Il male di scrivere sotto il fascismo

Raffaele Liucci legge Pier Giorgio Zunino

I rapporti di Carlo Emilio Gadda ed Eugenio Montale con la dittatura: dall’iniziale assenso
del primo all’indifferenza del secondo. Fino alla netta condanna di entrambi per il baratro provocato nel Paese

Raffaele Liucci | ilSole24Ore | 2 aprile 2023

Si può ancora scrivere qualcosa di innovativo su Carlo Emilio Gadda (1893-1973) ed Eugenio Montale (1896-1981), due mostri sacri delle patrie lettere sui quali esistono ormai intere biblioteche? Ci è riuscito lo storico torinese Pier Giorgio Zunino, già autore di ricerche fondamentali sull’Italia novecentesca (il suo opus magnum è La Repubblica e il suo passato, 2003). Adottando la formula delle vite parallele, l’autore ha ripercorso l’atteggiamento di Gadda e di Montale nei confronti del fascismo, dalle trincee della Grande Guerra (nelle quali si era forgiato l’uomo nuovo mussoliniano) sino alla Seconda guerra mondiale. Un quarto di secolo della nostra storia raccontato attraverso lo sguardo di due letterati – incrociatisi di rado – capaci di «afferrare la realtà del mondo» che li circondava, «muovendo spesso dai più minuti dettagli». L’originalità di Zunino sta nell’averne scandagliato i carteggi, gli scritti e le opere più propriamente narrative e poetiche con l’occhio dello storico, in un corpo a corpo dal quale scaturiscono almeno tre questioni più generali.

Innanzitutto, la centralità della guerra nella società del tempo. Gadda, come è noto, non si liberò mai dallo «spasimo bellicista». Interventista della prima ora, volontario negli Alpini, vide nel conflitto l’unico mezzo per rigenerare il Paese dal grigiore giolittiano, come risulta evidente dal suo Giornale di guerra e di prigionia (apparso soltanto nel 1955). Ma anche il più apatico Montale, combattente al fronte nell’estate-autunno del 1918, visse «indimenticabili momenti di esaltazione comunitaria e di appassionamento patriottico». Zunino ricava questo dato, spesso trascurato, da un’attenta lettura del carteggio della sorella Marianna, «insostituibile testo di riferimento per intercettare qualche attendibile raggio di luce su Eugenio durante la Grande Guerra».

In secondo luogo, la compenetrazione tra il fascismo e il Paese (un tema peraltro già affrontato dall’autore in un illuminante volume del 1991, Interpretazione e memoria del fascismo). Nel turbolento Dopoguerra, scrive Zunino, «il fascismo che improvvisamente scaturisce dalle profondità della società italiana» rappresentò un balsamo per il déraciné Gadda, in preda alla tristezza del reduce. Montale, invece, firmatario del manifesto di Croce del 1925, non prenderà mai la tessera del PNF. Afflitto da un «male di vivere» incompatibile con le passioni forti, direttore dal 1929 al 1938 del Gabinetto Vieusseux, visse stando alla finestra, barcamenandosi fra vari gerarchi (come Corrado Pavolini e Galeazzo Ciano) il cui appoggio non sempre poté evitare. Al di là dei loro percorsi asimmetrici, sia Gadda sia Montale riusciranno infine a cogliere la realtà di «un regime proiettato a controllare la vita di tutti in ogni singolo istante». Paradigmatico, in questo senso, il carteggio amoroso e transoceanico intercorso fra Eugenio e l’italianista statunitense Irma Brandeis («Clizia»), in cui il poeta dipinge «un panopticon dell’intellettualità italiana vista da un membro di quello stesso mondo».

La terza questione riguarda la labilità dei confini tra fascismo e antifascismo, una condizione cui non si sottrassero neppure i nostri due protagonisti. Negli anni del «consenso» e della conquista dell’Etiopia, persino Montale – come del resto diversi oppositori del regime – fece qualche passo indietro rispetto alla sua ferma (ma silente) «ripulsa nei confronti del fascismo». Viceversa, verso la fine degli anni Venti il patriottismo di Gadda cominciò a evidenziare qualche crepa. Se l’ingegnere aveva sempre apprezzato la pars destruens del fascio littorio (infliggere un colpo mortale alla «porca Italia» imboscata e giacobina), cominciò a nutrire qualche dubbio sulla sua pars construens, ossia sullo Stato «nuovo», ancora dominato da camaleontici carrieristi. Del resto, si chiede Zunino, «come poteva mai armonizzarsi con le idee del fascismo una struttura mentale» quale quella gaddiana, portata per definizione a eliminare «il fondamento di ogni mito e illusione?».

Lo storico torinese coglie i segni di questo disamoramento nell’«intensa relazione» intrattenuta da Gadda con un filosofo solitario come Piero Martinetti, uno dei pochissimi cattedratici a rifiutarsi nel 1931 di giurare fedeltà al regime (Zunino ha curato nel 2011 le sue Lettere 1919-1942). Ma significativo è anche un romanzo «impubblicabile» come La meccanica (iniziato nel 1928), il cui unico personaggio positivo, tutto «cuore» e «rettitudine», è un operaio socialista. Inabissatosi al pari di un fiume carsico, questo «turbamento provocato dall’andamento delle cose italiane» riaffiorerà pienamente solo nel secondo Dopoguerra, in un’opera come Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957), non a caso ambientato nel 1927. Ossia proprio nel periodo in cui Gadda aveva cominciato a maturare le prime riflessioni sul fossato che separava la vita quotidiana degli italiani dall’autorappresentazione mitologica del regime (sulla quale lo stesso Zunino ha pubblicato nel 1985 un importante contributo, L’ideologia del fascismo).

Il lungo viaggio di Gadda attraverso il fascismo si concludeva il 29 ottobre 1939, quando in una lettera allo scrittore Bonaventura Tecchi parlò di Hitler, alleato del duce, come di un «mostro sadico che cerca rivincite di carneficine alla sua impotenza». In quanto a Montale, il definitivo risveglio era avvenuto nella «primavera hitleriana» del1938 (poi oggetto di una sua indimenticabile e, nella stesura, quasi coeva poesia): in particolare in quel tardo pomeriggio del 9 maggio in cui il poeta aveva assistito sgomento tra la folla fiorentina al passaggio in auto del Führer, all’indomani dell’invasione tedesca dell’Austria. Sulla soglia della guerra, entrambi i letterati videro dunque il «baratro verso cui l’Italia si stava incamminando», e varcarono definitivamente il Rubicone, sia pure nel loro foro interiore. Peccato che Zunino non abbia esteso la sua raffinata esegesi ai percorsi paralleli da loro intrapresi dopo il ‘45, nella repubblica democratica. Tema per un altro libro?