Voci ebraiche, voci italiane

Massimo Giuliani legge Italya, di Germano Maifreda

Massimo Giuliani | Avvenire | 21 maggio 2021

Nell’uso comune la parola ghetto è sinonimo di reclusione, marginalità, persino discriminazione. E in effetti, dal primo ghetto, quello creato a Venezia nel 1516 e poi adottato dallo stato pontificio nel 1555, lo scopo di questa istituzione tipicamente italiana era quella di isolare gli ebrei dai cristiani, affinché questi ultimi non venissero tentati di giudaizzare e la loro fede non venisse messa in dubbio da idee e prassi religiose (quelle ebraica) ad un tempo così vicine e così lontane dalla loro. Evitare le tentazioni, non solo teologiche ma anche sessuali, e specie di notte: ecco il fine principale a cui servivano i pesanti portoni con cui venivano chiusi a chiave quei claustri, allora detti anche serragli o recinti. Così quando, con l’ingresso dei piemontesi a Roma nel 1870, quei portoni vennero definitivamente rimossi dall’area del Portico d’Ottavia, i ghetti assunsero la valenza di simboli antigiudaici, vera e proprie cifre della repressione papale, e la loro storia per lungo tempo venne avvolta da schemi storiografici dettati dalle ideologie con i loro inevitabili stereotipi.

Tuttavia da alcuni decenni gli storici (ebrei e non ebrei), lavorando negli archivi, esplorando le genealogie familiari e dissodando la cultura materiale della vita ebraica ghettizzata, hanno riportato alla luce un quadro assai più complesso, composto di ombre certamente ma anche di luci, dove alle azioni seguono reazioni, tra decreti e norme si insinuavano eccezioni ed esenzioni, con interazioni attive e intense che non si lasciano ridurre ai pur rigidi regolamenti che avrebbero dovuto, al condizionale passato, sancire la totale separazione tra ambiente cristiano e mondo ebraico, salvo i momenti in cui quest’ultimo era costretto ad ascoltare le prediche dei alcuni frati a scopi conversionistici. Quella separazione c’era e al contempo non c’era, fissata un in recinto urbanistico ma non sempre nel tessuto umano, di suo natura fluido, che a quella recinzione doveva corrispondere, e che variava poi da ghetto a ghetto, da città a città, sotto i i più diversi sovrani.

Facciamo qualche esempio. Gli storici ci raccontano che nei ghetti gli scambi erano continui, nonostante tutto, specie per ragioni economiche: costretti alla sola compravendita di abiti e tessuti usati, gli ebrei dovevano procurarseli negli “hospitali” dove la gente moriva. Fatichiamo oggi a capire che quegli indumenti di riciclo allora era un business serio e prezioso, che metteva il ghetto al centro di un commercio necessario per tutti, ebrei e non ebrei, che esponeva dunque i due gruppi religiosi a contatti quotidiani. Idem per le derrate alimentari, che fossero i cereali per i forni del pane oppure il pesce e ancor più la carne. Al riguardo, le regole alimentari ebraiche prevedono la macellazione rituale e i macellai erano una categoria speciale, quasi una casta, che necessitava di una licenza rabbinica e aveva il controllo della principale fonte di proteine nel ghetto. Ma procurarsi gli animali da macello li esponeva a rapporti molteplici con l’esterno, soprattutto con i macellai non ebrei che lavoravano nella medesima filiera. Anche qui scambi continui, che regolavano l’equilibrio di domanda e offerta nella vita cittadina, specie quando la domenica i negozi cristiani erano chiusi ma quelli ebraici nel ghetto erano aperti: il va e vieni era senza sosta, e così le conversazioni, le frequentazioni, le idee, le merci, i crediti (e i debiti)… a dispetto del recinto.

Per oltre tre secoli, cruciali nello sviluppo della modernità, quando andò formandosi la società e soprattutto la cultura dell’Italia post-rinascimentale (sebbene veicolata in dialetti locali e in forme politicamente frammentarie), gli ebrei furono attori e non meri spettatori, artefici e non elementi passivi di quel tessuto economico-culturale che servì da base al processo di unificazione nazionale. Se dal gruppo di macellai e panettieri ci si sposta a quello di letterati e musicisti, di editori e banchieri, il quadro delle interrelazioni tra i due mondi si diversifica e intensifica ancor di più, e ci fa dimenticare, almeno per alcuni aspetti, la “storia lacrimosa” nella quale, secondo lo storico Salo Wittmayer Baron, le vicende degli ebrei in Europa sono state, in modo a volte sbrigativo, avvolte.

È questa la nuova prospettiva che guida l’ultimo lavoro di Germano Maifreda, docente di Storia economica alla Statale di Milano, che cerca di mostrare come nella nostra penisola quella ebraica non sia stata una storia altra rispetto alla storia della maggioranza degli italiani; come nei vissuti concreti vi fossero meno steccati di quelli che immaginiamo oggi; che le influenze (persino religiose) erano mutue e diversificate e gli scontri, altrettanto frequenti, non impedivano accordi e collaborazioni. I ghetti, ricorda Maifreda, erano organismi complessi, perché luoghi di vita di donne e uomini che interagivano in tessuti urbani nei quali le “relazioni verticali” (con i sovrani, i magistrati, gli esattori delle tasse) non erano più importanti delle “relazioni orizzontali”, tra pari grado, indipendentemente dalle appartenenze di fede e di ceto. In parte, infatti, i ghetti furono vissuti anche come luoghi di protezione contro facinorosi e criminali, spazi quasi-intimi e necessari a rafforzare identità e costumi, che facilitavano il rispetto delle norme rituali e utili infine allo stesso controllo sociale intraebraico.

Nel suo volume Maifreda raccoglie il frutto di decennali ricerche storiche, citate a livello mondiale, nelle quali si sono distinti studiosi come Michele Luzzati e Kenneth Stow, Anna Foa e Giacomo Todeschini, Anna Esposito e Marina Caffiero per non citare che i nomi più noti. Grazie a loro la storia dei ghetti si è illuminata mostrando che, pur nelle difficoltà del pregiudizio antiebraico della maggioranza e tra politiche che “usavano” gli ebrei, questi ultimi trovarono sempre modi e spazi per reagire e negoziare, preservare la propria identità e difendere quei pochi diritti che pure le leggi lasciavano loro, insomma per vivere e non solo sopravvivere. Del resto, erano mediamente più istruiti del resto della popolazione e ciò costituì un vantaggio quando poterono accedere finalmente agli studi accademici. E come Maifreda spiega con dovizia di casi, anche la condizione femminile nel mondo ebraico era migliore che nel mondo cristiano, per via della consuetudine non solo di far studiare le ragazze, almeno un poco, ma anche di riconoscerle come soggetti giuridici ed economici, ben prima che ciò avvenisse nella società in generale.

Certo, se vi è una lezione sintetica è questa: non si deve generalizzare; espressioni come “gli ebrei” o “i cristiani”, storicamente parlando, sono fuorvianti; dietro le generalizzazioni si annidano spesso iper-semplificazioni o addirittura stereotipi. Si pensi al tema dell’usura, una prassi diffusa in tutta la società proto-moderna ritenuta tipica del mondo ebraico, quando invece agli ebrei fu richiesto di far prestito (a tassi controllati) dalle autorità pubbliche proprio per arginare quella piaga tra cristiani; o si pensi a rapporti tra ebrei e massoneria, ancor oggi più oggetto di fantasticherie che di accurate ricerche storiche.

C’è dunque ancora molto da indagare. Nel volume di Maifreda abbondano le domande e le questioni aperte, segno che tale impostazione va nella direzione giusta.

 

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