Licenziare gli eroi

“Noi schiavisti”, di Valentina Furlanetto: un estratto

Gli spaccapietre cinesi, i braccianti macedoni, le badanti ucraine, i rider africani, i bengalesi nei cantieri navali, gli allevatori sikh: attraverso le storie e le testimonianze di questi lavoratori emerge un paese che utilizza gli schiavi perché servono a tutti. Nessuno può chiamarsi fuori: né la politica, né i grandi sindacati, né le istituzioni, né i cittadini consumatori, né le aziende. Siamo tutti ingranaggi di questo meccanismo che sembra stare bene a tutti, ma mette tutti in pericolo.

>> Noi schiavisti. Come siamo diventati complici dello sfruttamento di massa, di Valentina Furlanetto, è un libro inchiesta durissimo. A seguire la storia di Cheickna Hamala Diop, una di quelle persone che, durante il lockdown, gli italiani chiamavano “eroi”. E poi?

 

Ci sono giornate che non si possono dimenticare. Il 7 maggio 2020 è stata una di quelle per Cheickna Hamala Diop, 26 anni, proveniente dal Mali, arrivato in Italia quando ne aveva dieci. “Quel giorno ci hanno licenziato su due piedi, a me e ad altri lavoratori.  Eppure dicevano che il nostro lavoro era prezioso, le famiglie degli ospiti erano contente.  D’altra parte questo non è un lavoro che uno fa se non ha passione, perché può essere faticoso e può non piacere. A me piaceva, lo facevo volentieri. Ma è andata così.”

Hamala sospira, guarda fuori, chissà a cosa pensa, forse ai suoi pazienti, forse a quando era bambino e correva a Bamako, in Mali, forse al giorno in cui è arrivato in Italia, forse al basket, che è la sua passione. Hamala non fa una professione qualsiasi, è un operatore socio sanitario, un Oss, una figura professionale che talvolta viene scambiata per un infermiere. Non lo è, ma è altrettanto importante negli ospedali e nelle case di cura perché si occupa di fornire assistenza a pazienti parzialmente o totalmente non autosufficienti sul piano fisico e psichico. È un lavoro faticoso, fisicamente e psicologicamente. È un lavoro prezioso. L’Oss è quella persona che aiuta anziani, disabili e malati a lavarsi, a vestirsi, a mangiare, a spostarsi dal letto alla sedia a rotelle, a girarsi perché non si formino le piaghe, parla con loro, li conforta, organizza attività di gruppo.

È una di quelle persone che, assieme a medici e infermieri, durante il lockdown gli italiani chiamavano “eroi”.

Da marzo a maggio 2020, durante il primo blocco, Hamala Diop oltre ai normali compiti, si è occupato anche di pazienti Covid. A qualcuno ha tenuto la mano nelle ore più difficili, a molti ha parlato per infondere coraggio, molti li ha lavati e vestiti. Prima di essere licenziato, quella mattina del 7 maggio, lavorava all’Istituto Palazzolo Don Gnocchi, una fondazione che gestisce diverse Rsa, residenze per anziani, a Milano. Hamala è stato licenziato perché ha denunciato pubblicamente le condizioni di lavoro ad altissimo rischio durante la pandemia, ad esempio il fatto che i lavoratori non potevano usare le mascherine e che non erano stati avvisati che c’erano dei casi di Covid all’interno della struttura. Al Don Gnocchi, una fondazione molto stimata nel capoluogo lombardo, nel periodo in cui lavorava Hamala ci sono stati 140 morti da Covid-19 e tutti i lavoratori che sono stati licenziati si sono contagiati.  Anche Diop si è ammalato a marzo ed è stato male per cinquanta giorni, era ancora ammalato il 7 maggio quando è stato raggiunto dalla “dichiarazione di non gradimento dell’azienda nei suoi confronti”, da un sommario procedimento disciplinare e dal licenziamento.

“Le negligenze che avevo denunciato erano tante – racconta Hamala – la più clamorosa era il divieto di usare le mascherine.  Anche se ce le portavamo noi da casa ci veniva chiesto di non usarle per non spaventare i pazienti”. È per queste denunce che Hamala e altri Oss che lavoravano nell’istituto sono stati mandati via. “Ho scoperto di aver perso il lavoro da una lettera”, racconta Hamala. “Nessuno me lo ha detto di persona, nessuno mi ha parlato, né quando mi sono ammalato né quando sono stato licenziato. Io sono l’unico che ha fatto questa fine fra i contratti a tempo indeterminato. Ad altri quattro colleghi che hanno denunciato come me, ma erano a tempo determinato hanno semplicemente risolto il contratto.  Altri ancora sono stati spostati.”

Ma facciamo un salto indietro nel tempo, torniamo a marzo 2020, all’inizio della pandemia in Italia. Il 14 marzo 2020 Hamala accende il telefono e sul gruppo Whatsapp che condivide con i colleghi scopre di essere entrato in contatto con dei positivi. La comunicazione che viene data loro il 14 marzo però è datata 10 marzo, quindi sono passati quattro giorni da quando l’azienda ha saputo che ci sono dei pazienti che hanno contratto il virus. “Noi usavamo le mascherine anche prima della pandemia, ad esempio quando dovevamo igienizzare le stanze. Ma da febbraio 2020 ci è stato detto che non dovevamo più utilizzarle. I capi dicevano che eravamo al sicuro e non ce n’era bisogno. Un giorno, a febbraio, doveva venire al Don Gnocchi un membro della dirigenza e quindi, prima che arrivasse, abbiamo dovuto togliere le mascherine, le abbiamo dovute mettere in tasca. Non abbiamo più potuto metterle fino a marzo, quando la cooperativa, il 14, ci ha fornito i dispositivi di sicurezza. Ma a quel punto i casi di positività all’interno della casa di cura c’erano già da un pezzo. Il 17 marzo ho fatto il tampone e il 20 marzo ho scoperto di essere stato contagiato.  Anche la fila per il tampone era gerarchica: prima i medici, poi gli infermieri, infine noi Oss.  Anche chi aveva fatto la notte, come un mio collega, doveva aspettare che prima venisse fatto il tampone ai medici.”

In una e-mail del 9 marzo i dirigenti del Don Gnocchi, i cui vertici vengono indagati a fine marzo 2020 per omicidio colposo e strage colposa per la morte di molti anziani e il contagio di molti operatori, parlano di “favorire la messa in ferie del personale che attualmente, e in vista delle intuite evoluzioni, possa non essere immediatamente utile, soprattutto se poco collaborante, VEDI AD ES. LA PRETESA DI ESSERE DOTATI DEI DPI ANCHE NEI CASI NON PREVISTI” (in maiuscolo nel testo originale).  L’e-mail è spedita dal direttore del personale Enrico Mambretti a una ventina di dirigenti, alla presidenza (don Vincenzo Barbante) e alla direzione generale (Francesco Converti) e ha come oggetto le linee di comportamento per la gestione e le presenze dei collaboratori in base al Dpcm pubblicato il giorno precedente, domenica 8 marzo.

Mambretti consiglia di mettere “il personale che tende a polemizzare o a volere i Dpi in ferie come sopra”. In pratica, chi chiedeva di lavorare con i dispositivi di protezione individuale veniva tenuto a casa. Chi era dipendente diretto della Fondazione stava in ferie, chi invece lavorava al Don Gnocchi, ma era in realtà dipendente di una cooperativa, veniva semplicemente lasciato a casa, in pratica licenziato. Ed è il caso di Hamala. […]

Rosa Melgarejo è un’infermiera di origini peruviane ed è la presidente dell’associazione Infermieri del mondo, che si batte per il riconoscimento dei diritti degli infermieri di origini straniere in Italia. “Una nostra collega quando ha chiesto le mascherine gliele davano solo per pochi giorni.  Questo è assurdo. Ma è stata una situazione che ha riguardato italiani come stranieri. Invece gli infermieri stranieri sono discriminati seriamente nei contratti. Perché se un infermiere non ha la cittadinanza italiana anche se ha studiato in Italia ed è iscritto all’albo non può partecipare ai concorsi e non può lavorare presso le strutture pubbliche. Questa è una discriminazione che non esiste negli altri paesi europei. Queste persone quindi vanno a lavorare nelle Rsa oppure nelle cooperative. E si sa come lavorano le cooperative.  Parliamoci chiaramente: questi infermieri sono mal pagati, spesso il 30% in meno. Uno degli scopi della mia associazione è di evitare che esistano infermieri di serie A e infermieri di serie B.” Eccolo servito il paradosso: da inizio emergenza per il Covid-19 le Regioni lamentano la carenza di personale sanitario, ma non fanno nulla per utilizzare gli stranieri in Italia, che spesso hanno studiato qui e sono iscritti all’albo professionale.  Piuttosto li vanno ad assumere dall’estero. Solo in Piemonte e nella città di Perugia nell’autunno 2020 le aziende ospedaliere hanno incluso nei loro bandi i medici stranieri residenti.  Oggi in Italia ci sono 77 mila professionisti della sanità stranieri, tra questi 22 mila medici e 38 mila infermieri e poi Oss, fisioterapisti e farmacisti.

Anche in questo caso la pandemia ha solo scoperchiato un pentolone che ribolle da anni, un pentolone fatto di ingiustizia e para-schiavitù. Come spiega Hamala Diop, per gli infermieri impiegati nel Sistema sanitario nazionale con il rinnovo del contratto nel 2018 (quello del triennio 2016-2018) la retribuzione mensile (lorda) è pari a circa 1.922 euro mensili. Per un infermiere assunto da una Onlus o cooperativa si parte da un minimo retributivo di 1.000 euro mensili. I problemi emersi durante il lockdown, ancora una volta, sono solo la punta di un iceberg, immenso, profondo, radicato nella realtà lavorativa italiana. La maggioranza di queste storie non emerge affatto perché le persone hanno paura di denunciare perché temono di perdere il lavoro, perché sono minacciate dai loro capi, perché non hanno diritti.

 

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