1.
Guerra.
Un mondo violento
Si crede forse che quelle piccole libere città greche, che volentieri
si sarebbero divorate tra loro per rabbia e gelosia, fossero guidate
da principî di filantropia e onestà?
Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza
Un mondo di ferro
Il mondo antico richiama alla mente immagini di guerra, a partire dai poemi identitari
della civiltà greca, posti all’inizio del cammino della letteratura occidentale. L’Iliade è infatti il racconto di una breve fase di una lunghissima guerra, in cui assistiamo
a duelli e scontri di ogni genere, praticamente senza interruzioni (cfr. cap. 16);
l’Odissea, a volte avventatamente definito come poema della pace, tiene pur sempre ben presenti
i valori fondanti di una società guerriera e si conclude con una spettacolare carneficina
ricca di particolari splatter.
Nel mondo greco, Sparta fu tra le più celebri società militariste della storia umana,
e il suo nome è legato all’attività bellica in maniera archetipica (cfr. cap. 17).
Che i valori su cui si basava la società romana e, soprattutto, l’élitearistocratica che la guidò nell’epoca delle conquiste, fossero essenzialmente militari,
è cosa ben risaputa (cfr. capp. 6 e 7).
Molti famosi personaggi dell’antichità sono generali che hanno guidato eserciti: dei
numerosi protagonisti greci e romani delle Vite parallele di Plutarco – almeno tra quelli che hanno una sicura consistenza storica – forse i
soli Demostene e Cicerone, guerrieri della parola, non si resero protagonisti nel
corso della loro esistenza di alcuna impresa militare.
L’imagerie greca si nutre di figure di guerrieri; ma anche il côté che collochiamo sul versante della pace e dello straordinario sviluppo culturale
di Atene è per così dire infarcito di guerre: le trame delle tragedie che senza sosta
venivano rappresentate evocavano quasi sempre sanguinosi conflitti del passato mitico
e almeno quattro delle undici commedie superstiti di Aristofane riguardano direttamente
la guerra. Platone e Aristotele riflettono spesso sulla guerra, su chi debba farla,
le sue conseguenze, il suo posto in una città ideale.
Un personaggio come Socrate, non propriamente una figura di combattente, almeno nel
nostro immaginario, scelse, al momento in cui si approssimava la sua morte, di ricordare
i suoi trascorsi militari, evidenziando di fronte ai giurati che stavano decidendo
della sua sorte il suo esemplare comportamento nei ranghi oplitici nel corso della
guerra del Peloponneso da poco terminata. Socrate si mostrava semplicemente come cittadino;
e ogni cittadino di una polis, di qualsiasi polis, era in primo luogo un guerriero, un combattente, come Max Weber aveva già suggerito
molto tempo fa. E la cosa vale a maggior ragione per Roma e i suoi cittadini.
Ho lasciato da ultimo, non certo per dimenticanza, gli storici. Coloro i quali si
incaricarono di trasmettere ai posteri gli avvenimenti più significativi dei loro
tempi, ritennero che solo i fatti di guerra fossero degni di essere tramandati. Il
ruolo degli avvenimenti bellici è pervasivo in Tucidide, Senofonte e Polibio, ma è
centrale anche in Erodoto, che scelse di strutturare il suo complesso impianto narrativo
intorno alle guerre sostenute dai Persiani per costruire il loro impero, fino a giungere
agli epocali conflitti contro i Greci. Anche i principali storici latini, Livio, Sallustio
e Tacito si occuparono in larghissima misura di conflitti (cfr. anche più avanti,
pp. 29-30).
Di recente, la responsabilità di questa immagine ferrigna del mondo greco e romano,
nel tentativo di contestarla, è stata in buona misura attribuita proprio agli storici,
la cui scelta avrebbe determinato, in ultima istanza, una visione così cupa del mondo
antico. Se nei Romani, infatti, sarebbe effettivamente possibile scorgere un ruolo
centrale della dimensione bellica, che avrebbe sovrastato le altre sfere della società,
i Greci, almeno loro, avevano infiniti interessi e una ricostruzione affidabile della
loro civiltà dovrebbe tenere conto di tutti questi aspetti. Il che è un po’ semplicistico,
ma grosso modo vero, così come è vero che esiste una qualche sovraesposizione della
guerra che ci porta a sopravvalutarla (è il ben noto problema del male che è molto
più visibile del bene), ma non cancella quanto abbiamo detto finora: se una civiltà
si premura di offrire di sé un’immagine nella quale il fenomeno bellico ha una parte
così preponderante, un motivo ci dovrà pur essere (cfr. la Bibliografia per una breve appendice a queste riflessioni).
Violenza tra le «pòleis» e all’interno della «polis»
Quale tipo di società sta a monte di questa marcata attenzione per la guerra? Le pòleis erano numerose e diverse le une dalle altre, così come il mondo greco è diverso da
quello di Roma repubblicana; tutto il mondo antico era però accomunato da un modello
di convivenza che presupponeva una larga abitudine, che sconfinava nell’indifferenza,
nei confronti della violenza, intesa come uso di forza fisica, prevaricazione, adeguamento
forzato a precise gerarchie, immaginario ricco di vendette e omicidi, all’interno
di comunità che, per un motivo o per l’altro, non ritenevano fondamentale la necessità
di far rispettare principi di giustizia e rispetto per il prossimo, se non per quanto
riguardava una stretta minoranza di persone. Tutto ciò, in ultima analisi, ha a che
fare con la guerra, perché quest’ultima, in quanto forma organizzata e comunitaria
di violenza, trova il suo terreno di coltura ideale in società siffatte.
Lasciamo pure da parte il mito: che è spesso violento e inquietante – circostanza
che tanto lasciava perplessi gli studiosi dell’Ottocento («perché i Greci che sono
tanto per bene hanno un immaginario così terribile?») –; ma James Hillman ci ha insegnato
che un immaginario violento non è necessariamente legato a una società violenta.
Limitiamoci dunque alle realtà del mondo della polis,all’interno del quale possiamo annoverare, con qualche distinguo, la stessa Roma repubblicana.
In primo luogo, si tratta di un universo in cui è diffuso il fenomeno della schiavitù.
Diffuso e – vorremmo sottolineare – mai messo in discussione. Ora, non è immediatamente
perspicuo che una società schiavista siauna società violenta e dedita alla guerra. Ma, a parte il fatto che il legame tra
schiavitù e guerra è evidente dal punto di vista economico (la guerra è la principale
fornitrice di schiavi, e l’esistenza di un bottino così appetibile non poteva che
alimentare il fenomeno: cfr. cap. 11), la presenza quotidiana, costante, incombente,
di moltissime persone, identiche ai liberi ma prive dello statuto di esseri umani,
non poteva che alimentare pensieri che a noi non sono – oso sperare – neppure più
accessibili: pensieri truci, nutriti di prevaricazione, violenza spicciola e quotidiana.
Ricordiamoci che le autorità spartane, all’inizio di ogni anno, dichiaravano guerra
agli iloti, vale a dire al preponderante elemento servile della loro società, a sottolineare
un rapporto inevitabilmente improntato a grande violenza. Il fatto che l’ilotismo
sia un tipo particolare di servitù, ben diverso dalla schiavitù/merce, qui non ci
interessa. Gli schiavi comprati sul mercato ad Atene non conducevano certo una vita
migliore.
Il legame schiavitù/guerra è esplicitato da Aristotele (Politica I 1256b 23-27):
«Perciò anche l’arte della guerra sarà per natura in qualche modo arte di acquisizione
– infatti l’arte della caccia è una parte di essa –, della quale bisogna servirsi
con le bestie e tra gli uomini con quanti, nati per obbedire, non vogliono farlo,
dal momento che per natura questa guerra è giusta».
Dove il problema è quello di definire chi siano gli uomini che sono destinati a essere
schiavi: a partire dal IV secolo a.C., si fece strada un’ideologia ellenocentrica,
che individuava come potenziali schiavi tutti i ‘barbari’ in blocco, garantendo dunque
la liceità di qualsiasi guerra contro non-Greci. Non è questo il momento per approfondire
questi temi: basti l’esempio per riflettere su come l’esistenza stessa del concetto
di schiavitù favorisca la crescita del fenomeno guerra.
Anche limitando il discorso ai rapporti tra Greci, non troviamo certo un idilliaco
concetto di uguaglianza dominare le relazioni tra le varie comunità. I legami tra
le pòleis, al di là dei sogni di autonomia che ciascuna di esse coltivava, erano fortemente
gerarchizzati. Nell’esempio più noto e su più vasta scala della storia greca, Atene
fu la prima a sviluppare, consolidare e giustificare un vero e proprio impero all’interno
del mondo greco: un impero piccolo, se confrontato con i grandi imperi dell’antichità,
ma pur sempre un organismo che comprendeva svariate centinaia di comunità sparse nel
mondo egeo, sulle quali la città esercitava una forte leadership non esente da forme di umiliazione simboliche, per rimarcare il proprio indiscusso
dominio.
Gli alleati/sudditi della lega di Delo, sorta dopo le guerre persiane, erano indubbiamente
greci; da qui la necessità di elaborare una giustificazionedell’impero ateniese, che troviamo nel seguente, celebre passo di Tucidide (I 76.2):
«Noi Ateniesi non abbiamo fatto nulla di straordinario, né di alieno al comportamento
umano, sia quando abbiamo accettato l’impero che ci veniva offerto, sia quando ci
siamo rifiutati di rinunciare a esso, obbedendo a delle motivazioni fortissime, quali
il prestigio, il timore e l’interesse; d’altra parte, non siamo stati i primi a esercitare
un ruolo di questo genere, ma sempre ha avuto valore la norma per la quale il debole
è tenuto in soggezione dal più forte».
Nelle parole dell’ambasciatore ateniese, pronunciate, secondo lo storico, nel corso
del grande dibattito svoltosi a Sparta nell’imminenza dello scoppio della guerra del
Peloponneso (431 a.C.), il prestigio (timè) e l’interesse (ophelia) sono le motivazioni positive: Atene ricava dal suo dominio il piacere di primeggiare,
di porsi sopra gli altri, di essere vista come la più potente; nello stesso tempo,
l’impero le permette di trarre dei benefici materiali per nulla trascurabili. La terza
motivazione è forse la più interessante e trova la sua spiegazione nella parte finale
della citazione, nonché una esemplificazione ancora più sfrontata nelle parole che
un altro ambasciatore ateniese, qualche anno dopo, pronuncerà di fronte ai maggiorenti
di Melo, che si apprestavano a organizzare una strenua quanto inutile resistenza all’assedio
ateniese (Tucidide, V 105.2). In poche parole, vi si afferma che il più forte è destinato
a dominare sul più debole, e tale legge è universale e condivisa da tutti (cfr. anche
cap. 22). Chiunque, nelle condizioni degli Ateniesi, accetterebbe di esercitare tale
dominio e una delle motivazioni è appunto quella, che chiameremo negativa, del timore
(deos) che altri facciano a te la stessa cosa, una volta che il tuo potere venga meno.
Se tale rapporto squilibrato, e spesso causa di prevaricazioni, era prevalente nei
rapporti tra pòleis, non diversamente accadeva nelle relazioni tra gli abitanti all’interno della polis. La spinta egualitaria, che vagheggiava la realizzazione di una società di uomini
con gli stessi diritti e gli stessi doveri, dove l’eventualità di conflitti sarebbe
radicalmente diminuita, è certo presente nel pensiero greco, ma le soluzioni che vennero
trovate nella pratica riguardarono sempre una piccola élite, composta da coloro i
quali, al termine di un complesso e mai lineare processo di inclusione/esclusione,
furono considerati degni di godere dei pieni diritti di cittadino. Il caso più famoso
è quello degli Hòmoioi spartani, gli Spartiati, vale a dire quel gruppo ridotto di uomini (originariamente
composto da 10.000 unità, destinate a ridursi nel corso dei secoli a poche centinaia)
che esercitava il dominio su un numero molto più elevato di iloti ridotti in condizioni
di sostanziale schiavitù.
Il caso ateniese
La società ateniese, per la presenza di una documentazione relativamente vasta e diversificata,
è un eccellente case-study.Ad Atene, nel corso dell’epoca classica venne sperimentata la democrazia cosiddetta
radicale; tale aggettivo è giustificato dal fatto che, per la prima volta, furono
abbattute le barriere di sangue e di censo che limitavano l’accesso alla cittadinanza,
tanto che a godere dei pieni diritti civili furono, all’apice della curva demografica
della città, solitamente posta agl’inizi della guerra del Peloponneso, tra i 50 e
i 60.000 uomini, un numero enorme se confrontato con le altre città del mondo greco,
nelle quali i cittadini erano compresi tra poche centinaia e poche migliaia nelle
più popolose. Anche i 50-60.000 erano peraltro il risultato di un processo di esclusione,
tanto da non superare, nel complesso, il 10-15% degli esseri umani viventi nella penisola
dell’Attica.
Il dibattito sul tema della violenza ad Atene che si è sviluppato negli ultimi decenni
è sorprendente. A seconda dei casi, gli studiosi che se ne sono occupati hanno proposto
della città o una visione irenica, accogliendo la quale l’Atene classica sarebbe da
annoverare tra le comunità più pacifiche della storia, oppure un’immagine opposta
che, nel sottolineare il dark side dei Greci, intende dipingere il quadro di una società permeata da un costante, intenso
livello di violenza quotidiana, proprio di una tipica società mediterranea, in cui,
insieme a forme di solidarietà e collaborazione tra i cittadini, sono diffusissimi
– rafforzati da un forte machismo di fondo – concetti come onore e vendetta, forieri di violenza.
È probabile che all’origine di questi equivoci (come altro definire il consolidamento
di posizioni così diversificate tra studiosi autorevoli che leggono gli stessi testi?)
ci sia un’imprecisa definizione del concetto stesso di violenza.Cercherò di chiarire la mia posizione, in uno sforzo utile – spero – a comprendere
le dinamiche del fenomeno guerra nel suo complesso, che è poi ciò che più ci preme.
Partiamo dal mito. La visione del mondo che la mitologia greca ci rimanda non è certo
irenica. I quattro figli di Stige, figlia di Oceano, e del titano Pallante, che accompagnano
Zeus ovunque, a rappresentare le capacità che garantivano al re degli dèi la sua posizione
di predominio, erano Bia, Kratos, Zelos e Nike. Gli ultimi due (‘Emulazione, Antagonismo’
e ‘Vittoria’) rimandano a una concezione agonale imperniata sulla superiorità e conseguente
prevaricazione dei più forti sui più deboli. Kratos e Bia sono la personificazione
bifronte del principio della forza. Forza come conseguenza naturale della superiorità,
inserita in una dimensione di giustizia, Kratos; forza pura, brutalità che sfugge
spesso al controllo di chi la esercita, Bia. Sul piano linguistico, quest’ultimo termine
è la traduzione più corretta del concetto di violenza, a fronte di una vasta gamma
di opzioni che rimandano genericamente all’impiego della forza. Quanto detto è utile
a rimarcare come esistano almeno due modi di impiegare la forza. Uno legittimo, uno
molto meno, anche se non dobbiamo spingerci troppo in là nel sottolineare questa dicotomia:
Kratos e Bia erano entrambicompagni inseparabili di Zeus.
Se, provvisti dell’impalcatura mitologica, ci caliamo nella società ateniese, osserveremo
come, al di là dell’immagine egualitaria proposta dall’ideologia del regime democratico,
essa sia in realtà molto gerarchica. L’uso, e, in molti casi, l’abuso di mezzi violenti
per ridurre alla ragione e punire chiunque si trovi più in basso, è considerato normale.
I più deboli, gli emarginati, gli esclusi non godono di grande protezione, anche se,
almeno teoricamente, esistono delle garanzie generiche indirizzate a sanzionare le
prevaricazioni più evidenti.
Una delle caratteristiche più originali della città era la presenza di un sistema
giudiziario estremamente attivo e a suo modo efficiente, che permetteva la celebrazione
di un numero impressionante di processi in tempi brevi, nei quali erano cittadini
comuni a svolgere la funzione di giudici. Secondo molti, furono proprio i tribunali
a stemperare le manifestazioni di violenza quotidiana, fornendo una valvola di sfogo,
pubblica, pacifica ed equilibrata, alle controversie. Le cose, però, non sono così
semplici.
Riflettiamo su un caso a nostro giudizio emblematico: nel 348 a.C., l’ateniese Midia,
ricco, arrogante e rissoso, dette un pugno a Demostene, di fronte a molti testimoni,
mentre l’oratore stava esercitando – diremmo noi – la funzione di pubblico ufficiale,
poiché era impegnato a istruire il coro ditirambico degli uomini alle Dionisie cittadine
(Demostene, XXI). La vittima dell’aggressione sul momento non reagì, ma lo denunciò,
dando vita a un processo in piena regola: chiara dimostrazione della vittoria del
sistema giudiziario su una cultura della vendetta individuale? Sì e no.
A parte che l’odio tra i due va inserito in una vera e propria faida tra uomini ai
vertici della gerarchia sociale, ben provvisti di mezzi, un conflitto che si trascinava
da tempo e di cui ciò che realmente sappiamo è ben poca cosa, è evidente che la scelta
di non reagire e di ricorrere alla giustizia fu fonte per lo stesso Demostene di non
poco imbarazzo, visto che l’oratore sentì la necessità di giustificare la sua decisione.
Egli infatti cita un episodio di cronaca, avvenuto qualche tempo prima, in cui un
certo Eveone aveva ucciso un commensale durante il pranzo, dopo essere stato colpito
una sola volta. E il tono in cui parla di quest’uomo è positivo (XXI 74-75):
«E comunque, Ateniesi, da parte mia credo di aver preso una decisione saggia, o meglio
felice, a trattenermi, allora, senza reagire in modo irreparabile, anche se la tentazione
era forte; ma ho molta comprensione (pollèn syngnomen echo) per Eveone e per tutti coloro che, disonorati, si sono fatti giustizia da soli.
E mi pare che ne abbiano avuta anche molti di coloro che a suo tempo giudicarono questi
fatti: io, infatti, sento dire che Eveone fu condannato per un solo voto, oltretutto
senza aver fatto ricorso alle lacrime o aver supplicato alcun giudice o aver fatto
ai giurati alcun favore né piccolo né grande o quant’altro. Mettiamola così: coloro
che lo condannarono votarono contro di lui non perché si era vendicato, ma perché
l’aveva fatto giungendo addirittura a uccidere; coloro che lo assolsero invece hanno
concesso, almeno a chi abbia subito un atto d’insolenza contro la propria persona,
di infliggere una punizione anche così eccessiva».
Nel processo a Eveone, dunque, la cittadinanza ateniese si spaccò a metà (un solo
voto di differenza, su presumibilmente 501) e pare proprio che la decisione di farsi
giustizia da sé – senza esagerare, ma comunque rispondendo alla violenza con la violenza
– fosse vista con favore, in primo luogo dallo stesso Demostene (l’espressione pollènsyngnomen echo non lascia adito a dubbi, indicando appunto la benevolenza con cui si giudica qualcosa,
cui fa seguito, di solito, il perdono). Sul nostro oratore aleggiava sempre il giudizio
– condiviso da buona parte degli Ateniesi, che si davano di gomito quando lo vedevano
passare – secondo cui era un vigliacco. In proposito, circolavano molte voci.
Il punto principale non è dunque tanto l’esistenza dei tribunali – per i quali gli
Ateniesi avevano senza dubbio una grande passione, anche se probabilmente confinata
all’interno della fascia benestante – e la correlata possibilità di risolvere le controversie
per vie legali, quanto la mancanza di qualsiasi sensibilità nel condannare gli atti
violenti in quanto tali.
Nella società ateniese non esisteva, in effetti, alcun pregiudizio nei confronti dell’uso
della forza. Era anzi diffusa la convinzione che esercitarla, in taluni (molti) casi,
fosse una pratica educativa da raccomandare: nei confronti degli schiavi, ma anche
delle donne o dei kakoùrgoi, i criminali di strada che venivano di solito tolti di mezzo senza perdere tempo
in processi. Vediamo dunque come il confine tra uso legittimo della forza e violenza
fosse assai labile e la nostra sensibilità in proposito sia molto diversa da quella
dei concittadini di Socrate.
Un altro elemento che concorreva a far sì che la violenza fosse molto praticata è
la debolezza delle strutture statali, nelle quali non erano presenti, se non in forme
precarie e assai fragili, forze di polizia e neppure un esercito stanziale cui demandare,
come nella celebre definizione weberiana, l’esercizio legittimo della violenza nei
confronti degli abitanti della polis. Un solo esempio: nel sistema giudiziario ateniese, l’esecuzione della sentenza era
affidata al vincitore della causa, una circostanza che, da sola, avrà generato, in
misura non definibile, episodi di violenza esercitata da cittadini nei confronti di
altri cittadini.
Da tutto ciò traiamo delle brevi conclusioni: se è ‘educativo’ torturare uno schiavo
perché non dichiari il falso in una testimonianza al tribunale (triste pratica giudiziaria
che gli Ateniesi ritenevano normale, calpestando non solo la morale, ma anche la loro
intelligenza), sarà anche ‘educativo’ sterminare gli abitanti di una polis, una volta completatane la conquista, perché i sopravvissuti e i loro alleati imparino
il linguaggio del più forte. Se le violenze sono compiute dai popoli barbari, sono
da additare come mostruose e crudeli; se compiute da Greci, possono iscriversi in
un programma di ‘rieducazione’ rivolto verso i non-Greci. Per assicurare la realizzazione
dello stesso programma nei confronti di altri Greci, sono necessari degli accorgimenti.
Qualche espediente, qualche scusa si troverà, in assenza di una condanna morale generica
e diffusa del ricorso alla violenza.