Turisti per forza. Dal Grand Tour al Louvre.

Alberto Mario Banti per “Le smanie per la villeggiatura”

È Alberto Mario Banti a chiudere  “Le smanie per la villeggiatura”, la rubrica estiva della pagina Facebook Lezioni di Storia Laterza.

Domenica dopo domenica, la rubrica ha accompagnato i lettori alla scoperta del significato delle ‘vacanze’ e dei viaggi in diverse epoche e contesti storici, dall’antica Roma alla Germania della DDR, dai Greci dell’Odissea al Medioevo, fino all’avvento del turismo di massa, con gli scritti di Simona Colarizi, Alberto Mario Banti, Laura Pepe, Massimiliano Papini, Maria Giuseppina Muzzarelli, Alessandro Marzo Magno e Gianluca Falanga.

 

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Turisti per forza. Dal Grand Tour al Louvre

Alberto Mario Banti

 

All’origine di tutto c’è il tempo libero. Che non è un dato di natura. È un capitale sociale, che alcuni possiedono e altri no. Chiariamo meglio: in epoca medievale e moderna, il tempo libero è un privilegio delle classi alte, e in particolare delle nobiltà. Fa parte dell’insieme delle loro prerogative. E c’è un tempo libero quotidiano (una parte della giornata dedicata alla lettura, o alla conversazione, o alle visite, o alla caccia); un tempo libero stagionale (in particolare le vacanze estive, quando ci si allontana dalla città e ci si ritira in una fresca villa di campagna); e un tempo libero educativo: questo è il tempo che si dedica al «grand tour», un viaggio per i principali luoghi d’arte e di cultura dell’Europa, la matrice originaria del turismo culturale in senso proprio.

Dopodiché ci sono le differenze economiche e sociali. In epoca medievale e moderna viaggiare costa molto, sia che si faccia un viaggio relativamente breve – tipo: dalla città di abitazione alla villa di campagna –, sia, soprattutto, che si faccia il «grand tour». Ecco, questo sì che è un viaggio complicato e costoso! Partire da Londra per andare a Parigi, e poi a Baden Baden, e poi a Venezia, e poi a Roma, in un’epoca in cui si viaggia su carrozze a cavalli, o in navi a vela, è un’operazione che richiede capacità di organizzazione (evitare le strade pericolose e i briganti che vi stazionano è essenziale!), che richiede tempo, e che richiede un sacco di soldi. E così, fino grosso modo al XVIII secolo sono quasi solo i nobili che viaggiano per scopi ricreativi ed educativi. Ma poi arrivano grandi cambiamenti. Che sono di quattro tipi.

I cambiamenti politici: le radicali trasformazioni che hanno inizio alla fine del XVIII secolo con le rivoluzioni americana e francese, mutano la struttura delle gerarchie sociali, e cancellano in gran parte i privilegi legali e una cospicua parte delle ricchezze delle famiglie nobiliari; adesso altri soggetti sociali si fanno avanti e sono in grado di accumulare le risorse economiche che permettono viaggi e vacanze.

I cambiamenti sociali: il primo gruppo sociale ad emergere, nel corso del XIX secolo, è quello che raccoglie il variegato mondo delle borghesie: persone che vengono da famiglie non nobili, che si fanno strada nel commercio, nell’industria, nelle libere professioni, nella funzione pubblica, e che sono in grado di regalare alle proprie famiglie (tipicamente mogli che fanno le casalinghe, figli e figlie) il tempo libero necessario per ricrearsi e viaggiare. Ma poi ci sono anche altri gruppi sociali, sotto-privilegiati, operai delle fabbriche, contadini, braccianti, il cui numero cresce nel corso del XIX secolo, e che ingaggiano durissime battaglie con gli imprenditori e con gli Stati e le loro forze di polizia. Organizzati in sindacati, e poi – dalla fine dell’Ottocento – in partiti che allora si chiamano socialisti, usano lo strumento dello sciopero per chiedere salari migliori, orari meno disumani, condizioni di lavoro più sicure; e poi, in un percorso lungo che va dalla fine dell’Ottocento agli anni ’70 del Novecento, e con un timing che cambia da area ad area, lottano anche per avere il fine settimana libero, per avere periodi di riposo più lunghi e infine per assicurarsi una delle grandi conquiste della modernità: le ferie pagate. Tutto questo complicato percorso fa sì che tra Ottocento e Novecento non sia più un pugno di persone che si possono permettere di viaggiare per turismo o di andare in vacanza al mare o in montagna: ma sono numeri crescenti di persone, fino a raggiungere le dimensioni di massa, fino a coinvolgere una parte predominante della popolazione.

Inoltre ci sono anche i cambiamenti economici che sono numerosissimi e fondamentali, e troppi da poter essere ricordati qui; ma una dinamica di mutamento la si deve menzionare senz’altro, ovvero il progressivo miglioramento del sistema dei trasporti: dalla diffusione della ferrovia (anni ’30 dell’Ottocento), alla utilizzazione delle navi a vapore (fine Ottocento), alla disponibilità delle automobili (inizio ‘900) e poi degli aerei per trasporto civile (soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale), con costanti ondate di innovazioni tecniche e organizzative che consentono un abbassamento dei prezzi, tale da rendere progressivamente disponibili i nuovi mezzi di trasporto anche ai «social newcomers» (borghesi; ceti medi; classi operaie).

Infine contano anche le strategie della distinzione. Non tutti i luoghi di vacanza sono uguali e non tutte le vacanze valgono allo stesso modo. Intanto perché ci sono dei mutamenti culturali che cambiano radicalmente il significato sociale dei luoghi. Per esempio, fino alla fine dell’Ottocento l’esposizione alla luce del sole per le classi alte è una sorta di anatema; avere la pelle abbronzata, significa essere di classe bassa, significa dover lavorare per lunghe ore all’aperto, come i contadini, gli scaricatori di porto, i manovali. Dunque non si va al mare (le spiagge sono luoghi selvaggi e inospitali) e quando si va in campagna si usano cappelli a larghe tese e, per le signore, dei deliziosi ombrellini da sole, in modo da conservare un incarnato latteo, che è la massima aspirazione estetica. Se proprio si deve fare una vacanza salutare, si va nelle numerosissime stazioni termali, dove si raduna il «bel mondo» dell’Europa ottocentesca. Ma poi, sul finire dell’Ottocento, le nuove teorie seguite da medici che cominciano a prescrivere l’elioterapia (l’esposizione al sole per finalità curative) o la talassoterapia (i bagni di mare per la stessa finalità) fanno sì che le località di mare comincino ad essere ambìti luoghi di vacanza, soprattutto estiva, attrezzati con alberghi, resort, ristoranti e stabilimenti balneari. Poi, la voga della cura corporea e dello sport praticato apre la strada anche alle località alpine, che nel corso del Novecento diventano un luogo privilegiato di esibizione della propria preminenza sociale, anche in ragione del costo delle attrezzature per fare alpinismo, e ancor più sci alpino. Tutte queste trasformazioni aprono la strada al turismo di massa, che tutti abbiamo sperimentato (o sperabilmente, stiamo tornando a sperimentare).

È divertente, il turismo? Da un lato, sì, di sicuro. Niente è più bello che starsene sdraiati in una spiaggia assolata con una bella bevanda fresca in mano: è lì che uno realizza appieno il significato di «vacanza»: un tempo vuoto, un tempo senza impegni, e soprattutto, senza l’ansia del lavoro.

Sono faticose le vacanze? Accidenti, sì! I viaggi di trasferimento sono un incubo, e chi dice il contrario mente sapendo di mentire. Solo gli stra-super-ricchi possono permettersi località super-esclusive con trasferimenti comodissimi e personalizzati. E con ciò è un po’ come se si ritornasse al Medioevo o all’Età moderna. Mentre la massa si conquista le vacanze che può, le nuove nobiltà (sportivi strapagati; star della televisione o del cinema; imprenditori di successo) godono di spazi privilegiati e inaccessibili ai più, ma molto esibiti grazie ai social, questa nuova arma di intimidazione di massa.

E poi ci sono le vacanze culturali, croce e delizia di chiunque (più croce che delizia, temo). La fatica del gran tour dei tempi moderni è descritta con una stupefacente lucidità già nel 1866 da Trollope, che nei suoi Travelling Sketches scrive dei gruppi di turisti in viaggio per il mondo: «Il pater familias sa fin dall’inizio che non si divertirà, e già vorrebbe avere terminato il viaggio ed essere libero di tornare al suo club. La mamma ha il terrore del viaggio, che le procura più apprensione che un senso di piacevole aspettativa. Non è molto felice quando papà è arrabbiato e lui di solito lo è quando si sente a disagio. Poi la gente nelle locande è spesso incivile, e lei ha orrore dei letti! E le ragazze non prevedono grandi soddisfazioni. Sanno che le attende un duro lavoro, e la paura di fare sbagli in francese non le rallegra. Ma bisogna pur partire. Non avere visto Firenze, Roma, Monaco e Dresda, non sentirsi perfettamente a proprio agio sul Reno, non essere saliti sul Rigi o avere parlato con gli scalatori alpini a Zermatt, significa essere fuori moda». E anche oggi, per le masse di turisti vaganti, dietro la guida con la bandierina che si trascina il gregge sudato per le strade di Firenze, o Venezia, o Parigi, o Madrid, l’obiettivo è poter raccontare poi al ritorno di aver fatto anche loro ciò che fanno tutti; magari senza capire nulla di ciò che hanno visto, o senza ricordare nulla in dettaglio; ma con la soddisfazione di poter ammorbare il prossimo con la proiezione delle slides nel salotto di casa, circondati dagli amici affranti; oppure inondando i Facebook altrui con le loro meravigliose fotografie: cosa non si farebbe per un selfie!

In più ci sono i disastri della cultura di massa. «Ha fatto più danni Dan Brown di un branco di vandali»: a questa sconsolata considerazione mi abbandonavo qualche tempo fa (in un periodo abbondantemente pre-Covid) durante una mia visita al Louvre. Lì, arrivato nella sala che ospitava la Gioconda, mi sono imbattuto in un fittissimo assembramento (… lessico odierno…), composto da persone di tutte le età e di tutte le provenienze, che si accalcavano davanti al quadro. C’era chi cercava di sollevare oltre le teste di chi stava davanti un telefonino, per scattare una foto. E c’era chi chiacchierava animatamente. Ma i commenti erano mediamente desolanti, tipo (giuro): «Ovvia, ora che s’è visto questo Michelangelo, si può anch’andar via» (pronuncia toscana, priva di ogni ritegno, persino nelle sonorità). Pochissimi degnavano di una pari attenzione gli altri quadri presenti nella sala, o nel corridoio, o nelle altre sale vicine. E dire che c’erano capolavori di una bellezza travolgente, dal Concerto campestre, di Tiziano (o Giorgione), a Sant’Anna con la Vergine e il Bambino, dello stesso Leonardo, a un’infinità di altri quadri di un’intensità estetica e culturale travolgenti. Dan Brown, quindi. E il suo stramaledetto Codice da Vinci. Ma di certo non tutte le responsabilità sono sue. Se uno si sposta al Musée d’Orsay, e ama gli impressionisti, e li conosce, e vorrebbe soffermarsi davanti ai capolavori che lì sono conservati, deve attendersi un’altra delusione: le sale riservate a quei pittori sono gremitissime di visitatori (… un altro assembramento… ancora!!!); il chiacchiericcio multilingue è incontrollato; le persone sembrano – nella maggior parte dei casi – avere lo stesso atteggiamento che potrebbero avere a Eurodisney: «Oh, toh, ecco Biancaneve!»; «Oh, toh, ecco il Déjeuner sur l’Herbe!»; e data un’occhiata più o meno distratta, via avanti, a riconoscere Elsa di Frozen o Olympia, che tanto fa lo stesso.

Troppo severo? Magari sì. Oppure: provare per credere, e poi ditemi cosa ve ne è sembrato.

 

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