I 500 giorni più folli di Napoleone Bonaparte

Corrado Augias legge Luigi Mascilli Migliorini

Corrado Augias, la Repubblica, 8 aprile 2016

La sera d’inverno in cui Napoleone Bonaparte lascia il suo minuscolo regno all’isola d’Elba per la più ardita, e insensata, delle sue avventure, sul suo scrittoio rimane aperto un libro: Storia del regno dell’imperatore Carlo V; è l’uomo che aveva costruito un impero grande come due continenti e che, sentendosi vecchio, aveva trovato rifugio in un convento. Una frase avrebbe attirato l’attenzione di chi vi avesse gettato un’occhiata: «Discendere volontariamente dalla condizione più elevata ad una subordinata, abbandonare il possesso dell’autorità per vivere felici, sembrano sforzi troppo grandi per l’animo di un mortale». Infatti Carlo V vi riuscì, Napoleone no – anche se entrambi finirono i loro giorni in un’età precocissima: Carlo a 58 anni, il Corso a 52.

Il saggio-racconto di Luigi Mascilli Migliorini (Storia moderna all’Orientale di Napoli) analizza proprio questo arduo passaggio: in che modo e attraverso quali vicende – come sempre leggendarie – Napoleone Bonaparte scelse di terminare il suo ciclo politico e militare. Titolo: 500 giorni. Napoleone dall’Elba a Sant’Elena (Laterza).

Dopo il disastro della campagna di Russia (1812), la sconfitta di Lipsia (ottobre 1813), il crollo dell’impero, Napoleone aveva tutti contro: Russia, Prussia, Austria, Svezia, Gran Bretagna. Il suo ciclo è finito; all’interno della stessa Francia s’è dissolta la compattezza che ne aveva accompagnato l’ascesa: le istituzioni si ribellano, i marescialli imperiali tradiscono, i nobili da lui creati gli volgono le spalle, perfino Gioacchino Murat passa al nemico per mantenere il regno di Napoli. Gli eserciti della coalizione invadono la Francia, il 31 marzo (1814) entrano a Parigi. Dopo un’ultima strenua (e, pare, geniale) resistenza, si ritira a Fontainebleau, chiede la pace, abdica, si congeda commosso dalla Guardia imperiale, parte in carrozza per l’esilio dell’Elba. Lungo il percorso s’imbatte in accoglienze contrastanti. C’è chi, riconosciutolo, grida Vive l’Empereur!, chi scaglia ingiurie e qualche sassata. L’ultimo tratto lo farà rivestito di un’uniforme austriaca per sfuggire alle manifestazioni più ostili. Circostanza che a noi italiani ricorda un’altra fuga dissimulata sotto un’uniforme straniera. Il 3 maggio (1814) sbarca a Portoferraio; nello stesso momento Luigi XVIII di Borbone fa il suo ingresso a Parigi, riprende possesso del trono. Appena la notizia della fuga è nota, nel continente si diffonde grande inquietudine. Le diplomazie europee si mettono al lavoro per preparare un Congresso che ristabilisca l’ordine dopo una bufera durata quasi vent’anni. I delegati si riuniranno a Vienna in autunno, la seduta inaugurale avverrà il 5 novembre.

Si può immaginare con quale animo dopo vent’anni di gloria chiusi da sconfitte, tradimenti, angustie anche private, il Grande Corso metta piede in quella caricatura di regno. La sua residenza (Palazzina dei Mulini) è poco più di un casale, la fa restaurare nel tentativo di nobilitarla. Riceve la borghesia isolana, progetta qualche modesto lavoro pubblico, studia perfino i cerimoniali di corte, su scala ovviamente minima. Offre l’apparenza di un pacato ritiro dal mondo, ma in realtà non si rassegna, progetta, riceve misteriosi emissari, smania. Solo la contessa polacca Maria Walewska, la più tenera delle sue amanti, gli darà per qualche giorno effimero conforto. Nonostante gli inglesi lo tengano d’occhio riesce a far allestire un brigantino che, scortato da una minuscola flottiglia, la sera del 26 febbraio 1815 lascia l’isola e fa vela su Golfe Juan in Provenza da dove lancia un altro dei suoi veementi proclami: «L’aquila con i colori nazionali volerà di campanile in campanile fino alle torri di Notre Dame».

A mano a mano che la minuscola armata risale il territorio, nuove truppe s’aggiungono; i reparti inviati a contrastarlo s’ammutinano per unirsi ai “ribelli”, la stessa titolazione dei giornali, sempre più calorosa con il proseguire dell’avanzata, rispecchia – apparentemente – il favore popolare. Si racconta di dame che, appena riconosciutolo, vengono meno dall’emozione. Tappe grandiose anche di 80 chilometri in un giorno lo portano velocemente a Parigi: il 20 marzo s’installa alle Tuileries. Qui comincia la parte più bella e interessante del saggio anche perché si tratta di avvenimenti meno conosciuti che l’autore indaga con gusto e competenza. Napoleone cerca di riorganizzare il “suo” Stato. L’apparente trionfo ora mostra però le sue debolezze, lo storico Edgar Quinet sintetizza: «Napoleone e la Francia si guardarono in faccia e si trovarono cambiati. Fecero fatica a riconoscersi l’un l’altro». Come chiamare Napoleone? non più imperatore non ancora re, usurpatore? Qualche che sia ora deve formare il governo, progettare una costituzione che dia legittimità alla sua inedita veste. L’eterno Fouché, uomo per tutte le stagioni, si fa sotto; vorrebbe gli Esteri, ma sono appannaggio di Talleyrand intrappolato a Vienna come rappresentante di Luigi XVIII; allora ripiega sugli Interni, cioè la polizia. Napoleone lo conosce e ne diffida ma gli consigliano di prenderlo «convinti che la sua nomina rappresenti una possibilità di controllo sul mondo legittimista». Sono giorni in cui, scrive l’autore, «un vasto suggestivo confronto di idee politiche attraversa la Francia». Benjamin Constant mette la sua sapienza politica e giuridica al servizio del Corso nel tentativo di modellargli addosso una costituzione con un ben studiato equilibrio di poteri. Gli obiettano: «È incredibile che Napoleone si limiti facendosi garante dell’equilibrio tra poteri che il costituzionalismo liberale attribuisce al sovrano».

Giuste preoccupazioni che girano però intorno al vero nocciolo del problema. D’accordo la costituzione, ma ciò che veramente egli vuole è la guerra. Scrive Migliorini: «Dopo tante catastrofi militari e i giorni oziosi all’Elba, la guerra tornava ad apparirgli la scelta naturale, quell’universo nel quale muoversi con la disinvoltura che l’aveva accompagnato fin dalla giovinezza». Il cuore politico dei cento giorni è chiuso nel periodo tra aprile e giugno del 1815. Ancora l’autore: «Le esitazioni, gli errori, le ingenuità di quelle settimane ritrovano il senso di un’esplorazione in terra incognita e la forza di una lezione di modernità politica». Anche se a Vienna si lavora alla sua fine, quando si spande la voce delle sue intenzioni, il re di Baviera, al tavolo del Congresso, si lascia andare ad un imbarazzante relâchement des entrailles. Con più sobrietà il re di Prussia a chi grida «Bisogna impiccarlo!», replica: «Certo, ma prima bisogna prenderlo».

Il culmine di questa fase, benissimo raccontata, è la radunata al Campo di Marte dove Napoleone arriva su un lussuoso equipaggio tirato da otto cavalli bianchi, salutato da salve di artiglieria. Dal cocchio scende un sovrano da operetta infagottato, riferiscono i testimoni, in una tunica di taffetà cremisi e oro, un mantello viola ricamato, pantaloni di satin bianco e scarpini anch’essi di satin. Se ne sta lì annoiato e insofferente mentre ascolta la messa, i discorsi, le celebrazioni. Infine può rivolgersi ai suoi soldati e lì, riferiscono sempre i testimoni, ritrova finalmente se stesso: li accende, li commuove, li fa suoi. Poi sarà Waterloo con la sua fatalità, gli equivoci, il cattivo tempo, la disfatta, l’esilio, la lunga agonia di Sant’Elena. Chissà se, almeno a quel punto, il convento dove s’era ritirato Carlo V gli sarà apparso come la soluzione che sarebbe stato meglio scegliere.

 

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