Capitolo primo.
Arrendersi o perire
0.
“C’è poco da trattare: resa e consegna delle armi”.
Pochi minuti prima, gli uomini nella stanza erano nove.
Tra loro, neanche un tedesco, anche se, pur essendo nato a Roma, il padrone di casa
è di origini mezze bavaresi e mezze altoatesine. Ma il cardinale Schuster era almeno
in apparenza sopra le parti: si era proposto come mediatore per una faccenda da risolvere
– una faccenda tutta tra italiani. Perché in quella stanza, a colpi di sibilate nervose,
di silenzi e di svelamenti veri o presunti, si è appena consumata una trattativa.
O qualcosa del genere. Si sono fronteggiate due diverse idee di Italia: una, quella
fascista, che sta irrimediabilmente franando e che sta per prendere la via della fuga
in Valtellina, a due passi dalla Svizzera, forse per tentare un’ultima, disperata
e feroce, difesa; l’altra che pare avere la vittoria in pugno. Perché, tra ordini
di conferma e voci di disdetta, tutti sanno che è l’ora della resa dei conti. Siamo
a Milano, alla fine della giornata che segna l’alba di una nuova Italia: sono le 19
e qualche minuto del 25 aprile 1945.
La morsa alleata si sta stringendo sulla Germania nazista e sui fascismi in tutto
il continente, Benito Mussolini è appena uscito dalla stanza e il giorno prima è insorta
Genova – il segno che tutti aspettavano, il segno che era giunta l’ora della liberazione
dal nazifascismo, dopo venti mesi di occupazione nazista e di guerra civile.
All’alba del 24 aprile il Comitato di liberazione nazionale ligure ha deliberato l’insurrezione
dopo aver rifiutato di scendere a patti con i tedeschi: “con i nazisti si combatte,
non si tratta”, hanno decretato i leader della Resistenza.
Popolo genovese!
Con l’animo pieno di commozione, le tue nuove autorità democratiche ti dicono: Sei
libero.
Comportati in queste ore tanto gravi e solenni in modo che tutto il mondo possa dire
che tu sei degno di questa libertà.
Viva l’Italia democratica!
Cln Liguria
Le Sap – Squadre di azione patriottica – di fatto si erano attivate la notte precedente,
puntando sull’effetto sorpresa, come racconta nel suo diario uno dei capi della Resistenza
genovese, uomo di area cattolica e futuro ministro della Repubblica: Paolo Emilio
Taviani. Nome di battaglia, comandante Pittaluga. “Alle quattro del mattino i primi
colpi di fucile. Subito dopo, le raffiche di mitraglia. Alle cinque, sempre più frequenti,
i colpi di cannone e di mortaio. Alle dieci, il palazzo del comune, la questura, le
carceri di Marassi, i telefoni sono in mano del popolo in rivolta. Le Sap si sono moltiplicate. Ai predisposti quattro comandi di settore – Sestri Ponente,
Val Polcevera, Genova Centro, Albaro Nervi – è un continuo affluire di nuove squadre
che, lì per lì, si costituiscono con le armi tolte ai repubblichini”.
Circa tremila uomini delle Sap, a Genova, stanno affrontando le forze nazifasciste di almeno quattro volte superiori,
guidate dal generale tedesco Gunther Meinhold. Ma i partigiani sono forti del fiancheggiamento
di molti cittadini. Ben oltre le previsioni.
Per liberare la città c’è bisogno di un’azione coordinata. Ci sono fabbriche da difendere
dalle distruzioni dei tedeschi, caserme da occupare per neutralizzare i fascisti,
edifici pubblici da conquistare. E serve una svolta che porti una rottura definitiva
con il passato fascista, un reale rinnovamento democratico, “dal basso”. L’onda che
arriva dalla Liguria parla un nuovo linguaggio: a Genova, Torino e Milano, nel cosiddetto
“triangolo industriale”, la posta in gioco è “l’insurrezione perfetta” – è troppo
alto il rischio che, nella fuga, i nazifascisti lascino una scia di sangue alle loro
spalle. E si vuole provare a mettere gli Alleati di fronte al dato di fatto: l’Italia
del Nord si libera da sola.
Il Cln ligure, riunito in permanenza, ha predisposto il sabotaggio delle comunicazioni e
il blocco delle vie di fuga – strade e ferrovie – per impedire ai nemici di ripiegare
a nord, come hanno già fatto il giorno prima i reparti SS e alcuni dei principali
gerarchi fascisti, in direzione Milano: si vuole ostacolare a ogni costo la realizzazione
del piano dei nazisti, e cioè di stabilire un’ultima “linea del fronte” sul fiume
Po.
E mentre in Piemonte e in Lombardia arrivano le notizie del Cln ligure, proprio a Milano, dove ventisei anni prima nacque il fascismo e che ora è
la “capitale” organizzativa della Resistenza, si esige che i fascisti si arrendano
senza condizioni.
“C’è poco da trattare: resa e consegna delle armi”.
Il primo a cui si era rivolto il duce, l’uomo che sembra abbia ribadito questa manciata
di parole non appena Mussolini ha lasciato la stanza, è il più alto in grado tra i
rappresentanti della Resistenza che hanno varcato la soglia dell’Arcivescovado intorno
alle 18, per l’incontro con i leader di Salò.
1.
Per quanto ne sappiamo era un uomo duro, ma capace di grande tenerezza. Per quanto
ne sappiamo, era un uomo nato e cresciuto tra la certezza che sarebbe diventato qualcuno
e il timore che avrebbe anche potuto non esserlo. Per quanto ne sappiamo, all’età
di cinquantaquattro anni accettò di essere mandato in missione nell’Italia centrosettentrionale
saldamente in mano ai nazifascisti, nella bocca del lupo. Fu in quel momento – fu
poco dopo, in realtà – che quell’uomo diventò il generale dei partigiani. O almeno
ci provò.
Questa storia comincia molto prima, e forse non è ancora finita. È la storia di tre
uomini i cui destini si ingarbugliarono indissolubilmente, uomini della cui memoria
in molti hanno perso oramai le tracce, e da tempo. Anche tanti tra quelli che ancora
parlano di loro, che spolverano con nostalgia le fotografie salvate in qualche archivio
o sulle poche decine di risultati sul web, non li riconoscerebbero a colpo sicuro.
Pochi, pochissimi si ricordano i loro nomi di battaglia: il generale Valenti, poi
Maurizio e Italo, alias comandante Gallo.
Il generale Valenti era il più vecchio: il suo vero nome era Raffaele Cadorna, nipote
e omonimo dell’uomo che al comando dei bersaglieri aveva conquistato Roma, il 20 settembre
del 1870, chiudendo il controverso capitolo della giovane Italia senza la sua capitale
“naturale”. E figlio di Luigi, il generale che aveva comandato l’esercito italiano
nella prima guerra mondiale, fino alla disfatta di Caporetto. Raffaele Cadorna, un
uomo cresciuto nel rigore e nella retorica oramai novecentesca – ma talmente radicata
da apparire atavica – del dovere con la maiuscola, del dover servire la patria. Che
oggi può stridere, ma che, con il vocabolario del presente, forse lui stesso avrebbe
definito in modo diverso. La disponibilità a vegliare a qualunque costo sulle regole
del gioco e sull’immensa carica di valori che – implicitamente o esplicitamente –
queste regole portano con sé, ad esempio.
Quando c’è la guerra tutto è diverso, ma ci sono degli uomini che, “in omaggio alle
proprie convinzioni”, accettano volontariamente “gravi responsabilità e rischi non
indifferenti” – sono le parole con cui Raffaele Cadorna descrisse l’enorme distanza
tra chi vive in tempo di pace e chi no. Parole pacate e precise, senza inutili circumnavigazioni
né colpevoli ellissi, parole alle quali ci dovremo abituare. In guerra, la posta in
gioco è molto spesso la vita. E ogni sguardo, ogni esitazione e ogni decisione – che
si sia convinti o no di quello che si sta facendo – possono costare moltissimo. Che
lo si voglia o no, c’è sempre qualcuno che sposta i destini di decine, centinaia,
migliaia di persone, che le mette in salvo o in pericolo – o entrambe le cose –, c’è
sempre qualcuno di più grande degli altri.
L’uomo che sarebbe diventato il generale Valenti non voleva essere grande: se leggiamo
le numerose tracce che ha lasciato alle sue spalle, sembra che Raffaele Cadorna volesse
piuttosto essere pronto, se la vita l’avesse chiamato a compiere qualcosa di importante.
Voleva esserci a testa alta, inoltre, voleva poter dire Se non sono all’altezza mi faccio da parte, ma se guardo a quello che ho fatto fino
ad adesso ho le carte in regola per provarci.
Il giorno in cui lo contattarono, Valenti si trovava a Roma.
Disse sì, semplicemente.
2.
Le scene sono tre, mi verrebbe da scrivere.
Ma in realtà il punto focale di questo racconto rimane uno: quella che si consuma
nel pomeriggio del 25 aprile a Milano è, se non altro in apparenza, una trattativa.
Forse estenuante, forse no, anche se in gioco c’era – lo si intuiva già allora e ne
abbiamo la certezza oggi – almeno una vita importante, oltre a un numero incalcolabile
di destini.
Eppure altre due scene costituiscono altrettante architravi che ci permettono di provare
a comprendere perché quella giornata è stata così cruciale, cosa ha reso possibili
le ore che segnano una delle rotture più profonde della storia italiana. Perché nei
mesi che hanno preceduto la Liberazione nessuno poteva sapere chi sarebbe stato ancora
vivo e chi sarebbe stato ai posti di comando, al momento dell’insurrezione. Qualcuno
dei protagonisti di questo racconto viene catturato tra la prima e la seconda scena,
qualcun altro dopo la seconda – qualcuno, a un certo punto, semplicemente se ne va.
La prima scena inizia in una notte di agosto, nel 1944, e sembra l’esordio di un film
d’azione, ma poi qualcosa si inceppa, e il film diventa altro. La seconda è un colpo
di mano che verrà tentato diversi mesi dopo, un colpo di mano folle – più che ardito
– se visto con il senno del poi, da noi che sappiamo come è andata a finire. Ed entrambe
ci raccontano una storia di clandestinità, di estenuanti bracci di ferro e di coraggio,
accompagnandoci fino in Arcivescovado per chiederci che significato ha avuto l’incontro
tra i vertici della lotta di liberazione e i gerarchi di Salò, quel giorno.
Gli attori di queste tre scene che ruotano intorno ai nostri protagonisti – lo vedremo
– non sono sempre gli stessi, e il palcoscenico è quello dell’ultima fase della lotta
di liberazione, quando il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia – il Clnai – guida la Resistenza nel Nord del paese, al quale i nazisti sono ancora avvinghiati
con il feroce sostegno della Repubblica sociale italiana di Mussolini.
Dopo la Liberazione del Sud e di Roma da parte degli Alleati, nel mese di giugno il
Clnai ha creato il comando generale del Corpo volontari della libertà (Cvl), con l’obiettivo di coordinare le operazioni da un punto di vista innanzitutto militare.
Gli angloamericani e il governo Bonomi dell’Italia liberata sostengono con forza questo
organismo, che sarà formato da rappresentanti dei cinque partiti del Cln: azionisti, comunisti, democristiani, liberali e socialisti.
Per il comando si accavallano fin dalla sua gestazione varie ipotesi: serve una figura
che faccia da garante al cospetto degli Alleati che stanno risalendo la penisola,
liberandola dall’occupazione nazifascista, e che in qualche modo possa rappresentare
le forze più moderate dell’universo antifascista. I nomi puliti, tra i militari, sono
pochissimi – il problema è che diversi di loro sono già caduti.
Quando viene chiamato, il generale Cadorna non ha esitazioni.
3.
L’età media dei nove uomini seduti nel salotto del cardinale Schuster è alta: è gente
che ha pagato, o che sta per pagare, il prezzo delle proprie scelte. Sono tutti estremamente
consapevoli del fatto che, in quella stanza e in una manciata di minuti che non è
dato sapere all’inizio, verrà fatta la storia. Un tratto considerevole della storia
d’Italia si chiuderà e un altro si spalancherà, alla fine del colloquio.
Eppure, a offuscare la scena fin dai suoi preparativi ci sono anche gli interessi
personali, a tratti personalissimi, di alcuni dei convitati. E anche per questa ragione
gli anni e poi i decenni successivi all’incontro daranno vita a un ginepraio di ricordi
scolpiti (e per questo sospetti) o viceversa oscillanti, di autorappresentazioni che
sfuggono alla prova, di deliberate menzogne, di tentativi di far tornare i conti di
quel pomeriggio che ha cambiato il destino del nostro paese.
Le gerarchie ecclesiastiche, rappresentate dal cardinale Schuster, vogliono evitare
spargimenti di sangue – un’“inutile strage”, per dirla con le parole con cui Benedetto
XV aveva definito la Grande Guerra –, e sono preoccupate dall’eventualità che l’insurrezione
generi una rivoluzione. Per le vie di Milano la rivolta è iniziata spontaneamente
nella tarda mattinata del giorno prima, poche ore dopo quella di Genova, con uno scontro
tra partigiani e fascisti nella zona di Niguarda. Pare che la prima caduta sia una
militante comunista dei Gruppi di difesa della donna: si chiama Gina Galeotti Bianchi.
È incinta di otto mesi – una raffica di mitra l’ha colpita mentre si recava all’ospedale
per visitare alcuni partigiani feriti.
Oltre al mediatore, che si pone in sostanza come garante, ci sono cinque fascisti
e tre antifascisti: su questo le testimonianze saranno in gran parte concordi. Arriverà
un quarto antifascista e poi un quinto, a tempo scaduto. Ma la superiorità iniziale
dei fascisti sembra essere esclusivamente numerica, di facciata: i rappresentanti
della Resistenza sanno che il vento della storia ha cambiato direzione una volta per
tutte, e che è arrivata la fine del ventennio di regime e dei venti mesi di guerra
civile.
Secondo alcuni, l’incontro è iniziato con delle strette di mano.
4.
È notte fonda, la luna si sta nascondendo dietro le montagne.
È agosto, e sul quadrimotore Halifax in volo, insieme al generale, ci sono altri tre
uomini, che in queste pagine rimarranno solo delle meteore: un sergente radiotelegrafista,
un funzionario del Ministero delle Finanze in contatto con il Partito d’azione, e
un capitano della Special Force britannica scampato al massacro della divisione “Acqui”
combattendo insieme a una delle poche unità italiane che si opposero ai nazisti, dopo
l’8 settembre. Il generale l’ha conosciuto nelle settimane precedenti, e con lui si
è addestrato per questo lancio nel vuoto. Hanno dovuto aspettare diversi giorni, per
partire: l’aviazione britannica era impegnata a rifornire l’insurrezione di Varsavia,
subiva gravi perdite e non aveva aerei disponibili. Quando finalmente sono decollati,
un maggiore li ha avvertiti che una formazione partigiana avrebbe segnalato la propria
presenza con dei fuochi, da terra, e che li avrebbe accolti al loro arrivo.
Ogni volta che ho provato a immaginare questa scena, mi sembrava di vedere il maggiore
Smith e il tenente Schaffer – Richard Burton e Clint Eastwood – nel film Dove osano le aquile, tratto dall’omonimo romanzo di Alistair MacLean, che racconta la storia di un commando
di paracadutisti inglesi in missione sulle Alpi bavaresi – per una curiosa combinazione,
i luoghi di origine del cardinale Schuster –, un gruppo di impavidi che vivrà una
storia di colpi di scena, eroismi e tradimenti.
Eppure il film di Brian G. Hutton è ambientato nella neve, mentre il generale è partito
la sera dell’11 agosto 1944. Inoltre, almeno nei miei ricordi di bambino, i protagonisti
del film che uscì oltre vent’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale sono
tutti giovani, almeno relativamente, a differenza del generale, che accettò di essere
paracadutato in un’età in cui, all’epoca, in pochi avrebbero corso rischi del genere.
L’atmosfera, però, deve essere quella – quella che genera lunghi silenzi, e in cui
si sente solo il rumore del motore che concilia il sonno.
Un mese prima del suo cinquantacinquesimo compleanno, il generale Cadorna non è in
salvo nell’Italia meridionale o sfollato chissà dove, ma è addormentato sul pavimento
del quadrimotore Halifax, in volo verso il Nord. Il corpo è quello di uomo sportivo,
cresciuto tra i cavalli e reduce da settimane di addestramento per questa notte. Il
naso è pronunciato, ma non sappiamo se in questo momento abbia i baffi, che per quanto
ci risulta si è fatto crescere per rendersi meno riconoscibile, in clandestinità.
Agli occhi dei suoi compagni di missione, che come lui stanno per svegliarsi, deve
incutere come minimo rispetto, se non timore, il profilo di quest’uomo con una lunga
vita militare alle spalle – da mesi correvano le voci sulla sua dura intransigenza,
che ha significato per lui una carriera in qualche modo defilata, ma una limpida patente
di antifascismo.
Raffaele Cadorna è un uomo – sono parole sue – con un “temperamento di cavallo di
sangue”, che sul finire degli anni Trenta ha comandato il reggimento “Savoia Cavalleria”
impedendo agli ufficiali di iscriversi al Partito nazionale fascista, bruciandone
gli opuscoli ministeriali nel cortile della caserma, tuonando burbero contro ogni
tentativo di propaganda del fascismo presso i suoi uomini. Anche per questo non pochi
di loro, a quanto si dice, scalpitano per mettersi a sua disposizione, nella lotta
senza quartiere ai nazifascisti, su al Nord. Le ricorrenti esternazioni dei suoi “sentimenti
ostili al regime” erano note all’Ovra, la polizia politica di Mussolini. E lo hanno portato, pochi mesi prima dell’8 settembre,
a prendere contatto con i partiti antifascisti clandestini da Ferrara, dove era stato
mandato a comandare la divisione “Ariete” proprio nella fase in cui i nazisti iniziavano
a pianificare l’occupazione della penisola, intuendo che lo storico alleato – l’Italia
– avrebbe presto chiesto un armistizio agli angloamericani.
Il generale ha tra le mani un foglio che contiene vaghe direttive: il piano è di farlo
arrivare in Val Cavallina perché si possa stabilire in Val Camonica, una zona del
Bresciano che ancora oggi, a percorrerla in auto, appare inespugnabile. All’epoca,
nel cuore dell’estate, sembra saldamente in mano alle Fiamme verdi, formazione di
area cattolica che dovrebbe mettere in contatto il generale con il Comitato di liberazione
nazionale Alta Italia.
5.
“Maurizio” non cercava popolarità, non cercava applausi, “neppure dei suoi compagni,
neppure dei suoi amici” – così avrebbero detto di lui. Nonostante il carisma che tutti
gli riconoscevano, un suo compagno di partito, nel provare a definire il suo portamento,
avrebbe poi scritto che la sua voce era “dall’accento spento di chi complotta in cantina”.
Perché Maurizio era un uomo che veniva da quasi vent’anni di contrasto – a tratti
tenace, a tratti denso di preoccupazione – al regime di Mussolini.
La sua radicale opposizione democratica al fascismo era maturata nella prima metà
degli anni Venti: lavorando a diversi giornali e frequentando intellettuali di grande
caratura morale, aveva osservato la quotidianità del fascismo che si faceva dittatura.
Anche se era nato a Pinerolo – dove anni dopo sarebbe arrivato il generale Cadorna,
che aveva conosciuto nella Grande Guerra, a comandare la Scuola di Cavalleria – stava
a Milano, città che, come Cadorna, aveva imparato a conoscere bene.
Quando, nella svolta repressiva e definitiva del fascismo, era stato creato il Tribunale
speciale per la difesa dello Stato, Maurizio si era dato alla cospirazione, facendo
parte in prima persona di una rete clandestina che, tra le altre cose, favoriva la
fuga dei compagni di lotta antifascisti in Francia. Lui stesso riparò oltre le Alpi,
prima di scontare sei anni tra carcere e confino in patria fino alla metà degli anni
Trenta.
Tra i rapporti più intensi che in quegli anni contribuirono a fare di lui una figura
di spicco dell’antifascismo italiano ci fu quello con Carlo Rosselli, con il quale
partecipò all’organizzazione della fuga in Francia dell’anziano dirigente socialista
Filippo Turati e del giovane avvocato Sandro Pertini, un personaggio che incontreremo
ancora. Maurizio, che all’epoca usava altri pseudonimi, venne arrestato proprio insieme
a Rosselli, e portato nel carcere di Como, a pochi chilometri da due luoghi che sarebbero
stati di centrale importanza nelle ore della Liberazione.
Nel processo che seguì, a Savona, si scontrarono, anche e soprattutto per via della
strategia difensiva dei due illustri imputati, due idee di Italia. A essere processato
era l’antifascismo che “costituiva in nuce un’altra Italia, civile e moderna, legata alle migliori tradizioni risorgimentali
e proiettata verso i valori liberali e democratici”, come scrive un suo biografo.
Negli anni della prigionia si radicò una profonda amicizia con Carlo Rosselli e con
molte altre figure chiave dell’antifascismo, con diverse delle anime che si sarebbero
trovate insieme a combattere, molti anni più tardi. E uno dei ritratti più intensi
che abbiamo di Maurizio – e che già all’epoca fece il giro del mondo – è proprio di
Rosselli, che descrive il compagno di prigionia sulla branda di una cella, in attesa
della partenza per Ustica: “Guardo Parri. Come lo amo. Come il suo viso fine, pallido,
incorniciato da una barba di venti giorni spira nobiltà. Parri è la mia seconda coscienza,
il mio fratello maggiore. Se la prigionia non mi avesse dato altro, la sua malinconica
amicizia mi basterebbe. Questi uomini alti e puri sono tristi, terribilmente tristi
e solitari. Scherzano, ridono, amano come tutti gli altri. Ma c’è nel fondo del loro
essere una tragica disperazione, una specie di disperazione cosmica. La vita è per
loro dovere. Fino alla conoscenza di Parri, l’eroe mazziniano mi era parso astratto
e retorico. Ora me lo vedo steso vicino, con tutto il dolore del mondo ma anche tutta
la morale energia del mondo, incisa sul volto”.
Il volto di Maurizio, pacato e risoluto, era il volto di un paese che si stava ritraendo,
per il momento, cercando forza e alleanze per tornare a sferrare l’attacco decisivo
al fascismo, o almeno provarci. Perché, allora, si poteva solo tentare di ribadire
con coerenza le proprie convinzioni, per vie clandestine o – quando era concesso –
anche pubblicamente. Nell’arringa difensiva del processo di Savona, Carlo Rosselli
parlò esplicitamente di una “definitiva rottura tra due Italie, tra due razze morali”,
delle quali alcuni esponenti di prestigio si sarebbero trovati vis à vis, diciotto anni dopo, all’Arcivescovado di Milano. Ma non lui, perché sarebbe stato
assassinato da sicari fascisti.
La storia della prigionia di Maurizio la si può vedere da molte prospettive, e nessuna
è in grado di esaurire il racconto della sua vita di quegli anni. Poche parole, però,
sembrano spalancare lo sguardo di noi che torniamo sulla sua vita con il senno del
domani verso la resa dei conti che, prima o poi, sarebbe arrivata. Nella lettera che
inviò ai genitori da Lipari il 21 gennaio 1929, e che venne probabilmente trascritta
da un dattilografo della polizia fascista, Maurizio scriveva di avere “agito sempre
con chiarissima consapevolezza”, perché la coerenza, per lui, “non è parola vana,
un suono vuoto di senso”.
E concludeva:
E non dispiaccia a voi il mio modo di agire: questo è il temperamento che mi avete
dato e non lo posso estorcere. Bisogna che vi facciate forza di non cedere mai a fallaci
illusioni: bisogna che abbiate forza di attendere; forza di aver pazienza, forza di
star sani e sereni come siamo noi.
6.
Un grido, e poi gli aveva buttato le braccia al collo.
Teresa, alias Estella, aveva raggiunto il comandante Gallo a Valencia, nei giorni in cui lui aveva
lanciato un proclama alla radio, dando il via a una serie di trasmissioni radiofoniche
per la Repubblica, e rivolgendosi, con questo messaggio inaugurale, direttamente agli
italiani che stavano combattendo dall’altra parte, per la vittoria dei fascismi, nella
guerra civile spagnola:
Noi non nutriamo odio per voi.
Anche voi siete figli del popolo.
Teresa, così avrebbe ricordato, se n’era infischiata della sua divisa e gli era saltata
al collo.
Era una militante anche lei, si amavano da oramai più di quindici anni. Il loro primo
figlio l’avevano chiamato come il padre ma con un secondo nome, Libero, “per distinguerlo
da quello che era in galera”, avrebbe ricordato Luigi Libero. Perché all’epoca quest’uomo
non era ancora il comandante Gallo, anche se aveva già iniziato a usare nomi di copertura.
Perché l’esistenza dell’uomo la cui voce si sentiva dalle radio spagnole, come quella
della donna che ora l’aveva raggiunto per condividere la lotta, era irrimediabilmente
intrecciata con una strenua opposizione ai fascismi. Aveva già più volte pagato la
sua intransigenza e la sua statura morale: incarcerato a San Vittore, a Milano, poi
al Regina Coeli, a Roma, nei primi anni Venti. Sempre sotto osservazione, tra i nemici
giurati del regime.
Quelli che noi odiamo sono gli sfruttatori del popolo, i fascisti.
E i generali che [...] spingono i soldati contro la libertà.
Dai tempi del coordinamento dei giovani comunisti per l’Italia settentrionale erano
passati lunghi anni di militanza: Luigi Longo aveva vissuto tra Mosca, Parigi e la
Svizzera, protagonista assoluto del tentativo di dare battaglia senza quartiere, a
livello internazionale, ai fascismi.
Ora, la Spagna.
Non tollerate di essere complici dell’opera criminale [...].
Passate all’esercito repubblicano, passate al popolo!
È l’ispettore delle Brigate internazionali, il più alto in grado per le unità che
combattono al fianco della Repubblica. Dicono che sia un uomo d’acciaio, ma che l’acciaio
nasconda un’enorme sensibilità, che la sua attenzione nei confronti dei compagni di
lotta è commovente. È considerato uno dei migliori dirigenti del movimento rivoluzionario
internazionale: pretende che l’“attivista-soldato” legga, scriva, discuta, capisca
appieno il significato della lotta. Ma è consapevole che per portare a termine la
guerra è necessaria l’unità d’azione antifascista: ha cercato a tutti i costi un’efficace
collaborazione tra combattenti spagnoli e volontari internazionali, tra militanti
civili e militari di professione, innanzitutto ufficiali di provata fede repubblicana.
Ma la guerra di Spagna è una pagina dolorosa, per l’antifascismo europeo, perché le
truppe di Francisco Franco, Adolf Hitler e Benito Mussolini prendono presto il sopravvento.
Quando vengono sciolte le Brigate internazionali, alla fine del 1938, Luigi Longo
parla di nuovo alla radio:
Questi due anni di Spagna non sono trascorsi invano, dice.
Aveva lottato con tutte le sue forze, il comandante Gallo.
Abbiamo imparato, in Spagna, molte cose.
Prima di tutto [...] che bisogna essere uniti, per vincere il fascismo.
Ma questa guerra l’avevano vinta gli altri.
7.
A Torino, il 24 aprile del 1945, il clima è carico di attesa. Sei giorni prima le
scuole, i tram e le fabbriche si sono fermati per lo sciopero generale indetto con
successo dal Cln e messo in atto dai Comitati di agitazione. La città è pronta a combattere.
L’insurrezione torinese è stata preparata sulla base di un piano militare che prevede
la neutralizzazione delle forze nazifasciste, la difesa del patrimonio industriale
e l’occupazione dei principali luoghi strategici fino alla convergenza, in città,
delle formazioni di montagna che devono dare sostegno all’iniziativa operaia. Tutto,
però, deve avvenire nei tempi giusti: c’è il terrore – da parte degli Alleati e dei
comandi partigiani – che un’offensiva scatenata troppo presto o troppo tardi provochi
un “effetto Varsavia”: la distruzione totale della città.
I vertici della Resistenza piemontese sono in riunione permanente. L’ordine viene
diramato con un telegramma. In codice è indicato il momento in cui deve partire il
piano insurrezionale, “E 27”: il resto del messaggio è esplicito, diretto.
Aldo dice ventisei per uno – stop – Nemico in crisi finale – stop – Attuate piano
E 27 – stop – Capi nemici et dirigenti fascisti in fuga stop – Fermate tutte macchine
et controllate rigorosamente passeggeri trattenendo persone sospette – stop – Comandi
zona interessati abbiano massima cura assicurare viabilità Forze Alleate su strada
Genova-Torino et Piacenza-Torino – stop
Mentre a Torino si prepara il momento dell’azione, a Genova si combatte ancora duramente,
strada per strada. Intorno alla città, i partigiani ostruiscono ai nazifascisti ogni
via di fuga. Gli uomini del generale Meinhold sono chiusi a riccio in alcune sacche
di resistenza.
Tra il centro di Genova e il porto rimangono ancora il grosso delle forze naziste
e la X Mas fascista, che combatte fino all’ultimo. Le Sap liberano a macchia di leopardo diversi luoghi cruciali come Sestri Ponente, Bolzaneto
e Quinto. Ma, nonostante questi successi, la situazione è ancora difficile, come racconta
il comandante Pittaluga, Paolo Emilio Taviani. “A ponente: da Sampierdarena telefonano
che i tedeschi hanno catturato una ventina di donne e bambini in ostaggio e minacciano
d’ucciderli, se i patrioti non daranno via libera. I medici avvertono che la situazione
è insostenibile: i feriti aumentano d’ora in ora; non ci sono più letti; i tedeschi
premono da ogni lato. Sulla camionale per Milano le colonne nemiche, bloccate nelle
gallerie, tentano sortite: non possono più a lungo restare prive d’acqua. A levante:
da Sturla telefonano che il ponte resiste a ogni costo, e non c’è modo di stabilire
un contatto con le forze patriottiche di Quarto e di Quinto. La sera del 24 si chiude
in una cupa atmosfera”.
Il generale Meinhold minaccia di aprire il fuoco su Genova con le batterie pesanti
se i combattenti non permetteranno l’evacuazione delle sue truppe, che controllano
ancora diversi punti della città, in particolare a levante e nel centro, dove i sanguinosi
combattimenti coinvolgono migliaia di cittadini.
Ma il Cln ligure può disporre di centinaia di prigionieri tedeschi, e la minaccia del generale
Meinhold rimane lettera morta. Grazie alla partecipazione massiccia degli abitanti
di Genova, al termine della giornata del 24 aprile la Liberazione sembra a portata
di mano.
Bisogna essere uniti, bisogna che ciascuno faccia la propria parte. Già la mattina
dello stesso giorno, la notizia della rivolta di Genova arriva al Comitato insurrezionale
milanese, e il giornale clandestino comunista “La Nostra Lotta” impartisce le “ultime
istruzioni ai compagni”.
Erano state spedite da “Italo”, Luigi Longo: il comandante Gallo.
8.
Ultime istruzioni ai compagni
Cari compagni,
la battaglia insurrezionale precipita verso la sua conclusione vittoriosa. Quello
che ieri pareva ancora lontano, da un momento all’altro può divenire un fatto compiuto.
Berlino occupata dalle truppe sovietiche, l’esercito rosso congiuntosi con gli angloamericani,
Bologna liberata e il Po raggiunto sul largo fronte, possono determinare, prima ancora
che gli eserciti alleati si avvicinino ai grandi centri del nord, un crollo generale
del nemico, per disgregazione, per collasso interno dei nazifascisti. Dobbiamo tendere
tutte le nostre forze per provocare, per accelerare questo collasso, per portare l’insurrezione
nazionale alla sua trionfale affermazione.
Dobbiamo perciò realizzare con tutte le forze le direttive già date per la disgregazione
delle file del nemico, per obbligarlo a cedere le armi, a capitolare, ad arrendersi.
Si diffonda il più largamente possibile l’intimazione “arrendersi o perire”, si faccia
di tutto per ottenere la resa di presìdi, di unità, di caporioni nazifascisti. Si
prelevino nelle case e nelle strade gerarchi e ufficiali nazifascisti e si imponga
loro di capitolare, di far delle dichiarazioni di resa, pena la fucilazione immediata.
Si dia la più larga diffusione ad ogni episodio, ad ogni dichiarazione del genere.
Ma tutto questo non basta più. Bisogna portare tutta questa azione su un piano superiore,
di lotta insurrezionale di massa.
Nelle fabbriche, negli uffici, nelle aziende, non si deve più lavorare. Dappertutto
si deve solo più parlare della resa che si deve imporre ai nazifascisti per accelerare
la fine della guerra, per salvare dai bombardamenti e dalle distruzioni i nostri impianti
e le nostre città. Comizi, scioperi, manifestazioni di strada, dimostrazioni davanti
a podesterie, prefetture, sedi nazifasciste, devono essere organizzati in tutti i
modi per imporre ai nazifascisti la resa al Cln, al Corpo dei volontari della libertà,
cioè alla patria, che ha garantito salva la vita a chi si arrende. Ordini del giorno,
risoluzioni in questo senso, devono essere votate e presentate ai responsabili di
aziende, alle cosiddette autorità fasciste e tedesche, per l’esecuzione. Devono essere
mobilitate soprattutto le masse operaie e popolari, le massaie e le donne, il popolo
in generale. Queste manifestazioni devono impadronirsi delle strade e delle piazze
e non più abbandonarle fino alla completa vittoria. Appena possibile si deve cominciare
a far vedere i bracciali e le bandiere tricolori del Cln.
Bisogna seguire con la più grande attenzione e ora per ora la situazione, gli spostamenti
di forze, per poter portare il movimento insurrezionale sempre più avanti.
La lotta per l’occupazione delle strade e delle piazze ci deve dare la sensazione
esatta del progredire e del maturare della situazione, ci deve far sentire quando
sarà possibile passare dalla fase dimostrativa alla fase armata, risolutiva con occupazione
e presidio di sedi e di rioni. Un accurato servizio di informazioni ci deve permettere
di sapere di ora in ora quel che si pensa nel campo nemico, quel che si progetta o
si trama. Va da sé che d’ora innanzi dovremo mantenere un contatto permanente con
tutti i movimenti del Cln, al fine di concordare l’azione comune e di evitare anche
sabotaggi e manovre antinsurrezionali dell’ultima ora.
Bisogna che le manifestazioni di massa e le azioni armate determinino e accelerino
il più possibile il collasso finale e la resa nazifascista. Non possiamo attendere
la resa per scatenare l’insurrezione. Non possiamo fare un secondo 25 luglio. Per
questo dobbiamo essere molto vigilanti sullo sviluppo di ogni situazione, avere tutte
le fila in mano, per poter intervenire a passo a passo, con azioni di massa e di forza,
nello sviluppo della situazione stessa.
Ripetiamo le direttive generali: mobilitare tutte le forze partigiane, tutte le forze
popolari, per liberare il più gran numero di villaggi, di paesi, di vallate, di province
e di regioni; proclamare solennemente, con manifesti e ordini del giorno, le liberazioni
avvenute, invitare la popolazione a darsi immediatamente dei propri organi popolari
di amministrazione e di governo. In questo momento, già intiere vallate e regioni
possono essere liberate. Noi speriamo che le nostre organizzazioni e i responsabili
militari non si siano lasciati superare dagli avvenimenti. Una cura particolare deve
essere portata per la liberazione e l’occupazione delle zone industrialmente importanti
o per gli impianti elettrici che in esse vi sono o per le industrie che vi fioriscono.
La liquidazione dei residui presìdi fascisti e nazisti, non deve più essere cosa impossibile,
se l’azione di forza si accompagna con intelligente azione di agitazione e dimostrazioni
di masse popolari. Non c’è più da temere che i nazifascisti tentino dei rastrellamenti
nelle zone liberate. La Valdossola, la Valsesia, il Biellese, il Canavese, le Valli
di Lanzo, come le valli piemontesi occidentali, le Langhe e il Monferrato, l’Oltrepò
pavese e la sesta zona ligure, le vallate appenniniche, possono essere liberate, già
da oggi, dalle sole forze partigiane. Questo deve essere fatto senza esitazione. La
realizzazione anche solo di alcuni di questi obiettivi può favorire la realizzazione
degli altri e più difficili.
Non si può fissare allo sviluppo insurrezionale un corso determinato e unico. Situazione
per situazione, i nostri compagni, responsabili di partito, di organizzazioni di massa
o militari, devono studiare e decidere con la più grande freddezza, col più scrupoloso
esame di tutti gli elementi della situazione, ma anche con la più grande audacia,
il da farsi, e realizzare con la più grande energia ogni decisione presa.
Ripetiamo: l’insurrezione precipita verso la sua conclusione vittoriosa. Il nazifascismo
può crollare per disgregazione e per collasso interno. Noi dobbiamo provocare questo
crollo con l’agitazione di massa e con l’azione armata. L’insurrezione nazionale di
tutto il popolo deve essere la causa determinante di questo crollo, e non il seguito,
non la coda. Nella misura in cui i compagni e le organizzazioni riusciranno a questo,
si vedrà la loro capacità politica, la loro decisione e la loro audacia insurrezionale.
Tutto e tutti mobilitati per la cacciata dei tedeschi e dei fascisti, per l’insurrezione,
per la vittoria!
24 aprile 1945
9.
Il compito di Maurizio e dei suoi collaboratori è di controllare i settori strategici
dell’organizzazione: le comunicazioni interne, la gestione dei fondi e i collegamenti
con la Svizzera, dalla quale entrano molti dei finanziamenti alla lotta di liberazione.
Per questo, Maurizio è in continuo movimento.
È spinto dalla convinzione che sia necessario superare la frammentazione della lotta
in correnti legate ai partiti, pur avendo lui militato da sempre in un partito – il
Partito d’azione, che rappresenta presso il Comitato di liberazione nazionale. Già
nel settembre del 1943, nelle ore in cui l’organismo si formava, era stato nominato
responsabile militare per il Nord Italia, grazie alla sua lunga militanza e alla sua
esperienza nella prima guerra mondiale, in trincea e – neanche trentenne – come maggiore
impiegato al Comando supremo.
Mentre da Milano cercava di tenere le fila del magmatico movimento che prendeva forma,
per le montagne, per le campagne e per le città dell’Italia centrosettentrionale militari
sbandati si riunivano in piccoli gruppi, e con vecchi e nuovi antifascisti davano
una prima organizzazione embrionale a quella che sarebbe diventata la Resistenza.
Servivano armi, serviva tutto – serviva un disegno complessivo.
Anche per questo, già a novembre Maurizio era andato in Svizzera per incontrare i
due delegati dei servizi americani e inglesi che incontreremo ancora, Allen Dulles
e John McCaffery. A quest’ultimo poco prima Maurizio aveva scritto di essere consapevole
dell’“estrema importanza” dell’atteggiamento alleato. Che non avrebbe dovuto e potuto
“trascurare i profondi ed insopprimibili motivi ideali della lotta antifascista”,
e che l’intenzione avrebbe dovuto essere di “portare larghe masse a sentire la necessità
morale di credere nuovamente in una meta per cui valga la pena lottare e ancora soffrire”.
Nonostante il tentativo di Maurizio di arginare le divisioni, le formazioni partitiche
avevano però iniziato a nascere fin da subito, a partire dalle Brigate Garibaldi,
comuniste, alle quali erano seguite le formazioni Giustizia e Libertà, fondate proprio
dal Partito d’azione nei mesi successivi. Maurizio ne era diventato il comandante,
il 14 febbraio 1944 – sarebbero state seconde, per importanza, solo alle Garibaldi.
Il fatto che Maurizio ricoprisse tre cariche in contemporanea, in un’organizzazione
complessa che si strutturava giorno dopo giorno, e che predicasse l’unità cercando
allo stesso tempo di fare gli interessi del suo partito, non passò inosservato: le
accuse dei comunisti, che lui cercava effettivamente di imbrigliare, si fecero anche
pesanti. Ma furono sempre riferite al suo monopolio accentratore e a prassi che tendevano
a escludere le anime non azioniste dall’organizzazione: non sembrava in dubbio la
sua determinazione, né la sua buona fede. All’inizio delle polemiche, in una lettera
ai membri del Cln di Milano, Maurizio si era difeso sostenendo di voler salvaguardare, in ogni modo,
“il carattere popolare del movimento e la sua autonomia”. E scrivendo che si opponeva
recisamente “ad affidarne la direzione a generali”. La guida del movimento era politica
e, nonostante le difficoltà, la strada verso il tentativo di unità nella lotta continuava
a fare il suo corso, grazie alla abilità di uomini di parte, è vero, ma con una visione
che verrebbe da definire prospettica.
Quando a Maurizio venne affidato il comando delle formazioni Giustizia e Libertà,
il Comitato di liberazione nazionale lombardo era appena stato investito del ruolo
di governo straordinario del Nord, per “promuovere e dirigere la partecipazione popolare
alla lotta di liberazione in un clima di unità delle forze antifasciste”: nasceva
così il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia. Poco dopo, sempre all’interno
delle controversie per il controllo dell’attività militare del partigianato, Maurizio
ricordava ai comunisti quanto cercasse di interpretare il suo ruolo in vista di un
obiettivo comune:
Ho dato al compito che mi è stato affidato e di cui ho assunto la responsabilità tutto
me stesso, senza risparmio; credo di poter dire che il mio lavoro non è rimasto e
non rimarrà senza frutto. Ritenevo di potermi attendere un diverso riconoscimento.
Ho dato prova di largo spirito di conciliazione nei confronti delle richieste e pretese
del Pci condotte attraverso due mesi di discussioni defatiganti e sofistiche, ed ho
personalmente sempre cercato di stabilire con i suoi rappresentanti l’avvicinamento
più amichevole; ma, indipendentemente da quelli che potessero essere i miei rapporti
con i rappresentanti del Pci, ho sempre stimato essenziale prerogativa delle mie funzioni
osservare scrupolosa imparzialità nei confronti di tutti i partiti ed ho sempre richiesto
da tutti schietta lealtà, come è nello spirito del patto di liberazione nazionale;
ed ho perciò ritenuto mio dovere controbattere il sorgere, il profilarsi di tendenze
anticomuniste nel terreno militare: credo si debba a me se esse sono state largamente
neutralizzate: si deve a me se in Lombardia non si sono verificati gli inconvenienti
portati in altre regioni dal Comando militare; ivi attuato in accordo con i rappresentanti
del Pci; ho tenuto fede con chiarezza e fermezza alle direttive fondamentali fissate
per il nostro lavoro dal Cln. Ritenevo di potermi attendere un diverso riconoscimento:
in prima linea del Pci.
Ritenevo di aver dato a tutti i partiti la garanzia migliore costituita dalla limpidità
della mia condotta. Mi spiace che il Pci non comprenda che le garanzie migliori sono
quelle morali.
“Ogni spirito di collaborazione”, concludeva, “ha la sua base elementare nel rispetto
dovuto ai compagni di lavoro”. E richiamava i suoi critici “al senso delle loro responsabilità
di fronte alla gravità dell’ora e dei compiti che ci attendono”.
La formazione del Corpo volontari della libertà, nel giugno del 1944, era stata una
svolta: il Clnai cercava di dare gambe alla necessità di creare un organismo unitario che rappresentasse
tutto il movimento partigiano di fronte a se stesso, al governo dell’Italia liberata
e agli Alleati, e che superasse la conflittualità tra le varie anime della Resistenza.
Milano era diventata così la capitale della lotta di liberazione dal nazifascismo,
sede del Clnai e del suo braccio armato – il Cvl. A Milano, dove si svolgono due delle tre scene che costituiscono l’ossatura di queste
pagine, avrebbe preso forma, mese dopo mese, l’autonomia del Nord Italia, nella lotta.
E nel comando generale del Cvl sarebbero state rappresentate più delle altre le due anime che l’avevano dominata
fin dall’inizio, e che non hanno mai avuto nessuna intenzione di accettare che la
guerra partigiana potesse riportare il paese in una situazione di compromesso con
la monarchia e con i residui del fascismo, ma che hanno sempre voluto provare a “rifare”
l’Italia da capo.
Il Partito d’azione sarebbe stato rappresentato da Maurizio, le formazioni Garibaldi
dal loro comandante – un comunista di vecchio corso, un rivoluzionario di professione:
il comandante Gallo. Di questo incontro inconcepibile e che allo stesso tempo ci pare
ineluttabile, che ebbe il potere di attenuare la storica diffidenza di Maurizio verso
i comunisti, avrebbe scritto molti anni dopo Giorgio Bocca, ex partigiano: “I due
sono dissimili per idee e per temperamento, forse neppure amici, ma si stimano, profondamente,
sin dalle prime esperienze della guerra comune”. E Bocca avrebbe aggiunto un episodio
che, sebbene si possa escludere che sia avvenuto così presto, getta una nuova luce
sulla nostra storia. Le sue fonti, stando alla nota riportata dall’autore, sono conversazioni
con lo stesso Maurizio e il suo compagno di lotta Riccardo Lombardi, un protagonista
della Resistenza che conosceremo. Secondo Bocca, nell’autunno del 1943 Maurizio, alla
vigilia d’una missione rischiosa l’aveva detto agli amici.
Nel caso in cui fosse morto, il suo successore avrebbe dovuto essere il comandante
Gallo.
10.
Non so quanto spazio potessero occupare, all’epoca, due milioni di lire. Sicuramente
non poco, dal momento che il generale Valenti e il capitano della Special Force britannica
decidono di lanciare un milione insieme ai loro bagagli, e di dividersi l’altro a
metà, prima di paracadutarsi. Un foglio di istruzioni – sarebbe andato perduto – dice
che quei soldi non sono che l’inizio, ma che l’appoggio angloamericano ci sarà solo
se l’azione militare non verrà interrotta da interferenze politiche. Il maresciallo
Alexander, che sta per essere nominato comandante supremo alleato nel Mediterraneo,
aveva scritto al generale una lettera che, al contrario del foglio di istruzioni,
è arrivata fino a noi. Lo ringraziava “di aver accettato questa difficilissima e pericolosa
missione nel Nord”, e chiudeva augurandogli “miglior fortuna” e dicendo: “spero che
potremo incontrarci in condizioni di maggior tranquillità, in un futuro non molto
lontano”.
Quando viene aperta la botola al centro dell’Halifax, il generale si siede sul bordo,
aspettando le indicazioni luminose concordate con il pilota. Al segnale verde si issa
sulle braccia, con le gambe nel vuoto – il segnale rosso significa che è il momento
di lasciarsi andare. Ma il pilota, lo sguardo fisso verso i fuochi dei partigiani,
laggiù, in lontananza, accende la spia rossa in anticipo. Anche se nessuno lo può
vedere, sotto il quadrimotore non c’è del terreno ricoperto di muschio, come da copione,
ma delle sponde inclinate e sassose di un lago di montagna. Gli altri tre uomini sull’Halifax,
con ogni probabilità, si stanno guardando nella penombra della fusoliera, preoccupati:
la luna oramai è scivolata dietro le alture, e il buio si sta facendo sempre più impenetrabile.
Manca la visibilità ideale, necessaria, per l’azione.
Oltre mezzo secolo dopo, in un libro-intervista sulla sua vita, un altro protagonista
della lotta di liberazione che conosceremo nella seconda scena – il folle colpo di
mano –, avrebbe ricordato le settimane che avevano preceduto questi minuti. Il generale
Valenti aveva “la gamba immobilizzata per una caduta da cavallo”, avrebbe detto al
suo intervistatore, e il rischio di perderla, secondo gli istruttori alleati che lo
avevano preparato alla missione, “era del novanta per cento”.
In famiglia, di questo non si è mai parlato.
Del fatto che quest’uomo con i bicipiti in tensione e lo sguardo nel buio sotto l’Halifax
si fosse addestrato per settimane al Sud, che fosse estremamente determinato a portare
a termine la missione, questo sì. Del fatto che fosse anziano, per il compito che
gli era stato assegnato e per l’epoca, anche – al punto che nella leggenda familiare
di anni ne aveva settanta, forse qualcuno in meno, e non quasi cinquantacinque. Ma
che la situazione fosse così compromessa fin dal suo inizio, che il rischio fosse
così alto, è sorprendente, e nessuno lo ha mai detto, negli ultimi decenni. E forse
non avrebbe avuto neanche senso parlarne, sapendo come è andata a finire.
11.
“Documenti”.
“Eccoli”.
“Ci segua alla prefettura di polizia, per piacere”.
“E perché? I documenti sono in perfetta regola”.
Teresa era stata seguita, anche se aveva fatto attenzione. Viaggiava persino senza
fotografie dei suoi due figli, perché una madre è sempre più vulnerabile delle altre
donne, se la vedi dalla prospettiva di chi ti sta dando la caccia. Ma alla stazione
di Montparnasse, a Parigi, due uomini l’avevano affiancata. La polizia aveva piantonato
tutte le entrate della metropolitana del quartiere – cercava proprio lei. Il documento
falso non fu sufficiente, e Teresa venne arrestata. Era l’aprile del 1943, l’occupazione
tedesca dell’Italia non era ancora incominciata, ma la lotta ai fascismi in tutta
Europa era una missione di vita, per rivoluzionari di professione come Teresa – Estella
– e l’uomo che aveva sposato, il comandante Gallo. E questa scena l’aveva messa fuori
gioco, pochi mesi prima che la resa dei conti si spostasse sul terreno dove avevano
mosso i primi passi, dove, oltre vent’anni prima, avevano iniziato a combattere.
Non che non ci siano, le donne come Teresa, in questa guerra al nazifascismo. Ma è
come se sfuggissero, come se si sottraessero al punto focale del nostro racconto.
Nella prima scena, nell’estate del 1944, sul quadrimotore Halifax ci sono solo uomini:
il generale Valenti, con le gambe a penzoloni a guardare nel buio una valle che dicono
essere controllata dai partigiani, e tre meteore. Tra i protagonisti della seconda,
il colpo di mano, non vedremo donne. E nella terza, nella trattativa dell’Arcivescovado
del tardo pomeriggio del 25 aprile, non c’è neanche l’ombra di una donna. Gli uomini
presenti sono addirittura nove, e ne potremmo contare molti di più se guardassimo
oltre la porta, e poi qualche minuto più in là, e poi giù per le scale, e poi in cortile,
e se poi ci accorgessimo di chi verso quell’appuntamento con la storia si sta precipitando,
per mancarlo di pochi gradini.
Le donne ci sono anche qui, ma quasi sempre hanno l’aspetto di quegli attori di secondo
piano che rimangono impressi forse nei film, perché li vedi, anche solo per pochi
attimi, e allora c’è qualcosa che ti rimane del loro sguardo, del modo di incedere,
del tono di voce. Ma non nei libri, perché sono poche righe che ti allontanano dalle
vite dei tuoi tre protagonisti – Valenti, Maurizio, Italo –, sono quel rumore di fondo
che spesso fanno i personaggi secondari in una storia che ha lasciato un numero incalcolabile
di tracce, è vero, ma che ci trascina in una narrazione ellittica, rapsodica, ci costringe
a fare i conti con porzioni non trascurabili di incompletezza, a orientarci tra i
pochi documenti che sono sopravvissuti a quella stagione di oscurità, tra le molte
testimonianze che ci danno conferme o ci fanno esitare, e a prendere atto del numero
incalcolabile di informazioni che potremmo non avere mai.
Perché, addentrandosi nelle vite e nelle parole dei molti uomini e delle poche donne
che popolano queste scene e i giorni e i mesi che le hanno rese possibili si tende
a dimenticare, forse, che ogni loro atto, ogni pensiero, ogni lettera, si sta svolgendo
nell’assoluta clandestinità.
Il comandante Gallo, che oramai deve fare a meno di Estella in seguito al suo arresto,
vive come un’ombra nell’Italia occupata. Maurizio si sposta, si rende invisibile mentre
si affanna a cercare contatti con gli Alleati e con l’universo antifascista, diffidando
dei comunisti, arginandoli. Finché non incontra il comandante Gallo e cambia in parte
idea perché, oltretutto, il fatto che il generale Valenti sembra essere destinato
a diventare il loro comandante generale, per entrambi, è un problema. Maurizio e Italo,
alias comandante Gallo, sanno che serve un contrappeso più moderato, per il governo dell’Italia
liberata e per gli Alleati, che rappresenti liberali, democristiani e tutte quelle
forze che hanno davvero poco in comune con azionisti e comunisti, se non l’avversione
al nazifascismo. Lo sanno, ma temono che la lotta diventi un affare dei moderati,
quasi una faccenda apolitica diretta da Roma, lontana e libera. E loro, invece, vogliono
un rinnovamento radicale dello Stato e della società – una rivoluzione, per i comunisti.
O qualcosa del genere. In questo, anche se in molti li ricordano come confusionari,
male organizzati e ininfluenti, i socialisti potrebbero essere d’aiuto. O almeno uno
di loro.
12.
Cittadini, lavoratori:
sciopero generale contro l’occupazione tedesca,
contro la guerra fascista
per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine.
Come a Genova e a Torino,
ponete i tedeschi di fronte al dilemma:
arrendersi o perire.
Dal tono della voce non trapelano emozioni forti – furore, rabbia o rancore. È difficile
da immaginare, oggi, pensando alla storia che sta alle spalle di questo pugno di parole,
scandite alla radio nel cuore delle giornate in cui tutto finisce e un nuovo mondo
sta per avere inizio. C’è determinazione, c’è calma, c’è la serena certezza dell’ora
che è scoccata, in questa voce che emerge dalla clandestinità e dall’esilio: è la
voce di Sandro Pertini, l’avvocato socialista che Maurizio, molti anni prima, aveva
fatto scappare in Francia. Sandro Pertini, protagonista di una spettacolare evasione
da Regina Coeli, all’inizio del 1944, protagonista degli alti e bassi dell’antifascismo,
e della Resistenza. Un protagonista che sgomita, in questa storia: fa parte del Comitato
insurrezionale, come il comandante Gallo. E come il rappresentante del Partito d’azione,
un ulteriore attore di primo piano, in queste ore decisive. Un uomo che vent’anni
più tardi avrebbe ricordato così la genesi di quell’annuncio che scatenò la popolazione
milanese, alla Liberazione: “Il mattino del 24 aprile io ricevetti da Genova la telefonata
che mi annunciava l’avvenuta insurrezione di quella città. Diramammo l’ordine dello
sciopero generale insurrezionale che ebbe inizio in Milano, con lo sciopero dei tranvieri
e con l’occupazione delle fabbriche da parte delle maestranze, alle ore 13 del 25”.
Ha un cappello in testa, e la sciarpa, il cappotto scuro e gli occhiali gli regalano
eleganza e pacatezza. Alle spalle del suo primo piano, sfocate, alcune fabbriche.
Ha ormai passato i cinquantacinque anni, ma all’epoca ne aveva trentasei, dodici in
meno di Pertini. Sta ricordando le ore dell’insurrezione in un documentario del 1965:
La lunga campagna d’Italia. Quei giorni di aprile. Viene da mettere il video in pausa, per osservare un fermo immagine nel quale guarda
in basso, come a cercare di risvegliare la memoria di queste ore convulse.
È un compagno di partito di Maurizio, si chiama Leo Valiani.
Capitolo secondo.
La clandestinità
0.
(Roma, Teatro Eliseo, 13 maggio 1945)
Amici romani, il vostro è un applauso che mi mortifica, mortifica me e mortifica l’amico
Valiani.
Noi non siamo qui per cercare delle piccole gloriole in un momento in cui ci sono
compiti così duri da risolvere. Il vostro applauso lo intendiamo rivolto non alle
nostre persone così modeste che hanno il solo merito di aver saputo assumere la responsabilità
di quanto facevano, ma ai nostri morti: sono essi che ci comandano e che ci comanderanno
ancora nel nostro ulteriore cammino, e il vostro saluto lo intendiamo rivolto, oltre
che a loro, ai nostri compagni del Nord, non solo a quelli del nostro partito, ma
a tutti coloro che con noi hanno lottato anche fuori dai nostri quadri e che hanno
combattuto con lo stesso valore e con lo stesso spirito.
In questo senso noi contraccambiamo questo saluto a voi, amici di Roma, che rappresentate,
per noi che veniamo da Milano, un po’ tutta l’Italia. E per noi l’Italia è una sola;
per noi non esiste un Nord e un Sud, siamo tutti italiani nello stesso modo e facciamo
solo una distinzione fra gli italiani che vogliono la libertà e quelli che non la
vogliono. Soltanto questo divide gli italiani. Ma se potessi è un abbraccio che vorrei
portare da Milano fino all’ultimo compagno nostro in fondo alla Sicilia. Perché questa
lotta per la libertà ha stabilito in Italia un’unità morale come non vi è mai stata
dal nostro Risorgimento in avanti.
Gli amici di Roma mi hanno impegnato... a tradimento a raccontarvi qualche cosa del
movimento della resistenza. Io non sono un uomo politico, non sono capace di arti
oratorie e per la verità non so neppure parlare in pubblico, anche se questo è composto
di amici sinceri come voi: parlare è per me un sacrificio e un vero e proprio tormento,
un barbaro tormento anche perché penso che voi ne abbiate già abbastanza di sentir
parlare di partigiani, con tutta la retorica che se ne è fatta. Invece gli amici di
qui mi dicono che voi non conoscete molto del movimento e della sua storia. E allora
mi debbo arrendere al sacrificio che mi chiedete. Vi prego però di accontentarvi che
vi faccia un piccolo, modesto rapporto di quanto è stato fatto. Questo rapporto sarà
poco preciso perché non ho con me la documentazione necessaria per precisare con qualche
cifra la misura dello sforzo compiuto e l’importanza dei risultati conseguiti.
1.
Il fondo valle, e Valenti lo sta per scoprire, è sotto il controllo dei tedeschi,
mentre la montagna e le vallate laterali sono praticamente in mano ai partigiani,
così gli hanno detto. Quando si trova sospeso nelle tenebre, il generale vede i fuochi
di segnalazione davanti a lui, mentre sotto c’è una specie di macchia bianca – l’aspetto
non è rassicurante. Dubito che ora, dopo il violento risucchio d’aria che ha seguito
il lancio nel vuoto, abbia il tempo di pensare al suo futuro prossimo: lo immagino
contratto, teso verso il momento in cui deve cominciare la sua missione nel Nord.
Ma nelle ore e nei giorni precedenti, l’ha fatto certamente.
È vero, arriva da sud, e anche se all’inizio dell’occupazione nazista ha partecipato
alla difesa di Roma, sa che questo non lo aiuterà più di tanto. Dai leader e dai combattenti
dell’Alta Italia, gli uomini come lui sono spesso guardati con sospetto, e il generale
Valenti non si fa grandi illusioni: sa che il compito che gli è stato dato non è da
tutti, sa che se arriverà a terra sano e salvo la strada che lo attende sarà impervia.
Glielo aveva scritto un maresciallo, un paio di mesi prima: “Caro Cadorna, mi viene
comunicato oggi che hai accettato il non facile compito che in questi giorni ti era stato offerto. Non mi meraviglio, perché conosco
il tuo coraggio fisico, la tua fermezza e la tua decisione. Il tuo nome, oltre tutto,
è una bandiera”.
Ma non basta essere un uomo impetuoso e caparbio per comandare decine di migliaia
di persone forgiate nella clandestinità. Non sarà facile, farsi obbedire. “Il primo
significato di libertà che assume la scelta resistenziale”, avrebbe scritto mezzo
secolo dopo lo storico Claudio Pavone, “è implicito nel suo essere un atto di disobbedienza.
Non si trattava tanto di disobbedienza a un governo legale, perché proprio chi detenesse
la legalità era in discussione, quanto di disobbedienza a chi aveva la forza di farsi
obbedire. Era cioè una rivolta contro il potere dell’uomo sull’uomo, una riaffermazione
dell’antico principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù”.
Non basta un cognome come il suo per esercitare la propria autorevolezza su altre
decine di migliaia di ragazzi che ingrossano le fila partigiane sui monti e in città.
Settant’anni più tardi un giovane scrittore, Paolo Di Paolo, dopo aver letto La Resistenza perfetta di Giovanni De Luna, un libro che ci ricorda quante anime sono confluite nella lotta
di liberazione, proverà a elencare le diverse motivazioni dei resistenti:
“Per rispondere alla propria coscienza. Per istinto. Per sottrarsi alle razzie di
uomini dei tedeschi. Per sottrarsi ai bandi di reclutamento dei fascisti. Per senso
di precarietà. Per paura. Per amore della libertà. Per amore di un’idea, di un ideale.
Per amor di patria. Per non morire. Per morire, se necessario, per una causa giusta.
Per non pensare che tutto sia perduto. Per fare in modo che non tutto sia perduto.
Per non perdere tutto. Perché è una scelta, e questo è il momento di scegliere. Per
lottare. Per uscire migliori dalla guerra. Per essere migliori comunque. Per sentirsi
vivi. Per lavare il compromesso e la viltà. Per scommessa. Per desiderio di avventura.
Per rabbia. Per non essere obbedienti. Per disobbedire. Per difendere qualcosa. Qualcuno.
Per calcolo. Per salvare qualcuno. Per salvarsi. Per varcare un confine. Dentro se
stessi, anche. Per ribellarsi. Per sprezzo del pericolo. Per mettersi alla prova.
Per vedere se si è capaci di uccidere. Per uccidere il nemico. Per cambiare la propria
vita. Per immaginare il futuro. Per senso di giustizia. Per limitare l’ingiustizia.
Per prepotenza. Per pietà. Per punire. Per vendicarsi. Per trovare una strada. Per
avere il diritto di parlare. Di parlare oggi e domani. Per agire. Per poter dire di
avere agito. Per non restare inquinati dal fascismo. Per riscattarsi dalla tirannide.
Dalla violenza di quella tirannide durata vent’anni. Per essere protagonisti della
storia. Per cambiare le cose. Per speranza. Per dovere morale. Per fedeltà politica.
Per fedeltà a se stessi, a un Paese, a chi è già morto combattendo, a chi è morto
ingiustamente e basta. Perché finisca la guerra. Perché si è ancora in tempo. Per
chi non ha ceduto e non cede. Per chi resiste. Per resistere”.
Non basta la volontà per essere uniti contro nazisti e fascisti, e Valenti lo sa,
potrebbe anche essere che stia pensando proprio a questo, mentre il paracadute è a
pochi metri da terra.
L’urto è brutale, e lo rovescia sulla superficie rocciosa. La fitta al ginocchio arriva
subito, mentre cerca di sollevarsi. E, dalle sponde scoscese del lago di montagna,
vede avanzare delle ombre.
2.
Tre obiettivi, e decine di migliaia di uomini che si devono coordinare per realizzarli.
A Torino, il 25 aprile le squadre partigiane di città – Gap e Sap – hanno ricevuto un “ordine di mobilitazione” perentorio dai propri comandi, che
elenca gli obiettivi.
“Difendere gli impianti industriali, le opere d’arte ferroviarie, i ponti, i servizi
pubblici”.
“Disturbare al massimo il ripiegamento delle forze tedesche, disarmare quanti nemici
sarà possibile, se si arrendono, eliminare senza pietà quelli che offrono resistenza”.
“Reprimere con forza e decisione ogni forma di delinquenza comune, in modo che la
liberazione di Torino avvenga in quell’atmosfera di disciplina operaia, patriottica
che le è propria”.
I partigiani entrano in azione seguendo queste direttive, e prendono il controllo
di numerose industrie cittadine, tra cui la Grandi Motori. Anche a Milano, a partire
dal pomeriggio, le fabbriche, scelte dalla metà del mese come cuore dell’insurrezione,
vengono occupate insieme alle sedi dei giornali – nella capitale della Resistenza
si combatte strada per strada. E sui tetti, come a Torino, ci sono i cecchini fascisti
da stanare.
A Genova, intanto, sono arrivati i partigiani dalle montagne a dare manforte. Con
una manovra a tenaglia hanno catturato alcuni presidi tedeschi, bloccando diversi
tratti stradali e sfondando a ovest. Viene espugnato anche il punto chiave di Castel
Raggio e liberata l’altura di Granarolo. Lì c’è una stazione radio, da cui si dà al
mondo la notizia che Genova è insorta. Il comandante Pittaluga parlerà alla radio
così:
Popolo genovese, esulta.
I tedeschi resistono ancora in alcuni quartieri, ma il generale Meinhold nel tardo
pomeriggio firma la resa di fronte al presidente del Cln, l’operaio comunista Remo Scappini, compagno di partito del comandante Gallo. È un
caso eclatante nell’Europa occupata: un comando tedesco si arrende ufficialmente a
delle formazioni partigiane.
Per la prima volta, nella storia di questa guerra,
truppe tedesche si sono arrese alle forze spontanee di un popolo,
del nostro popolo, del popolo genovese.
Ma non è ancora finita.
Nei palazzi del potere, intanto, si cercano mediazioni. A Milano il cardinale Schuster,
con la collaborazione di alcuni suoi sottoposti, del prefetto (fascista) e di un industriale
(vicino ai fascisti), si impegna in prima persona nelle trattative, cercando di favorire
un accordo tra i vertici della Resistenza e i gerarchi di Salò: nonostante in molti,
nella cerchia di Mussolini, abbiano cercato di avviare delle trattative separate,
i loro nemici non cedono di un passo. Schuster questo lo sa, e convoca l’incontro
facendo il gioco delle tre carte, stando a quanto avrebbero ricordato molti dei presenti:
gli unici ad avere le idee chiare su quello che vogliono ottenere dall’incontro sembrano
essere gli antifascisti. La mattina presto, una seduta del Clnai ha stabilito la linea che i tre rappresentanti del partigianato – ne parleremo –
avrebbero dovuto seguire in Arcivescovado.
Resa senza condizioni, e consegna delle armi.
3.
È uno degli uomini più ricercati d’Italia, e lo è da tempo.
Lo era a Roma, dove aveva imparato a muoversi in clandestinità e aveva incontrato,
già all’inizio dell’ottobre del 1943, i primi esponenti azionisti, socialisti, liberali,
oltre alla rete di militari che aveva cercato costantemente di strappare alla propaganda
fascista per portarli sulla strada della lotta di liberazione. Aveva ben chiaro che,
per combattere contro i nazisti e i fascisti, serviva una collaborazione tra militari
e politici, ragione per cui aveva rifiutato l’incarico, nelle prime settimane di occupazione
nazista di Roma, di comandante delle forze militari clandestine della capitale. La
sinergia con i civili è sempre stata una sua priorità, e per questo era già stato
al Nord, l’inverno precedente. In un appunto manoscritto, presente nell’archivio di
famiglia, prima di quella missione aveva scritto che “la riscossa morale è la prima
e più importante da raggiungere” e che la “concordia fra gli Italiani che non sono
passati al servizio dei tedeschi”, la concordia tra gli antifascisti, “è il supremo
bene per oggi e soprattutto per domani”.
Il generale si rialza, le ombre si avvicinano: sono uomini armati.
Aveva incontrato tutte le anime della Resistenza, nei mesi precedenti quella prima
missione clandestina al Nord, ma dai comunisti aveva cercato di stare alla larga.
Era la fine del dicembre del 1943, e lui aveva preso contatti con i rappresentanti
del nascente Clnai che stavano lavorando all’unificazione di tutte le forze antifasciste.
Gli uomini che emergono dall’ombra sono partigiani – sono i primi elementi dell’esercito
del quale formalmente, al momento, gli è richiesto di essere il consigliere militare.
L’uomo che li comanda ordina di ritirare i pacchi che sono stati lanciati dall’Halifax
e dice a tutti di sbrigarsi: il giorno precedente due suoi uomini sono stati catturati
da elementi della Guardia nazionale repubblicana. Potrebbero aver cantato, dice, potrebbero
aver rivelato il rifugio dei loro compagni. E il lungo volare a bassa quota dell’Halifax
non può essere sfuggito ai nazifascisti che stanno rastrellando la valle. Bisogna
partire, subito.
La luna è scivolata irrimediabilmente dietro le montagne, in questa lunga notte dell’11
agosto 1944, in questa scena che sembra l’inizio del film Dove osano le aquile. Il generale Valenti, quasi cinquantacinque anni e un ginocchio in pessimo stato,
stringe i denti e incomincia a marciare con loro. È lontano dalle riunioni con gli
Alleati, lontano dalle trattative estenuanti con militari e ministri laggiù, al Sud.
L’impatto con la Resistenza è autentico, tridimensionale. Questi uomini e questi ragazzi
– sono tanti, i ragazzi – marciano nella notte, con lui e con i suoi compagni di volo,
per evitare la morsa nazifascista.
4.
Che il rischio di perdere la gamba sia stato così alto potrebbe essere un’esagerazione.
Ma un’ora di marcia, in quelle condizioni, dev’essere stata durissima. Dev’essere
stata eterna, un’ora, tra salite, altipiani e strapiombi, boschi con una vegetazione
fittissima e ampi pascoli. Il panorama mozzafiato è nascosto dietro il buio di questa
notte di agosto. Il generale Valenti e il gruppo di partigiani che l’ha recuperato
raggiungono una casa spoglia – neanche il tempo di riposarsi che sentono delle grida.
Reparti della Guardia nazionale repubblicana stanno razziando un centro abitato di
poche migliaia di abitanti, Gandino, che sessant’anni più tardi avrà dallo Yad Vashem
di Gerusalemme, l’ente dedicato alla memoria della Shoah, il riconoscimento di paese
Giusto tra le Nazioni per avere protetto una sessantina di ebrei in fuga. La ferocia
della Repubblica sociale italiana cresce di ora in ora, anche in città: il giorno
prima, a Milano, i corpi di quindici partigiani fucilati sono stati esposti tutta
la giornata in piazzale Loreto.
Le armi per combattere in teoria ci sono, ma mancano le munizioni, dice il comandante
partigiano al generale Valenti: l’unica strada è cercare riparo nei boschi per poi
discendere a valle quando la situazione sarà tornata calma. Il gruppo abbandona la
casa e raggiunge il margine di un altipiano, dove una signora offre al generale una
tazza di latte appena munto. Qualche chilometro sotto, il lago di Endine. Alle loro
spalle, intanto, si levano alte colonne di fumo dall’abitazione che avrebbe dovuto
essere il loro rifugio. Incendiata, con ogni probabilità, dai fascisti.
Nelle lunghe ore in cui restano nascosti tra gli alberi e il ginocchio può riposare,
il generale Valenti si informa sulla situazione. E inizia a cogliere la complessità
del compito che lo attende: le formazioni come questa non sono fornite a sufficienza
di equipaggiamento e non sono addestrate, ma soprattutto non hanno basi logistiche
stabili, devono muoversi costantemente e rifornirsi in maniera creativa. La lotta
oramai è estesa in tutto il Nord, e questo nucleo di intrepidi è modello di una condizione
diffusa: il generale non è davanti a uno sparuto gruppo di sabotatori, ma a una parte
di un numero impensabile, fino a pochi mesi prima, di combattenti – spesso, come in
questo caso, molto giovani – che vedono vicino il momento dell’insurrezione.
All’imbrunire del giorno successivo, il gruppo riparte. A guardare oggi il percorso
su Maps, senza considerare il rischio dei rastrellamenti, i carichi pesanti e le armi,
sono altre tre ore di cammino. È un sentiero difficile che costeggia un dirupo, ma
il ginocchio di Valenti tiene fino alla meta, una torretta di proprietà dell’uomo
che comanda la formazione. Una formazione che si definisce un distaccamento delle
Fiamme verdi, ma che di fatto agisce in completa indipendenza, eccezion fatta per
i contatti con il Cln di Bergamo, il capoluogo della zona. Ecco una cosa che andrà fatta, pensa il generale
Valenti prima di addormentarsi: è urgente provare a coordinare le operazioni su vasta
scala.
La mattina seguente si riparte. La destinazione questa volta è un paese di nome Darfo,
ma il generale viene caricato su un’autocorriera: manca poco a Ferragosto e anche
molti tedeschi che presidiano la zona si concedono un bagno, lasciando involontariamente
maggiore libertà a chi cerca di rendersi invisibile. Nei pressi del colle che separa
la Val Cavallina dalla Val Camonica, alcuni cartelli gli richiamano la sensazione
di pericolo.
Achtung Banditen – Attenzione Banditi
Per i nazifascisti i banditi, ovviamente, sono loro. A Darfo, Valenti incontra alcuni
capi delle Fiamme verdi, che gli raccontano la loro vita quotidiana, in montagna e
in pianura. I tedeschi tengono d’occhio la valle, dal momento che è un importante
collegamento con l’Alto Adige, ma i partigiani controllano ampie porzioni di territorio
in quota e, con vari colpi di mano, sono riusciti a procurarsi armi e munizioni. Il
problema sembra essere essenzialmente politico – ed è una delle principali ragioni
per cui il governo dell’Italia liberata e gli Alleati lo hanno voluto mandare in missione
–, e Valenti lo scriverà:
Le “Fiamme Verdi” si qualificavano autonome, cioè non dipendenti da partiti politici;
nella zona da esse occupata era preponderante l’influenza dei democristiani. Tentativi
fatti dai comunisti per infiltrarsi e provocare scissioni e defezioni erano oggetto
di aspre proteste e di vivaci reazioni.
Secondo i piani predefiniti dagli Alleati, la Val Camonica dovrebbe essere la sua
base, per poter convocare da lì gli esponenti del Clnai e provare a dotare l’organismo di una regia militare. Ma la voce del suo arrivo si
è già sparsa nella regione, e inoltre questo genere di problemi organizzativi va gestito
dal centro della Resistenza, dal cuore dell’Italia settentrionale. Da Milano, città
dove Cadorna ha comandato il reggimento “Savoia Cavalleria”. I posti di blocco sono
tanti, ma Valenti sta imparando l’arte del trasformismo: l’anziano signore trasandato
e visibilmente zoppicante che viene fermato più volte nei pressi di Bergamo e di Monza
non può che essere innocuo, agli occhi dei fascisti. E passa.
Quando arriva nella capitale della Resistenza, Milano, il generale Valenti si sistema
in un piccolo albergo – Promessi Sposi – presso Porta Venezia, e dorme in una vasca
da bagno perché non c’è altro. Sa che è una sistemazione provvisoria: gli serve un
rifugio e, soprattutto, gli serve qualcuno su cui poter fare affidamento. Non è facile
trovarlo: in molti lo conoscono in città e, proprio per questo, deve essere prudente
– non di tutti gli sono note le idee politiche. Ci pensa a lungo, passando in rassegna
gli amici di un tempo, le persone delle quali crede di potersi fidare e quelle delle
quali non saprà mai se avrebbe potuto farlo. Pensa a cosa può significare, per un
amico, aprire la porta di casa a uno degli uomini più ricercati d’Italia – probabilmente
d’Europa.
E così, una mattina di agosto del 1944, il generale prende una decisione. Una di quelle
che segnano una svolta, nella vita di chi sceglie la clandestinità. La persona in
cui mettere in mano la propria vita. La persona che se dovesse cedere sotto tortura,
se dovesse anche solo tremare, avere paura, ti consegnerebbe a chi ti cerca senza
sosta da quasi un anno, senza trovarti.
Non lo vede da tempo, ma è un suo compagno di collegio, è un amico, Paolo Righini.
Il generale aspetta un secondo che ho sempre immaginato interminabile, sul pianerottolo
di casa di Paolo.
Poi, bussa.
5.
Le date che Cecilia, la moglie di Valenti, indicherà nel breve resoconto della sua
vita clandestina, nel 1976, sono in parte errate. Ma le scene che emergono dalle poche
pagine che scriverà per i figli, e che pubblicherà la rivista “Verbanus” nel 1995,
riescono a restituirci come sono stati quei giorni di clandestinità, quei primi giorni
in cui Valenti si trova a dover portare il suo contributo alla lotta di liberazione
al Nord, quei giorni che lo hanno condotto a bussare alla porta del suo vecchio amico
di collegio, Paolo Righini.
Cecilia non vede il marito da più di due mesi:
Non avevo nessuna notizia di Papà, da quando gli alleati avevano occupato Roma e noi,
quindi, eravamo rimasti tagliati fuori: eravamo sotto il dominio dei tedeschi e della
Repubblica di Salò, con a capo Mussolini – scriverà ai figli –. Un giorno si presentò Paolo R. Voleva sapere se avevo notizie perché, diceva, correva
voce che Papà fosse al Nord, in montagna coi partigiani.
Lei risponde a Paolo che non credeva.
Dopo una settimana, il 14 agosto 1944, il nostro Paolo tornò. Subito gli dissi: “Sai
qualche cosa?”. Mi rispose: “So più che qualche cosa”.
6.
“Fate in modo che non ci siano stragi, che non ci siano cose di cui debba vergognarsi
l’Italia”.
“Eminenza, quando ci troviamo in queste condizioni non si ha più la possibilità di
tenere l’ordine pubblico”.
La risposta secca del presidente del Clnai, Alfredo Pizzoni, al cardinale Schuster, è riferita da uno dei due più stretti collaboratori
del cardinale, monsignor Giuseppe Bicchierai. Questi è un uomo delle gerarchie ecclesiastiche
che da mesi si sta dando molto da fare per condurre un’azione diplomatica. A fine
1944 era a Berna a incontrare Allen Dulles – il responsabile americano dell’Office
of Strategic Services (Oss) che un anno prima era con Maurizio –, per proporgli un piano di ritirata da Milano
dei tedeschi che evitasse spargimenti di sangue e la distruzione degli impianti industriali,
obiettivo – questo – in comune con le direttive insurrezionali. Bicchierai è uno dei
tanti mediatori delle ore della Liberazione, uno dei più importanti. In un documentario
del 1977, il suo faccione e i suoi capelli bianchi in primissimo piano, con voce decisa
collocherà questo incontro tra Schuster e il presidente del Clnai in un generico momento successivo all’“episodio della Svizzera” – questo dialogo
è probabile sia avvenuto poche ore prima del 25 aprile, a quanto possiamo dedurre.
Conosciamo invece con certezza l’ora indicativa della seduta del Clnai che, tra le 7 e le 8 del mattino del 25 aprile, ha stabilito la linea da tenere per
i suoi rappresentanti in Arcivescovado: resa senza condizioni. Sappiamo anche che
verso mezzogiorno, poco prima che esploda lo sciopero insurrezionale, proprio monsignor
Bicchierai riceve una telefonata e incontra il rappresentante del Clnai Achille Marazza, un avvocato democristiano cresciuto nella clandestinità che, a partire
da qui, diventa un altro protagonista. Insieme a Bicchierai e a Marazza c’è l’altro
braccio destro di Schuster, don Luigi Corbella, e i tre uomini si vedono sul piazzale
della stazione centrale di Milano. Marazza comunica che il termine ultimo per l’accettazione
della resa senza condizioni da parte dei nazisti sono le tre del pomeriggio e, per
la firma dell’atto di resa, aspetteranno fino alle sei. I sacerdoti vengono da due
incontri in parallelo: intorno alle 11 monsignor Bicchierai era dai tedeschi, don
Corbella dai fascisti. Si stanno dando da fare, gli uomini di Schuster, quel cardinale
Schuster che “sembra incarnare la continuità storica dei buoni rapporti della Chiesa
con il potere costituito”, dirà lo speaker alla fine del documentario del 1977. Si
stanno dando e si daranno da fare: monsignor Bicchierai è una pedina fondamentale
nella preparazione della partita a scacchi che si sta per giocare in Arcivescovado.
E come loro ci sono molte altre persone che in queste ore stanno percorrendo in lungo
e in largo Milano, stanno telefonando e scrivendo proclami, stanno tramando o si stanno
dando alla fuga, stanno meditando vendetta o pianificando la giustizia di transizione.
O stanno parlando alla radio con voce calma come Sandro Pertini, che lo fa anche a
nome dei suoi compagni nel Comitato insurrezionale, Leo Valiani e il comandante Gallo.
Cittadini, lavoratori:
sciopero generale contro l’occupazione tedesca,
contro la guerra fascista
per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine.
Come a Genova e a Torino,
ponete i tedeschi di fronte al dilemma:
arrendersi o perire.
Quando le sirene di Milano annunciano lo sciopero, si sta organizzando la trattativa:
con Schuster, Mussolini, e un solo rappresentante della Resistenza. Nel giro di una
manciata di ore, nella sala delle udienze dell’Arcivescovado i convitati finiranno
per essere in nove. Qualcun altro riuscirà a varcare la soglia di quella stanza, durante
la riunione, e qualcuno ci arriverà a tempo scaduto, lasciando aperti interrogativi
destinati a rimanere senza risposta, a scatenare ipotesi di una storia che potremmo
scrivere con i “se”, con i “forse”, con i “non so”.
7.
“Raff, entra”.
Paolo aveva aperto la porta, aveva guardato quel signore che sembrava più anziano
della sua età, quel signore che fascisti e tedeschi stavano cercando da mesi, e gli
aveva detto semplicemente questo, con un sorriso. Il generale Raffaele Cadorna, quindici
giorni dopo il lancio dalla botola dell’Halifax, è a Milano, ospite dell’amico Paolo
Righini. A quanto si raccontava in famiglia, la porta l’aveva aperta Paolo, ma nello
scritto che la moglie Cecilia ha lasciato ai figli la scena appare in una forma leggermente
diversa. Dopo aver vagato un po’ per la città, il generale aveva trovato la casa di
Paolo Righini, “superando lo sbarramento della domestica”. E l’aveva trovato ancora
a letto.
È il 26 agosto, e da quattro giorni al generale è stato assegnato un nome di battaglia
– Valenti – che userà poco, in realtà. Nella vita clandestina ne avrà talmente tanti,
ricorderà sempre Cecilia, che è difficile dire se qualcuno fosse più importante di
altri. Il più buffo, quello sì: quando le scrive, si firma Rosetta. E i suoi compagni
di lotta, in realtà, lo chiamano con il suo vero nome. Ma noi, qua, continueremo a
chiamarlo così.
Non è più da solo, Valenti: aveva chiesto subito a Paolo Righini di andare a recuperare
Cecilia nella sua casa di famiglia, in provincia di Como. E Paolo era partito, lei
aveva fatto una piccola valigia ed erano saliti su un treno stracarico:
Eravamo in piedi – scriverà lei ai figli – schiacciati come sardine, circondati da ogni sorta di persone, anche molti militari
repubblichini (così tutti chiamavano i fascisti). Dissi a Paolo: “Lei ha pensato che
rischia la sua vita, stando con noi?”. Egli mi rispose: “Mi permetterà di fare qualche
cosa per un amico, e, soprattutto, di servire il mio Paese”. Al che io dissi: “Allora
non discutiamone nemmeno”.
Quando alla fine si sono rivisti, il generale le ha raccontato della notte sull’Halifax.
“Gli tenevano compagnia le arie di un concerto di Mozart, sentito la sera prima a
Bari”, avrebbe ricordato lei. Le ha raccontato del lancio con il paracadute, della
sua gamba.
Zoppicava, perché nell’impatto col terreno aveva urtato malamente il ginocchio, già
acciaccato altre volte con cadute e calci di cavalli. “Ho trovato modo di imbroccare
l’unico sasso della zona”, soleva raccontare ridendo. Ma era allegrissimo, eccitato
dallo spirito d’avventura.
Era stato un miracolo, che non ci fossero i tedeschi ad attenderlo, “con tutti i pettegolezzi
fatti a Roma prima della partenza”, le aveva detto lui. “Perfino un giornale aveva
pubblicato la notizia!”. L’unico momento in cui si è fatto cupo è stato nel ricordare
il saluto del comandante della Special Force britannica, che gli aveva fatto gli auguri
per la missione, prima di partire. Aveva risposto che non desiderava complimenti,
il generale, perché quella che andava a fare era una guerra civile.
8.
Questo 26 agosto, c’è una riunione importante.
Il generale si incammina verso un convento, a Milano. Qualche passo più indietro,
per controllare che non sia pedinato, con ogni probabilità c’è sua moglie Cecilia,
che con lui ha voluto condividere la clandestinità.
Nei giorni precedenti ha già avuto modo di conoscere Achille Marazza, il democristiano
che a mezzogiorno del 25 aprile sarà con monsignor Bicchierai, e due liberali: l’avvocato
Giustino Arpesani, che in queste pagine tornerà, e il maggiore Mario Argenton, che
rivedremo in una foto, alla fine di tutto, non più camuffato con barba e baffi ossigenati.
Ha incontrato il presidente del Clnai che risponderà seccamente a Schuster: Alfredo Pizzoni gli ha dato il nome di battaglia
e non gli ha nascosto che il suo arrivo non sarebbe stato facile da digerire, per
i due uomini che, di fatto, stavano comandando la Resistenza nell’Alta Italia e che
hanno manifestato già in diverse occasioni la loro diffidenza, se non la loro avversione,
nei confronti dei moderati, e dei generali. Maurizio l’aveva già conosciuto, nell’ultima
guerra mondiale e in quella missione clandestina del dicembre del 1943 in cui si stava
iniziando a lavorare all’unificazione delle forze antifasciste. Qualche giorno prima
di questo 26 agosto Valenti l’ha rivisto, e Maurizio l’ha messo al corrente della
situazione. Invece il generale, in quell’altra occasione, nel freddo inverno dell’Italia
settentrionale non aveva incontrato il comandante Gallo: era impegnato a rafforzare
le sue formazioni Garibaldi, rendendo di fatto il partito autonomo al Nord. E a dotarle
della loro leggendaria organizzazione con la sua idea di disciplina, “cemento che
salda insieme le forze individuali” che non ha molto in comune con quella militare,
perché deriva dalla convinzione, “dalla cosciente accettazione di comuni obbiettivi
di lotta”: Gallo questo ce lo aveva chiaro e lo scriveva già oltre vent’anni prima.
Ora, per la prima volta, Valenti vede tutti, o quasi, i suoi compagni di lotta. C’è
Pizzoni a presiedere, c’è il democristiano Marazza e c’è il liberale Arpesani, mentre,
accompagnato da un avvocato – che verrà sostituito da Leo Valiani – in rappresentanza
degli azionisti c’è Maurizio.
Aveva largo seguito – scriverà Valenti – sia per le persecuzioni che la sua tenace posizione di antifascista gli aveva procurato,
sia per le forti qualità personali che gli attiravano le simpatie, specie dei giovani,
sia perché si era prodigato nel campo dell’organizzazione pagando sempre largamente
di persona. In non pochi ambienti era considerato come una grande promessa per l’avvenire.
Poi, i partiti più a sinistra. Per i socialisti non c’è Pertini, ma – anche in questo
caso – due avvocati. E, insieme a un compagno di lotta, c’è anche Italo, il comandante
Gallo. Lo abbiamo visto in divisa con gli occhi di Estella, quando gli era saltata
al collo, a Valencia. Ora, proviamo a vederlo con quelli del generale. Italo indossa
sicuramente un anonimo abito civile. I capelli sono sempre un po’ scompigliati, a
guardare le foto degli anni Quaranta, la fronte è ampia e le sopracciglia sono folte,
lo sguardo è quello penetrante dell’uomo d’azione che fa di testa sua, come nei vent’anni
precedenti gli hanno spesso rimproverato i suoi stessi compagni di lotta, gli altri
dirigenti del Pci. A immaginare quello sguardo ci possono aiutare le parole con cui lo descriverà nel
dopoguerra Leo Valiani: “Tutti dicono che Longo ha il volto della sfinge e certamente
nessuno è capace di leggergli nei pensieri; non tradisce mai un’emozione e tanto meno
un dubbio. Che sia un uomo di raffinata cultura e di profonda umanità lo sanno solo
gli intimi. Agli altri appare come scolpito nella pietra o meglio nel bronzo; organizzatore
eccezionale, però, e freddo ragionatore. Con Parri, che è un poeta dell’austerità
e un sentimentale, che cerca di dominare sempre, spesso invano, il proprio sentimento,
ma che è egli stesso organizzatore e amante dei ragionamenti prosaici, scevri di ebbrezza
ideologica e retorica, Longo finirà con l’intendersi oltre ogni aspettativa”.
Valenti, sorvolando, dal canto suo, sull’aspetto fisico di Italo, ne scriverà e lo
presenterà per ultimo nel suo resoconto di questa riunione tra uomini liberi. Braccati,
spiati e immersi nel pericolo, ma liberi.
Questi era considerato come uno dei massimi esponenti del partito, specie nel campo
dell’organizzazione attivistica. La lunga permanenza in Russia, e la partecipazione
attiva alla campagna di Spagna come ispettore delle brigate internazionali, avevano
completato la sua preparazione politica e messo in evidenza le sue capacità di organizzatore
militare. L’influenza dei comunisti mi sembrò subito preponderante: erano i soli che
nel giocare la partita si trovavano completamente a loro agio. Costretti da molti
anni a esercitare solo attività clandestina, si erano formati basi sicure e personale
fidato: i loro aderenti, non avendo avuto alcuna collusione col fascismo, potevano
facilmente accusare quanti in quel periodo avevano esercitato un’attività qualsiasi:
il concorrente veniva senz’altro definito fascista o reazionario o semplicemente attesista.
Per di più la linea di condotta dei comunisti era generalmente sostenuta anche dai
socialisti e dagli azionisti, dai primi perché timorosi di perdere terreno tra le
masse, dai secondi perché – secondo me erroneamente – ritenevano di poter meglio far
concorrenza ai comunisti mostrandosi più radicali di loro. Ma i comunisti non usavano
troppi riguardi nei confronti di questa fratellanza, pronti sempre a ripudiarla non
appena l’interesse politico lo consigliasse.
L’accoglienza da parte del comitato fu la più cordiale e tali si mantennero i rapporti
personali sino alla fine della mia missione. Al di sopra dei contrasti d’idee v’era
la stima reciproca tra uomini che, in omaggio alle proprie convinzioni avevano volontariamente
accettato gravi responsabilità e rischi non indifferenti.
La frase con cui Valenti racconta l’inizio della sua difficile missione l’abbiamo
già sentita, e sembra spazzare via le sue prime impressioni, che fin da subito complicano
il quadro. Perché – e chiunque se ne rende conto, allora come oggi – sono uomini troppo
diversi, quelli che si stanno guardando negli occhi nel convento milanese, mentre
il presidente del Clnai Pizzoni dà il benvenuto al generale e lo invita a studiare la situazione in vista
del prossimo incontro clandestino. Me li immagino andare via, alla fine: Italo con
passo deciso, Maurizio quasi scivolando nell’ombra, e Valenti trascinando la sua gamba
acciaccata senza far trapelare un grammo di sofferenza dal suo sguardo duro, risoluto.
Alla fine di questo primo appuntamento le strette di mano ci sono state per davvero,
ne sono certo. Sono mani sincere, di uomini pronti a tutto pur di spazzare via i nazifascisti,
sono strette di mano che uniscono, senza dubbio, ma che possono anche avere mille
significati nascosti: innanzitutto sondare quanta forza ci mette l’altro, nella stretta.
Sembra l’inizio di una luna di miele ma, in realtà, qualcosa sta incominciando a incepparsi.
E la prima scena – quella cominciata a bordo dell’Halifax, in una notte senza luna
– forse si chiude così.
9.
Sempre più sopite in ragione del tempo che scorre inesorabile e ci allontana da quegli
anni, le polemiche su quanto l’unità antifascista non fosse nient’altro che una chimera,
sul fatto che in realtà gli uomini impegnati nella Resistenza fossero in costante
conflitto tra loro hanno logorato in parte la narrazione che di quei venti mesi si
sarebbe potuta fare. Estenuanti dibattiti e bordate sui dissidi e sui frazionamenti
del Comitato di liberazione nazionale e del Corpo volontari della libertà hanno troppo
spesso allontanato dagli occhi della memoria pubblica italiana il portato tridimensionale
di quelle che furono scelte definitive e senza possibilità di ripensamento, per molti
tra coloro che furono ai vertici del movimento resistenziale. Alcuni si salvarono,
altri no.
I protagonisti indiscussi di questa storia – Valenti, Maurizio, Italo – sono tre uomini
nati a pochi chilometri e a pochi anni l’uno dall’altro, nello scorcio tra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Sono tre uomini con retroterra differenti,
biografie politiche e culturali diversissime, eppure con un destino comune, che il
26 agosto del 1944 si trovano per la prima volta nella stessa stanza, a Milano, e
si stringono la mano. Senza sapere cosa sarebbe successo in quelle ultime settimane
estive, e poi in autunno, e poi in inverno, e quando sarebbe iniziata la primavera.
Senza sapere dove sarebbero stati e se ci sarebbero stati, alla fine di tutto, otto
mesi dopo.
“La sopravvivenza della Resistenza, ovvia a posteriori, è il primo e niente affatto
scontato azzardo, che pochi avrebbero dato per vincente nell’inverno del ’43, e non
tutti nemmeno nell’inverno successivo. Si tratta di un’avventura lunga solamente venti
mesi, che è però fuorviante immaginare come un percorso rettilineo. Se ci si colloca
in un ideale punto prospettico coincidente con l’insurrezione finale – il 25 aprile
– i venti mesi precedenti finiscono per apparire come qualcosa di fatale, scontati
preliminari di una vicenda che non poteva che concludersi come si concluse. Viceversa,
il senso di sfida, di dramma, in certi periodi anche di tragedia o di scoraggiamento
che caratterizzano la concreta esperienza storica, può essere compreso solamente rinunciando
al senno del poi, avvicinandoci per quanto possibile al punto di vista dei protagonisti
che, ovviamente, non sapevano come sarebbe andata a finire”. Queste parole che ci riportano al senso del “punto prospettico” finale, il 25 aprile,
sono dello storico Santo Peli: le scrive nei primi anni Duemila, in quella che è considerata
forse la migliore sintesi della storia della Resistenza. Uno dei tanti libri che ci
trascinano anche nell’estenuante discussione nata in seno al Cvl per la formalizzazione del ruolo del generale Valenti che, per volontà degli Alleati
e del governo dell’Italia liberata e con l’appoggio dei partiti più moderati deve,
di fatto, contenere il carisma di Maurizio e Italo. Il che assomiglia parecchio a
un paradosso, perché è proprio con loro che deve collaborare.
Quando Valenti li rivede, dopo aver studiato la situazione come richiesto da Pizzoni,
sta finendo la “grande estate partigiana”, la stagione in cui la Resistenza ha occupato
intere vallate e ha costituito zone e repubbliche libere. Sono i primi di settembre
del 1944, e in due riunioni consecutive il generale sottolinea la posizione predominante
che hanno assunto Maurizio e Italo nella conduzione della lotta. Il carattere politico
delle formazioni è in linea con gli obiettivi essenzialmente politici di questa guerra,
gli rispondono i due, e non hanno intenzione di accettarlo come comandante. L’aria
che tira, poi, è di sfiducia nei confronti dei militari, ritenuti – a ragione – responsabili
di aver favorito il fascismo e le sue guerre e di avere poco entusiasmo per la lotta
di liberazione. A Maurizio e Italo, Valenti replica così:
Da voi chiamato, sono venuto per mettermi a vostra disposizione come consigliere militare.
Non fui mosso da ambizione o da velleità di titoli, ma dal desiderio di rendermi utile.
Qualora queste premesse cadessero, vi pregherei di dirmelo in tutta franchezza e io
vi domanderei di raggiungere i partigiani combattenti in montagna.
È un uomo d’azione che non ha mai nascosto il suo “temperamento di cavallo di sangue”,
che sa distinguere i militari “voltagabbana” da quelli di cui ci si può fidare, quelli
che da mesi scalpitano per mettersi al suo servizio – il generale è un uomo che non
le manda a dire. Pochi giorni dopo, in una discussione sulle gravi tensioni interne
alle formazioni partigiane della Val d’Ossola, un socialista presente alla riunione
chiede l’intervento di “un ufficiale apolitico coi coglioni”, che vada a mettere ordine.
Il generale agisce di impulso, con stizzito sarcasmo: è un dettaglio che fotografa
in maniera impietosa il clima di tensione di quei giorni di settembre, all’interno
del Clnai e del Corpo volontari della libertà.
Ieri non avete fatto che scagliarvi contro gli ufficiali apolitici, oggi ne richiedete
uno. Decidetevi, perché noi non possiamo fabbricarveli su misura.
Ma queste prime riunioni si chiudono con toni civili, con l’immagine di Valenti che
torna sui suoi passi e prende da parte Italo dicendogli “Lei che è persona intelligente
e ragionevole ammetterà che non mi sbagliavo”. La tempesta arriverà con l’autunno,
sul finire di settembre, e il detonatore avrà un nome che è già una leggenda, tra
i combattenti. Sarà un suo intervento a rinsaldare ulteriormente il sodalizio tra
Italo e Maurizio ai danni di Valenti, proprio perché è uno di quelli che lo sostiene
a spada tratta. L’ultima volta che aveva visto il generale era stato poche ore prima
della partenza dell’Halifax, nell’Italia liberata, ed è forse in virtù di questo incontro
vis à vis che avrebbe poi sostenuto che Valenti rischiava di perdere la gamba. Nella riunione
in cui sta per entrare in scena, quest’uomo che si farà detonatore rappresenta, di
fatto, la volontà degli Alleati e del governo del Sud, e non sembra particolarmente
capace di mediazioni.
È un ufficiale. Non è apolitico, tutt’altro, ma è uno “coi coglioni”, a detta di chiunque.
Sarà il protagonista della seconda delle tre scene che costituiscono le architravi
di queste pagine – il colpo di mano – e si chiama Edgardo Sogno. Ma tutti lo conoscono
con il suo nome di battaglia: Franchi.