Per un decalogo del gastronomo

Un estratto dal nuovo libro di Tullio Gregory, “L’eros gastronomico”

La disparità degli apprezzamenti sui vari stili di cucina e quindi i diversi giudizi sui ristoranti non sono dovuti solo – come ovvio – a una diversità di gusti e di sensibilità gastronomica, ma anche a diversi modi di concepire i princìpi di quella particolare forma di attività con la quale l’uomo trasforma prodotti naturali in prodotti culturali destinati al piacere della tavola (non quindi alla nutrizione, che risponde a una necessità biologica, in comune con le altre specie animali).

Senza pretendere di attingere alcuna universalità, sarebbe forse bene che chi fa cucina (intesa come manipolazione di prodotti e arte del convitare), e soprattutto chi ne scrive sulle varie guide e rubriche, indicasse sempre i princìpi che considera regolativi nell’esercizio della propria attività e ai quali si ispira nel fare, nel gustare, nel giudicare. Questo permetterebbe anche di comprendere la diversità di scuole e di giudizi. Per tentare solo di aprire un dialogo in questa prospettiva, dirò preliminarmente che considero il far cucina una scienza e un’arte: come scienza, essa ha regole certe e condivise, è un sapere normativo; come arte, essa ammette margini di «creatività», tenendo presente che questa è una dote assai rara, come nelle altre arti (il «creativo», l’artista vero, e non l’improvvisatore, compare raramente nella storia).

Per quanto attiene alla cucina – e all’arte del convitare – come scienza, cioè come attività retta da regole, possiamo tentare di proporne alcune: si tratta di princìpi regolativi e formali, che prescindono da singole preparazioni, ma dovrebbero indirizzare e orientare tanto la  manipolazione delle vivande quando i modi della loro presentazione.

 

Ogni cucina è legata al territorio:

essa deve quindi rispecchiare anzitutto le caratteristiche, le tradizioni, i prodotti, i modi del fare del luogo, storicamente e climaticamente determinati.

 

I cosiddetti piatti «mari e monti», la «cucina internazionale», la «cucina esotica», per ricordare solo alcune «mode», non appartengono alla scienza della cucina.

 

Le tecnologie moderne – di grande utilità – non possono sostituire i modi del fare tradizionale quando questi sono essenziali per la riuscita di una preparazione:

così il pesto genovese non può essere realizzato con il frullatore, ma con il mortaio (altrimenti la salsa dovrebbe chiamarsi «frullato» e non pesto); una purea di fagioli andrà passata al setaccio e non fatta con il frullino a immersione che non elimina le scorie; il forno a microonde non può sostituire le lunghe cotture; la chimica non sostituisce la natura: per esempio, il risotto alla milanese richiede zafferano in pistilli e non in polvere.

 

Ogni cucina ha i suoi grassi:

olio, lardo, strutto, burro (in alcuni casi midollo di bue): quindi in un sartù napoletano andrà usato lo strutto, per la cotoletta di vitello alla milanese il burro.

 

L’uso dei formaggi in alcuni primi piatti della cucina italiana deve rispettare le tradizioni di origine dei piatti stessi:

come nessuno userebbe il pecorino per delle fettuccine al burro, così non è ammesso il parmigiano reggiano sulla pasta con le melanzane alla siciliana o sugli spaghetti al pomodoro e basilico.

 

Il cuoco non è un medico né un farmacista:

non è suo compito preparare delle diete (a meno che non dedichi a queste un apposito menù), ma preparare piatti secondo norme che prescindono dal contenuto calorico e dai consigli dei dietologi.

 

In un ristorante il cliente è il soggetto non l’oggetto:

ciò significa che sarà sempre il cliente a determinare non solo la struttura del proprio menù, ma anche la misura delle porzioni. Ciò vale anche nei cosiddetti menù degustazione che possono suggerire scelte, non porzioni. Ne consegue che, salvo i casi in cui la preparazione di un piatto è necessariamente legata a un singolo pezzo (una spigola, un filetto di bue, di cui comunque andranno chiesti al cliente la dimensione e il peso), la porzione dovrà rispondere alla richiesta del cliente: per esempio un roast beef non sarà presentato in fettine sul piatto, ma intero in tavola e trinciato secondo lo spessore indicato dal cliente. Più in generale, quando è possibile (dagli antipasti ai contorni e ai dolci), il servizio dovrà presentare in tavola piatti da portata, non porzioni preconfezionate. Peraltro anche nel caso di un pezzo preparato singolarmente, come un pesce, dovrà essere chiesto al cliente se lo preferisce intero o sfilettato; non dovrà mai essere presentato sfilettato, perché al cliente potrebbe piacere la testa. Al contrario, il ristoratore dovrà rifiutare di servire tagli non rispondenti al dettato della scienza gastronomica: per esempio, nel caso in cui il cliente richiedesse una bistecca alla fiorentina sottile e ben cotta.

 

I piatti (da portata e individuali) di una preparazione calda devono essere rigorosamente caldi (in qualsiasi stagione), di temperatura non inferiore a quella della preparazione servita.

Se il piatto da portata presenta una preparazione calda, sarà appoggiato su uno scaldavivande.

 

Per i vini, non esiste la cosiddetta temperatura ambiente

(in ragione della quale un ristorante con stella Michelin mi ha servito a Milano nel mese di giugno un Lagrein a 25 gradi): ogni vino ha la sua temperatura, secondo tipologia e annata.

 

Salumi e formaggi hanno una loro temperatura ideale che non è mai quella del frigorifero;

i salumi, salvo eccezioni come per il culatello di Parma, devono essere tagliati a mano e non con l’affettatrice.

 

Le portate devono essere immediatamente riconoscibili e tali quindi da non richiedere la noiosa esegesi del cameriere.

Parimenti, il lessico del menù deve essere intelligibile a prima lettura: contro l’uso retorico e immaginifico di invertire i rapporti sintattici tradizionali, dando nomi di dessert a primi piatti o usando termini destinati al pesce per le carni e viceversa.

 

Altre norme e princìpi regolativi potrebbero essere indicati: ma tanto forse per ora basta. Ovviamente questi princìpi riguardano anzitutto i ristoranti e quanti formulano giudizi sui ristoranti stessi; ma possono essere validi anche per una cucina domestica, non di quotidiano sostentamento, ma pensata come un momento di piacere della tavola e del convito.

 

[«Grand Gourmet», 84, gennaio-febbraio 2001]

 

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