Presentazione
Ai giovani che, non senza qualche buon motivo, reputano la politica una cosa “sporca”
da cui stare alla larga; ai milioni di italiani che non vanno più a votare perché
i partiti non consentono loro di essere protagonisti della democrazia partecipata
e rappresentativa; agli elettori che affidano il superamento della nostra democrazia
ai populismi, ai sovranismi, al popolo senza la mediazione delle istituzioni; a chi
vorrebbe una incredibile democrazia diretta; a tutti costoro abbiamo bisogno di dare
idee forti serie e meditate, ma soprattutto di fare loro conoscere testimoni che hanno
speso la loro vita per un Paese più coeso, più giusto, per una democrazia forte nelle
sue istituzioni parlamentari e nel pluralismo istituzionale.
Maria Paola Colombo Svevo è una di questi testimoni.
Questa biografia non va consegnata nelle biblioteche, ma, mi auguro, possa essere
divulgata ed essere oggetto di pubblici incontri; è la memoria di una donna che ha
vissuto una vita intensa al servizio del Paese. Nelle istituzioni nelle quali ha avuto
responsabilità ha sempre agito in modo generoso e spassionato, con grande rigore etico,
avendo attenzione alle persone emarginate. Maria Paola ha tratto forza e stimolo da
valori e da ideali intimamente creduti che ha tradotti in riforme sovente anticipatrici,
con l’obiettivo di rafforzare le istituzioni e rendere più giusta la società, in linea
con il suo essere sempre attenta ai più deboli ed ai più fragili, quelli che lei chiamava
“gli ultimi”.
È stata una moglie e una madre esemplare ed il marito, Giampiero, le ha dato un sostegno
indispensabile per il suo impegno politico. Testimonia Giampiero Svevo: «Non ho mai
partecipato alle sue iniziative. Ciascuno, di comune accordo, pensava alla propria
carriera. Apprezzavo molto il lavoro di mia moglie, non ero invidioso e non rimpiangevo
la politica, dalla quale mi ritirai subito, quando capii che lei era molto più brava
di me! Avevo altri interessi e non volevo interferire con il suo lavoro. Il sabato
e la domenica, invece, erano dedicati alla famiglia» (p. 101). Si è soliti dire che
dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna; in questo caso è accaduto il contrario.
Il mondo di oggi è profondamente cambiato rispetto a quello in cui ha vissuto e operato
Maria Paola, ma quegli stessi valori, ideali in cui ha creduto e per i quali ha operato,
sono più che mai necessari per compiere le azioni urgenti e indispensabili a superare
la crisi politica, economica e sociale, oggi resa ancor più drammatica da Covid 19,
che scuote il nostro Paese.
Maria Paola può ancora stimolare coscienze, indicare comportamenti, prassi trasparenti
che ci consentano di dare un futuro migliore al nostro Paese.
Il necessario breve spazio di una presentazione mi costringe a selezionare solo alcune
delle tracce che ha lasciato nella sua vita per confermare quanto siano ancora attuali
il suo insegnamento ed il suo esempio. La lettura attenta dell’intera biografia consentirà
al lettore di completare la parzialità di questa presentazione.
Innanzitutto i valori, gli ideali che sono stati il fondamento del suo impegno pubblico,
delle sue azioni nel partito, nella società, nelle istituzioni (Comune di Monza, Regione
Lombardia, Parlamento nazionale ed Europeo) e nel sociale. Il richiamo della biografia
alla terra in cui è nata e si è formata: la Brianza, la Diocesi Ambrosiana, l’Università
Cattolica che l’ha laureata in scienze politiche. Una terra ed una chiesa in cui solidarismo
cattolico e pluralismo istituzionale (i comuni, le provincie e, poi, la Regione) hanno
antiche e solide radici ed erano il carattere distintivo del Partito Popolare, prima
del fascismo, e della Democrazia Cristiana, dopo la guerra. I preti e i cattolici
laici illuminati di questa terra sono stati i protagonisti del riscatto dei contadini
(cooperative di consumo, mutue sanitarie, associazioni volontarie ecc.); dello sviluppo
economico e sociale (hanno persino promosso banche locali); delle Leghe bianche nelle
fabbriche.
Maria Paola ha respirato questa aria, è stata la naturale “passionaria” cattolica
laica nelle istituzioni, nelle quali da subito, sin dal suo primo impegno pubblico
(Comune di Monza), si è occupata di sociale, di famiglia, di diversamente abili, di
infanzia. Il suo obiettivo era quello di realizzare comunità coese e non disgregate,
avendo ben chiaro in mente che la coesione sociale è una condizione irrinunciabile
perché ciascuna persona che vi viva sia sempre pienamente realizzata, soprattutto
se in condizione di svantaggio fisico, psichico, economico, in condizione di fragilità,
di menomazione, con il rischio della sua esclusione. Il personalismo cattolico, solidale,
creativo, partecipativo, contrapposto all’individualismo egoistico, ha animato la
presenza dei cattolici. Questa era la sua concezione di democrazia: «una democrazia
è sociale o non sarà affatto» (p. 58). «Il sociale, il quotidiano è politica» (p.
60). Questi valori ha coerentemente realizzato nella sua azione dovunque Maria Paola
abbia operato.
Strettamente ed indissolubilmente intrecciato a tutto ciò, naturale completamento
del solidarismo cattolico, è il popolarismo di Luigi Sturzo, a cui Maria Paola si
è sempre richiamata, affermando: «noi traiamo la nostra origine dal Partito Popolare
di Sturzo» (p. 9).
Con il solidarismo cattolico ed il popolarismo sturziano, l’altro elemento del suo
pensiero, i corpi intermedi della società. Oggi lo chiamiamo privato sociale, terzo
settore. Maria Paola ha dedicato riflessioni e considerazioni anticipatrici sui corpi
intermedi che sono ormai riconosciuti un elemento insostituibile per la risposta ai
bisogni sociali.
In questi ultimi anni, finalmente, si è presa consapevolezza del fatto che le democrazie
occidentali poggiano su tre pilastri: lo Stato, i mercati, la Comunità (privato sociale),
terzo pilastro. Il terzo pilastro è fondamentale per una sana democrazia; non solo
e non tanto nel dare servizi sociali a buon mercato, non solo per realizzare la sussidiarietà
riconosciuta dalla nostra Costituzione, ma – sempre più frequentemente – facendo supplenza
al primo pilastro, lo Stato, e gli Enti Pubblici, che da soli non ce la fanno. Il
privato sociale è un presidio ineliminabile di tenuta della democrazia.
La sua azione nelle istituzioni è sempre orientata a realizzare questi valori.
Vicesindaca a Monza, si occupa di questioni sociali, di infanzia, attua iniziative
per i diversamente abili e istituisce, prima della legge nazionale, gli asili nido.
Non senza qualche difficoltà con il mondo cattolico che riteneva che l’educazione
dell’infanzia fosse compito precipuo della famiglia. Nel suo progetto, però, la famiglia
aveva un ruolo non eliminabile né secondario accanto agli asili nido. Questo era il
ruolo centrale e fondamentale della famiglia: «Dalla famiglia infatti iniziava il
rapporto democratico Stato-comunità intermedia, teso ad interrompere il sinonimo soffocante
Stato-individuo per una visione più articolata in cui donne e uomini possano trovare
nuovi spazi di partecipazione e di autonomia»; «al fondo ci stava il nostro motivo
dominante, la famiglia», «anche oggi si esce dalla crisi incentivando il lavoro delle
donne, ma questo obbiettivo può essere raggiunto solo se si crea una rete forte di
servizi per l’infanzia e per la famiglia in modo che si riesca a sostenere la donna
e l’uomo nei propri compiti famigliari» (pp. 99-101).
In Regione Lombardia, Assessore ai servizi sociali, propone e fa approvare la riforma
dei servizi sociali e la loro integrazione con il Servizio sanitario nazionale.
Si trattava di una nuova organizzazione dei servizi socio-assistenziali in una fase
di recessione economica e in un clima culturale segnato da diffidenza e ostilità nei
confronti del progressivo ampliamento pubblico. «È un altro capolavoro di Maria Paola»
(p. 113) che alle giovani milanesi della Democrazia cristiana spiegava bene la sua
riforma: «abbiamo scelto di istituire non le USL, Unità Sanitarie locali, ma le USSL,
Unità Socio Sanitarie Locali, perché per noi è importante guardare alla persona nella
sua interezza. Spesso un bisogno sanitario è associato ad un bisogno sociale. A differenza
dell’Emilia che ha una concezione diversa dalla nostra, abbiamo scelto di istituire
le USSL proprio per rispondere ai bisogni della persona» (p. 118). E questa sua “rivoluzione”
ha avuto una buona sponda dall’assessore alla sanità Vittorio Rivolta: eravamo tutti
e tre “basisti” della sinistra politica Dc, con grandi sensibilità su questi temi
e avevamo ben chiaro che nel futuro ai sussidi assistenziali si dovevano sostituire
i servizi.
In Parlamento riproporrà la riforma dei servizi socio assistenziali, per passare dalla
logica assistenzialista della legge Crispi del 1890 a quella dei diritti della persona
e dei servizi. In Parlamento è stata anche protagonista per l’approvazione della prima
legge sul volontariato, la n. 266/91.
E ancora, in Parlamento, il suo impegno si è speso per la legge sulle cooperative
sociali, la legge sui portatori di handicap, la legge sul servizio civile dei giovani
perché potessero sostituire il servizio civile al servizio militare. Il riconoscimento
dell’obiezione di coscienza per i giovani che rifiutavano il servizio militare: questa
battaglia difficile era stata vinta dal senatore Giovanni Marcora, fondatore della
“Base”.
Nel Parlamento Europeo Maria Paola continua questo suo impegno. È relatrice di importanti
progetti nel sociale: “parità di retribuzione per lavoro di pari valore”; “ruolo delle
cooperative nella crescita dell’occupazione femminile”; “tratta di esseri umani”.
Va sottolineato che nel Parlamento Europeo, in cui aggregare il consenso su questi
temi era molto difficile, la sua capacità di dialogo con componenti politiche molto
disomogenee è arrivata a raccogliere consensi difficilmente ottenibili, consensi poi
espressi all’unanimità. Maria Paola, di fronte alle difficoltà dell’Europa, coglie
da subito e chiaramente che l’Europa doveva compiere un ulteriore passo avanti verso
l’integrazione politica: «non c’è più niente da inventare, non ci sarebbe più motivo
di andare oltre se non per occuparsi di un’altra dimensione quella della unione politica»
(p. 89).
Il suo impegno nel sociale è proseguito, anche dopo la sua uscita dalle istituzioni
pubbliche.
Maria Paola Svevo nel corso della sua esperienza in Fondazione Cariplo ha sempre dimostrato
grande attenzione e sensibilità nei confronti del tema dell’infanzia. Con la passione
e la grande lucidità di pensiero che hanno sempre connotato il suo modo di lavorare
ha voluto orientare l’impegno della sotto-commissione “Servizi alla Persona” della
Commissione Centrale di beneficienza, da lei coordinata, verso l’infanzia meno tutelata,
ponendo quale obiettivo principale degli strumenti promossi dalla Fondazione il diritto
del minore a vivere in famiglia.
Da un lato, quindi, la scelta di investire su interventi di sostegno alle famiglie
mono-parentali, ai nuclei mamma-bambino, alle famiglie multi-problematiche, al fine
di evitare l’allontanamento del minore dalla famiglia, dall’altro la volontà di potenziare
l’accoglienza di minori, temporaneamente allontanati dal proprio nucleo d’origine,
in contesti familiari anziché comunitari. Su questa spinta si decise di strutturare
un bando sull’affido partendo dall’ascolto dei soggetti coinvolti, in primis le reti di famiglie affidatarie, il terzo settore, l’Ente pubblico ed il Tribunale
per i Minori.
Anche l’impegno storico di Maria Paola sul tema delle migrazioni e della tratta di
esseri umani ha trovato una concretizzazione negli anni in Fondazione, in particolare
con la pubblicazione di un bando rivolto alla creazione di percorsi di inclusione
sociale per soggetti vulnerabili e a forte rischio di marginalità, che aveva una attenzione
particolare al tema della tratta e dello sfruttamento. Infine, ha seguito con attenzione
il progetto Amministratore di sostegno, sviluppato in collaborazione con le organizzazioni
del territorio per diffondere il tema della protezione giuridica delle persone con
disabilità.
Ha mantenuto, volontariamente e generosamente, un forte impegno nel sociale promuovendo
l’associazione IRENE che realizza, a livello nazionale e internazionale, progetti
per promuovere le pari opportunità. Ha rivitalizzato la Fondazione Verga, già COI-Centro
Orientamento Immigrati, fondato agli albori delle migrazioni interne Sud-Nord Italia
fondata dall’onorevole Franco Verga. È stata anche impegnata nell’ISMU, Istituto di
studio e di azione della Multietnicità.
***
Quanto l’impegno nella pubblica amministrazione, nei comuni, nelle provincie ed in
Regione fosse per Maria Paola fondamentale è testimoniato dai suoi interventi, prima
a Milano, poi in Lombardia ed infine a livello nazionale. È arrivata ad affermare:
«Non sarei stata una buona politica se non fossi stata consigliera comunale» (p. 18).
Voleva che le donne democristiane si impegnassero negli enti locali, in particolare
nei comuni. Un disegno preciso molto innovativo che caratterizzava il movimento femminile
milanese e lombardo e, poi, a livello nazionale rispetto agli altri partiti. Lo scopo
di questa sua azione era duplice e molto chiaro: portare negli enti locali la sensibilità,
l’esperienza vissuta dalle donne nella famiglia e nella società, elementi che avrebbero
arricchito e reso più aderenti alle realtà sociali vissute le scelte degli enti locali,
con particolare attenzione ai bisogni sociali. Impegnare le donne nell’amministrare
la cosa pubblica perché potessero toccare con mano le difficoltà di passare dai documenti
scritti alla realizzazione dei medesimi.
Questo impegno avrebbe costituito per le giovani donne democristiane una buona palestra
di formazione. Maria Paola, ancora una volta, con una delle sue intuizioni che conferma
la sua intelligenza politica, spinge le donne democristiane a questo impegno, con
anche l’obbiettivo che le avrebbe accreditate nel partito come capaci di governare
la cosa pubblica, dare risposte ai bisogni sociali, e questa loro attività finalmente
le avrebbe rese autorevoli nel partito, facendole uscire dal “ghetto”.
Finalmente le donne democristiane avrebbero avuto nel partito quegli spazi che inutilmente
si sollecitavano nei documenti, congressuali e non; che Maria Paola, con una punta
di ironia, ricordava «erano sempre approvati all’unanimità, ma non accadeva nulla».
Nella biografia si ricorda: «per la cultura cattolica la presenza nelle amministrazioni
locali rappresentava la base dell’esperienza politica e le donne della Dc, in particolare,
puntavano ad essere elette in tutti i Comuni, le donne del Pc invece, miravano ad
essere presenti a livello parlamentare» (p. 14); «un tirocinio di informazione e di
impegno, quindi, senza nulla chiedere e pretendere: questa era l’iniziazione politica»
(p. 9).
Nella relazione al 13° congresso del movimento femminile, Maria Paola riafferma con
forza il concetto che «la partecipazione e la rappresentanza delle donne Dc deve essere
incentrato sulla ricerca di spazi di libertà da realizzarsi attraverso le autonomie,
ossia le Regioni, le Comunità locali, i quartieri, la famiglia» (p. 26).
Queste considerazioni sono di grande attualità, oggi che si è scoperto il ruolo fondamentale
della comunità intese come un territorio nel quale vivono persone legate da rapporti
di vita e di vicinanza, comunità che meglio sono in grado di conoscere i bisogni sociali
delle persone che li abitano e che da sempre hanno rapporti e legami intensi, per
risolverli.
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La biografia dedica ampio spazio all’impegno di Maria Paola teso per lunghi anni ad
ottenere la piena legittimazione delle donne nella Dc, non più una “riserva” non più
un “problema” da risolvere mettendo una donna in lista: «ci vuole una donna, sempre,
“una” ben inteso» (p. 57), come osserva non senza una punta di amara ironia.
È riuscita a portare al centro del partito il ruolo della donna e ad ottenere, dopo
una lunga e indefessa azione, finalmente, che le donne democristiane avessero ruoli
di responsabilità e di pari opportunità degli uomini.
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La questione femminile.
Il pensiero di Maria Paola sulla questione femminile è ben rappresentato nella relazione
al 15° congresso del Movimento femminile che l’avrebbe eletta delegata nazionale:
«significa fare i conti con il cambiamento che è avvenuto nelle donne, scavando nei
valori di questo cambiamento e vedendo qual è l’immagine della donna di oggi che vede
la sua identità ricca di quei valori tradizionali che non soltanto non rinnega, ma
vuole portare all’esterno. Oggi noi non siamo più qualificate da un ruolo prefissato,
né da una identità che ci è imposta, ma dalla ricchezza delle nostre possibilità,
dalla professionalità della nostra scelta, qualunque essa sia, anche quella casalinga»
(p. 62); «il nostro cambiamento non ha attraversato le grandi scelte politiche che
sembrano essere sempre più duramente impermeabili, non si è trasformato in un cambiamento
della politica. Questa è la nostra preoccupazione, che non è per noi, ma per il paese:
la nostra questione femminile si sta avvitando su se stessa in politiche di immagine
che mi hanno ossessionato in questi giorni, in politiche di ricerche di parità sempre
più sofisticate dei problemi veri» (p. 63).
«Andare oltre il femminismo vuol dire essere consapevoli che la condizione della donna
può cambiare solo realizzando una società ispirata da valori diversi da quelli che
hanno segnato ad un tempo la condizione di inferiorità della donna e la disumanizzazione
dei rapporti sociali» (p. 44).
Alla proposta marxista che aveva indicato il lavoro extradomestico e l’inserimento
nel ciclo produttivo e alla proposta femminista della liberalizzazione sessuale della
donna, Maria Paola propone la tesi della libertà di scelta nel rispetto della vocazione
personale della donna.
Posso confermare che non era favorevole alle quote ma riteneva che l’impegno politico
doveva ottenere sia nelle leggi che nella pubblica amministrazione l’eliminazione
delle condizioni di diseguaglianza che penalizzavano le donne, dei vincoli e degli
ostacoli che impedivano alle donne di essere pienamente protagoniste nella società
che cambiava e che senza di loro non avrebbe raggiunto il traguardo di una società
più giusta, più coesa e più forte e di una democrazia più solida. In questa battaglia,
perché di questo si trattò, Maria Paola ancora una volta si muove con grande intelligenza:
non si chiude rifiutando il confronto con il nuovo che avanza, anche nelle sue forme
più estreme del femminismo; cerca il confronto innanzitutto nelle realtà del mondo
cattolico con le associazioni cattoliche, «è stata una donna che è riuscita a tenere
insieme alcuni difficili filoni: il legame con la Chiesa, con la politica con i movimenti
femminili di diversa ispirazione e su questo sentiva che il mondo cattolico era in
ritardo. “Progetto donna”, fu per lei una sorta di ponte per comunicare con il mondo
cattolico, con gli altri partiti e con il femminismo laico» (p. 41).
Dialoga con le altre forze politiche creando strumenti di confronto, riuscendo a fare
convergere le altre forze politiche avvicinandole alle sue posizioni. Illuminante
è la testimonianza di Livia Turco: «il punto che ci muoveva era la presenza delle
donne e del punto di vista di genere in tutte le questioni politiche... mi ha portato
ad essere vicina al pensiero della differenza sessuale e riconoscere cioè che il mondo
è duale e che deve essere riconosciuta l’identità di genere ma fuori dai ruoli prefissati.
Facemmo la “Carta delle donne” che era costruita attorno alle forze di un mondo a
due. Dentro la rivalutazione della differenza femminile c’era anche la rivalutazione
della maternità e della famiglia» (p. 70).
La famiglia e la maternità sono stati punti fermi e irrinunciabili della sua azione
nelle politiche sociali che ha anticipato nel comune di Monza, in Regione Lombardia,
nel Parlamento nazionale e Europeo. In questa sua azione era stata molto facilitata
dalla Enciclica “Mulieris Dignitatem” di Giovanni Paolo II che «rappresentò una apertura
importante che consentì alle donne cattoliche di diffondere la loro presenza e il
loro pensiero, di riprendere dal loro punto di vista e con maggiore forza la questione
femminile di cui si offriva una rilettura cristiana che le liberasse dalla “trappola
della contrapposizione tra cultura-natura, tra essenza e funzione in cui si è perpetuato,
come si è detto, il peccato originale della questione femminile» (p. 46).
***
Era la donna del dialogo con coloro con i quali aveva una consuetudine culturale e
politica ma anche con coloro che non la pensavano come lei. Era la donna dell’ascolto
che sollecitava il dialogo, amava confrontarsi con chi aveva opinioni diverse ed era
pronta a recepire il buono che poteva venire dal confronto.
Un tratto del suo comportamento che mi ha sempre colpito era la sua serenità, quando
era impegnata in iniziative difficili, riforme anticipatrici che suscitavano polemiche
e contrarietà ed il cui esito non era certo. Se si trattava di una buona causa, per
lei, andava condotta fino in fondo serenamente, per avere la coscienza tranquilla
di aver fatto tutto il suo dovere.
Era mite ma era forte nel perseguire i suoi obbiettivi.
Nel testo sono riportate molte testimonianze di coloro che l’hanno conosciuta e incontrata,
ne estrapolo alcune che bene scolpiscono la sua personalità, i suoi comportamenti,
la serietà che metteva nella sua azione innanzitutto nel conoscere i problemi prima
di agire, nello studiarli per poi perseguire con determinazione il risultato di cui
si era convinta.
Non era solo pragmatica, aveva una formazione teorica robusta ed una profonda cultura
politica, era una persona che studiava (p. 31).
Era una donna mite, riflessiva, accogliente e gentile ma in quella occasione rivelò
tutta la sua forza: forza culturale, rigore di innovazione e moralità della politica
(p. 62).
Era forte e determinata, decisa e tenace (p. 21)
Era una figura carismatica per la sua laboriosità (p. 31)
Una persona che diceva la verità...la politica è guida della società ma non è tutto
e vedeva gli avversari come soggetti diversi, ma da rispettare (p. 69).
Fare politica per la Svevo voleva dire creare una rete, lavorare assieme, coinvolgere.
In questo senso era una leader. Non ha mai “giocato” solo per lei perché era generosa politicamente (p. 111).
Ci risulta vero quello che Maria Paola Colombo Svevo spesso ha affermato, e cioè che
la storia di ognuna riassume in sé quella di tutti (p. 75).
E anche chi militava in un altro partito realizzava con lei un rapporto di stima e
di amicizia vera: “È stata una persona a cui ho voluto bene, attraverso la politica.
Era una vera interlocutrice molto amabile...c’era un aspetto di umanità nel nostro
rapporto di amicizia che sempre sentivo” (p. 70).
Queste testimonianze confermano, se mai ce ne fosse bisogno, quanto la stessa Maria
Paola ha detto del suo modo di fare politica: «la mia storia personale e da dove provengo
non mi interessa... la storia... è innanzitutto di solidarietà effettiva, io sono
stata democristiana e ho potuto agire in politica perché con me hanno operato moltissime
donne che ho ancora nel mio cuore» (p. xxi).
In occasione della sua candidatura a delegata nazionale del Movimento femminile ha
detto: «Essa non nasce né da una questione di immagine, né da una questione di novità
o di cambio di generazione. Ci sarebbe stato di meglio nell’uno e nell’altro caso...se
volete non dipende affatto dalla mia bravura, dipende dal fatto che in quel momento
facevamo esperienze comuni...e ci siamo sentite in sintonia» (p. 62).
Maria Paola aveva la consapevolezza di essere una leader non perché lo dichiarava ma per il consenso che raccoglieva, per la solidarietà di
tante persone entusiaste di potere lavorare con lei, riconoscersi nelle sue battaglie;
per l’entusiasmo che suscitava in coloro che con lei collaboravano perché sapevano
che lei di ciascuno aveva stima. «Ho potuto agire in politica perché con me hanno
operato moltissime donne che ho ancora nel mio cuore». Questa era la sua intima convinzione.
Una bella lezione per i politici del nostro tempo che amano essere “uomini soli al
comando”, tutt’al più si circondano di un ristretto “cerchio magico”; politici che
personalizzano il partito di cui sono a capo.
Sono i politici e gli amministratori che amano le scorciatoie e non accettano la dura
fatica di vivere la quotidianità della democrazia e della politica, come ha lasciato
in eredità Maria Paola e di cui è stata un esempio che merita di essere seguito.
Giuseppe Guzzetti
Nota introduttiva
L’Autrice svela che il libro che stiamo offrendo ai lettori viola una certa discrezione,
quale tratto caratteristico della personalità di Maria Paola Colombo Svevo. Al contrario,
quando si trattava di prender cappello per difendere un’idea che considerava meritevole,
non c’era timidezza, anzi! L’ho conosciuta al Movimento femminile provinciale della
Democrazia cristiana milanese. La delegata era Maria Luisa Cassanmagnago; Maria Paola
era la vicedelegata. Alla capacità organizzativa della prima corrispondeva la elaborazione
culturale, ricca di fine analisi politica, della seconda.
Ho appartenuto alla generazione Svevo. Donna politica, non partitica, nonostante partecipasse
agli organi periferici e centrali del partito. Naturalmente, eravamo tutte donne o
ancora studentesse (come nel mio caso, alla Cattolica) o professioniste già impiegate.
Perciò, le riunioni avvenivano di sabato o di domenica, oppure, se necessario, dopo
le 18. C’era molto fervore nel gruppo, perché Maria Luisa Cassanmagnago lasciava ampio
spazio alle più giovani cui garantiva la sua impareggiabile capacità di muovere gli
uffici di partito per assecondarli. E guai se non fosse accaduto: in questo modo la
successione nell’incarico da parte di Maria Paola Colombo Svevo fu naturale e unanimemente
condivisa. Erano gli anni di un “femminismo cattolico” che a Milano aveva avuto un
certo rilievo. Accanto a questa esperienza, Maria Paola ne sviluppò un’altra, di grande
innovazione squisitamente politica. Con Cecilia Chiovini, del Pci, ed Elvira Badaracco,
del Psi, e insieme ad altre donne del sindacato e dell’associazionismo sociale di
varia appartenenza partitica, formò il gruppo interpartitico. Fu una esperienza molto
importante, perché anche in anni di contrapposizione ideologica – si pensi alle due
leggi più divisive come l’interruzione volontaria di gravidanza e il divorzio – non
vennero mai meno quel confronto e quel dialogo che resero un grande servizio al dibattito
nazionale sulle grandi leggi sociali, come quelle, ad esempio, dei consultori, della
riforma del diritto di famiglia, del lavoro, della parità femminile. Attraversò diverse
esperienze, prima nel partito e poi nelle istituzioni. Non viene ricordata a sufficienza
le leggi regionali 35 e 39 del 1980, ossia il primo Piano regionale dei servizi socio-assistenziali,che ha rappresentato la prima e più strutturata normativa per l’integrazione dei servizi
socio-sanitari e assistenziali. Lo sguardo di Maria Paola, anche nel dibattito interno
di partito, ebbe sempre un risvolto squisitamente istituzionale con un’attenzione
specifica alla condizione femminile in Italia. Questo suo profilo la identificò in
Senato, dove fu eletta per due legislature e dove, con l’esperienza precedente, ottenne
particolare riguardo e apprezzamento dalle colleghe di altri partiti con le quali
ottenne importanti risultati legislativi; ricordo fra tutte l’amicizia con Giglia
Tedesco. Dopo Palazzo Madama, fu eletta al Parlamento Europeo dove si distinse per
tutte le sfide che in quegli anni, non solo in Italia ma nel mondo, portavano in primo
piano la lesa dignità delle donne quanto alla parità di diritti. Certamente è un documento
da cui non si può prescindere la risoluzione contro la tratta, cui ha lavorato creando
largo consenso.
Per impulso dei familiari si è costituita una Fondazione, perché possa mantenere vivo
non solo il ricordo di una persona sempre importante, ma una storia politica. Sono
stata cooptata nel momento fondativo insieme ad altre amiche – Patrizia Toia ed Emanuela
Baio – e ho avuto l’onore di essere nominata presidente. Questo libro, voluto dalla
Fondazione, vuole tramandare contenuti che devono essere continuamente ricordati,
perché rappresentano la promozione di valori civili di solidarietà e di coesione di
cui il nostro tempo sembra così povero. Vuole essere uno strumento da cui le persone
più volonterose, soprattutto – ci auguriamo – quelle più giovani, possano ricavare
conferma e diventino testimoni di scelte coerenti. La vita personale di Maria Paola,
come quella pubblica, è stata improntata a scelte che dimostrano come vivere i princìpi
sia ben diverso dal proclamarli e, pure, dal difenderli. Nel marito Giampiero Svevo
ha trovato il supporto indispensabile per potersi dedicare all’attività politica,
durante la quale è diventata mamma per quattro volte. Prima ancora era stato autore
di un gesto che io sono solita ricordare a molti amici e alle persone che ritengono
incompatibile un’intensa attività pubblica con gli obblighi familiari. Infatti, anche
il marito era impegnato in politica e aveva incarichi nella Democrazia cristiana del
suo territorio. A fronte di scelte di Maria Paola che sembravano prospettare una carriera
più vincente per i valori legati alla promozione della donna e della famiglia, che
in quegli anni erano considerati una priorità nel mondo dei democratici cristiani,
ha ceduto il passo alla moglie. Lasciata la politica attiva, si è dedicato alla sua
professione e contemporaneamente ha seguito i suoi quattro figli. Un modo per dimostrare
che con qualche sacrificio è possibile conciliare scelte di vita e princìpi e, insieme,
contemperare il tempo del lavoro con il tempo della famiglia.
La buona politica trova le radici nella qualità della vita personale, come si è configurata,
per educazione ed esperienza in famiglia e nella comunità, quella di Maria Paola.
Mariapia Garavaglia
Presidente della Fondazione Maria Paola Colombo Svevo
Prefazione
La mia storia personale e da dove provengo non mi interessa. Io ho sempre fatto riferimento
a una storia comune e la mia si svolge a Milano e a Roma. La storia, in entrambe le
città, è innanzitutto di solidarietà effettiva, io sono stata democristiana e ho potuto
agire in politica perché con me hanno operato moltissime donne che ho ancora nel mio
cuore.
Nello scrivere questa biografia si è cercato di trovare delle indicazioni, delle “volontà”,
che ci fossero fornite dalla stessa Maria Paola Colombo Svevo, convinti, come si è,
dell’atto delicato che si va a compiere quando si “presume” di voler narrare un’esistenza
che non è la nostra. In queste parole di Maria Paola si è trovata più di una traccia
per proseguire in questo lavoro. Ne è venuta fuori, così, non una biografia, nel senso
classico del termine, che ripercorre, cioè, con ordine cronologico, le scansioni,
private e pubbliche, più importanti. Piuttosto, si è voluto far emergere questa storia comune, che è anzitutto storia di solidarietà, di cui Maria Paola è stata un “anello forte”, «una di quelle donne che lasciano un segno, a prescindere dalla celebrità», come ha detto Mariapia Garavaglia in occasione della sua commemorazione al Senato.
Si è seguita la formula «raccontami la mia storia», nel tentativo di far parlare un sé narrabile, anche se non più tra noi, attraverso
i documenti conservati negli archivi, gli scritti, le lettere, i ricordi e i racconti
delle molte persone che le sono state amiche e colleghe.
Queste considerazioni di carattere etico, se possiamo dire così, sono state le premesse
anche della metodologia che si è scelta, dell’approccio che si è adottato, evitando
i rischi che il genere biografico porta con sé. D’altronde, è la stessa vita di Maria
Paola ad aver suggerito, come si è detto, la strada da percorrere. Eliminata, quindi,
«la tentazione di ricreare l’irriproducibile, ossia una vita umana nella sua irripetibile
presenza», l’ambizione dello storico si fa più modesta, «perché egli sa in partenza che non
possederà mai la vita che indaga». Eliminata, altresì, la pretesa di oggettività, l’unico modo, per la storia, di essere oggettiva è quello di
esprimere «la pluralità dei soggetti e la molteplicità intrinseca a ciascun soggetto,
non supponendo una unità a priori, ma neanche accettando la frammentazione estrema».
La vita di Maria Paola ben si presta a questo discorso, il suo costante riferimento a una storia comune permette di ricostruire in meglio il tessuto culturale di una realtà. Nella sua unicità,
poi, la sua è anche una biografia “rappresentativa”: rappresentativa di un pensiero,
di una cultura, di un territorio, di una generazione, di moltissime donne. È parte di una storia: di quella del movimento cattolico democratico e popolare
e delle persone libere e forti.
Maria Chiara Mattesini
1.
Il “gruppo delle lombarde”
La gente della Brianza è così: feconda.
Il termine connota l’humus di questa terra, racconta la vitalità che la anima, la
capacità imprenditoriale [...], parla della ricchezza nel campo della solidarietà
e del volontariato, le numerose e poco conosciute bellezze architettoniche [...].
In questa terra c’è l’antica tradizione caritativa, che segue quel corso tipico della
realtà milanese e lombarda, ma al tempo stesso presenta alcune peculiarità: farsi
carico del bisogno riscattandolo; promuovere solide istituzioni che sopravvivano nei
secoli; generare tante piccole opere, all’insegna della discrezione e della concretezza;
creare e ricreare associazioni a seconda del bisogno che cambia, proponendosi come
una delle aree più vitali della realtà lombarda [...]. Ci sono istituzioni secolari
che sopravvivono, interpretando in modo nuovo le tavole di fondazione, ma mantenendo
l’intitolazione originaria [...]. Discrezione e concretezza sono due nodi della rete
solidale brianzola.
Maria Paola, classe 1942, nata a Rho in provincia di Milano, si inserisce a pieno
titolo nel corso di questa storia. Una storia che ha conosciuto una genesi e uno sviluppo
formidabili, divenendo un “mondo vitale”, bella espressione del sociologo cattolico
Achille Ardigò che Maria Paola ha preso a prestito per immaginare e realizzare la
sua democrazia. Si inserisce, altresì, nel filone di una «storia debole», come la definisce
la stessa Maria Paola al XVI Congresso del Movimento femminile (Mf), nel 1988, che
l’avrebbe nominata delegata nazionale, nel filone, cioè, di una storia ai margini,
quale è stata, e continua ad essere, quella delle donne e, in particolare, delle donne
cattoliche. Una storia che rischia di essere il “sommerso del sommerso” e di rimanere
senza voce.
Il curriculum di Maria Paola ricalca, nelle sue motivazioni e nelle sue tappe, quello delle donne
del Movimento femminile della Democrazia cristiana (Dc), soprattutto di coloro che
sono appartenute alla corrente democristiana di Base, probabilmente l’unica, nel partito,
ad aver promosso e incoraggiato il loro impegno, suscitando, tra l’altro, l’invidia
delle altre colleghe della Dc. Albertina Soliani, amica e stretta collaboratrice di
Maria Paola, le chiamava il «gruppo delle lombarde».
Io sono emiliana e fu un’esperienza unica e indimenticabile, nel quadro di un incontro
di esperienze che venivano da terre diverse.
Il gruppo, infatti, godeva di una maggiore autonomia, forte, anche, della presenza
di proprie candidate. Non è un caso, osserva Mariapia Garavaglia, «che sia stata soprattutto
la Dc lombarda e provinciale ad esprimere la classe dirigente nazionale. Le donne
del Mf che hanno avuto responsabilità hanno iniziato, tutte, a far politica nella
provincia». In modo particolare a Giovanni Marcora, tra i fondatori della corrente basista,
si deve la valorizzazione del contributo femminile e non è un caso che proprio la
Base, in particolare la sua “tribù” lombarda, sia riuscita a creare una “cordata” al femminile. È Tiziano Garbo, ex portavoce
di Marcora, a ricordarci i nomi più illustri: «Maria Luisa Cassanmagnago, partigiana
e basista, anche lei brianzola, la Svevo, la prima erede della Cassanmagnago, Mariapia
Garavaglia, Patrizia Toia. E poi c’era Emanuela Baio, che era più giovane». Le lombarde erano radicalmente diverse e la Base fu di grande stimolo intellettuale.
L’attrazione fu reciproca.
Le ricordo ancora in un incontro a Milano, sedute quasi per terra a ragionare di Welfare,
di politica, di autonomie locali. Erano molto concrete, avevano una teoria politica,
con un’idea fortissima di democrazia, di partecipazione dal basso. C’era molto più
della concretezza: c’erano una visione politica, un umanesimo e un approfondimento
di teoria e di confronto di idee.
“Le lombarde”, poi, avevano una storia di governo, erano percepite come donne di “potere”
ed anche per questo rappresentavano, per le altre, un gruppo di riferimento, una sorta
di «presidio straordinario».
Oltretutto, «noi donne dell’Emilia, della sinistra democristiana, eravamo minoranza
dentro la minoranza e tutto quello che c’era lo “prendevano” gli uomini». Invece, «la donna lombarda comanda!», afferma perentorio Sandro Bertoja, è una sorta di regiura, parola in dialetto milanese che Carlo Secchi, collega di Maria Paola al Parlamento
Europeo (PE), traduce con «reggitrice». Il Movimento femminile lombardo era molto forte e ogni comune aveva la sua sezione
femminile: «una formidabile truppa d’assalto, una macchina da guerra che aveva anche
il monopolio delle politiche sociali», come avrebbe confermato la stessa Maria Paola:
effettivamente ci fu un modello lombardo milanese. Noi avevamo la nostra autonomia
e chi doveva correre in quel momento lo decidevamo noi, senza alcuna interferenza
del partito. Questo era il risultato di un’opera di collegamento effettivo con la
società, noi avevamo le nostre donne comune per comune e non potevano tagliarci voti.
Una presenza costruita non senza difficoltà. Monza, ad esempio, era «una città conservatrice
e bigotta e come basisti eravamo in minoranza; la dominante era dorotea e Forze Nuove». Nativo di Rho, poi, era anche Filippo Meda, il quale aveva fondato «Il cittadino
di Monza», un giornale orientato a destra. Questo, dunque, era l’humus, politico e culturale, della città di Monza e della sua provincia, che rappresentava,
anche, una importante realtà economica con la presenza di molte industrie. L’apporto
di una visione laica, come quella della Base, fu dunque importante. Il resto della
Regione Lombardia, invece, era fortemente “impregnato di basismo”. È qui che la Base
aveva il suo nucleo forte ed è proprio la provincia ad “alimentare” la corrente e
anche il partito, che in Lombardia aveva un seguito enorme: i consensi della Dc erano
sempre attorno al 40%. Se è vero che ha incontrato delle resistenze, afferma l’ex
consigliere regionale Sergio Cazzaniga, Maria Paola «ha sempre agito, però, con la
“copertura” del tessuto lombardo».
Era, come si vede, una tradizione forte di pensiero e azione, di cui Maria Paola è
stata un esempio coerente e ancora stimolante, costruito con serietà e umiltà, partendo
da una gavetta, ancora giovane, nella politica locale. Maria Paola fa parte delle
politiche di professione, una generazione di donne cattoliche che, cresciuta negli
anni Settanta, ha iniziato a fare politica nelle giunte, nei consigli comunali e regionali
ed è lei stessa a confessarci che «non sarei mai stata una buona politica se non fossi
stata consigliera comunale». Per la cultura cattolica, la presenza nelle amministrazioni locali rappresentava
la base dell’esperienza politica e le donne della Dc, in particolare, puntavano ad
essere elette in tutti i comuni. Le donne del Pci, invece, ricorda Emanuela Baio,
miravano ad essere presenti a livello parlamentare:
era una dimensione diversa. Tutte le donne della Democrazia cristiana hanno iniziato
facendo il consigliere comunale. Era un non senso candidarti a livello parlamentare,
se non avevi vissuto una solida esperienza amministrativa locale.
È il dato comune al cursus politico delle donne democristiane, che, in linea di continuità col popolarismo di
Luigi Sturzo, si è caratterizzato per un’attenzione costante ai corpi intermedi della
società, a quei “mondi vitali” già citati: un aspetto che ha unito i basisti e Sturzo,
pur non essendoci stato, tra la corrente e il sacerdote siciliano, un rapporto idilliaco. In realtà, lo si vedrà nel corso di queste pagine, il pensiero cattolico femminile,
che in Maria Paola trova una compiuta articolazione, è quello che più di altri recepisce
la lezione sturziana, assimilandone contenuti e lessico politici. Chi l’ha conosciuta
bene dice che Maria Paola amava ripetere: «noi traiamo la nostra origine dal Partito
popolare di Sturzo».
Un tirocinio di formazione e di impegno, quindi, senza nulla chiedere e pretendere:
questa era l’iniziazione politica. Un tirocinio fatto, soprattutto, di studio, come
quello svolto durante i corsi estivi organizzati dal Movimento femminile al centro
“Alcide De Gasperi”, nel quartiere della Camilluccia, a Roma. «Qui, nel 1964 – racconta
Ileana Montini, allora incaricata della gioventù provinciale di Ravenna – ho conosciuto
Paola Colombo». Nel ’64 Maria Paola aveva 22 anni. Si era diplomata al Liceo classico “Parini”,
la scuola dell’élite laica di Milano, stava frequentando la Facoltà di Scienze politiche
all’Università Cattolica (si sarebbe laureata nel 1967) ed era già inserita nel Mf
come incaricata della gioventù provinciale milanese. L’anno dopo, nel 1965, sarebbe
divenuta delegata provinciale di Milano, prendendo il posto di Maria Luisa Cassanmagnago.
Il centro “Alcide De Gasperi” si trovava in una villa anteguerra stile liberty, dove si riuniva la direzione del partito.
Si arrivava dalla stazione con l’autobus; a quei tempi, lì non c’era niente. La nostra
dépendance era lontana dalla villa ed era una casa ad un piano con camerate grandi e docce di
acqua fredda. Eravamo molto spartane. Poi ci ribellammo. Però si mangiava molto bene.
C’era, inoltre, una sala per gli incontri che iniziavano sin dalla mattina. C’era
la cappella, con sopra una terrazza da cui la sera si godeva lo spettacolo di Roma.
Le delegate erano scelte con cura, perché il corso aveva lo scopo di formare le dirigenti
del Movimento femminile. I corsi si svolgevano in luglio e duravano una settimana.
C’erano, tra le altre, Tina Anselmi e Gabriella Ceccatelli, allora, rispettivamente,
vicedelegata nazionale e incaricata nazionale giovani, nonché ex delegata nazionale
della gioventù studentesca dell’Azione cattolica.
Ogni anno era scelto e discusso un tema. Negli anni Sessanta era stata soprattutto
la riforma del diritto di famiglia ad essere oggetto di approfondimenti e dibattiti.
La lectiomagistralis era tenuta da Lidia Menapace, ex staffetta partigiana, basista e docente di filosofia
alla Cattolica: «era molto stimata dal Mf. Teneva la prima lezione, perché era molto
aperta e democratica, aveva una visione umanistica e sociologica».
Le partecipanti erano una ventina e al termine delle lezioni cominciavano gli interventi.
Io e Paola eravamo le prime, immancabilmente, ad alzare la mano. Paola era molto lombarda,
molto precisa. Eravamo le più brave ed eravamo considerate. Molto affascinate dalla
politica, si apparteneva entrambe alla sinistra democristiana e anche lei era legata
a Lidia Menapace.
Nel pomeriggio, la messa era celebrata da un sacerdote di Brescia che aveva fatto
la Resistenza:
l’omelia era una “omelia politica”, una sorta di comizio. Padre Del Bono si chiamava.
La sera, invece, ascoltavamo le barzellette in veneto di Tina Anselmi.
Poi, «ci ribellammo e riuscimmo ad andare in centro, a Roma, dalle suore di Nostra
Signora di Lourdes, in un bel pensionato». Alla Camilluccia veniva regolarmente il segretario politico a portare il saluto
del partito. Non era semplice parlare in pubblico, ma «dovevamo conquistarci gli spazi». Si pativano e si scontavano ancora una certa suggestione e sudditanza. Ileana Montini
ha ricordato la volta in cui la delegata nazionale Franca Falcucci, colta dall’inaspettata
venuta del segretario Aldo Moro, fece intervenire Lidia Menapace, anche se non spettava
a lei prendere la parola, perché era la più preparata.
Suggestione, sudditanza e poi amarezza per l’indifferenza di gran parte del partito
nei confronti delle donne e del Movimento femminile. È sempre Ileana Montini a raccontare
il clima di allora:
Nel ’63 la delegata provinciale di Ravenna mi portò a Roma al congresso nazionale
del partito. Mi ricordo che in quella occasione conobbi Franca Falcucci. Non appena
iniziò a parlare, alcuni politici uscirono. Mi alzai urlando: «Onorevole, dove va?».
I documenti conservati nell’archivio del Movimento femminile confermano questa cultura,
questa prassi. La corrispondenza della Falcucci, così come i comunicati dell’Esecutivo
e del Comitato centrale dello stesso Movimento ne sono una triste conferma. Insistenti,
per esempio, erano le richieste di un’adeguata rappresentanza femminile e la messa
in stato di accusa delle «tendenze involutive, in senso oligarchico, del partito». Pressanti, inoltre, si facevano le sollecitazioni per una «maggiore integrazione
politica ed organizzativa del Mf nel partito» e, altro leitmotiv, per il «superamento di un’organizzazione troppo centralistica a favore, invece,
dello sviluppo delle autonomie locali e dell’assunzione di più dirette responsabilità
da parte dei cittadini». Non si contano, poi, le indignazioni per la mancata nomina o riconferma delle donne
in ruoli di ministro o di sottosegretario e per il mancato coinvolgimento del Movimento
femminile ai dibattiti intorno a quei temi su cui, pure, avrebbe avuto molto da dire,
come la riforma del diritto di famiglia. Si chiedeva di poter essere ascoltate: un
diritto che, «partendo dalle garanzie irrinunciabili e preliminari della democrazia
rappresentativa, si esprima in nuove possibilità di partecipazione». Proprio partendo dalla garanzia irrinunciabile e preliminare dell’esser rappresentate, si sottolineava l’esigenza del ripristino della norma statutaria concernente il
diritto di voto alle delegate provinciali e regionali. Sulla stessa linea, naturalmente,
si trovava anche il Mf lombardo. In un documento del 1965 si fa riferimento alla situazione
della provincia milanese la cui delega, come s’è detto, veniva affidata a Maria Paola
proprio in quell’anno. Il dattiloscritto non è firmato, ma si avverte e si riconosce
il linguaggio, il suo “occhio sturziano” nella lettura delle cose. Si riconoscono,
anche, il suo piglio e la sua verve. Vi si legge:
Si ritiene utile premettere che un discorso relativo allo statuto del partito o al
regolamento del Movimento femminile rimarrà del tutto vago o inopportuno, se il partito,
o meglio gli uomini del partito, non si saranno sforzati di intendere la società italiana
e le sue linee di sviluppo nel futuro.
Come avrebbe ribadito a quel XVI Convegno del Mf del 1988, «l’organizzazione non è
mai neutra rispetto ai diritti fondamentali». Si precisava poi, di seguito, che cosa si intendesse per società:
la società non è accettata qui come un determinarsi meccanico di componenti diverse,
che configurano la fisionomia interiore ed esteriore dell’uomo, ma è vista come il
luogo naturale di incontro e di collaborazione degli uomini che la compongono e ne
determinano gli aspetti più evidenti.
Fatta questa premessa, la formazione e il ricambio della classe dirigente divenivano
questione determinante per il partito. A patto, però, che al concetto di formazione
non si dessero contenuti puramente teorici e astratti. Sarebbe, altrimenti, rimasta
una «parola vuota di senso, un fatto del tutto disincarnato, senza rapporti col reale,
spreco verbale, vuota parvenza che maschera l’efficienza e le scelte di potere di
altra parte del partito». Ma se il concetto di formazione «è inteso come termine comprensivo di studio e approfondimento
teorico, ricerca e verifica pratica ed esercizio di responsabilità al servizio del
bene comune, con occhi bene aperti sulle esigenze di una realtà mutevole determinata
da uomini liberi, esso diventa impegno di tutto il partito». Ne erano esperienza viva «le cento amministratrici Dc dell’area provinciale milanese
[che] stanno a testimoniare che il discorso si fonda su un’esperienza concreta», le “nostre antenne”, come le chiamava Maria Paola. E, anzi, era opportuno che il
Mf conservasse, oltre a quello formativo, «il compito di cogliere quegli aspetti,
quelle esigenze della società italiana che il mondo femminile pone e attraverso le
quali si ripropongono più evidentemente le istanze della nostra società». Ciò che si chiedeva era una soluzione di tipo politico, che contemperasse in modo
armonico l’apporto popolare e quello istituzionale: «Permane – questa era l’amara
conclusione – il grosso rischio che resti inutilizzato per il partito uno dei modi
di accostamento alla realtà: il recepire da parte dei movimenti una certa problematica
sociale e il proporre le eventuali soluzioni attraverso una determinata politica». Ai movimenti, invece, sarebbe venuta a mancare «la possibilità di operare quella
presentazione in termini politici del partito di cui essi sono portatori presso quella
parte dell’elettorato al cui servizio sono stati costituiti». Difficile, dunque, resistere e andare avanti. Nel 1972, Viola Panichi Zalaffi comunicava
le proprie dimissioni da delegata regionale della Toscana, poiché «restare a rappresentare
una struttura che è un alibi della partecipazione femminile non corrisponde al mio
modo di interpretare la politica, che è impegno e crescita civile e non certo un confinamento
al ruolo di gregari».
Oltre al faticoso rapporto col partito, dalla fine degli anni Sessanta anche la dirigenza
di Franca Falcucci diveniva oggetto delle polemiche provenienti, soprattutto, dalle
nuove generazioni. Eletta delegata nazionale nel 1964, avrebbe mantenuto questa carica
sino al 1977, passando il testimone a Gabriella Ceccatelli. Se il ricordo è unanime
nel descriverla come una donna dal «carattere rigido», «scontrosa perché timida», con «posizioni conservatrici», altrettanto unanimi sono alcuni riconoscimenti e alcune considerazioni. «Aveva un
temperamento autoritario – racconta Ileana Montini –, però sulla emancipazione femminile
la pensava come noi». Anche sulla famiglia, ricorda Emanuela Baio, «il pensiero, se pur con sfumature
diverse, era lo stesso per tutte». La Falcucci, anzi, cercò di farsi sintesi in un momento complesso della storia italiana, il cui tradizionale sistema
valoriale stava cedendo il posto a nuovi codici morali. È Rosa Russo Jervolino, in
particolare, a sottolineare questo aspetto:
Senza dubbio il Mf ha avuto un tono meno severo e più contestatario grazie a Tina
Anselmi. La Falcucci era una persona introversa, capace, però, di cose enormi. Una
donna che, partita dagli ambienti della borghesia romana, è stata una delle protagoniste
della riforma del diritto di famiglia.
In questo scenario, dunque, va inquadrata la sua figura, nel clima, cioè, del ’68
e degli anni Settanta, che vedono esplodere il neofemminismo, «una pratica politica
che aveva profondamente trasformato la coscienza e la vita di molte migliaia di donne,
in tutte le regioni italiane, in città grandi e piccole, anche in moltissimi paesi», e vedono accendersi i dibattiti laceranti sul divorzio e sull’aborto. Sarebbe sufficiente, per rendersi conto del clima di allora, leggere le relazioni
che Franca Falcucci aveva chiesto alle delegate provinciali al fine di conoscere il
punto di vista di ognuna sugli esiti del quesito referendario concernente il divorzio.
Maria Paola aveva scritto alla delegata nazionale ancora prima del referendum, facendo
presenti le difficoltà che stava fronteggiando e il timore di possibili negative ricadute
sulla riforma della famiglia in discussione:
La campagna è piuttosto pesante, il partito si sta muovendo, ma è sempre più difficile
fare discorsi di contenuti sulla famiglia. Il problema è ormai diventato una questione
di prestigio e gli incontri sono piuttosto duri. Mi sento in dovere di segnalarti
l’enorme lavoro della Luisa Cassanmagnago: si può dire che all’inizio era l’unica
parlamentare a girare e a suscitare convegni, in zone di contestazione dove si è assunta
la parte più dura della battaglia. [...]. È un fatto che l’opinione pubblica è bombardata
dai No. [...]. La cosa però che più ci preoccupa è il dopo: questa campagna non è
servita ad approfondire il problema della famiglia e ci auguriamo che questo non blocchi
la sospirata riforma o non la rimetta in discussione.
Anche il marito di Maria Paola, Giampiero Svevo, ricorda che l’apprensione maggiore
non era per il divorzio, verso cui si diceva possibilista, quanto la famiglia e la
sua riforma. La fotografia della società di questi anni ne risultava sensibilmente mutata e sconvolta.
Si pensi allo “sconquasso” che ha procurato, oltre il divorzio, il nuovo Diritto di
Famiglia e, anche in questo caso, basterebbe leggere le discussioni svoltesi durante
l’iter parlamentare di questa riforma per rendersi conto, e non stupirsi, del rovesciamento
epocale che andava maturando e delle reazioni che avrebbe suscitato.
Se si estendono gli orizzonti, la “rigidità” della delegata nazionale trova spiegazione
nell’ancora ferrea contrapposizione ideologica che si rifletteva negativamente nei
rapporti tra i due maggiori partiti di massa, quello democristiano e quello comunista.
A ciò si aggiungano i condizionamenti, anch’essi negativi, causati dalle dinamiche
correntizie presenti nella Dc, verso cui, più volte, il Movimento femminile aveva
espresso la propria contrarietà. Al XIII Convegno, nel 1973, Falcucci non aveva risparmiato
parole feroci:
Per aver vissuto personalmente la vicenda delle liste regionali in direzione del partito,
devo confermare qui non solo la protesta, ma l’amarezza, per non dire di più, nei
confronti di una logica aberrante dei criteri di selezione della classe dirigente
[...] è difficile mantenere l’autonomia reale del nostro movimento via via che la
lotta di corrente si esaspera; più gruppi si frantumano e si moltiplicano, più la
conquista anche delle briciole sparse di potere diventa ossessiva.
Dello stesso tenore era l’ordine del giorno approvato dal Comitato nazionale del Mf
l’11 luglio 1974, in cui si denunciavano la disarticolazione interna, la cristallizzazione
dei gruppi di potere, lo svuotamento degli organi responsabili e la crescente degenerazione
clientelare che rischiava di far prevalere gli interessi particolaristici sulle scelte
di interesse pubblico. Il comitato chiedeva, addirittura, «il concreto impegno a realizzare
rapidamente lo scioglimento delle strutture organizzative delle rispettive correnti». Una richiesta che, allora, sarà sembrata surreale, ma che, quasi vent’anni dopo,
sarebbe divenuta una questione urgente, nonché una presa di consapevolezza tardiva.
Erano, infatti, anni tormentati per la Democrazia cristiana e per il paese. Lidia
Menapace lasciava il partito nel luglio 1968 e di questa vicenda è testimonianza il
sofferto scambio di lettere con Luigi Granelli. Il tramonto del così detto “collateralismo” era sembrato ormai irreversibile nel
1969, quando le Associazioni cristiane lavoratori italiani (Acli), durante la loro
assise di Vallombrosa, avevano dichiarato finito il legame con la Dc, rivendicando
libertà di voto. Anche l’Azione cattolica guidata da Vittorio Bachelet si sganciava
dal partito con la scelta religiosa sancita dal nuovo statuto e riconfermata nel 1973.
La Dc rimaneva sola, dunque, a elaborare le risposte culturali e politiche che la
società attendeva. Il partito democristiano cercava di reagire con l’Assemblea organizzativa
svoltasi a Sorrento nell’autunno 1965, anticipatrice della svolta generazionale di
San Ginesio che, nel 1969, archiviata la segreteria di Flaminio Piccoli, permise l’ascesa
dei giovani quarantenni: Arnaldo Forlani era eletto segretario del partito e il basista
Ciriaco De Mita vicesegretario. Si era nel periodo così detto “autunno caldo” e della
strage di piazza Fontana, a Milano, e nel periodo del protagonismo femminile. Le donne
iniziavano ad assumere un peso maggiore rispetto al passato, provocando la crisi degli
equilibri politici: le due legislature del 1972 e del 1976 si chiudevano anticipatamente
proprio sui temi del divorzio e dell’aborto. Dopo le elezioni regionali del 1975,
Benigno Zaccagnini, detto “Zac”, antifascista con la reputazione di grande onestà
e integrità morale, era chiamato a guidare la Dc sino al 1980. Ma la segreteria Zaccagnini
doveva affrontare altre drammatiche vicende: il rapimento e l’uccisione di Moro nel
1978. Il decennio si chiudeva così:
quando l’hanno ucciso ero con Maria Paola Colombo Svevo e Claudia Piccoli, assessore
della provincia di Trento, venuta a Milano per discutere la legge sugli asili nido
per la sua provincia. C’era la tv accesa e abbiamo visto la famosa Renault. Siamo
corse in piazza Duomo con una folla commossa, che sempre più si ingrossava.
Sarebbe riduttivo, però, ricordare questi anni solo come “anni di piombo”. La “vivacità”
legislativa, soprattutto quella che si faceva portavoce delle richieste provenienti
dal basso, in particolare dalle donne, ne è una prova. Nel corso degli anni Settanta
erano approvate le seguenti leggi: divorzio (1970), Statuto dei lavoratori (1970),
istituzione dell’ente Regione (1970), attuazione del referendum (1970), costituzione
degli asili nido comunali (1971), tutela delle lavoratrici madri (1971), riconoscimento
dell’obiezione di coscienza, la così detta “legge Marcora” (1972), riforma del diritto
di famiglia (1975), istituzione dei consultori familiari (1975), parità di trattamento
tra uomini e donne in materia di lavoro (1977), aborto (1978), istituzione del Servizio
sanitario nazionale (1978), riforma della psichiatria, più nota come “legge Basaglia”
(1978).
Infine, anche se non sono leggi ma piccole rivoluzioni e indici, anche esse, dei cambiamenti
faticosi (o della fatica dei cambiamenti, come si preferisce considerare la questione),
ricordiamo che per la prima volta una donna era nominata ministro – si tratta di Tina
Anselmi divenuta, nel 1976, ministro del Lavoro e della Previdenza sociale – e, sempre per la prima volta, un’altra donna, Nilde Iotti, diveniva nel 1979 presidente
della Camera dei deputati.
2.
Una pasionaria nel Movimento femminile
Gli esiti, concettuali e pratici, di questa condizione storica si traducevano nel
“serrare le fila”, nella chiusura difensiva, nella rigidità di vedute e strategie.
Nell’intervento della Falcucci, all’XI Congresso del Mf, nel 1966, non si trovava
alcun accenno ai fermenti che di lì a pochi anni si sarebbero esplicitamente manifestati.
Sarebbe stato il successivo XII Congresso, tenutosi a Maiori, vicino Salerno, dal
18 al 21 settembre 1969, a registrare i primi significativi malesseri anche all’interno
del Movimento femminile. Molto polemici erano stati, in particolare, gli interventi
della quarta e ultima giornata. Le parole della delegata nazionale, che di seguito
si riportano, restituiscono, anche dal punto di vista linguistico, la distanza che
andava maturando fra le generazioni. Parole che sono, per la gran parte, tese a esorcizzare
i “sommovimenti” e le lotte, nel tentativo di non turbare l’ordine e l’equilibrio.
«La libertà – afferma Falcucci – non è la spontaneità elevata acriticamente a mito,
ma la ricerca perennemente rinnovantesi di un ordine oggettivo di valori tali da saldare,
in una prospettiva comune, coscienza civile ed istituzioni sociali». Ben altra tempra usava Paola Gaiotti De Biase, membro dell’esecutivo nazionale:
«Attenzione, noi donne non siamo né gentili né sensibili quando ci impegniamo in problemi
politici». Parole che, come si legge nelle cronache, le delegate più giovani salutavano con
un’ovazione. Prendeva, poi, il microfono la delegata di Catanzaro, Clara Sanginiti,
per sostenere che il Mf doveva essere più politicizzato e che occorreva, perciò, dotarlo
di una coscienza politica: «Gli uomini hanno i loro interessi in gioco e di quegli
interessi sono gelosi; cercano quindi di non favorire il nostro inserimento a tutti
i livelli nella vita di un partito». A quale donna, a quale modello femminile il Mf intendeva rivolgersi?
Mi ritorna pertanto la domanda: quali connotazioni umane, quale modello proponiamo
oggi, quale immagine femminile propone oggi la nostra cultura come prodotto condizionato
in larga parte dai nostri tempi, e condizionante a sua volta i futuri, nella consapevolezza
della precarietà e della superlabilità d’ogni cultura e quindi d’ogni modello e di
certi valori su cui le maiuscole si sprecano?
È Vilma Preti, la delegata di Parma, ad aver preso la parola. La formazione, tradizionalmente
intesa e sulla quale la Falcucci continuava a fare affidamento, non era più sufficiente.
C’era bisogno di un’azione diversa: «La mia scelta – concludeva la Preti – è la politicizzazione
del mondo femminile in senso lato sulle battaglie per esso vitali sul terreno del
lavoro, dei servizi sociali e della nuova domanda di partecipazione che, attraverso
una nuova cultura, occorre fare emergere».
Scorrendo le pagine dei quotidiani, ci si imbatte in questo resoconto: «Ed eccoci
alla contestataria numero uno. Si tratta della signora Maria Paola Colombo Svevo,
la quale ha dichiarato che una minoranza del partito detiene il potere, persuasa di
svolgere quel potere nel migliore dei modi e invece mette fuori gioco tutte le spinte
sollecitatrici che le vengono dalla base». Nel 1969 Maria Paola aveva 27 anni. Sposata dal 1966, aveva due figli. Già allora
era «forte e determinata, decisa, e tenace». Il suo è l’intervento che individua, pragmaticamente, il nocciolo della questione,
il problema, cioè, della rappresentanza femminile, irrinunciabile e preliminare: «non intendiamo operare una rottura delle istituzioni esistenti; vogliamo, però,
che il sistema subisca un cambiamento; vogliamo partecipare ai livelli decisionali». Maria Paola ricordava, poi, le “vedove bianche”, «le quali non incontrano i mariti
neppure a tavola, mentre al Convegno, anziché fare della politica, si fabbricano le
commissioni di studio e si parla di unità familiare». Una sottile sfumatura ironica, infine, nelle conclusioni: «i documenti del Mf vengono
tutti approvati all’unanimità». «Applausi e dissensi in platea», si legge, però, sul quotidiano. C’è da dire, infatti,
che sul tema del divorzio, come s’è accennato, il Mf non si presentava compatto. Le
più giovani, tra le quali Maria Paola, erano favorevoli, ma si dicevano disposte a
rinunciare a questa posizione per rispetto verso la maggioranza antidivorzista presente
nel Movimento femminile. Albertina Soliani, invece, aveva preso pubblicamente posizione per il “no” «con
Gorrieri, Pietro Scoppola e tanti altri con cui vivemmo, anche con un certo coraggio,
quello e altri passaggi di apertura verso stagioni nuove» e una «freddezza prevedibile» avrebbe accolto il suo intervento al successivo Comitato
nazionale del Mf. La temuta espulsione, però, non ci fu.
Certamente, la personalità e lo stile di Maria Paola erano diversi da quelli di Franca
Falcucci. Sedici anni di differenza, del resto, la separavano dalla delegata nazionale.
Ma i dissensi non si risolsero mai in divisione, né, tanto meno, in ostilità. Come
delegata provinciale di Milano, Maria Paola si impegnava per una formazione che non
fosse solo teorica, ma di preparazione delle future amministratrici. Grazie anche
alla sua “impronta”, il comitato provinciale della Dc milanese era quello più forte
dal punto di vista organizzativo e partecipativo, come afferma Mariella Marazzini,
cara amica di Maria Paola. Si erano conosciute a Milano nel 1968-1969.
È scattato subito un feeling che si è trasformato in amicizia. Io, che non avevo interessi politici, ho iniziato
ad appassionarmi ai temi che lei faceva conoscere alle donne. Maria Paola organizzava
tutti gli anni dei corsi di formazione, di almeno tre giorni. Ci portava fuori Milano,
negli anni Settanta. Si andava in Liguria e si facevano i corsi di formazione diretta
e concreta sui problemi dell’amministrazione, sui contenuti e sugli ideali. Luigi
Granelli era spesso presente.
Anche sul tema del confronto con le altre forze politiche, Maria Paola si muoveva
nella direzione opposta a quella tracciata dalla delegata nazionale, sostenendo la
felice idea che era stata di Elena De Palma: la costituzione, negli anni 1971-1972, di un gruppo interpartitico, di cui facevano
parte le donne comuniste, socialiste, liberali, repubblicane e che si riuniva in via
Volturno, la sede milanese del Partito comunista italiano (Pci), o in via Nirone,
sede della Dc. Si cercava, in questo modo, di ragionare sulle idee comuni a riguardo
dei temi del momento. «Fu un’esperienza bella e utile – ricorda Mariella Marazzini
– per farci conoscere e per superare gli steccati ideologici». Un elemento che viene ricordato anche dalle generazioni femminili più giovani, come
testimonia Alessia Mosca, una delle molte donne che Maria Paola ha valorizzato e incoraggiato.
Parlando di lei, ha detto:
sulle battaglie per le donne è sempre stata capace di fare alleanza a prescindere
dal partito di appartenenza. Era totalmente fuori dagli schemi del periodo. Una femminista
profonda – la definisce – se si intende per femminismo qualcosa di avulso dal contesto
più politicizzato. Maria Paola ha sempre visto le cose dal punto di vista delle donne.
Il filo conduttore del XII Convegno, dedicato al tema “Democrazia e partecipazione”,
era stato, dunque, la necessità di “politicizzazione” del Mf, che non voleva dire
scelta di corrente. Politicizzazione, cioè, come obbligo di contare di più nei momenti
decisionali. Maria Paola aveva svolto l’intervento più polemico sul piano politico,
ponendo come prioritaria la questione di una programmazione incisiva, dei suoi strumenti
e, in definitiva, della volontà di attuare precise scelte politiche. Certamente, ammetteva,
questa domanda era «talora confusa, ma sempre globale e partecipativa» e, soprattutto, costituiva «l’elemento fondamentale [...] contro un sistema che tende
a diventare totalizzante». Senza pietismo: «Vogliamo a tale proposito non una politica che sia di tutela del
lavoro femminile, ma che si creino piuttosto le condizioni oggettive per un’effettiva
parità di diritto al lavoro», che era cosa ben diversa: questo voleva dire politicizzare la questione femminile. Avere una coscienza politica significava «che la politica
della Fiat, ad esempio, non ha rilevanza solo per la Fiat, ma comporta una serie di
conseguenze sociali e politiche». Significava, altresì, che la maternità «dovrebbe essere vista come “problema” e
costo della società».
I malesseri presenti al congresso si erano manifestati, come racconta Ileana Montini,
attraverso la presentazione di due liste che «riuscimmo ad imporre, con Tina Anselmi
e Franca Falcucci. Maria Paola sostenne la mia candidatura e andai molto bene». Le due liste non rappresentavano, però, i gruppi di partito a cui le due candidate
appartenevano. Le correnti, infatti, «non hanno mai influenzato le elezioni interne
al Mf e le discussioni avvenivano sui temi inerenti le donne». Le distanze rappresentavano, piuttosto, le diversità di due generazioni, la più
giovane delle quali era cresciuta e maturata nel clima del ’68. Un clima che non aveva
mancato di coinvolgere anche l’ecclesia dei fedeli e le gerarchie ecclesiastiche. Tra l’altro, proprio dall’Università Cattolica
di Milano aveva preso avvio la contestazione studentesca, mentre, a sottolineare ancora
una volta la specificità milanese, nel capoluogo lombardo nasceva il primo gruppo
femminista italiano di cui è documentata l’esistenza: si tratta del gruppo Demau (Demistificazione
autoritarismo), nato fra il 1965 e il 1966. Una sintesi efficace di questo fermento ce la offre Ardigò:
attraverso l’aumento della partecipazione sociale, in direzioni largamente di dissenso
rispetto a modelli e valori di organizzazione sociale preesistenti, si è espressa
una vasta fuoriuscita di soggettività dalle integrazioni di mondi vitali e da quelle
dei sistemi sociali, non solo in Occidente