“Vitti un aciddazzu che sbatteva l’ali”

Un estratto da “Targa Florio”, il nuovo libro di Francesco Terracina

La Sicilia meno nota, quella lontana dalle coste più affollate e dalle celebri città barocche, è l’imprevisto palcoscenico di una vera e propria epopea. Protagonista: la gara automobilistica più antica al mondo. Ecco un estratto di Targa Florio. Le Madonie e la gara più bella, il nuovo libro di Francesco Terracina, accompagnato dalle splendide immagini d’archivio per le quali ringraziamo Targapedia.com.

 

Tutto era cominciato il 6 maggio 1906.

La corsa voluta da Vincenzo Florio fu disputata tra il mare e le montagne, tra l’azzurro del Tirreno e il bianco candido dell’alta quota, dove col primo caldo si spalava la neve per farne commercio del refrigerio. Neve portata dai carretti, dentro sacchi isolanti di iuta e paglia, e consegnata nei palazzi dei signori. Quel battesimo dei motori diede ai muli un giorno di respiro e le strade accolsero cavalli vapore nascosti sotto i cofani delle dieci automobili arrivate in Sicilia dopo aver attraversato mari e monti. […] Nel racconto Morte di Giufà, pubblicato nel 1986, Gesualdo Bufalino dà un’idea di cos’era la Targa Florio delle origini:

La Corsa Grande, quella di cui chi sa leggere ha letto notizia su ogni intonaco, da Termini a Buonfornello. […] Giufà ne ha sentito parlare, di questi carri di ferro che corrono soli su quattro ruote, senza un mulo o cavallo che li tiri; e fanno rumore, e mandano lampi […] Allora corre incontro al nemico e non sa perché, corre incontro al diavolo a braccia aperte (Giufà, fermati, dove vai? Quell’ingegno di ferro non t’appartiene, l’hanno inventato gli altri contro di te, contro la tua felicità rusticana…), corre incontro al diavolo senza segnarsi, sente con ira e stupore le quattro zampe impennarglisi sopra e ricadergli sul petto, schiantargli le ossa, sbriciolargli insieme alle costole, nascosto fra pelle e camicia, il bottino d’una gallina… Era il 6 maggio 1906, giorno della prima Targa Florio, ma Giufà che ne sapeva?

Già, che ne sapeva il giullare della tradizione mediterranea? E che ne sapeva nel 1906 la popolazione contadina di quei luoghi? Sessant’anni dopo, la dimensione onirica, il senso d’irrealtà prodotto dalla kermesse sportiva, prevaleva ancora negli abitanti di quelle contrade.

Un episodio del ’66 rivela come il personaggio letterario Giufà avesse libero accesso al mondo reale.

 

 

In quell’anno Ignazio Capuano era in gara con una Carrera 6 della scuderia Pegaso, quando un guasto alla leva dell’acceleratore impedì al pilota di rallentare e con il motore al massimo dei giri finì fuoristrada inoltrandosi per quattrocento metri nella campagna. L’auto sparì tra le spighe di grano e si temette il peggio. Cominciò la ricerca, a cui prese parte anche il direttore della scuderia, Francesco Dessì, che si diede un gran da fare per individuare eventuali testimoni dell’incidente, qualcuno che avesse assistito a quel naufragio nel mare giallo oro dove il bolide bianco e piatto era sparito.

Dessì incappò in un contadino che gli disse d’aver visto qualcosa di strano passargli sulla testa, ma non era certo che si trattasse di un’automobile: “Vitti un aciddazzu che sbatteva l’ali” (Ho visto un uccellaccio che sbatteva le ali), raccontò. La Carrera 6 aveva gli sportelli ad ali di gabbiano, incardinati sul tettuccio.

 

 

[…] Se nelle campagne la Targa stentava ad attecchire, nelle città la manifestazione raccoglieva sempre più successo. Non va sottovalutato che nella cultura contadina il divertimento è un’invenzione del diavolo: sottrarre tempo ed energie al lavoro per vedere quattro macchine inseguirsi era un capriccio da cittadini, sempre propensi a dedicarsi all’ozio. E poi c’era da vigilare sui campi, scoraggiare l’orda di spettatori a intrufolarsi nei terreni per rubare la frutta. Vedere un agricoltore con la roncola in mano, mentre con lentezza si china a tagliare un ciuffo d’erba e con la stessa lentezza si rialza per osservare il punto da dove poteva arrivare il pericolo, era una scena consueta.

Ma anche i braccianti al lavoro vivevano la corsa, c’è da starne certi, purché non fosse esplicita la loro partecipazione emotiva, purché mogli e conoscenti non ne venissero al corrente. Se si spargeva la voce, c’era il rischio di finire nel girone dei lagnusi, cioè dei pigri, gli antagonisti dei massari, i laboriosi.

L’emozione contenuta ha un fascino cinematografico, e come accade sullo schermo, c’è un momento in cui esplode: basta attendere. Il mutare dei movimenti non è repentino. Il 14 maggio del ’67 l’uomo con la roncola s’era svegliato che faceva buio. Aveva riempito il tascapane con una focaccia fatta in casa, una spessa fetta di mortadella, un po’ d’olive sott’olio e una bottiglia di vino, il suo rancio. Tra un colpo di roncola e l’altro, si era acceso una Sax. La situazione chiamava fumo: era passata la prima macchina, poi un’altra e altre ancora. Negli intervalli di silenzio sentiva i primi commenti degli spettatori arrivati dalla città. Li si riconosceva perché portavano gli occhiali da sole, come non accadeva ai provinciali, costretti a strizzare gli occhi per seguire controluce il passaggio delle macchine. Dal punto in cui si trovava fece qualche passo verso il circuito. Finita la sigaretta, sputò sulle mani e riprese a falciare.

 

 

Ralf Stommelen fu il nome che gli ispirò più simpatia tra quelli gridati dagli scalmanati ai bordi del circuito: per quanto straniero, era facile da pronunciare e da ricordare, suonava un po’ come stormo. Provò a ripeterlo a bassa voce, mentre era chino, e l’esperimento funzionò. Stommelen gli dava l’idea di qualcosa che ruzzolava.

L’unico altro nome che conosceva era quello di Vaccarella, ma quell’anno era stato una meteora: dopo il primo giro non s’era più visto, per lo sgomento dei fan che lo chiamavano confidenzialmente Nino o Ninni, come se avesse fatto il servizio militare con loro. Saranno state le undici passate e il lavoro che aveva fatto si riduceva a ben poco. Per colpa di Stommelen, forse. Si diede una mossa e fece ancora qualche passo in direzione della strada. E lì trovò un’altra sorpresa: una giovane donna distesa sull’erba, le gambe un po’ scoperte, che prendeva il sole e leggeva un libro, come se la corsa non la riguardasse. Si chinò ancora, falciò altra erba e poi decise che era arrivata l’ora del pranzo.

Tornò indietro a prendere il suo tascapane, cercò un albero, non distante da una fila di spettatori, e con il coltello da innesto tagliò una fetta della pagnotta poggiandola contro il torace. La proporzione tra pane e companatico, da quando sua madre l’aveva istruito sulla questione, era un’oliva per ogni fetta, e per questo bisognava centellinare bene ogni boccone, prima di ripulire anche il nocciolo. Dalla bottiglia bevve un sorso di vino. Tagliò un’altra fetta e poi una minuscola porzione di mortadella, quanto mezzo dito. E la corsa passava.

 

Poi un giovane gli s’avvicinò e lo salutò. Stava andando a fare pipì. Al ritorno si guardarono e il contadino disse: «A favorire». Non si fa forse così con gli ospiti?

Lo sconosciuto si sedette accanto a lui e cominciò a dare fondo alle olive, fino a quel momento risparmiate a malincuore e invano, versando un po’ d’olio sul pane, come aveva visto fare al contadino. Poi chiamò i suoi amici, e anche la donna che prima se ne stava sdraiata. Arrivarono in cinque, forse sei. «A favorire», disse l’uomo con la roncola. E fu tutto un trangugiare e un parlare soffocato. In due tesero le braccia e lo tirarono su, insieme andarono verso la strada. «Chi vincerà?», chiese uno dei giovani. «Stommelen», disse il contadino mentre ripuliva il coltello sui pantaloni, negando a se stesso che era potuto finire in quella bolgia. La ragazza si era distesa di nuovo e aveva ripreso a leggere. Poi passò un’auto con un lampeggiante sul tetto, a segnalare che la corsa era conclusa, e gli spettatori si affrettarono a raggiungere le loro macchine. La più lenta a muoversi fu la giovane donna che nel frattempo si era addormentata con il libro che le copriva il viso. Il contadino accennò un saluto con la mano, ma lei ormai gli dava le spalle.

Il 14 maggio 1967 si correva l’edizione numero cinquantuno, vinse Stommelen.

 

 

 

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