La democrazia dell’ignoranza

Titti Marrone intervista Francesco Barbagallo

Barbagallo analizza gli imprevedibili processi messi in moto nel Novecento dal crollo dell’Urss alla Cina capitalista e l’attuale sovranismo farmaceutico

Titti Marrone | Il Mattino | 31 gennaio 2021

Uno sguardo sul passato per decifrare meglio i processi della contemporaneità, senza indulgere al «presentismo» ma con la sensibilità di uno storico capace di aggiornare la sua riflessione quasi in presa diretta: è nell’ultimo libro agile ma densissimo di Francesco Barbagallo I cambiamenti del mondo tra XX e XXl secolo. Lo studioso vi spiega di averlo concluso nella fatidica data del dannato anno bisestile, il 29 febbraio 2020. Non c’è stato il tempo di seguirne gli sviluppi, ma nel finale si segnala il cambiamento più tragico nelle quattro fasi analizzate, in una periodizzazione che va dal dopoguerra a oggi: la pandemia da Covid-19 contrassegnata dallo strapotere del capitalismo – o sovranismo – farmaceutico, che fa risaltare l’affievolita capacità reattiva di politica e democrazia. E allora vien fatto di chiedere a Barbagallo: com’è possibile in questo momento «porre al centro le relazioni umane», compito che richiama nell’epilogo?

«In un solo modo, cambiando il dominio sulle nostre vite del sistema capitalistico occidentale di cui lo strapotere farmaceutico è l’ultimo esempio», risponde lo storico. «Senza di ciò, non avremo alcuna ripresa delle relazioni umane e civili».

Lei descrive quattro fasi diverse in 75 anni, mai così tante prima d’ora. Il «secolo breve» descritto da Hobsbawm spezzetta la fine del ‘900 in due sottoperiodi, per poi proiettare anche nel terzo millennio l’ombra dello iato nel rapporto passato-presente?

«Non è tanto un rapporto con il secolo breve: è che da fine ‘900 si sono messi in moto processi imprevedibili che lo stesso Hobsbawm non poteva immaginare: il crollo dell’Urss che ha reso possibile la globalizzazione; la trasformazione della Cina in sistema capitalistico autoritario; la nascita di quello che Manuel Castells chiama il capitalismo informazionale; il terrorismo che dopo l’11 settembre ha prodotto l’accentuazione dei controlli con l’aiuto del web; il relativo passaggio al capitalismo della sorveglianza ben descritto da Shoshana Zuboff. Con situazioni prima presenti solo nei film: il riconoscimento facciale, le smart cities… E poi la democrazia dell’ignoranza, prima in Usa, poi in Europa. Con i giovani privi di coscienza del processo storico, immersi nel presente delle chat e dei telefonini. Fenomeni di cambiamento vorticosi di cui in Italia c’è poca coscienza perché siamo periferia dell’impero, per giunta immersi in questa crisi incredibile».

La prima crisi che analizza è tra il ‘45 e i primi anni ‘70, in cui la guerra fredda disegna due mondi contrapposti. Il bipolarismo conteneva in sé un principio di equilibrio?

«Certo, infatti è stato interpretato anche come un sistema di ordine, non più riprodotto perché gli Usa, prima con Bush, hanno tentato l’unipolarismo poi fallito. Ed è successo ciò che sappiamo, le guerre balcaniche, in Medio Oriente, nel Golfo… La guerra fredda oggi viene riconsiderata anche da liberali conservatori come Sergio Romano. Io colloco l’inizio della crisi nei primi anni ‘70, quando il rapporto della Commissione trilaterale afferma che la partecipazione dev’essere ridotta e che bisogna indurre l’apatia. Per cui ci ritroviamo una democrazia inesistente, il crollo della partecipazione alle elezioni, la politica come attività personalizzata da parte di individui che non saprebbero fare un altro mestiere e ricoprono pessimamente ruoli pubblici».

Gli anni della formazione dell’Unione Europea sono di grandi speranze ma sfociano nella crisi di sovranità dello Stato nazionale e nella globalizzazione, con l’emergere dei Paesi dell’area definita di Cindia. Dov’è la radice del fallimento di quel periodo, e delle prospettive legate all’Europa?

«Sta nel fatto che gli Stati costituenti dell’Europa, a parte forse proprio l’Italia, non hanno voluto spostarla oltre il piano economico. L’Italia ha fatto eccezione per via di una tradizione meridionalista e di quella legata a Spinelli che almeno nella sinistra ha sostenuto l’idea di Europa politica. Non lo hanno fatto Germania e Francia, orientate da interessi nazionali. Poi è venuta la tragedia dell’inclusione dei Paesi orientali, Ungheria, Germania, Repubblica Ceca. E il fatto che gli Usa avevano tutto l’interesse a impedire che l’euro diventasse moneta internazionale».

Ma la crisi e i cambiamenti più dirompenti sono nella quarta fase che lei descrive, della seconda rivoluzione digitale e del potere dei grandi Stati. Come si potrà gestire, se l’esito è l’aumento delle diseguaglianze e se anche le promesse di democrazia prospettate dalla diffusione del web appaiono tradite?

«La prospettiva del futuro è una retrospettiva del passato. Occorre ricreare un rapporto funzionale tra Stato e mercato. Intrecciarli, superando anche le pastoie in cui si sono invischiati gli eredi del Pci a un certo punto sedotti dall’idea che il mercato fosse democrazia, mentre sono due cose differenti. A Oriente si riorganizzano in tal senso, con forme autoritarie ma efficaci. In Occidente no, e in Italia lo Stato oggi appare dissolto con la riduzione della politica a trampolino personale. Viviamo attorniati dai suoi miserevoli protagonisti».

 

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