La giustizia e l’agenda da cambiare

Un estratto dal nuovo libro di Giuseppe Pignatone

Di riforme della giustizia si discute nel nostro Paese da decenni. E oggi più che mai un rinnovamento appare necessario, sia alla luce della crisi interna alla magistratura sia per le richieste provenienti dall’Unione europea. In Fare Giustizia, la lucida analisi e le proposte di soluzione di uno dei più stimati e autorevoli protagonisti del nostro sistema giudiziario, Giuseppe Pignatone. Qui un estratto.

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La polemica politica e giudiziaria divampata nei primi mesi della pandemia a causa dell’uscita dal carcere di numerosi detenuti imputati o condannati per gravi reati è un esempio degli effetti collaterali della crisi, innanzitutto sanitaria, che ha colpito l’Italia e l’intero pianeta. Infatti, gli effetti del virus si sono dimostrati tanto più pesanti quanto più gli organismi colpiti sono deboli e meno efficienti. Questo vale per gli individui, ma anche per le strutture e i settori dell’organizzazione sociale. Devastanti sono stati quindi, e ancora saranno, gli effetti della pandemia sull’intero sistema della giustizia penale, di cui sono noti limiti e difficoltà e che infatti è rimasto sostanzialmente a lungo paralizzato, salvo pochissime attività indilazionabili.

Anche la ripartenza è e sarà molto parziale. Non solo per le nuove regole, a cominciare da quelle sul distanziamento sociale che trasformeranno radicalmente la vita dei nostri palazzi di giustizia, ma perché modalità inedite, tutte da sperimentare, si sommeranno alle carenze e ai problemi già ben noti. È quindi intuitivo il verificarsi di un pesante rallentamento: meno udienze, meno processi fissati per ogni udienza, meno persone ammesse nelle cancellerie, meno impiegati presenti nelle ore cruciali, enormi difficoltà a trattare i processi con più imputati, specie se detenuti. Né è pensabile che in pochi mesi si torni alla “normalità” del passato, il che determinerà l’accumularsi di ulteriore arretrato in proporzioni molto pesanti, peraltro accresciute dai casi che scaturiranno dalla ripresa delle attività economiche e sociali.

Se è vero che la giustizia penale è una delle funzioni primarie e irrinunciabili di qualsiasi Stato, per prima cosa è necessario un impegno corale per contenere i danni già subiti e per ripartire su nuove basi, come sta avvenendo in tanti altri campi.

Ma questo non sarà sufficiente. L’intera organizzazione della giustizia dovrà saper trasformare questa crisi in opportunità, cogliendo l’occasione del cambio di prospettiva che la pandemia impone, fermo restando il limite invalicabile dei principi propri dello Stato di diritto, fissati dalla Costituzione, dato che in questo settore sono in gioco interessi vitali del cittadino, a cominciare dalla libertà personale. Non a caso, di fronte all’opposizione dichiarata degli avvocati e alle perplessità espresse da buona parte della magistratura, il Governo ha rinunziato quasi del tutto all’udienza da remoto, ritenuta inidonea ad assicurare il livello minimo di garanzie per una decisione giusta. Una scelta che ritengo frutto di saggezza.

Serve quindi una riflessione condivisa sulle possibilità offerte dall’informatica, su cui molti ripongono grandi aspettative, con l’attesa di risultati quasi miracolosi. Io non sono così ottimista e proprio in queste settimane abbiamo constatato come nella giustizia penale lo smart working e, più in generale, il ricorso all’informatica abbiano fatto registrare risultati meno positivi che altrove. Per la carenza delle risorse disponibili, materiali e di personale, ma anche per i limiti, sopra accennati, imposti dalla materia trattata. Restano tuttavia spazi molto ampi per l’uso delle nuove tecnologie e sarà l’esperienza concreta a suggerire nuovi campi di intervento e nuove iniziative, che richiederanno a tutti, uffici giudiziari e avvocati, la disponibilità ad assumersi nuovi impegni e nuove responsabilità.

Sarà anche necessario che, nell’enorme sforzo economico in atto nel Paese, si tenga conto delle esigenze dell’amministrazione della giustizia, fattore decisivo anche per la ripresa economica: e al primo posto di tali esigenze c’è l’assunzione di personale amministrativo giovane e qualificato.

Nell’indicato cambio di prospettiva è forse giunto il momento per compiere alcuni passi che competono a Governo e Parlamento, che sarebbero tuttavia agevolati se dai protagonisti del processo provenissero indicazioni comuni, nella consapevolezza condivisa che nessuno trae giovamento dalla paralisi che si è determinata.

Il primo passo, fondamentale, è la immediata e radicale riduzione del numero dei reati, attraverso un’ampia depenalizzazione. Oggi la sanzione penale è prevista per fatti di scarso rilievo, che in altri Paesi europei sono illeciti amministrativi definiti rapidamente, mentre da noi impegnano tre gradi di giudizio. È uno degli effetti perversi del panpenalismo dilagante in questi anni, per cui la sanzione penale non è l’extrema ratio cui ricorrere quando nessun altro rimedio è efficace ma, al contrario, è la sola risposta a problemi cui la politica o l’economia non sanno provvedere e che vengono così scaricati sulla giustizia penale, addossandole oltretutto la responsabilità dell’inevitabile fallimento.

È un fenomeno culturale ormai diffuso. Lo vediamo ogni volta che si reagisce a un dramma o a un problema chiedendo – o, peggio, facendo chiedere alle vittime – di “fare giustizia”, di “trovare il colpevole e mandarlo in carcere”, magari per sempre. In un primo momento, per fare un esempio, erano state considerate reati anche le violazioni ai limiti di movimento imposti per frenare il contagio. Poi, per fortuna, ci si è resi conto dell’assurdità della scelta che avrebbe portato a decine di migliaia di procedimenti da chiudere, chissà quando, con la condanna a pagare una piccola somma. E così si è tornati all’illecito amministrativo. Occorrerebbe, e da subito, l’impegno convergente delle forze politiche per invertire la tendenza a introdurre sempre nuove figure di reato. In questo modo, fra l’altro, sarebbe più facile verificare che le procure si muovano secondo criteri di priorità trasparenti e comprensibili.

Il secondo passo dovrebbe essere l’introduzione di modifiche realmente incisive del sistema processuale introdotto dal Codice di procedura penale del 1989, avendo ben chiaro “il” problema: non si è mai realizzata la condizione base per il suo successo e cioè che almeno l’80% dei processi venisse definito con i riti alternativi (abbreviato, patteggiamento, ecc.). È sotto gli occhi di tutti che le cose sono andate diversamente e che i tempi si sono allungati a dismisura, per cui l’istruzione dibattimentale è spesso una mera fictio, con i testimoni convocati quando ormai non ricordano nulla e finiscono per “recitare” verbali e atti risalenti a molti anni prima.

Il sistema non regge più nemmeno il dispendio di risorse imposto dalla contraddittorietà di un primo grado in cui tuttora avviene (meglio: viene ripetuto) davanti al giudice perché “solo così si può arrivare a una decisione giusta”, seguito però da un giudizio di appello che riesamina e giudica sulla base dei soli atti scritti.

Sono tutte questioni complesse, ma è possibile introdurre modifiche incisive, che non tocchino garanzie importanti e che consentano l’utilizzo ottimale delle (scarse) risorse disponibili: gli spazi ci sono e sono stati indicati molte volte da più parti. Tra gli altri, l’aumento dei riti alternativi, la limitazione dei casi di appello, la semplice acquisizione da parte dei giudici del dibattimento degli atti rispetto ai quali l’escussione del teste non apporterebbe alcun elemento di novità, il rinvio a giudizio solo se esistono fondate probabilità di condanna (senza, però, che si gridi allo scandalo o all’insabbiamento per le richieste di archiviazione poco gradite, magari dopo anni di indagini infruttuose), l’eliminazione di adempimenti che l’esperienza ha dimostrato spesso del tutto inutili. Fondamentale sarà pure l’espletamento, con le necessarie cautele, di un numero crescente di atti mediante videocollegamento, come già prevedono alcuni protocolli stipulati su base locale tra avvocati e magistrati.

Naturalmente, cambiamenti così incisivi troveranno gli stessi ostacoli finora rivelatisi insuperabili da parte dei sostenitori dello statu quo, presenti in tutte le categorie del mondo della giustizia, che rivendicano traguardi idealizzati, tanto affascinanti quanto irraggiungibili.

Ma credo che la nuova situazione non lasci più spazio a queste posizioni. Un osservatore tanto prestigioso quanto insospettabile, Franco Coppi, ha lucidamente descritto in una intervista di qualche mese fa alcune di queste problematiche e auspicando che si trovi il coraggio di «riesaminare la situazione […] mettendosi attorno a un tavolo».

Tutti insieme, aggiungo, senza tabù né pregiudizi.

 

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