La Grande Diagnosi
Anestesia di primavera
Prima un quadro allegorico sui continenti, poi quella discutibile riproduzione della
Verità del Tiepolo voluta da Silvio Berlusconi, che in seguito, in nome di uno stile più
sobrio, Mario Monti aveva fatto sostituire con un semplice fondale azzurro, e al lato
solo la bandiera italiana e quella europea. Era cambiato non poche volte nel corso
degli anni il look della sala stampa di Palazzo Chigi. Ma quell’aspetto imperial-trash
da Caesar Palace che le aveva dato il Cavaliere grazie al tocco del suo art director
Mario Catalano (lo scenografo di Carramba! Che sorpresa), con i due specchi laterali che davano l’illusione di tre navate divise da due file
di colonne corinzie tutte di un abbagliante bianco lucido, era in gran parte rimasto.
Quel giorno di inizio primavera 2022, proprio a ridosso del fondale, era stato srotolato
un enorme telo bianco tra lo stupore di giornalisti, operatori tv e fotografi, già
sorpresi non poco per essere stati convocati alle otto del mattino. Nel paese si respirava
un’aria di speranzosa attesa: la pandemia non era ancora completamente alle spalle
ma dosi crescenti di vaccino avevano sicuramente accorciato la strada verso la sospirata
immunità di gregge. Il governo, presieduto da un premier «tecnico» e appoggiato da
una maggioranza che sembrava saper tenere a bada la propria litigiosità, era finalmente
riuscito a costruire e ad avviare un «piano di recupero» (meglio conosciuto come Recovery
Plan) all’altezza della situazione, non disperdendo le risorse in migliaia di micro-interventi
localistici e assistenziali, ma concentrandole razionalmente nei settori con maggiori
potenzialità di sviluppo. Quote crescenti di finanziamenti, a cominciare da quelli
a fondo perduto, erano state «prenotate» dalla cassa comune europea grazie ad una
paziente, faticosa e alla fine fruttuosa trattativa con Bruxelles. Tutte le migliori
arti diplomatiche erano state abilmente sfoderate dai nostri ministri tecnici per
convincere la Commissione europea a destinare all’Italia la prima tranche dei sussidi previsti: 45 miliardi, da impegnare entro la fine di quell’anno e da
spendere entro quello successivo. Le più importanti riforme, a partire da quelle del
lavoro, della sanità e della giustizia, erano state delineate. Il terremoto sociale
era stato in qualche modo tamponato. Insomma, sembravano esserci tutte le condizioni
perché l’Italia potesse uscire allo stesso tempo dall’emergenza sanitaria e da quella
socio-economica.
Sembravano esserci: già, perché quello che l’opinione pubblica tardava a comprendere,
ma che il premier aveva ben chiaro davanti a sé, era che, in realtà, di tutta quella
valanga di euro «prenotati» si riusciva a spendere solo una piccolissima parte. A
tanti bei programmi di investimento corrispondevano ben pochi cantieri aperti. Eppure
il governo ce l’aveva messa tutta. Il problema, ovviamente, era ben noto a Bruxelles,
ma la linea che si erano volute dare le istituzioni comunitarie era quella di aspettare,
di accordare ancora una buona dose di fiducia al nostro paese, di dar credito alla
nostra capacità di saper tradurre pochi grandi programmi in tante iniziative concrete
a favore di imprese e famiglie. La stampa nostrana, dal canto suo, accreditava la
convinzione che si fosse già a metà dell’opera nel grande piano di rilancio, e che
bastasse assestare qualche benefico scossone alla nostra pigra e lenta burocrazia
per farci fare l’ultimo tratto, per sbloccare il mare di risorse promesse nel quale
– primi in Europa – ci trovavamo a sguazzare.
Forse era stato proprio per questo atteggiamento di serena attesa che non si era dato
tanto peso a quell’episodio inverosimile avvenuto appena poche settimane prima. Nessuno
di noi riusciva a ricordarlo senza riderci su. In una luminosa mattina di gennaio,
un Robinson R22 – il modello di elicottero leggero più usato al mondo dalle scuole
di volo – era arrivato indisturbato sopra il centro di Roma e, sceso di quota in prossimità
di via Nazionale (non a caso), aveva cominciato a lanciare banconote da cento euro.
Si scoprì poi che ne aveva sganciate un centinaio, subito raccolte frettolosamente
dai passanti in una ressa sempre più caotica. Il pilota, arrestato poi dagli esterrefatti
agenti, era un raider di Borsa piuttosto noto, conosciuto più per le sue avventure
amorose che per le scorrerie finanziarie.
La vera sorpresa arrivò dalle motivazioni che lo avevano spinto a un gesto così stravagante.
Il finanziere voleva semplicemente mettere in pratica il suggerimento che cinquantatré
anni prima il padre del monetarismo, Milton Friedman, aveva proposto per far arrivare
direttamente il denaro nelle tasche dei cittadini. Un’idea – quella dell’Helicopter
Money – che lo accomunava curiosamente a economisti agli antipodi del neoliberismo,
come il marxista Yanis Varoufakis. Lo Stato italiano non riusciva a spendere i soldi
messi a disposizione dall’Europa? Ebbene – aveva pensato il raider playboy – io vi
dimostro nei fatti come si possa consegnare quel denaro direttamente alla gente, facendolo
piovere dal cielo ed evitando così di lasciarlo incagliare nei meandri della burocrazia
pubblica, o intercettare dalle avide strategie delle banche. Regalando ad una ristretta
e anonima umanità quei 10 mila euro, il tanto generoso quanto esibizionista pilota
aveva spogliato il progetto dell’Helicopter Money della sua veste metaforica, e prendendolo
alla lettera lo aveva realizzato con un gesto di indiscutibile stile dannunziano.
Quel gesto aveva sbalordito e fatto sorridere l’Italia. Il demenziale omaggio aveva
suscitato solo una gran simpatia; nessuno o quasi aveva cercato di capire il problema
che quel gesto aveva tentato di porre: l’incapacità italiana di spendere, nonostante
tutti gli sforzi compiuti dal governo.
Nella stragrande maggioranza, gli italiani non sembravano accorgersene o curarsene:
usciti esausti dal massacrante biennio della pandemia, grazie a dosi via via crescenti
di vaccino, non volevano pensare a nient’altro che non fosse l’attesa spasmodica di
poter uscire di casa, toccarsi, riabbracciarsi, organizzare gigantesche scampagnate,
cercare compagnia, affollare pub, ristoranti e discoteche. Insomma, l’euforia per
il progressivo esaurirsi del contagio si era accompagnata ad una comprensibile forma
di anestesia per i problemi, qualunque fosse quello che si presentava all’orizzonte.
Scansare e non pensarci: era scattata una specie di rimozione da dopoguerra, non accompagnata
tuttavia dalla consapevolezza di doversi rimboccare le maniche e ripartire, ma al
contrario dalla convinzione di aver maturato il diritto a un’infinita e passiva spensieratezza.
Il premier, da solo, senza i suoi ministri, se ne stava in piedi leggermente appoggiato
al grande tavolo bianco lucido bordato di azzurro, nascondendo parzialmente il simbolo
della Repubblica italiana: stella, ruota dentata e rami di ulivo e quercia.
Un trailer surrealista
I commessi di Palazzo Chigi avevano dunque finito di srotolare sul fondo della sala
quel misterioso telo bianco.
«Non temete,» disse il presidente del Consiglio, mentre le luci si abbassavano, «non
vi costringerò a vedere tutto il film».
Risatine imbarazzate si incrociarono a sguardi interrogativi su quella insolita trovata
cinematografica. E le immagini di un trailer ruppero il crescente brusio.
Quando, dopo una manciata di minuti, terminò la presentazione del capolavoro di Luis
Buñuel L’angelo sterminatore, il presidente dovette dare un surplus di spiegazioni sulla trama del film alla maggior
parte dei convocati, tutti sotto i quarant’anni e soprattutto poco ferrati in cinema
d’autore di stile surrealista. Un film tutto imperniato intorno a un’unica idea di
fondo: misteriosamente, alcuni inviati ad una cena fra amici alla fine della serata
non riescono più a uscire dalla villa che li ospita.
«Le stesse scene di questo capolavoro» disse alla fine, senza però fare minimamente
breccia nella comprensività dei presenti, «le ho fatte proiettare ieri durante il
nostro lunghissimo Consiglio dei ministri».
Dodici ore di Consiglio. Soltanto la riunione del 7 marzo 1993 sulla depenalizzazione
del reato di finanziamento illecito dei partiti era durata di più – un giorno e mezzo
–, ma almeno aveva concesso ai partecipanti un lungo intervallo. Questa volta niente
interruzioni: dodici ore filate di presentazione e discussione del progetto. La mente
di gran parte dei giornalisti presenti fu improvvisamente attraversata da un lampo
sinistro, un dubbio atroce: il discorso che il premier si accingeva a pronunciare
sarebbe durato lo stesso numero di ore dell’interminabile Consiglio dei ministri del
giorno prima?
Il presidente si schiarì la voce mentre le luci tornavano a illuminare la sala. Nel
frattempo, lungo i locali adiacenti era un via vai di fotografi, operatori tv, e qualche
giornalista era già incollato al cellulare per informare l’ufficio centrale del proprio
quotidiano o della propria tv. «Il presidente ci ha appena fatto vedere un film...
sì, un film... non tutto, alcune scene... Come si chiama? Boh, dicono che sia di un
certo Bùnnuel. Vabbè, adesso fammi rientrare che sta cominciando a parlare».
«Bene» esordì il premier, circondato da una selva di sguardi increduli. «Credo sia
arrivato il momento di dire la verità. Vedete: il quadro politico è finalmente stabile,
abbiamo pazientemente costruito e avviato grandi progetti per rilanciare l’Italia,
siamo riusciti ad ottenere il consenso della Commissione europea. Abbiamo prenotato
molti fondi. Ma non basta: c’è qualcosa che ci impedisce di spiccare l’ultimo salto,
il più importante, il salto decisivo. Perché mi guardate tutti con quell’aria interrogativa?
Cosa vi aspettate da me in questo momento? Che vi dica che il tasso di utilizzo del
Recovery Fund salirà, che raddoppierà, che triplicherà? Potrei tentare l’ennesimo
imbroglio. Del resto, in passato ne sono stati fatti tanti di trucchetti con i fondi
strutturali europei, tutti formalmente leciti, attribuendo le nuove risorse a vecchi
progetti terminati da anni, perché quelli nuovi tardavano a vedere la luce. Ma questa
volta neppure escamotage del genere funzionerebbero. Vi aspettate che vi spieghi almeno
una delle riforme che due anni fa ci siamo impegnati a realizzare? Non farò né una
cosa né l’altra».
«Oggi non annuncio proprio nulla»
Nuovo brusio tra i giornalisti.
«Oggi non vi parlerò di nessuna nuova legge, nessun nuovo decreto, nessuna nuova riforma».
«Scusi, ma allora per quale ragione ci ha chiamati, e per giunta quasi all’alba?»
chiese una giovane giornalista in prima fila. «Ci viene il sospetto che l’interminabile
Consiglio dei ministri di ieri non abbia concluso nulla. Ci dica la verità, presidente».
Ripetuti e insistiti cenni di assenso arrivarono dai colleghi.
«Sulla riunione di ieri vi dirò più tardi, abbiamo tutto il tempo» rispose il premier
cercando di evitare una polemica che avrebbe complicato un discorso già prevedibilmente
complesso. «Qui e ora vi ho chiamati per cercare di dire la verità agli italiani,
che dopo i sacrifici e i lutti di questi due anni non si meritano certo di essere
tenuti all’oscuro...».
«All’oscuro di che, presidente?» lo interruppe uno dei presenti. «Che cosa ci avete
nascosto? Qualche nuovo dato negativo sull’economia? Sul debito pubblico, che già
è salito fin quasi al 170%? Sulla ripresa del Pil che non riesce a tornare ai livelli
pre-pandemici?».
«Forse mi sono espresso male. Non c’è nessun nuovo dato segreto. C’è una verità profonda
da spiegare con tutta la calma necessaria, e spero che voi mi aiuterete in questa
impresa titanica. Oggi non annuncerò nessuna decisione per un semplice motivo. Ho
prima il dovere di spiegare perché sono puntualmente naufragate tutte le riforme,
le leggi, i progetti, le opere pubbliche approvate finora da tutti i governi che si
sono succeduti. Nessuno escluso. Rispondetemi: quante volte si è deciso di semplificare
gli adempimenti burocratici? Quante volte è stata decisa una corsia veloce per le
opere pubbliche con i consueti sblocca-cantieri, e si è annunciato un uso meno scandalosamente
inefficiente dei fondi strutturali europei? Quante volte si sono persi anni o decenni
prima di ricostruire almeno parzialmente i paesi distrutti dai terremoti, e ancora
più spesso non si sono neppure ricostruiti? Quante volte si sono disposti mega-progetti
di sistemazione idrogeologica del territorio per poi assistere ogni anno, e non solo
in autunno, a inondazioni e frane devastanti? Quante volte si è cercato di avvicinare
l’offerta e la domanda di lavoro senza alcun risultato, e si è promesso di avviare
una seria formazione professionale creando invece solo innumerevoli carrozzoni? Quante
volte si è deciso di valutare l’operato degli amministratori pubblici, regolando in
base a questa valutazione premi e penalità? Qualsiasi riforma, qualsiasi legge, qualsiasi
decisione politica, qualsiasi opera, nel momento stesso in cui viene approvata, deliberata,
avviata, finisce immediatamente in un ignobile pantano. Vi finisce per l’incapacità
della politica, che non sa né legiferare né programmare, e dell’amministrazione, che
non sa più gestire la cosa pubblica, priva com’è delle competenze necessarie. Ma vi
finisce anche per l’irrompere sulla scena di un profluvio di veti, ricorsi, pareri
più o meno vincolanti, minacce più o meno velate, commissioni e sottocommissioni,
con il loro corredo di tavoli, task force, cabine di regia e altre amenità che fanno
felici i titolisti dei vostri quotidiani e delle vostre tv. E alla fine, tutto si
sfilaccia in un delirio di decreti di attuazione, regolamenti, linee guida e interpretazioni.
Insomma, un’enorme tenaglia blocca la capacità decisionale della pubblica amministrazione.
E così lo Stato smette di funzionare».
Le risse dei «Citizen Angels»
«Beh, ma che c’è di nuovo in questa sua analisi?» replicò qualcuno dal fondo della
sala. «Lo sappiamo tutti da decenni come vanno le cose in Italia: è la burocrazia, dovreste essere voi i primi a saperlo...».
«No! Qui vi volevo. No!... non mi parlate più di burocrazia. Anzi, vi ordino: cancellate
questa parola dal vocabolario. Il male di questo nostro paese è ben più profondo».
La violenta reazione del presidente colse di sorpresa l’intera platea, la quale dava
invece per scontato come il problema numero uno in Italia fosse esattamente quello.
E del resto, proprio dalla protesta spontanea dei cittadini comuni, sempre più vessati
e umiliati dalla burocrazia, erano nate negli ultimi tempi alcune iniziative che avevano
suscitato non poco scalpore.
Una di queste era portata avanti dai Citizen Angels, vere e proprie ronde cittadine in divisa, che controllavano preferibilmente gli
sportelli di Inps, Agenzia delle Entrate e Poste. Vi aderiva un campionario di varia
umanità con tanto tempo libero da riempire: ragazzotti ventenni che si erano ormai
sfilati dalle liste di disoccupazione, quarantenni ancora in bilico tra un lavoretto
precario e l’altro, ultrasessantenni che l’esigua pensione e la frustrazione per una
vita vissuta non come avrebbero voluto avevano reso particolarmente rancorosi. Tutti,
insomma, con un buon motivo per avercela con lo Stato, e tutti fieri adesso dei loro
berretti paramilitari e soprattutto dei giubbotti di un abbagliante blu elettrico
che, oltre alla sigla della loro associazione, esibivano sulla schiena uno strano
disegno: un pugno immortalato nel momento in cui fracassa uno sportello pubblico,
il classico sportello con il buco circolare in mezzo per il dialogo (si fa per dire)
tra il cittadino e l’impiegato. I Citizen Angels si appostavano vicino alla persona che dopo la sua brava fila era finalmente arrivata
alla meta e controllavano che l’impiegato non le imponesse obblighi assurdi, come
marche da bollo supplementari da pagare o pratiche che avrebbe dovuto svolgere preventivamente
presso altri sportelli oppure online. Pronti a reagire se, di fronte alle obiezioni
del cittadino, il dipendente pubblico se ne fosse uscito con frasi del tipo «non è
di mia competenza», o «noi stiamo lavorando e non abbiamo tempo da perdere». Oltre
a questo, essi sorvegliavano che venisse mostrato, sempre da parte dello sportellista,
un grado accettabile di educazione e di cortesia. Inutile dire che nove volte su dieci
questa forma di controllo popolare finiva per sfociare in risse furibonde e relative
denunce. Non c’era nulla, infatti, che il dipendente pubblico potesse fare per alleggerire
il carico degli adempimenti previsti. Se non era la legge, era il regolamento a imporli.
Quanto alla cortesia, merce sicuramente rara dietro quel vetro respingente, i Citizen Angels finivano spesso per censurare (passando rapidamente dalle parole alle mani) non solo
i casi di evidente maleducazione, ma anche quelli in cui il dipendente pubblico non
salutava, non alzava gli occhi, non sorrideva.
Il virus di Calle de la Providencia
Al premier era stato consegnato da tempo un voluminoso dossier con tutte le imprese
controproducenti di queste ronde cittadine. Problema di ordine pubblico che sarebbe
stato presto superato, pensava. Sapeva che non era questo il punto, e non lo era neppure
la pretesa di una generica semplificazione sburocratizzante. Quel che cercava ora
di dimostrare di fronte ai giornalisti era ben altro.
«Se il problema lo riducete alla burocrazia, alla ostinata resistenza passiva di qualche
dirigente ad ogni forma di facilitazione, se lo attribuite al presunto sabotaggio
di una sorda casta di super-travet, allora significa che non avete capito nulla di
questo nostro maledetto e benedetto paese. Quel che paralizza l’Italia è qualcosa
di molto più grave e profondo. Non qualche laccio e lacciuolo che impedisce di rinnovare
la vostra carta di identità o di creare il vostro Spid, per altro complicatissimo
da ottenere. Non qualche procedura astrusa. Non qualche colpevole inerzia. La malattia
– chiamatela pure virus – non ha un volto preciso, o ne ha così tanti che è impossibile
addossare colpe specifiche. Questo virus funziona come una grande rete anonima, sia
esterna sia interna all’amministrazione, che spinge ognuno di noi a fare l’esatto
contrario di ciò che dovrebbe suggerirci la razionalità. Il risultato è una specie
di auto-golpe. Purtroppo non è il colpo di Stato di qualche imbecille da rinchiudere
per un bel po’ di tempo nelle patrie galere: è un golpe senza autore e senza volto,
maturato anno dopo anno, decennio dopo decennio, che alla fine è esploso nel silenzio
e nell’impotenza generale. Il risultato, però, è lo stesso. Guardatemi, guardate il
mio governo, guardate anche tutti i governi che si sono succeduti: possiamo fare leggi
su leggi, decreti su decreti, ma giriamo a vuoto, come criceti nella ruota di una
gabbietta. Peggio: siamo anime morte, come tutti voi, imprigionate insieme nella triste
villa di Calle de la Providencia».
Tra i presenti, pochi azzardarono un sorrisetto di intesa, come se avessero capito
cosa fosse e dove stesse questa misteriosa Calle de la Providencia, mentre i più restarono
impassibili. Alcuni provarono subito a cercarla su Google Maps. Ce n’erano un paio
in Spagna e una a Città del Messico. Solo più tardi qualcuno si ricordò che era il
nome, simbolicamente scelto da Buñuel, della strada che faceva da ambientazione al
suo film.
«Dite agli italiani» continuò il premier «che siamo bloccati non per la resistenza
di qualcuno o di qualcosa, ma perché, per un groviglio inaudito di nodi irrisolti,
lo Stato ha smesso di funzionare e in molti campi non ha mai cominciato a farlo. E
questo malgrado l’impegno di tanti dipendenti e dirigenti pubblici che continuano
a dare l’anima nel loro lavoro. I partiti politici, invece, quando lanciano i loro
slogan, pensano di avere ancora uno Stato perfettamente funzionante dietro di sé.
Così, la destra può replicare all’infinito la sua ricetta preferita, troppe volte
demagogica: tagliare le tasse. E la sinistra può insistere nel suo obiettivo, giustissimo ma tutto teorico: più investimenti pubblici. Detassare o investire, investire o detassare. E perché no, magari entrambe le cose:
eterni refrain di una melodia ascoltata e riascoltata. Ciascuna delle due parti, quando
è all’opposizione, accusa l’altra di impedire che la propria soluzione sia messa in
pratica. In entrambi i casi, si dice, il problema è politico».
«E infatti» disse uno dei giornalisti «il problema è squisitamente politico, è un
problema di scelte, di volontà di fare certe cose invece di altre. Al contrario, mi
sembra che questo suo erigersi al di sopra della destra e della sinistra, presuntuosamente
seduto su un comodo scanno super partes – scusi per il presuntuoso, ma è quello che lei ci sta trasmettendo di sé –, nasconda
in realtà una scelta politica ben precisa, che farebbe meglio a esplicitare con trasparenza
invece di tenersela per sé. Per un verso o per un altro, il problema è sempre politico».
«E invece no» tuonò il premier scuotendo questa volta l’intera sala stampa. «Il problema
non è più politico! Col passare degli anni e delle maggioranze, i cittadini si accorgono
che le tasse non scendono e gli investimenti non si fanno. Perché? Ridurre le tasse
senza squilibrare i conti pubblici è possibile solo se si riesce a farle pagare a
chi le evade, se si riesce a ridurre gli sprechi. Ne siamo capaci? Finora non lo siamo
stati, e non perché non volevamo, o almeno non solo per quello. Aumentare gli investimenti
è sacrosanto, ma è possibile solo se le nostre amministrazioni riescono a spendere
i fondi che hanno. Ci riescono? Pochissimo e male. Ora, se c’è una cosa che non possiamo
permetterci, soprattutto adesso, è proprio uno Stato paralizzato. Ecco, ora potete
comprendere finalmente il perché di Buñuel, il senso di quegli invitati costretti
da una forza misteriosa a restare nella casa di chi li ha ospitati, impossibilitati
a varcare il portone. Atroce mistero. Qualcuno vi muore dentro, qualcun altro impazzisce.
È come se una specie di angelo sterminatore impedisse ai programmi governativi, alle leggi, alle opere pubbliche – proprio come
accade ai protagonisti del film – di uscire dalla porta della politica e di diffondersi
nella società, modificando comportamenti, trasformando convenienze, offrendo servizi
e infrastrutture decenti. Ebbene, far funzionare lo Stato è impossibile senza guardare
in faccia questo angelo sterminatore. Ma per capire il suo mistero, qualche domanda
che vada un po’ più in profondità di una generica richiesta di semplificazioni dobbiamo
cominciare a porcela».
«Qualche domanda, presidente? Ma come, adesso è lei che si pone le domande invece
di dare le risposte che gli italiani si aspettano?».
Otto domande per capire qualcosa
«Come diceva qualcuno molto più saggio di tutti noi» replicò il premier, «prima di valutare se una risposta è esatta, si deve capire se la domanda è corretta. Quando l’azione pubblica è sottoposta a migliaia di inutili controlli preventivi
invece di essere giudicata in base ai risultati, come possiamo impedire che si allunghino
i tempi e che sia garantito un vero controllo sugli obiettivi raggiunti? Quando si
moltiplicano i centri decisionali per ogni provvedimento, come possiamo evitare che
questo venga bloccato? E come possiamo impedirlo quando consentiamo ai Tar e al Consiglio
di Stato di stoppare per vizio formale qualunque decisione? Quando pretendiamo che
le leggi definiscano in dettaglio tutte le procedure, e queste leggi si sommano a
tutte le altre norme che regolano la stessa materia, spesso in modo contraddittorio,
quale grado di discrezionalità pensiamo di lasciare ai nostri amministratori pubblici
nel raggiungere i risultati auspicati? Quando sottoponiamo gli stessi amministratori
al frequente rischio di incorrere nel danno erariale o nel reato di abuso d’ufficio,
come pensiamo che essi possano reagire se non evitando di prendere qualsiasi decisione?
E soprattutto, quando svuotiamo lo Stato di corpi tecnici esperti in progetti e appalti,
come possiamo pensare che vi siano ancora le competenze per progettare e per controllare
l’operato delle società appaltatrici o concessionarie? E come possiamo pretenderlo
quando i concorsi non si fanno sulla base delle competenze e dei reali fabbisogni
di assunzioni? E quando il merito, invece di essere premiato, è umiliato da un forzato
livellamento retributivo? Forse, se si rispondesse a qualcuna di queste otto domande,
traendo le dovute conseguenze, si comincerebbe a capire di che pasta è fatto quell’angelo sterminatore che impedisce a ogni nuova idea di oltrepassare la soglia della realizzabilità. E
lo si potrebbe finalmente combattere».
Quella indigesta carne alla tartara
Lanci di agenzia, siti web e tv cominciarono a sbizzarrirsi in flash «asteriscati»
e titoli per lo più incomprensibili perché gli stessi estensori degli articoli non
avevano ben compreso cosa volesse dire il presidente. Sui monitor dei computer si
leggeva: Il premier confessa: non abbiamo deciso nulla; Il problema non è più burocratico; Dirò la verità agli italiani; Siamo tutti anime morte. Qualcuno azzardò: L’Italia intera imprigionata in Calle de la Providencia; Un angelo sterminatore a Palazzo Chigi; L’oscura lezione di Buñuel.
Quanto ai quotidiani, l’atmosfera che si respirava quella mattina nelle redazioni,
più che di febbrile curiosità per ciò che avrebbe detto il presidente, era di ansiosa
attesa per l’evoluzione degli equilibri della sua maggioranza politica. I contenuti
dell’intervento erano tutto sommato secondari.
Messi alle corde da una inarrestabile crisi di vendite, non tutti ma molti giornali
di carta, ormai sempre più sottili, avevano cominciato con maggior frequenza non solo
a scansare i fatti, già raccontati in tempo reale da decine di tg e centinaia di siti,
ma anche a sorvolare sulle spiegazioni dei problemi, soprattutto quando essi presentavano
un grado piuttosto elevato di complessità. Ad eccezione di poche testate, che cercavano
ancora di andare a fondo nelle cose ma che forse proprio per questo non dettavano
più la giornata, la maggior parte dei giornali e dei rispettivi siti, pensando di
attirare nuovi lettori, o più realisticamente di evitare la fuga dei pochi rimasti,
preferiva cogliere le emozioni e le suggestioni degli scontri politici più che i loro
motivi di fondo; l’aplomb o la goffaggine di questo o di quel personaggio pubblico
più che le loro opinioni; le atmosfere di un luogo più che la sua storia. Insomma,
tranne che per una minoranza ormai assediata, la strategia di sopravvivenza dei quotidiani
somigliava sempre più ad una corsa all’imitazione dei social, con il loro impasto
indistinto di umori bipolarmente variabili, di curiosità trite e ritrite, di scontati
teatrini, di siparietti senza fine, di teneri animaletti.
L’ordine implicito era fare muro contro i contenuti, troppo piatti e crudi per essere
digeriti dai lettori. Crudi e piatti come i pezzi di carne che i Tartari facevano
macerare sotto la sella durante le loro lunghe cavalcate. Terrorizzava il lezzo insopportabile
che li annunciava al nemico anche a chilometri di distanza. Una specie di analogo
«terrore» si provava ora nei quotidiani di fronte alla nuda cronaca di un evento o
alla spiegazione di una proposta che tentava di far breccia nella cittadella dell’irrealtà
giornalistica. C’era una sola cosa capace di rimuovere quel terrore, quella paura
di doversi mettere a studiare un problema, ed era l’autoconvincimento dell’assoluta
irrilevanza dei contenuti per chi volesse mettersi a fare del buon giornalismo.
Le televisioni, dal canto loro, avevano con la politica un rapporto psichiatricamente
bipolare: da una parte ospitavano sempre più frequentemente la processione dei mini-spot
partitici, privi ovviamente di contraddittorio; dall’altra armavano giovanotti d’assalto
che inseguivano i politici solo per metterne alla berlina la fuga precipitosa nel
tentativo di evitare le loro provocazioni travestite da domande. Insomma, un mix di
triste servilismo e di sguaiato oltraggio.
Con queste premesse, l’iniziativa intrapresa dal presidente del Consiglio aveva ben
poche speranze di bucare gli schermi, di attirare un’attenzione che andasse al di
là di qualche curiosa metafora cinematografica. Lui stesso ne era, del resto, consapevole.
Ciononostante, lasciò che il suo intervento prendesse il largo. E per così dire gettò
il cuore oltre l’ostacolo.
I bracci della Grande Tenaglia
«Nella sua azione paralizzante» riprese il premier «il nostro caro angelo – consentitemi questa citazione mogoliana anche se di significato opposto rispetto
al testo della canzone – agisce sia dall’interno che dall’esterno. All’interno punta
sullo scaricabarile tra politica e amministrazione pubblica; sull’incompetenza di
larghi strati della stessa PA; sull’assenza di una seria valutazione del suo operato;
sulla mancanza di programmazione politica. All’esterno fa invece scattare l’azione
frenante di una fitta e variopinta rete di soggetti che – bene inteso – agiscono tutti,
dico tutti, secondo la legge: Conferenza Stato-Regioni, Conferenza unificata, Conferenza
di servizi, Consiglio superiore dei lavori pubblici, Sovrintendenze, Protezione civile,
Cipe, ministeri coinvolti per il “concerto”, Corte dei Conti, Tar, Consiglio di Stato,
Ragioneria generale, Anac, magistratura ordinaria. Solo per citare i soggetti che
più spesso entrano in gioco nella fase dei controlli, delle autorizzazioni e dei pareri,
ma che invece di verificare se gli obiettivi vengono o meno raggiunti, si limitano
ossessivamente a controllare il rispetto delle procedure previste, oppure a rivendicare
gelosamente la propria competenza: non la competenza di chi sa, ma quella di chi deve
per legge avere voce in capitolo. Come vedremo, i due bracci di questa Grande Tenaglia
si aiutano e si rafforzano a vicenda, perché la fitta rete di finti ma asfissianti
controllori esterni non fa che alimentare e giustificare l’inerzia decisionale e gestionale
del corpaccione politico-amministrativo del nostro Stato.
Bene, prima di guardare in casa nostra, ossia prima di fare luce su tutti i limiti
e le manchevolezze di chi deve amministrare la cosa pubblica, guardiamo subito a questa
gigantesca rete di finti controllori. Siccome non voglio annoiarvi oltre misura, lo
faremo giocando. Sì, vi insegnerò alcuni curiosi giochi di società che serviranno
a capire come funziona la tenaglia dall’esterno».
Si era creata una strana atmosfera dentro e fuori dalla sala. Dentro, un silenzio
quasi religioso e al tempo stesso carico di scetticismo: quello di chi sta ascoltando
un guru o uno sciamano, e non ha ancora deciso se lasciarsi affascinare dal suo eloquio
o considerarlo come uno dei tanti che spopolano sui social, una specie di terrapiattista
della politica nazionale. Fuori dalla sala il brusio invece aumentava, intervallato,
nei numerosi capannelli e nelle concitate comunicazioni via smartphone, da improvvisi
scoppi di ilarità.
Tre Camere al posto di una
«Il primo gioco» annunciò il presidente del Consiglio «si chiama Tre Camere al posto di una».
Il premier si interruppe, bevve un sorso d’acqua e poi fece un cenno a qualcuno in
fondo alla sala. Pochi secondi e sul grande telo bianco comparve la sagoma di un palazzo
tardo-cinquecentesco al centro di Roma: Palazzo Cornaro.
«Bello, vero? Qui si riunisce più o meno ogni quindici-venti giorni la Conferenza
permanente Stato-Regioni. Creata nel 1983, all’inizio si limitava sostanzialmente
a dare pareri. Ma con la riforma costituzionale del 2001 è diventata il luogo in cui
si firmano all’unanimità – ripeto per chi non avesse capito, all’u-na-ni-mi-tà – intese
e accordi tra Stato e Regioni su ventidue materie di competenza comune. Quegli accordi
e intese erano appena tredici l’anno un ventennio fa, ora sono in media centoventi.
Segno evidente di quanto sia aumentato il potere di questo organo silenzioso, dopo
la sua costituzionalizzazione. Tanto da meritare l’appellativo di “Terza Camera”.
Già, se penso che nel 2016 il Parlamento aveva approvato la riforma costituzionale
che riduceva le Camere (almeno nella loro funzione legislativa) a una sola, e che
ripristinava la competenza statale sulle ventidue materie; e se penso che poi tutto
saltò con il referendum, trasformato in un voto su Matteo Renzi, ecco che abbiamo
improvvisamente triplicato le Camere, salvando il Senato e riconfermando appunto la
Terza Camera: la Conferenza Stato-Regioni. Proprio come Montecitorio e Palazzo Madama,
la Conferenza ha i suoi servizi interni che istruiscono i dossier (cinque) e i suoi
organi tecnici (diciotto tra tavoli, comitati, commissioni e gruppi permanenti). Le
sue decisioni seguono un iter lungo e complesso, una specie di gimcana tra i palazzi
di Roma. La mattina si riunisce la Conferenza delle sole Regioni. Nel pomeriggio,
se il tema coinvolge anche le città (quasi sempre), tocca alla Conferenza unificata,
dove siedono governo, Regioni e alcuni Comuni. Alla fine i sindaci escono dalla stanza
e restano tre o quattro ministri, diciannove governatori di Regioni e due presidenti
di Province autonome per la riunione della Conferenza Stato-Regioni. A tarda sera
arriva il verdetto finale, che svuota, scompone e ricompone gran parte delle decisioni
del governo. Tutto nel pieno rispetto della Costituzione.
Vi chiederete: beh, ma che c’è di male se le Regioni hanno voce in capitolo su quei
ventidue temi generali?».
«Già, presidente, che c’è di male?» domandò una giornalista in prima fila. «Vuole
forse esautorarle, spogliarle di ogni autonomia, ripristinare una sorta di Stato dei
prefetti di stampo napoleonico, uno Stato accentratore e autoritario? L’esigenza dell’autonomia
territoriale, la necessità di avvicinare i cittadini a chi fornisce loro i servizi,
non le dicono niente?».
«Non fraintendetemi, ho detto un’altra cosa. Immaginate di dover mettere d’accordo
all’unanimità da una parte lo Stato e dall’altra venti Regioni sulle seguenti materie,
e scusate la noia che vi provocherà il loro lungo elenco: commercio con l’estero;
tutela e sicurezza del lavoro; istruzione; professioni; ricerca scientifica e tecnologica
e sostegno all’innovazione; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo;
protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di
trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto
e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento
della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali
e ambientali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale;
enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale; e infine rapporti internazionali
e con l’Unione europea delle stesse Regioni. In tutti questi campi, da vent’anni,
il governo non può più agire come decisore di ultima istanza. Anzi, la potestà legislativa
spetta (tranne che per i principi fondamentali) proprio alle Regioni.
Volete sapere i guai provocati da un pasticcio del genere? Pasticcio – bisogna ricordarlo
– creato nel 2001 dal centrosinistra per voler andare dietro all’ossessione federalista
della Lega ed evitare che si trasformasse in una seria pulsione secessionista. Com’era
prevedibile, al posto dell’agognata collaborazione tra Stato e Regioni, è cominciata
una guerra senza quartiere fatta di ricorsi e contenziosi. E tra un contenzioso e
l’altro, l’azione riformatrice dei governi è rimasta sospesa, aspettando che i giudici
costituzionali si esprimessero. Dal 2001 i loro giudizi su questo tipo di conflitti
sono passati dal 5 al 40% del totale. In sei anni 500 sentenze a favore delle Regioni,
475 contro. Innumerevoli le misure governative bocciate. Quelle che trasferivano fondi
alle Regioni senza il loro consenso per scopi particolari, come realizzare asili nido,
o procedere alla difesa del suolo o alla manutenzione degli edifici scolastici. Quelle
che acceleravano opere pubbliche ponendo un limite di 60 giorni ai tentativi di intesa
con le Regioni interessate. O ancora, quelle che ponevano un freno agli sprechi della
finanza locale, pretendendo dai governatori una relazione con le misure anti-spreco
realizzate. In tutti questi casi i giudici della Consulta hanno dichiarato illegittimi
i provvedimenti del governo. Ma al di là delle sentenze (che negli ultimi tempi hanno
cominciato a dar ragione più spesso allo Stato), è il rimpallo stesso ad aver provocato
e a provocare danni spaventosi. Anche mortali».
Diapositiva dell’incidente ferroviario del 12 luglio 2016 tra Andria e Corato, in
Puglia.
«Ve lo ricordate? Qui persero la vita 23 persone. Bene, un anno prima il governo aveva
preparato un decreto che estendeva anche alle ferrovie regionali gli standard di sicurezza
della rete statale. Il rimpallo tra Stato e Regioni bloccò per due anni la sua approvazione.
E nel frattempo è avvenuto l’incidente.
Dai treni agli ospedali. Appena due anni fa – il ricordo brucia ancora in tutti noi
– per avere in terapia intensiva i posti necessari a fronteggiare la seconda ondata
pandemica, siamo stati messi di fronte a un quadro allucinante. Vi ricordo le tappe:
a maggio il Decreto Rilancio stanzia 1,1 miliardi. Alla fine di luglio le Regioni
inviano al commissario i loro piani, che però sono privi di dettagli tecnici, operativi
e logistici. Così, dopo un rimpallo estenuante, si arriva ad autorizzarli solo a fine
settembre e a ottobre non risulta aperto neppure un cantiere. Ve lo ricordate, vero?».
Le televisioni, che avevano cominciato a trasmettere quello che si annunciava come
un lunghissimo intervento del premier alla nazione, avevano già interrotto la diretta
per non sconvolgere la scaletta dei palinsesti. Solo nelle edizioni successive i tg
tornavano a tratti a inquadrare la figura del presidente, in piedi, mentre continuava
instancabile a parlare. Su alcuni siti, invece, il discorso veniva trasmesso integralmente,
seguito però da ben pochi navigatori. La quasi-vittoria sul virus, avvenuta per la
verità assai tardi e a costo di molte sofferenze, invece di avvicinare il paese alla
politica aveva acuito, insieme alla sfiducia, l’indifferenza più totale per le mosse
di quest’ultima, fossero pure le parole in diretta del presidente del Consiglio. E
poi, i primi titoli di tv e siti avevano già spiegato che il premier non avrebbe annunciato
nulla di nuovo. Dunque, perché ascoltarlo? Lui intanto seguiva paziente il filo del
discorso, legando una considerazione all’altra con un metodo che i presenti stentavano
a capire.
Un Paciere Rissoso sul territorio
«Stavo parlando di veti. Ebbene, questo potere di interdizione non resta solo in capo
alle Regioni; scende per i rami e investe tutte le istituzioni locali, nessuna esclusa:
Comuni, Città metropolitane, Asl, Agenzie regionali per la protezione ambientale,
Provveditorati alle opere pubbliche, Autorità di bacino, Consorzi di bonifica e tante
altre ancora. Si vuole costruire una centrale termoelettrica oppure un impianto di
gestione rifiuti? Si vuole installare una infrastruttura di telecomunicazioni? Oppure
si vuole più semplicemente realizzare una country house, estendere il tracciato di
un’ippovia, realizzare un parcheggio adiacente a un supermercato? Cosa fa l’amministrazione
che propone l’opera, per conto proprio o su richiesta di un’azienda privata? Si mette
a cercare l’accordo con ogni singola istituzione locale? Impazzirebbe. E allora convoca
la Conferenza di servizi, mettendo tutti gli organismi interessati intorno allo stesso
tavolo. E qui ha inizio il nostro secondo gioco, che ha il sapore di un ossimoro:
quello del Paciere Rissoso».
«Fatemi ascoltare bene» disse piano un giornalista ai suoi vicini di posto «perché
mio cognato ha proprio intenzione di aprire una country house con tanto di sentiero
per le passeggiate a cavallo. Vediamo se capisco come si fa. Almeno non avrò sprecato
il mio tempo...».
«Introdotta nel 1990 come strumento di semplificazione e di appianamento dei contrasti
tra amministrazioni e istituzioni diverse (di solito contrasti tra le esigenze produttive
da una parte, e quelle di tutela ambientale e della salute dall’altra), la Conferenza
di servizi non ha fatto altro che esacerbare le divisioni e moltiplicare i distinguo.
Per una semplice ragione: perché le si dà la possibilità di non prendere alcuna decisione
finale, ossia può tranquillamente lasciarla in sospeso, rinviarla o addirittura passare
la palla niente meno che a Palazzo Chigi. Sì, proprio qui da noi alla presidenza del
Consiglio. Non avete idea di quante microscopiche decisioni che non sono riuscite
a prendere le varie Conferenze di servizi – dagli alberghetti di provincia ai fabbricati
artigianali, ai negozietti – piovono alla fine su di noi, al Dipartimento del coordinamento
amministrativo della presidenza del Consiglio, familiarmente detto “Dica”: sì, proprio
come la classica espressione usata dagli uscieri romani quando entra qualcuno che
non conoscono».
Risate dei giornalisti.
«Comunque sia, a un certo punto si è pensato bene che un solo tipo di Conferenza di
servizi fosse troppo poco, e si è deciso di moltiplicarla per sei: Conferenza istruttoria,
preliminare, decisoria, obbligatoria, semplificata normale e semplificata in modalità
asincrona, cioè con strumenti telematici. Ad ogni tavolo vengono chiamate decine di
soggetti che cercano – ripeto, cercano – di decidere all’unanimità. Capita che la
stessa amministrazione si presenti con due funzionari, e che non di rado essi esprimano
persino posizioni differenti fra loro».
Sul telo bianco apparvero le immagini di un parco eolico.
«Quello che vedete non c’è ancora e forse non ci sarà mai: la costruzione di un parco
eolico in provincia di Foggia è solo il progetto presentato da un’azienda nei primi
anni Duemila. Per avere l’autorizzazione, l’azienda ottenne la convocazione della
Conferenza di servizi. Lo sapete quanti soggetti erano rappresentati a quel tavolo?
Ventuno. Che vado ad elencare in rigoroso ordine alfabetico: Acquedotto pugliese;
Aeronautica militare; Arpa Puglia; Asl di Foggia; Autorità di bacino della Puglia;
Autorità di bacino interregionale dei fiumi Trigno, Biferno e Minori, Saccione e Fortore;
Centro informazioni geo-topografiche aeronautiche (Ciga); Comune di Torremaggiore;
Consorzio per la bonifica della Capitanata; Enac; Enav; Marina militare; ministero
dei Beni culturali; ministero della Difesa; ministero delle Infrastrutture; ministero
dell’Interno; ministero dello Sviluppo economico; Provincia di Foggia; Regione Puglia;
Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Bari,
Barletta-Andria-Trani e Foggia; Terna Spa. Sapete che cosa è successo? L’autorizzazione
è stata negata, e fin qui nulla da eccepire, può darsi benissimo che quel progetto
avesse un impatto sull’ambiente decisamente eccessivo. L’azienda, però, ha fatto ricorso
al Tar della Puglia, che lo ha rigettato. Ma in seconda battuta il Consiglio di Stato
lo ha accolto rilevando che la mancata autorizzazione era viziata da errori procedimentali
e che bisognava riconvocare la Conferenza di servizi. La quale ha però riscontrato
nuove criticità nel progetto, cosicché la causa è tornata nuovamente al Consiglio
di Stato. Non mi chiedete come è andata a finire: non lo so neppure io. So solo che
questo inverecondo balletto è durato dieci anni.
Con la Conferenza di servizi entriamo, come abbiamo visto, in un territorio dove,
accanto agli impedimenti incontrati dall’amministratore pubblico che deve prendere
un certo provvedimento, ci sono gli ostacoli – e sono veramente tanti – che rendono
impossibile la vita delle famiglie e delle imprese...».
«Ecco, presidente, ci parli piuttosto di questo tipo di burocrazia» lo interruppe
un giornalista, «quella subita dai cittadini. Ci dica come intende semplificarci la
vita, già appesantita dalle tasse e dalla mancanza di lavoro. I problemi interni dello
Stato, tra sovrapposizioni di competenze, veti e contro-veti, e con quegli infiniti
elenchi di enti, organismi e istituzioni che ci sta propinando, ci interessano fino
a un certo punto, e la gente si annoia ad ascoltarli. Cosa vuole che importino al
cittadino medio le riunioni della Terza Camera, come la chiama lei, o quelle delle
Conferenze di servizi?».
«Guardi,» rispose il premier «le posso assicurare che i due tipi di problemi sono
le facce della stessa medaglia. Anzi, le dirò di più: solo se comprendiamo che cosa
impedisce alla pubblica amministrazione di fare il proprio lavoro, riusciamo a capire
perché famiglie e imprese vengono a loro volta schiacciate dal peso di un’interminabile
fila di adempimenti. Non crediate che questo peso intollerabile dipenda dal sadismo
di chi sta dietro gli sportelli (anche se a volte dietro alcuni di quei volti che
restano impassibili di fronte alla disperazione del cittadino comune si scorge un
evidente gusto sadico). Il diluvio di adempimenti che precipita su noi cittadini dipende
da tante cose, e prima di tutto dall’inestricabile groviglio di competenze che la
legge prevede. Stavo appunto spiegando come la Conferenza di servizi (il Paciere Rissoso), nata con l’intenzione di semplificare, abbia finito per allungare in eterno i tempi
di ogni richiesta di autorizzazione, sia da parte delle amministrazioni pubbliche
sia da parte delle imprese private. Il motivo è che si pretende che tutti gli organismi
coinvolti nella decisione, che come abbiamo visto sono innumerevoli, debbano non solo
dire la loro ma trovare anche un accordo unanime. Il che è praticamente impossibile».
La partenogenesi delle autorizzazioni
«Ci sono poi situazioni in cui è lo stesso ente locale che si sottopone volontariamente
a vincoli ambientali, paesaggistici, architettonici e archeologici, senza che essi
siano prescritti dalla legge. Vengono chiesti pareri e autorizzazioni alle Sovrintendenze,
che dipendono dal ministero dei Beni culturali, sulla base di accordi volontari, o
anche senza che vi sia alcun accordo del genere. Capita così che una società di ingegneria
umbra che vuole creare un piccolo impianto per produrre energia elettrica e calore
da fonte rinnovabile, tendenzialmente beneficiaria di un regime autorizzativo semplificato,
non solo debba aspettare cinque mesi durante i quali si riuniscono ben sei Conferenze
di servizi con dodici enti pubblici coinvolti, ma sia costretta a chiedere un parere
non dovuto alla Sovrintendenza ai beni paesaggistici. Parere non dovuto in quanto
l’impianto è situato in zona agricola fuori da aree vincolate e non richiede il coinvolgimento
della Sovrintendenza, la quale tra l’altro non è neppure presente alle Conferenze
di servizi. Il parere arriva ed è negativo. Capita anche che una parte del muro che
delimita una delle ville più prestigiose di Roma – Villa Ada – cada su una strada
pubblica della città, che viene subito chiusa ma poi lasciata per mesi e mesi nel
degrado più totale. Mesi ad attendere, tra gli altri permessi, anche il parere della
Sovrintendenza, non dovuto per legge ma previsto da un semplice accordo, al quale
hanno aderito molte amministrazioni locali, oltre al Comune di Roma. Insomma, siamo
in presenza di un altro perfido gioco: La partenogenesi delle autorizzazioni. Un ente locale, nel dare il suo parere, chiama in causa volontariamente un altro
ente pubblico, che magari non ha partecipato alle varie Conferenze di servizi, e gli
lascia l’ultima parola. Come dire: la burocrazia che si crea addosso altra burocrazia
– questa volta è proprio il caso di chiamarla così – mentre non ce ne sarebbe bisogno
e quando soprattutto non lo prescrive neppure la legge».
Lo Sportello che non risponde
«Un altro classico caso in cui è la paralisi istituzionale (volontaria o non) a generare
gli ostacoli incontrati tutti i giorni dalla gente comune è quello che si riscontra
quando un singolo cittadino, per avviare un’attività qualsiasi, come per esempio aprire
un bar o una pizzeria, si rivolge allo Sportello unico per le attività produttive,
il mitico Suap, introdotto nel lontano 1997. Che bello, direte voi, basta rivolgersi
al proprio Comune, fare una sola domanda, e lo Sportello unico si assumerà la responsabilità
di darci tutte le autorizzazioni necessarie, ovviamente numerosissime, sempre che
si posseggano i requisiti giusti. Peccato che pochi anni dopo l’introduzione di quella
novità, la Corte costituzionale abbia chiarito che non funziona affatto così: lo Sportello
è abilitato a raccogliere la nostra richiesta, ma poi non può decidere al posto di
tutti gli organismi preposti a dare o non dare l’autorizzazione. Non vengono meno – dice infatti la sentenza – le distinte competenze e le distinte responsabilità delle amministrazioni deputate
alla cura degli interessi pubblici coinvolti. Insomma, lo Sportello fa solo da raccoglitore, ma poi è costretto a fare quello
che avremmo fatto noi al suo posto: inoltrare la richiesta a ciascuna di quelle amministrazioni,
le quali, con i loro tempi, faranno sapere la loro decisione. Per il cittadino che
già pregustava di metter su una pizzeria o un bar, sarà solo un risparmio di fotocopie
e di file, ma l’iter burocratico è esattamente lo stesso. Ecco dunque un altro esempio
di finta semplificazione, un tentativo vanificato dal gioco delle rispettive competenze,
che impedisce a una sola istituzione (nel nostro caso il Comune) di sostituirsi a
tutte le altre per facilitare la vita ai cittadini. È il gioco dello Sportello che non risponde. Troppi galli nel pollaio delle autorizzazioni.
Fin qui abbiamo visto concretamente come il territorio, con i veti e le rigide competenze
delle sue numerose realtà istituzionali, impedendo l’azione semplificatrice di un’amministrazione,
finisca di conseguenza per schiacciare l’iniziativa di un privato cittadino. Ma l’operato
della pubblica amministrazione può essere frenato anche da un’altra serie di fattori
esterni. Per esempio, dalla lunga trafila di controlli preventivi ai quali devono
sottostare molti dei suoi atti normativi».
Il giorno della marmotta a viale Mazzini
Sul telo bianco venne proiettata l’immagine di un massiccio palazzo anni Sessanta.
«Corte dei Conti, viale Mazzini angolo via Baiamonti, opera degli architetti Pasquarelli
e Poggi. Il palazzo lo inaugurò il presidente Segni il 10 dicembre 1962, in contemporanea
con la celebrazione del primo centenario della nascita della Corte.
Bene, prima che un provvedimento abbia efficacia, sapete tutti che in moltissimi casi
(meno di prima ma pur sempre numerosi) serve l’autorizzazione della Corte dei Conti.
Parlo di atti come: contratti d’appalto, assunzioni, incarichi dirigenziali, attuazione
di norme comunitarie, direttive generali, variazioni del bilancio dello Stato, programmazione
di spese da parte del Cipe e di altri comitati interministeriali, gestione del demanio
e del patrimonio pubblico, e per finire tutti i provvedimenti emanati a seguito di
deliberazioni del Consiglio dei ministri. Nessuno di questi atti può avere efficacia
se non passa prima davanti agli occhi vigili dei giudici contabili. Non è affatto
una passeggiata: si chiama controllo preventivo di legittimità. In sostanza, la Corte
dei Conti deve controllare preventivamente che essi rispettino la legge. Ma il problema
principale è che basta una correzione anche formale, e quei provvedimenti tornano
al punto di partenza una, due, più volte, cioè devono essere di nuovo autorizzati
dai giudici contabili, come se si fermasse il tempo e si rivivesse sempre lo stesso
...