questi temi, in contesti più tradizionali, in un libro precedente, La foresta di alleanze (Laterza, 1999). Aveva studiato i riti di iniziazione maschile mangbetu come forme di tessitura di alleanze. Ricreare mondi indaga i processi di cucitura sociale in luoghi di migrazione caratterizzati da anomia, difficoltà di integrazione, spazi ristretti. Sarebbe facile quanto superficiale interpretare il mutualismo congolese come espressione di una socialità in qualche modo «innata», riportandola a una comune natura umana. A queste spiegazioni universalistiche, in realtà, sfuggono i dettagli che fanno la ricchezza dell’umanità. I congolesi in diaspora si mettono insieme certo anche per ragioni «utilitaristiche»: capitalizzare come si può le poche risorse monetarie, culturali, di spazio che si hanno a disposizione. La ragione economica universale, tuttavia, spiega solo in parte e soprattutto non vede la ricchezza dell’agire sociale. Il modo in cui si creano e ricreano i mondi associativi a cui i congolesi danno vita sono imprevedibili, come fiori in un campo incolto. Significa che siamo in balia dei fenomeni, prigionieri di foreste culturali che non possiamo che descrivere? No, Allovio ci invita piuttosto a costruire teorie senza cercare fondamenti, a indugiare nelle etnografie delle società umane (tutte le società umane), «percorrendo in lungo e in largo questi repertori (i propri e quelli altrui) fin quando il terreno inizia a essere segnato da piste e sentieri più o meno intricati».

La proposta di Allovio riecheggia quella che Marshall Sahlins formulò qualche anno fa in un fortunato libro appena pubblicato in traduzione italiana, Nonostante Tucidide. La storia come cultura (Elèuthera). Attraverso una raffinata e complessa comparazione tra la guerra del Peloponneso narrata da Tucidide e le guerre tra i regni figiani di Bau e Rewa (1843-1855), Sahlins difende la rilevanza della cultura per la comprensione della storia. Per capire la solidarietà è bene aggirarsi nelle pratiche del mutuo aiuto di migranti congolesi e allo stesso modo per capire la violenza è inevitabile addentrarsi nelle sue forme concrete, tra la Grecia antica e l’Oceania moderna. Tucidide ha dato forma e legittimato un’idea di natura umana concepita «come la concepiamo noi: facendo riferimento alla razionalità pratica universale degli esseri umani, scaturita dal loro innato egoismo». Si tratta tuttavia solo di uno dei tanti modi culturali di vedere l’essere umano, non di un fondamento universale, come dimostra la storia divergente e, come diceva Gregory Bateson, «schismogenetica», di Atene e Sparta, di Bau e Rewa.

Forme di socialità e di creatività continuamente risorgenti percorrono ovunque il nostro mondo: aggirarsi curiosi in queste foreste, provare a creare sentieri teorici che rendano un po’ più agevole il cammino sembrerebbe insomma un buon modo per capire qualcosa dell’umanità. Tagliare la foresta per scoprire il fondamento su cui poggia, viceversa, è un’operazione alquanto azzardata.