Certificato sacrificale per tutti i cittadini

Carlo Franco legge Federico Santangelo

Un ambito plurale e assai variegato: tempi, luoghi, situazioni. Dai riti domestici ai (sospetti) culti orientali, al Cristianesimo…

Carlo Franco | Alias | 15 maggio 2022

Pare che tempo fa qualche diocesi cattolica abbia deciso di invalidare un certo numero di battesimi, perché impartiti senza seguire una certa formula canonica. Stupisce che la notizia abbia stupito. Qualunque individuo del mondo antico avrebbe trovato il fatto del tutto naturale e spiegabile: nei riti sacri, solo un’esecuzione scrupolosa dei gesti e la pronuncia esatta delle parole previste garantisce l’efficacia (vale anche per i giuramenti!). Benché vari riti delle moderne chiese riguardino il valore «performativo» delle parole, molto della antiquorum sapientia pare davvero perduto. Di qui l’utilità di ripensare il mondo religioso del passato: nella consapevolezza che un ambito così «plurale», marcato da varietà grande di tempi, luoghi e situazioni, va affrontato con cauta attenzione. Serve anche liberarsi dai pre-giudizi che, stante il moderno «orizzonte monoteistico», interferiscono con la comprensione dei modi in cui l’interazione fra uomini e entità soprannaturali» fu pensata e realizzata dagli antichi.

Tale appunto è la prospettiva scelta da Federico Santangelo in La religione dei Romani. Il taglio è felicemente selettivo e la scrittura apprezzabilmente chiara. Il libro non contiene una trattazione sistematica (sarebbe poi possibile?), ma precise messe a fuoco, con una scelta di problemi studiati a partire da documenti significativi: e si parla così di religione e potere, pluralità di culti, importanza dei luoghi, e altri aspetti. Alla base, mette conto sottolinearlo, è l’idea che la religione dei Romani, dai primordi repubblicani all’impero, non vada trattata con sufficienza, per esempio come cinico instrumentum regni, ma presa sul serio. Certo, nel mondo romano «fare è credere», secondo l’idea di John Scheid, ma non tutto si esauriva in ritualismo, invariabilmente descritto dai moderni come «vuoto». Per capirne le forme, un’iscrizione, un’immagine o un oggetto, possono valere più di una pagina pensosa dal de natura deorum di Cicerone, teorica e sempre a rischio di sovrainterpretazione.

I testi letterari si interessavano per lo più agli «eventi esteriori della comunità politica», più che alle prassi degli individui (e degli schiavi), delle quali resta infatti traccia inadeguata. Celebri pagine di autori antichi trattano con saputo scetticismo pratiche assai diffuse, come l’aruspicina: leggendo questo libro s’impara a distinguere con nettezza la religiosità dei più dalle visioni degli intellettuali. Il che tanto più giova, alle prese con un’esperienza del sacro aperta a pluralità di culti, fondata su «una conoscenza costruita collettivamente e largamente distribuita», e non uniformata dall’autorità di una rivelazione. Sicché, pur nella centrale opposizione tra religio e superstitio (che viene qui definita come una devozione «mal indirizzata»), nella realtà i due ambiti non erano sempre distinti. Se fossero sopravvissute le Antichità divine di Varrone, forse si capirebbe meglio. La perdita di quest’opera eruditissima ha certo complicato le cose, e lasciato troppi aspetti nell’incertezza, sicché per molti punti si dipende ora da reperti poco più che casuali.

Per il culto dionisiaco (sottoposto a controllo in età repubblicana) si deve molto a una celebre iscrizione, che conserva la decisione del senato de Bacchanalibus nel 186 a.C., e integra il racconto di Tito Livio. E dunque, per riti, ex-voto, pratiche divinatorie, si vede che la descrizione puramente antiquaria non basta: si deve penetrare dentro forme differenti, e per noi remote, di un «impegno reciproco» stretto tra uomini e dèi. Era però un patto diseguale. Gli dèi erano del tutto svincolati «da considerazioni etiche», da favore o ostilità verso i devoti, perciò non imponevano «il rispetto di codici di condotta personale o collettiva». Inviavano segni, che gli umani avevano il dovere di cogliere e interpretare con attenzione: di qui il valore delle forme di divinazione, volte ora a prevedere il futuro, ora a superare una criticità da espiare, ora appunto a conoscere l’atteggiamento degli dèi. E anche qui, il peso di tali pratiche nei contesti pubblici e controllati era molto diverso rispetto all’ambito privato: ecco perché i moti repressivi (neppure gli imperatori gradivano la circolazione di profezie sudi sé), e lo statuto ambiguo di pratiche magiche, sospette perché ritenute capaci di scardinare l’«ordine» sociale costituito.

Altro tema è costituito dall’orizzonte «largo» del politeismo: il numero delle divinità ritenute efficaci poteva estendersi senza scosse. Ciò permise tra l’altro la diffusione dei cosiddetti culti orientali, così interessanti per i moderni: Iside, per esempio, o Mitra, o alla costola del giudaismo evoluta poi nel cristianesimo. Il successo di tali riti poté in parte dipendere dal loro essere «elettivi», cioè «praticati nell’ambito di gruppi a cui si aderisce su base (…) volontaria», quindi diversi dai culti tradizionali praticati in pubblico dagli appartenenti alla comunità civica. Gli sviluppi successivi presentano un’ulteriore difficoltà: quella di evitare la teleologia del passaggio lineare e «inevitabile» verso le forme note. Né solo perché nel cosiddetto monoteismo v’erano evidenti sopravvivenze dei culti non cristiani, ma anche perché la storia religiosa dell’età imperiale appare più come un «dialogo tra due alternative». Dialogo certo aspro, con note durezze, in tempi diversi, da entrambe le parti. La strada del cristianesimo fu al principio incerta, e marcata dalle dolorose fratture interne delle cosiddette eresie. Vi fu un furore di dibattito teologico durato per secoli, che oggi appare lontanissimo e poco comprensibile: basterebbe fare il test del filioque a molte persone pie per accorgersene.

Più interessanti appaiono di fatto le complicate mediazioni politiche che l’imporsi del cristianesimo comportò. L’impero doveva avere un perno religioso, e ne cambiò la forma. Quindi, dall’interventismo di Costantino si arrivò, dopo la fine del mondo antico, verso il potere temporale, e dagli sviluppi bizantini si arrivò al cesaropapismo, così presente oggi nel cristianesimo ortodosso. Insospettate e frequenti, in effetti, sono le sollecitazioni che questo utile libro pone per riscontri con il tempo presente: anche la questione dei libelli che un editto dell’imperatore Decio impose nel 239, in età ormai di diffusione del cristianesimo: un certificato che provasse «la corretta celebrazione di un sacrificio», ossia che ogni cittadino romano attestasse di aver «sempre celebrato sacrifici conformemente alla tradizione». Il tutto potrebbe richiamare recenti esperienze: si ignora però quale colore fosse associato a questi passaporti sacrificali.