La rivincita della Storia

Paolo Mieli legge Franco Cardini

Paolo Mieli | Corriere della Sera | 12 settembre 2023

Nella notte tra il 24 e il 25 febbraio del 2022, quando ebbe inizio l’invasione russa dell’Ucraina, si impose un riesame della nostra storia. E quel che sostiene Franco Cardini in La deriva dell’Occidente. Quella notte accadde qualcosa che «gli europei non avrebbero creduto potesse più accadere». Vladimir Putin, a dire il vero, non parlò di guerra. Ma nelle settimane successive fu chiaro che proprio di questo si trattava. Una «guerra vera e propria», «la prima sul territorio del nostro continente dopo settantasette anni». In realtà chi ha detto che era la «prima» dimostrava «scarsa memoria e forse anche cattiva coscienza». Dal momento che una «guerra ai margini orientali del continente — un po’ più a sudovest, magari — si era già affacciata alla fine del secolo scorso». Nella «maledetta» primavera del 1999, con i bombardamenti della Nato su Belgrado e sulla Serbia «con tanto di bombe a grappolo, uranio impoverito e stragi di civili innocenti». Guerra a cui presero parte — «sia detto», scrive Cardini, «a vergogna nostra e del governo di allora» — anche aerei italiani.

Un’avventura «maldestra» quella della Nato nei Balcani alla fine del secolo scorso. A cui, dopo l’11 settembre, seguirono quelle che Cardini definisce le «scellerate aggressioni degli Stati Uniti e dei Paesi loro gregari (tra cui il nostro)» contro Afghanistan e Iraq, «destinate a lasciare il Vicino e Medio Oriente in condizioni peggiori di quelle riscontrate all’inizio della crisi». Risultato: un sistema di «multipolarismo imperfetto» che oltretutto stenta ad affermarsi.

Il tutto a smentire la profezia di Francis Fukuyama in La fine della storia e l’ultimo uomo (Rizzoli). All’idea di una «uscita dalla storia» e di un «impero americano su cui non sarebbe mai più tramontato il sole» si è sovrapposto un «sogno dell’Occidente agitato e pieno di incubi». Sino allo «sconcertante risveglio del 24 febbraio 2022 che ci ha costretti ad arrenderci alla realtà». La storia data per finita da Fukuyama «si è rimessa in moto». Anzi, siamo stati costretti a prendere atto del fatto che «non si era mai fermata».

Quel che è accaduto, secondo Cardini, è riconducibile alla convinzione — «esplicita o strisciante che sia» — di una «superiorità» occidentale. Quella occidentale è l’unica cultura che, nella pratica, sia riuscita a imporre sé stessa alle altre in modo sistematico, insieme con l’idea di un senso della storia universale che andasse a coincidere con una pluralità di dinamiche. Tutte però convergenti nell’accettazione, da parte delle altre culture, della nostra, quella occidentale. Con «una forza» che «sarebbe roseo eufemismo definire solo “della ragione”».

Fukuyama secondo Cardini non si è discostato dalla lezione hegeliana, all’interno della quale «tutto quel che è extra occidentale è perciò stesso arcaico, appartiene a una fase trascorsa della storia universale». L’occidentalizzazione del mondo lascia spazio, là dove si è fatta strada, soltanto a qualche relitto, naturalmente «anacronistico» e «antistorico». Se l’Oriente era la fanciullezza del mondo e della storia, quel che ancora ne rimane (e non si è metabolicamente adeguato all’Occidente) «va trattato come il patetico relitto d’un vecchio bambino che non sia riuscito a diventare adulto». Persino nelle famose lezioni tenute da Jacob Burckhardt a Basilea tra il 1868 e il 1872 — pubblicate come Considerazioni sulla storia universale (Mondadori) — «nonostante qualche fuggevole accenno all’Islam o all’Asia, nulla si coglie che non sia profondamente ed esclusivamente occidentale».

Sembra impossibile, scrive Cardini, infrangere in qualche modo l’incantesimo del «canone storico» imposto dalla cultura occidentale, rispetto alla quale le altre possono solo porsi in un «rapporto analogico concorrenziale». O accettare di «entrare in relazione» man mano che l’Occidente le ha «scoperte». Lo «scambio asimmetrico» sul quale si fonda l’«economia mondo» sembra riflettersi anche nell’ambito dei modi e degli strumenti di ricostruzione del passato.

Perfino Peter Haugen nell’apparentemente anticonformista Storia del mondo per negati (Mondadori) indica «dieci date indimenticabili» che iniziano con il 46o a.C. (avvio della democrazia ad Atene) e si chiudono con il 1945 (il lancio dell’atomica statunitense sul Giappone). Possibile che neanche una di queste date riguardi un avvenimento che non sia rigorosamente «occidentale» e «occidentocentrico»?

Perché dobbiamo accettare il fatto che una storia mondiale è possibile solo a partire dal momento nel quale, tra Quattrocento e Cinquecento, l’Europa occidentale «ha sbriciolato le frontiere di un mondo a compartimenti stagni» e ha obbligato tutte le civiltà in esso esistenti a comunicare tra loro?

L’accettazione di questo punto di vista non significa forse tornare a Hegel, e ammettere con lui che la «storia universale» può essere concepita solo in termini di egemonia dell’Occidente, con ciò stesso proponendo una sinonimia dei concetti di Occidente e di Modernità? In una relazione tenuta a Sidney in occasione di un congresso di storici, Natalie Zemon Davis riuscì a dimostrare che il modello storico occidentale è stato a tal punto «forte» da condizionare «anche l’approccio di coloro che scrivono per mettere in discussione gli imperi occidentali». L’Europa, spiegava Zemon Davis, resta sempre e comunque al centro (magari sottinteso) delle storiografie contemporanee anche americane, asiatiche, africane. Semmai nascosta, l’Europa, dietro termini riferiti al resto del mondo quali «mancanze», «transizioni non completate», «non ancora».

Si sono così messe in atto da parte di storici greci e turchi «strategie di reazione al canone della storia occidentale» in modo da adattare il passato delle loro rispettive tradizioni alla traiettoria europea; o strategie di «universalità alternative» da parte di storici cinesi e giapponesi «caratterizzate da un ritmo temporale loro proprio». Proposte alternative che, però, pur proponendo di ribaltarlo, secondo Zemon Davis, non fanno che ribadire il canone occidentale. Canone che ha una sua linearità fino al termine del Medioevo. Poi, con la «strozzatura» quattro-cinquecentesca, il mondo «chiuso» della cosmografia medievale si è dissolto. Da allora «le linee delle differenti civiltà dovevano fatalmente convergere verso differenti ma inevitabili forme di incontro (o di scontro) dalle quali avrebbero dovuto nascere, e in effetti sono nate, delle sintesi in cui le diverse, rispettive forze delle linee “componenti” hanno dato luogo a una “risultante” in prevalenza senza dubbio occidentale». Fino a giungere all’Occidente moderno, a tal punto attratto dall’«altro da sé» da aver inventato una scienza per studiarlo, l’antropologia culturale. E da aver elaborato un complesso di valori etico-filosofici per favorire la convivenza con altri, cioè «la tolleranza, che si è dovuta misurare con civiltà che sovente non riuscivano neppure a concepire che il “diverso” potesse avere dignità umana».

Solo l’Occidente ha potuto concepire una carta di «diritti umani» valida — almeno secondo i suoi schemi concettuali — per tutto il genere umano; e al tempo stesso è stata solo la nostra civiltà occidentale moderna ad elaborare in modo sistematico — sia pure riprendendo elementi già vivi nelle civiltà passate — una cultura dell’«orientalismo», dell’«esotismo», un’estetica fondata su culture differenti sia pure a tal punto «rielaborate da riuscire speso irriconoscibili». Caratteristica dell’Occidente moderno è la sua volontà di potenza. Nessuna «identità» è «più composita e dinamica di quella occidentale». Eppure, al tempo stesso, «è stato solo quest’Occidente umanitario e tollerante a soggiogare il resto del mondo con la propria volontà di potenza».

La stessa illusione che l’insieme dei «diritti umani» elaborati all’interno della sua civiltà possa essere obiettivamente valido sempre e per tutti, quindi universale, «è un’espressione di quella volontà di potenza». Manifestazione di tale volontà di potenza è considerata da Cardini «la proposta di far valere come principio generale valido per tutto il genere umano il fatto che alberghi nella natura dell’uomo» la «ricerca della felicità», che è nient’altro che «il nostro obiettivo e il nostro sogno». Volontà di potenza è il sistema dei «due pilastri sui quali la Modernità si reggerebbe». Primo pilastro: l’uguaglianza legittimata e garantita dallo Stato. Secondo pilastro: la libertà, incarnata e sostenuta, anche in questo caso, dallo Stato. Peccato solo, nota Cardini, che i «due pilastri» siano in realtà «cavalli ben decisi a tirare in due direzioni opposte». E difatti un di più di uguaglianza «finisce sempre per attentare alla libertà». Un di più di libertà «a indebolire l’uguaglianza». Ci vorrebbe un terzo elemento, un «pilastro mediano». Ad esempio?

La Rivoluzione francese proponeva, «umanitariamente ed utopisticamente», la fratellanza. Ma «pare proprio che, se non sostenuta da una qualche giustificazione metafisica e metastorica, la fratellanza non regga». La pretesa, poi, che la civiltà occidentale sia stata la «grande benefattrice dell’umanità» appare allo storico come un’autentica «frode» o «un immenso abbaglio». Come si può ancora ignorare che questa «grande benefattrice» ha elargito i princìpi primi della scienza, della ragione, della libertà, del progresso, e in cambio di queste bellissime cose — «promesse agli altri e talora in effetti quanto meno parzialmente fornite, di solito a caro prezzo» — si è «serenamente autoassolta» di «tutte le violenze, i furti, gli orrori, le menzogne e le infamie di cui si è resa responsabile nella sua conquista del mondo»?

Il «nostro Occidente» si è largamente e ripetutamente «autobiografato», per dirla con Juan Donoso Cortés quando ha scritto che la storia è «la biografia del genere umano». E «ha biografato il “diverso da sé” solo nella misura in cui ciò lo interessava». E «nella prospettiva che gli conveniva». La sfida del futuro è mantenere il prezioso punto di vista del grande pensatore spagnolo dell’Ottocento e «individuare strumenti e metodi atti a tradurre sul serio in realtà quella sua constatazione che era ai suoi tempi, e resta ancor oggi, solo un auspicio o una finzione».

Cardini esorta a riflettere su due dati di fatto. Da una parte non può esserci dubbio sulla circostanza che la costruzione di una storia dell’Occidente — sostanzialmente armonica e ininterrotta — nonché la sua autocoscienza, dal logos ellenico agli odierni sviluppi del sistema scientifico-tecnologico — «sia eminentemente un’artificiale pretesa ideologica». Pretesa «che ha determinato in tempi relativamente recenti — e con qualche recentissima recrudescenza politica — lo scellerato maturare di pseudo certezze identitarie» (tipo «the West and the Rest»). Dall’altra parte «è altrettanto sicuro che le civiltà fiorite sul pianeta attraverso i millenni e spazialmente separate tra loro da forti distanze, squilibri climatico-ambientali, deserti, montagne e oceani si sono reciprocamente comportate per lunghi millenni come se fossero state separate tra loro da compartimenti stagni, sia pure a imperfetta tenuta». Fu con l’epopea delle grandi scoperte e delle conquiste oceaniche, con l’era — a dirla con Carlo M. Cipolla — «delle vele e dei cannoni», che l’Europa infranse le proprie frontiere e si diffuse nel mondo, dando luogo all’era coloniale e allo «scambio asimmetrico», «quindi a quel processo di globalizzazione che oggi sembra giunto a un momento importante di verifica e di ridefinizione». Verifica e ridefinizione a cui, purtroppo, ancora una volta siamo costretti da una guerra. Al momento solo la guerra d’Ucraina.