Israele-Palestina: discutere la guerra

L'intervento di Marcello Flores e Giovanni Gozzini

[Nell’intenzione di offrire un contributo alla discussione di una vicenda così difficile da comprendere in tutte le sue componenti, abbiamo rivolto alcune domande ad autori della casa editrice e studiosi competenti delle diverse questioni implicate nel conflitto in corso.
La situazione cambia di giorno in giorno e nuovi elementi potranno integrare l’analisi.

Dopo l’intervento di Anna Foa, pubblichiamo il contributo di Marcello Flores e Giovanni Gozzini, che con la casa editrice hanno pubblicato, tra l’altro, Il vento della rivoluzione e Perché il fascismo è nato in Italia.]

 

Nella introduzione del suo libro su Guerre giuste e ingiuste (Laterza, 2009), Michael Walzer affronta il tema della guerra asimmetrica e delle responsabilità tanto degli «insurgents» che dell’esercito regolare che risponde, mostrando quanto sia complicato, dal punto di vista del giudizio morale, prendere in considerazione tutti gli elementi che compongono l’azione di entrambi i contendenti.

È proprio la complessità delle azioni da giudicare, e la difficoltà di averne una conoscenza piena e affidabile, che manca in genere nel dibattito pubblico, dove domina la scelta dello schieramento insufflata da talk show ormai del tutto incapaci di svolgere un ruolo di informazione e di formazione.

Pensiamo che non dovrebbe esserci problema nel definire il crimine commesso da Hamas e nemmeno la risposta sproporzionata del governo Netanyahu e dell’esercito israeliano (crimini contro l’umanità e crimini di guerra): anche se sarebbe utile poter conoscere meglio le forme di sequestro dei civili attuate da Hamas e i tentativi compiuti dall’esercito israeliano per contenere l’uccisione di civili mentre combatte i militanti di Hamas.

E sarebbe opportuno adoperare con cautela – e precisione tanto giuridica che storica – parole che hanno significati ben precisi, invece di postulare analogie sensazionalistiche ma infondate. Genocidio, ma anche apartheid, hanno poco a che fare con quanto sta accadendo a Gaza perché il primo indica la volontà deliberata e non provocata di eliminare un intero gruppo umano e il secondo significa un regime sistematico di controllo e dominio.

Com’è noto, dal 2005 Israele si è ritirato dalla striscia. Se Hamas ha utilizzato il potere che ne è derivato per espellere con la violenza i rappresentanti dell’Autorità Palestinese e preparare una guerra anziché il benessere dei propri cittadini, questa è sua piena responsabilità. L’attacco del 7 ottobre è un crimine contro la pace e un crimine contro l’umanità perché tortura, uccide e rapisce civili inermi per il solo fatto di appartenere a uno dei gruppi di cui si compone la diversità e la ricchezza del genere umano. La risposta armata di Israele è un crimine di guerra perché coinvolge deliberatamente civili nel conflitto.

Il paradosso è che l’opinione pubblica si divide con una scelta di campo che prescinde dalle rappresentanze politiche reali: o con i palestinesi rimuovendo Hamas o con Israele rimuovendo le scelte di Netanyahu. Si genera così l’illusione che l’uscita dalla guerra e la ricerca di pace siano legate alla sola decisione militare israeliana (sospendere l’attacco o portarlo fino in fondo).

Se è individuabile – tranne ai fanatici dello schieramento per una o l’altra parte – la condanna della condotta di guerra e in primis di chi l’ha iniziata, le cose sono più complicate in relazione ai motivi, alle ragioni e alle possibili soluzioni del conflitto.

Si può dire che fin dal 1948, nonostante le diverse svolte successive, la guerra si ripete perché non vince la soluzione politica dei due stati proposta dalle Nazioni Unite con la risoluzione 181 del novembre 1947. Quella soluzione è stata prima rifiutata per decenni dagli stati arabi che puntavano prioritariamente alla distruzione dello stato d’Israele. Oggi per diversi motivi nessun stato arabo della regione – tranne l’Iran, non arabo e non danneggiato territorialmente dalla fondazione di Israele – pensa a una guerra contro l’“entità sionista”. Chi ci pensa sono forze non statali come Hamas e Hezbollah che non hanno responsabilità di governo e pensano innanzitutto alla propria sopravvivenza sopra (e contro) i popoli che pretendono di rappresentare, anziché a una improbabile vittoria. Ma la soluzione dei due stati è stata anche accantonata dai governi israeliani non laburisti e post-Rabin che hanno incentivato l’ampliamento di colonie impedendo di fatto sul terreno la possibilità stessa di uno stato palestinese.

Nel mondo sono oggi molti i conflitti armati a bassa intensità condotti da insorgenti non statali (quello dei Balcani negli anni novanta ne è stato laboratorio) cui è molto difficile porre fine perché le bande paramilitari sono le prime ad essere interessate alla prosecuzione endemica di guerre che gli consentono di estrarre risorse dalle popolazioni civili che sottomettono col terrore. Il salto di qualità segnato dall’attacco del 7 ottobre trasforma il conflitto a bassa intensità in guerra dichiarata e può quindi avvicinare una risposta politica, che però non può venire da chi la rifiuta (Hamas e Netanyahu) perché solo con la guerra sopravvive. Sono diversi i casi storici (Liberia, Sierra Leone) in cui l’interposizione dei caschi blu dell’ONU ha prodotto vere paci. E anche nei Balcani evita tuttora lo spargimento di sangue. Questa è la strada anche in Medio Oriente. Ma è una strada che necessita la sconfitta – storica, non contingente – degli estremismi palestinese ed israeliano.