San Francesco: adolescente, arlecchino, teppista

Un estratto dal nuovo libro di Franco Cardini

Figlio, santo, poeta, cavaliere, riformatore. San Francesco è stato tutto questo e anche molto di più: senza dubbio la più grande figura religiosa e spirituale della storia italiana. Come in un caleidoscopio, la sua vita ci permette di comprendere meglio gli uomini e le donne del medioevo: qui un estratto da L’avventura di un povero cavaliere del Cristo, il nuovo libro di Franco Cardini.

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L’età di Francesco in quel torno di tempo corrispondeva a quella in cui, nelle tradizioni cavalleresche allora in uso in Europa – che, intendiamoci, variavano di luogo in luogo e di tempo in tempo: ma non troppo –, il domicellus compiva il suo tirocinio per giungere infine a ricevere la cintura di miles. In una società in rapida evoluzione, egli apparteneva a un ceto potenzialmente ascendente, con l’ambizione e la necessità di adeguarsi al rango e al «genere di vita» dell’oligarchia consolare, costituita dopo i fatti del 1198 in tutto o in massima parte di populares: al di là della nascita o degli averi, quel gruppo emergente o prominente era infatti caratterizzato dalla diffusione delle forme culturali, cioè di un «genere di vita» aristocratico.

Si stava in quegli anni, tra la fine del XII e i primi del XIII secolo, assistendo a un processo d’integrazione tra ceti sociali diversi che senza dubbio non escludeva – al contrario! – attriti, tensioni e addirittura violenze, ma che era favorito da una sostanziale omogeneità culturale e politica delle aristocrazie cittadine e del ceto dominante d’origine popolana, presupposto del quale era la penetrazione del costume, della cultura e del «genere di vita» cortesi-cavallereschi in ambienti quali quelli «dei notai e dei giudici che frequentavano gli Studi e le corti signorili, e dei mercanti che vivevano accanto ai nobili nelle cariche cittadine, nelle società e nell’esercito comunale».

Il figlio del mercante Pietro di Bernardone – abbastanza colto, dotato senza dubbio di parecchio fascino personale nonostante l’aspetto fisico non prestante, soprattutto ricco abbastanza da fare le spese per tutta una «brigata» di giovani gaudenti – aspirava non solo a vivere nobilmente, ma addirittura a far proprio il modus cogitandi del ceto al quale intendeva socialmente assimilarsi: al punto da divenire per i suoi compagni, membri naturali di quel ceto, maestro di tale modus, interprete di cortesia e di «gaia scienza». Sapeva cantare, suonare, danzare, corteggiar le donzelle dei casati dei boni homines suoi amici o clienti (e debitori?) di suo padre; aveva viaggiato, lui figlio di mercante, più dei figli dei milites, l’orizzonte dei quali era incollato alla torre avita e alle colline circostanti; conosceva forse un po’ gli idiomi oltralpini; sapeva abbastanza di Carlo imperatore, di Rolando, della Tavola Rotonda. E la sua passione per la dignità cavalleresca lo avvicinava al personaggio forse più affascinante della letteratura arturiana: a quel Perceval che forse egli conosceva nel nome attribuitogli dal romanziere Chrétien de Troyes, al «puro folle» il cui unico amore – racconta il Conte du Graal che gli è dedicato – sono i cavalieri e che, incontrandone alcuni nel bosco, li crede angeli. Né il padre lesinava il suo denaro per favorire i sogni cavallereschi del figlio, che a suo avviso avrebbero potuto tradursi in termini concreti e cittadini di ascesa sociale, prestigio, buone amicizie e scelta clientela, magari anche di nobile accasamento. Quello era del resto un tempo di nuovi ricchi non meno che di nuovi poveri: come il cavaliere caduto in miseria al quale Francesco, ripetendo un gesto tradizionale di cortesia, avrebbe donato come vedremo il ricco mantello che indossava.

Ma questa prima fase della carriera del giovane, brillante figlio del mercante Pietro fu interrotta dalla forza degli eventi. Nell’ottobre del 1201 le milizie di una lega formata dagli abitanti di Foligno, Assisi, Spello, Bevagna, Nocera e Fabriano mossero contro la città dominante dell’area, Perugia, dove avevano trovato rifugio da ormai tre anni i boni homines assisani costretti o indotti a scegliere la via dell’esilio. Tra gli esuli, volontari o meno, poteva esserci la potente consorteria dei signori di Sasso Rosso e di Coccorano, figli di messer Offreduccio di Bernardo o Bernardino, ch’era già morto nel 1177. Capo del casato era adesso l’irruento messer Monaldo, sire di Coriano; accanto a lui il fratello Favarone, che dalla moglie Ortolana aveva avuto la figlia Chiara, una bambina di circa sette anni quando scoppiò il conflitto. Per la verità, non vi sono fonti sicure ad attestare che dopo il 1198 anche la famiglia di Monaldo si fosse trasferita a Perugia, raggiungendovi gli altri aristocratici assisani in esilio: ma la cosa è tutto sommato verosimile. Quanto a Favarone, sullo scorcio fra i due secoli era con molta probabilità già venuto a mancare.

Francesco partecipò attivamente al conflitto, in particolare al forse modesto episodio della battaglia di Ponte San Giovanni presso Collestrada nel 1202, a metà strada fra Perugia e Assisi. Possiamo immaginarcelo armato ed attrezzato come un cavaliere, anche se nessuno lo aveva mai armato miles? Nel regime podestarile gestito dai boni homines i populares erano esclusi dalla militia, anzi, a rigore non facevano neppure parte del commune: quindi la presenza di un popularis in armi e a cavallo tra giovani boni homines non sarebbe stata de iure ammissibile. Tuttavia ciò poteva de facto ben accadere sulla base di rapporti d’amicizia e di accordi interfamiliari: quale pater familias d’illustre lignaggio avrebbe rifiutato una cortesia del genere al figlio di un suo creditore (dal momento che una delle attività di Pietro di Bernardone doveva con ogni probabilità essere anche quella feneratizia)? D’altro canto, certe esclusioni formali dovevano essere venute a cadere con il moto del 1198.

Comunque gli assisani e i loro alleati ebbero la peggio: nobili e non-nobili furono catturati insieme. Ma in quali circostanze, francamente non lo sappiamo: davvero in combattimento? In tal caso bisogna acconciarsi all’idea che il giovane mercante che amava abbigliarsi da arlecchino avant la lettre, cucendo secondo un bizzarro uso cortese pezze di stoffa ruvide e rozze su abiti preziosi, dopo aver giocato al nobile cavaliere per le vie e per le strade di Assisi abbia anche impugnato le armi e magari perfino ucciso. A meno che non s’ipotizzi una cattura verificatasi non in battaglia, bensì durante qualche fortunato raid di nobili perugini (guidati, perché no?, da assisani esuli in Perugia e desiderosi di rientrarvi) vòlto a catturare ostaggi di qualità per usarli come oggetti di scambio. Una ragione di più perché i perugini e i loro alleati assisani badassero bene a tener Francesco segregato dai populares sistemandolo piuttosto insieme con gli aristocratici e comunque con gli «ospiti di riguardo», merce preziosa da restituire intatta a chi avesse pagato il riscatto. Gli sconfitti rimasero a quanto pare prigionieri almeno un anno. Chissà se a Perugia Francesco ebbe modo d’incontrare in qualche modo qualche giovane appartenente alla cerchia dei maiores che poteva già aver conosciuto al tempo delle liete brigate assisane, per quanto se ne fosse poi andato in esilio col padre in seguito ai fatti del 1198: alludiamo a Rufino, cugino di Chiara.

Anche durante la prigionia le doti di generosità e di cortesia del figlio di Pietro di Bernardone ebbero comunque modo di palesarsi: e l’esperienza fatta con i milites assisani, proprio per la sua durezza, rinsaldò vecchie amicizie e forse ne creò di nuove. Ciò dovette riempirlo di gioia e d’orgoglio, mentre schiudeva dinanzi a lui anche prospettive che non si sarebbe aspettato.

Infine un accordo tra maiores e minores, nel novembre 1203 – ne è espressione la carta pacis – portò alla liberazione dei prigionieri assisani. Ciò non risolveva ancora del tutto il conflitto con Perugia né sopiva le lotte interne; ad esse si aggiungeva anzi, poco dopo, l’interdetto papale sulla città, fulminato e poi ritirato nel fatale 1204, l’anno della presa crociata di Costantinopoli. Ad ogni modo la sia pur problematica convivenza cittadina tra maiores e minores riprese: e con essa anche quella che sembrava la bella vita delle societates iuvenum, forse turbata sempre più dalla fatale dinamica delle violenze e delle faide ch’erano in realtà fisiologiche rispetto alla loro natura «gioiosa» – una «gioia» fatalmente materiata di prepotenza, di violenza, di sopruso –, ma anche suscettibile di riconciliazioni e di nuove alleanze che a quelle violenze erano funzionali anziché contrapposte. Al di là delle spettacolarizzazioni festose e festive, i comitatus feudosignoriali e le societates o «brigate» cittadine, con i loro riti e le loro insegne, si presentavano e si comportavano secondo moduli che sul piano storico sembrano singolarmente statici e monotoni, mentre su quello antropologico mantengono una formalizzazione straordinariamente coerente in culture differenti tra loro al di là della loro apparente anomia: i mitici, semiferini gandharva vedici, precursori dei centauri ellenici, sono divini teppisti non meno dei fin troppo umani destructores descritti da Agostino d’Ippona, dei nobili attaccabrighe Montecchi e Capuleti della Verona comunale reinterpretati da Shakespeare, degli Hell’s Angels di Chicago, degli Hooligans di Liverpool, dei Bloods e dei Crips dei Colours della New York o della San Francisco del Novecento, dei čelovieki delle cosche mafiose dell’Arbat di Mosca, dei ragazzi della «Triade» di Hong Kong o della «Yakuza» di Tokyo, dei «guagliuncielli» della Gomorra di Scampia o dei «picciotti» di Palermo. Non per nulla simboli «medievali», o «religiosi», o immaginati come tali, circolano ancor oggi – anzi sono in pieno revival – in tutte queste «società di giovani».

 

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