Enzo Traverso, la rivoluzione, il neoliberalismo autoritario e la nuova sinistra

Giuliano Battiston intervista Enzo Traverso

Un’intervista del nostro Giuliano Battiston con lo storico delle idee Traverso, autore di Rivoluzione, Malinconia di sinistra, del recente La tirannide dell’io, e fresco vincitore del Premio Napoli 2022

Giuliano Battiston | Lettera22 | 4 gennaio 2023

«L’800 è un secolo che si apre con la rivoluzione francese; il 900 nasce con la grande guerra, ma il suo orizzonte d’attesa è fissato dalla rivoluzione russa; il XXI secolo nasce invece da una controrivoluzione, dalla sconfitta e dall’eclissi dell’orizzonte di attesa utopico e rivoluzionario, con la grande svolta del 1989». Secondo Enzo Traverso, è all’interno di questa svolta storica e della «paralisi utopica» che ne deriva che vanno lette la sconfitta della sinistra in Italia e l’affermazione del neoliberalismo autoritario del governo presieduto da Giorgia Meloni. Storico della Cornell University di Ithaca, New York, tra i più rigorosi intellettuali del nostro tempo, in questi giorni Traverso è in Italia per il Premio Napoli 2022, di cui è finalista con Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia (Feltrinelli 2021), una monumentale storia intellettuale del concetto di rivoluzione, da leggere insieme a Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta (Feltrinelli 2016) e al suo ultimo libro, La tirannide dell’io. Scrivere il passato in prima persona (Laterza 2022).

Con Rivoluzione, lei intende «riabilitare il concetto di rivoluzione come chiave d’interpretazione della modernità», evitando le trappole simmetriche della stigmatizzazione conservatrice e dell’apologia cieca. Cosa ne deriva per la comprensione del presente?

La rimozione del concetto di rivoluzione dal paesaggio culturale, politico e ideologico del presente fa sì che oggi si pensi sì la politica, ma che nessuno pensi più alla rivoluzione come via possibile al cambiamento. Ricostruirne la storia è indispensabile per capire che il XXI non sarà un secolo senza rivoluzioni. Le rivoluzioni sono scomparse solo dal nostro universo mentale, non dalla realtà. E non è escluso che nel XXI secolo lo stesso concetto subisca una nuova metamorfosi, come quella avvenuta con la rivoluzione francese: non più il ritorno alle condizioni originarie dopo un movimento rotatorio ciclico, secondo la definizione dell’astronomia, ma una rottura sociale e politica, la proiezione della società nel futuro. Una proiezione resa possibile dalla dialettica storica di cui parlava Reinhart Koselleck: la storia come dialettica tra il passato come campo di esperienza e il futuro come orizzonte di attesa. Oggi quella dialettica si è inceppata.

Lei sostiene che, dopo questo passaggio, una nuova sinistra globale non possa rinascere se non elabora l’esperienza storica che ha trasformato il socialismo in un’utopia fredda. Anziché eluderla, dovrebbe inoltre farci carico della “malinconia di sinistra”. La malinconia è una premessa all’azione politica?

Non faccio della malinconia una prescrizione, una terapia. Ma neanche un sentimento di impotenza e rassegnazione: è un processo di elaborazione di una coscienza storica senza il quale le future rivoluzioni non potranno pensare il futuro. I movimenti degli ultimi venti anni hanno una vasta elaborazione critica, ma non si inscrivono in una continuità storica. Le rivoluzioni arabe non avevano modelli di riferimento, non erano socialiste, comuniste, panarabe, islamiste, terzomondiste o antimperialiste. I Gilets jaunes in Francia non scendevano in piazza con la bandiera rossa. Esistono movimenti radicali con forti potenzialità, ma sono privi di memoria e di coscienza storica.

Per lei la malinconia è produttiva, performativa. Ma nella storia della sinistra è apparsa spesso come un segno di debolezza e impotenza…

Nella cultura della sinistra la malinconia è stata a lungo rimossa come illegittima, anche a causa di un retaggio virilista, maschilista e guerriero. Per Raymond Williams, invece, la malinconia fa parte della struttura dei sentimenti della sinistra. D’altronde, ha svolto un ruolo attivo in molti casi. Le madri di Plaza de Mayo in Argentina sfilavano con i ritratti dei desaparecidos. Manifestazioni di lutto, ma scintille per la lotta contro la dittatura militare. Black Lives Matter è un altro esempio di come il lutto e la malinconia possano sfociare nella rivolta e nella lotta.

L’abbandono del sogno di un’umanità liberata ha prodotto un regime di storicità che nLa tirannide dell’io definisce “presentismo”. La stessa immaginazione è chiusa dentro i confini del presente o, se rivolta al futuro, è distopica, segnata da catastrofi ecologiche. Come interpreta il “catastrofismo”?

Il fascismo è una minaccia, ma è un’opzione che si può evitare, mentre la catastrofe ecologica è un destino ineluttabile se non modifichiamo il modello di civiltà ancor più che alcune politiche economiche. Per le nuove generazioni è la premessa per pensare un futuro capace di scongiurare la catastrofe. Il 900 era un secolo dominato da quello che Ernst Bloch definiva il principio speranza, il secolo dell’anticipazione, del non-ancora, dell’utopia. Ora l’unica anticipazione possibile è quella dell’escatologia negativa. Vale quel che Günther Anders ha definito principio disperazione, che pone il problema dell’etica della responsabilità.

Una certa storiografia ha favorito l’idea che l’utopia di una società liberata e il socialismo reale fossero la stessa cosa e che il totalitarismo sia l’esito inevitabiledi ogni utopia rivoluzionaria. Oggi si dà per scontato che non ci sia alternativa a democrazia liberale e società di mercato

Se osserviamo quel che è avvenuto in Italia negli ultimi mesi – le elezioni, il nuovo governo, la sua composizione – non solo con una lente contingente, ci accorgiamo che è l’esito di questo lungo processo storico. Oggi si parla di fascismo a livello globale, ma l’Italia non è solo un Paese che ha conosciuto il fascismo. È il Paese in cui il fascismo è nato. In cui il comunismo non ha prodotto i gulag, ma la resistenza. Ora abbiamo un governo con un partito maggioritario che ha rivendicato con orgoglio la propria origine. Si insedia dopo anni di campagne di stigmatizzazione e criminalizzazione del comunismo, rivolte contro una parte del mondo politico che, anziché ribattere, diceva “siamo d’accordo con voi, anzi, i ragazzi di Salò sono bravi ragazzi!”. Non c’è da stupirsi, dunque: gli eredi del fascismo sono arrivati al governo traendo profitto da una svolta culturale profonda.

L’ultimo capitolo di Rivoluzione si intitola “Storicizzare il comunismo”. Ritiene che l’attuale deficit della sinistra in Italia dipenda anche dal non aver fatto i conti con quella storia, storicizzandola?

In Italia abbiamo assistito non solo alla sconfitta del comunismo, del socialismo e delle rivoluzioni del 900, ma all’auto-dissoluzione del più grande partito comunista del mondo occidentale. La sconfitta è stata non solo accettata, ma quasi rivendicata. Il passato, dimenticato e rimosso. Da un lato c’è chi ha chiuso quell’esperienza senza elaborarne l’eredità, aderendo in modo acritico a un nuovo modello: la democrazia liberale e la società di mercato come ordine naturale del mondo. Dall’altro la reazione di una minoranza ancorata a un modello ormai obsoleto, sterile. In una prospettiva di lunga durata siamo ancora dentro questa impasse.

In un’intervista al manifesto ha parlato del governo Meloni come «l’espressione più vistosa di una tendenza verso il neo-liberalismo autoritario che permette la convergenza tra la democrazia liberale classica e il post-fascismo», che fa propri i valori del capitalismo. La sinistra può “sfruttare” la situazione?

Tensioni e contraddizioni dell’ascesa della nuova destra, in Italia e altrove, non vanno sottovalutate. Più che alle sue scelte ideologiche, il successo di Giorgia Meloni è dovuto alla sua “coerenza politica”, al fatto che sia apparsa l’unica forza di opposizione, alternativa. La stessa chiave spiega l’ascesa delle nuove destre radicali su scala globale, apparse come l’unica alternativa – di destra, conservatrice, reazionaria – al neoliberalismo. Eppure, se diventano l’incarnazione di un neoliberalismo autoritario, vanno inevitabilmente incontro a problemi: possono apparire forze di governo legittime agli occhi delle élite, ma perderanno consenso tra i ceti popolari che le hanno sostenute.

La “coerenza politica” di Giorgia Meloni è passata per la rivendicazione dell’autonomia del politico: l’idea che Fratelli d’Italia fosse l’unico partito a rappresentare gli interessi del popolo, non della finanza globale. Ma dentro l’economia politica neoliberista i governi hanno margini di autonomia ridotti. Come ne uscirà il governo?

In Italia, almeno a partire dal governo Monti, l’autonomia del politico è stata sostituita dall’autonomia dell’economico. Oggi l’autonomia del politico può spiegare la capacità di Giorgia Meloni di far rinascere un partito che sembrava un residuo dell’estrema destra, raccogliendo un forte consenso elettorale, passando come interlocutore credibile per l’Unione europea e per l’élite economico-finanziaria, senza rinunciare alla periferia di neonazisti e neofascisti. Ma arrivata al governo la stessa Meloni diventa l’incarnazione dell’autonomia dell’economico, la cifra dell’era neoliberista, ultima di una serie di governi votati dai parlamenti ma sovradeterminati da forze esterne. È una tendenza generalizzata. Se vuole essere una forza di alternativa, la sinistra non può che opporsi radicalmente a questo modello. E nella misura in cui è la destra a governare, deve saperne gestire tutte le contraddizioni che ne derivano.