Introduzione
Martin Luther King fu ucciso a Memphis (Tennessee) il 4 aprile del 1968 alle 18.01,
colpito al viso da un proiettile che lo raggiunse mentre, dal secondo piano del Lorraine
Motel, salutava amici e sostenitori. «Dottor King, fa freschetto. Si metta un soprabito»,
furono le ultime parole del suo autista di quella sera, Solomon Jones. Poi, lo sparo
di un cecchino che aveva affittato una stanza nel palazzo di fronte.
A causa del fuso orario, la notizia arrivò agli italiani soltanto il giorno dopo con
i giornali radio del mattino e con il telegiornale delle 13.30, attraverso la voce
professionale e compunta di Piero Angela. Il 9 aprile, la RAI dedicò una lunga trasmissione ai solenni funerali svoltisi ad
Atlanta. La scena trasmessa dagli schermi in bianco e nero era quella di una folla
variegata che comprendeva sia gli uomini di potere che King aveva criticato, sia i
netturbini di Memphis i cui diritti aveva difeso nell’ultima battaglia della sua vita;
ed ancora pacifisti e militaristi, grandi capitalisti e poveri minatori, reazionari
e progressisti, amici sinceri ed avversari. Tutti riuniti nella memoria del reverendo
King, l’uomo che con il suo impegno aveva cercato di «redimere l’America». In mezzo alla folla si confondeva il gotha politico-istituzionale degli USA: dal
vicepresidente democratico Hubert Humphrey al futuro presidente repubblicano Richard
Nixon, oltre ai senatori Eugene McCarthy e a Ted e Robert Kennedy, quest’ultimo vittima già designata di un attentato che lo avrebbe ucciso
due mesi dopo soltanto; e ancora i governatori degli Stati di New York e del Michigan,
Nelson Rockefeller e George Romney. La presenza eccezionalmente simbolica di Jacqueline
Kennedy apriva un’interminabile schiera di personalità della società civile, delle
comunità di fede e della cultura americana di quegli anni. E poi c’erano i compagni
della prima mobilitazione di Montgomery come Rosa Parks – la donna di colore che diede
idealmente avvio a un grande movimento di massa per la desegregazione e i diritti
civili – e i collaboratori degli anni successivi: tra gli altri, Ralph David Abernathy,
Andrew Young, Hosea Williams, Jesse Jackson. Ma anche critici come Stokely Carmichael,
divenuto ormai uno dei leader del Black Panther Party e fautore di un nazionalismo
nero che ben poco aveva a che fare con il sogno dell’integrazione tra bianchi e afroamericani
tante volte espresso da King. E ancora, artisti “impegnati” come Ella Fitzgerald,
Sammy Davis, Louis Armstrong, Rod Steiger, Sidney Poitier, Harry Belafonte, Marlon
Brando, Bill Cosby, Paul Newman. Centomila persone raccolte in un corteo che non parlava
la stessa lingua e non condivideva la stessa idea né di King né del suo testamento
politico.
King non fu ucciso quando era all’apice della popolarità – e cioè dopo il conseguimento
del Premio Nobel per la pace nel 1964, alla vigilia del Voting Rights Act che finalmente concesse il diritto di voto a tutti gli afroamericani – ma in un momento
difficile e controverso nel quale gli piovevano addosso critiche da destra e da sinistra
e nel quale si era ormai rotto l’incantesimo che cinque anni prima, nel grande raduno
di Washington, aveva affascinato l’America.
Subito dopo la sua morte ha iniziato a svilupparsi un’ampia storiografia celebrativa
di King. A partire dal carisma del martire, si è costruita una memoria riconciliante
che imbalsamando il personaggio King, leader di un movimento per il cambiamento dei
rapporti di forza economici e sociali all’interno della società americana di quegli
anni, lo ha collocato nella galleria degli American Heroes. In queste pagine cercheremo, invece, di recuperare il senso e i contenuti del conflitto
che attraversò l’America in quegli anni che Bruno Cartosio ben definisce «inquieti». Assai diversamente da quanto racconta il funerale “ecumenico” del 9 aprile, in quel
grande mosaico politico e morale che erano gli USA del 1968 la tessera di King non
si compose facilmente con le altre: sia con quelle dell’apparato istituzionale con
cui, soprattutto a partire dal tema della guerra in Vietnam, si erano aperte fratture
insanabili; sia con quelle delle formazioni più radicali, che – per quanto l’ultimo
King si fosse spinto a comprenderle e forse a provare a contenerle – avevano un impianto
teorico e una strategia operativa incompatibili con quell’ethos nonviolento e orientato
a costruire una beloved community di bianchi e di neri che lo caratterizzò fino al suo ultimo giorno di vita.
King morì nei mesi in cui egli stesso ripensava criticamente al “sogno americano”
al quale aveva dato una memorabile forma retorica nel celebre discorso al Lincoln
Memorial di Washington del 28 agosto 1963 e prendeva tristemente coscienza che ciò
che tanti ragazzi afroamericani che combattevano a migliaia di miglia da casa stavano
vivendo era in realtà un incubo. Come quello in cui piombavano quando tornavano a
casa, non più segregati ma ancora discriminati da un sistema economico in espansione
i cui profitti erano destinati ai bianchi e, comunque, alle classi sociali più abbienti.
Era l’incubo di chi viveva nei ghetti metropolitani e, statistiche alla mano, era
predestinato alla marginalità sociale o al carcere. Il più grande paradosso è che,
celebrato come il retore dell’American dream di una società integrata e riconciliata,Kingè morto come testimone dell’incubo di una società stretta nelle maglie del militarismo,
del razzismo e della povertà. Come ha osservato l’americanista Filippo Falcone, «King
è colui che, meglio di chiunque altro, riesce a identificare la radice del male e
l’essenza del bene, a convogliare forze e tenere insieme movimenti eterogenei e difformi,
dando loro una prospettiva; ma anche il leader che l’anima moderata d’America non
ha il coraggio di seguire fino in fondo in un sogno che, in definitiva, esige una
decostruzione radicale del sistema americano. È in questo scarto che il sogno si trasforma
in incubo».
In realtà King demolì il “sogno americano” inteso come illusione rassicurante di un
benessere che si espandeva all’infinito per pochi ma a scapito della povertà di molti.
Sin dal 1961, quando il diritto di voto per gli afroamericani era ancora lontano,
egli riconduceva il sogno all’ispirazione originale della società americana cementata
attorno ai principi della vita, della libertà e del perseguimento della felicità:
«Questo è il sogno – affermò. – Una delle prime cose che notiamo in questo sogno è
uno straordinario universalismo. Non dice: alcuni esseri umani ma dice “tutti gli
esseri umani”, compresi i neri... Il sogno americano non diverrà realtà se sarà privo
del sogno più ampio di un mondo di fraternità, di pace e di buona volontà. Il mondo
in cui viviamo è un mondo geograficamente uno; oggi siamo sfidati a renderlo spiritualmente
uno... Se vogliamo realizzare il sogno americano, dobbiamo coltivare questa prospettiva
mondiale».
Figlio di un pastore protestante, da anni sentivo parlare con partecipe ammirazione
di King e la notizia dell’omicidio esplose in casa come una bomba, lasciando interdetto
mio padre che, commosso e sconfortato, affermò: «Ora è tutto finito». Ancora oggi
non saprei dire quanta ragione avesse. Anni di letture, studi, visite nei luoghi di
King e del suo movimento, interviste a testimoni e protagonisti di quella stagione
– Jim Lawson, Joseph Lowery, C.T. Vivian, Jessie Jackson, alcuni pastori e testimoni
dell’omicidio di Memphis – non hanno mai risolto quel dubbio, che costituisce la “premessa interiore” di questo
lavoro.
L’intento che speriamo giustifichi la pubblicazione di un’altra biografia su uno dei
personaggi più noti, studiati e celebrati del XX secolo, è contribuire a restituirgli
una complessità e una radicalità vanificate da quella che, invece, ci appare una beatificazione
“moderata”. Ci riferiamo a un’ampia produzione di film, documentari, fumetti, saggi
che di King accreditano un’immagine addomesticata quanto innocua dal punto di vista
politico. Le commemorazioni in occasione dei cinquant’anni dalla morte, peraltro prive
di significative novità sul piano degli studi e persino dell’accesso alle fonti, hanno dato forza a questo rischio perché ormai da anni, tra la dedica di un’imponente
statua marmorea a Washington e l’intestazione di strade, piazze e biblioteche in tutto
il mondo, la complessa e contestata azione di King negli anni compresi tra il 1956
e il 1968 sembra ridursi a una limpida testimonianza cristiana, a un sincero impegno
nonviolento, a una convinta strategia integrazionista contrapposta al radicalismo
del Black Power, con il corollario rassicurante dello happy end della desegregazione razziale, del diritto di voto agli afroamericani e, per arrivare
a giorni a noi più vicini, persino all’elezione di un presidente afroamericano. In
questa linea interpretativa King entra a pieno diritto nell’olimpo degli American Heroes – alcune biografie, pur ben documentate, utilizzano il termine nel sottotitolo – che con la loro testimonianza e il loro coraggio hanno interpretato al meglio gli
ideali americani della libertà, della giustizia e della sicurezza individuale e collettiva.
Come ormai attestano vari studi, però, King fu molto di più. O forse fu “altro”. Intendiamo dire che inizia finalmente
a maturare una ricerca su King che, proprio perché rifugge dalle letture più semplificate
e convenzionali, riconosce un’evoluzione che ha contemplato anche svolte e persino
qualche autocritica nel suo percorso di idee e di azione. Se è facile documentare
che egli non ha mai rinunciato alla pregiudiziale nonviolenta, ad esempio, è però
dimostrabile che negli ultimi anni ha concesso delle giustificazioni all’esplosione
rabbiosa e violenta dei ghetti neri, con motivazioni e ragionamenti del tutto assenti
negli anni in cui la sua azione si era concentrata nel Sud.
Ciò che ancora oggi affascina del personaggio, in sintesi, è la sua complessità e
la radicalità della sua etica politica. Radicalità non significa estremismo né rigidità
intellettuale, ma coscienza di una radice forte – nel caso di King la fede cristiana
vissuta nell’autocoscienza della condizione degli afroamericani – che almeno nei primi
anni del civil rights movement trascinò milioni di americani neri e bianchi in un’azione diretta per testimoniare
i valori della speranza, della giustizia e della convivenza multietnica. È questo
un passaggio chiave per superare quella interpretazione ideologicamente polarizzata,
tipica di un tempo ormai superato, in cui si opponeva il presunto “moderatismo” di
King allo spirito “rivoluzionario” che animò Malcolm X ed altri che gli successero
nell’ala estrema e separatista del movimento nero. Questa schematizzazione manichea
non regge di fronte a una seria analisi storica. La “radicalità” di King, infatti,
non va cercata nel posizionamento “a sinistra” o nell’accettazione dei metodi violenti:
è questo l’errore marchiano di certa cultura europea che ha preteso interpretare l’America
con le categorie proprie ed esclusive del Vecchio Continente. Prescindendo dal fatto
che, come vedremo, nei suoi ultimi anni King ragionerà anche di socialismo e della
crisi del capitalismo e cercherà persino una spiegazione della violenza di alcuni
settori del movimento, non è questo che lo radicalizza ma la coscienza dell’ineluttabilità
di un cambiamento nelle relazioni di potere tra le “razze” e le classi sociali, rispetto
al quale egli riteneva che un credente non potesse essere solo spettatore.
Nel rigore e nella passione di King per la causa della giustizia, ritroviamo i toni
dell’imperativo etico dell’apostolo Paolo quando affermava «necessità me n’è imposta;
e guai a me, se non evangelizzo» (Cor. 9:16). Prendiamo ad esempio l’incipit del discorso
del 1967 sulla guerra in Vietnam: «Ci sono dei momenti in cui il silenzio è tradimento.
È il nostro caso, oggi, per quanto riguarda il Vietnam». «Il nostro caso», vale a
dire che egli se ne sentiva parte e complice al punto da ammettere, nello stesso discorso,
che solo negli ultimi anni aveva «cessato di tradire con il [suo] silenzio».
Se la “radicalità” di King prima che politica fu spirituale e teologica, possiamo
collocarlo a pieno diritto nel solco della tradizione puritana che, soprattutto nella
sua versione americana, reinterpretava il “sacro esperimento” che nasceva nel Nuovo
mondo come una chiamata da Dio, come la vocazione a liberarsi dalle catene del Faraone
per affrontare un lungo cammino in un deserto che conduce a una terra promessa ricca,
fertile e sicura. In questa epica dell’Esodo sulla quale King sembra modellare la
sua predicazione e la sua testimonianza pubblica, il credente era chiamato ad un faticoso
cammino dall’oscurità e dalla disperazione del deserto – wilderness – verso una Città celeste che è davanti a lui. Così compie la sua errand, quell’incessante itinerario di denuncia, lotta e redenzione che ritroviamo nelle
parole di tanti spiritual afroamericani e dei canti della tradizione Gospel.
In questa prospettiva, non è il radicalismo politico a muovere l’azione nonviolenta
di King ma l’intensità della vocazione alla giustizia che è così forte e stringente
da giustificare la disobbedienza civile: «Una legge ingiusta è una legge umana non
radicata nella legge eterna e naturale... Ogni legge che degrada la persona umana
è ingiusta. Tutti gli ordinamenti sulla segregazione sono ingiusti perché la segregazione
distorce l’anima e danneggia la personalità... Io posso invitare gli uomini a disubbidire
alle leggi della segregazione perché sono moralmente ingiuste».
Alla vigilia della morte, pur sentendo che il processo che aveva messo in moto andava
oltre le sue capacità e la sua forza, King si sentiva afferrato da una missione che
non avrebbe mai concluso. Le parole pronunciate alla vigilia della sua morte, il 3
aprile 1968, dicono di un leader provato ma non rassegnato e comunque animato da una
oscura profezia che gli faceva vedere, al tempo stesso, i risultati ma anche i rischi
della sua missione: «Anche a me come a chiunque altro, piacerebbe vivere una lunga
vita. La longevità ha il suo valore. Ma adesso non è questo che mi preoccupa. Voglio
solo fare la volontà di Dio».
La distanza ormai cospicua dei cinquant’anni dalla morte non ha significativamente
modificato l’interpretazione semplificata e addomesticata, consolidata da un’ampia
produzione bibliografica alla quale nel cinquantenario della morte non sembra essersi
aggiunto nessun titolo di particolare rilievo; né – ed è ciò che più complica il lavoro
di ricostruzione storica – è arrivato l’auspicato completamento della pubblicazione
dei King Papers, fermi al VII volume (uscito nel 2014) che copre gli anni 1961 e 1962. I materiali
sui quali lavorare restano così quelli da tempo a disposizione: i discorsi e sermoni
raccolti primariamente nei volumi curati da James Washington; il rigoroso lavoro di
scavo sui documenti disponibili, compresi i fascicoli dell’FBI, raccolti nei ponderosi
lavori di David Garrow e Adam Fairclough sulla Southern Christian Leadership Conference(SCLC), di cui King fu presidente sino alla morte, e di Taylor Branch sull’America negli anni di King, ben integrati dalla ricca raccolta di testi di Houck e Dixon; la mole sterminata, benché non sempre qualificata o disinteressata, di autobiografie
di altre personalità del civil rights movement. La produzione in italiano risente della frammentazione dei diritti sugli scritti
di King, per cui non esiste un’opera organica che raccolga almeno gli scritti più
importanti. Oltre all’autobiografia non esente da qualche faziosità di Ralph Abernathy, disponiamo di vari volumi di taglio apologetico e divulgativo e di poche opere di
approfondimento scientifico.
Il processo di iconizzazione – perfezionato dal presidente Ronald Reagan, che nel
1983 istituì il King’s Day, dedicato alla memoria di un personaggio con il quale aveva
assai poco in comune – ha una storia lunga, iniziata il giorno stesso dell’omicidio,
quando si levava una protesta di massa contro la guerra in Vietnam e più acutamente
si evidenziava lo scontro tra due anime dell’America: quella interventista e militarizzata
che provava a giustificare le stragi di civili e l’uso di armamenti non convenzionali
ricorrendo agli argomenti propri della Guerra fredda da una parte, e dall’altra quella
pacifista e integrazionista che ricordava a se stessa e al mondo che, prima di denunciare
la pagliuzza nell’occhio del suo nemico, doveva – secondo l’immagine evangelica –
riconoscere la trave nel proprio. Per usare un’espressione di Jim Wallis, l’America
era marchiata da un «peccato originale» dal quale non si era mai liberata, il razzismo. Ancora nel 1968, mentre in Europa si prendeva coscienza della inconsistenza scientifica
del termine “razza” e il termine veniva progressivamente bandito nel linguaggio istituzionale e dei media,
negli USA la parola ricorreva costantemente nel dibattito politico.
Tornando a King e all’interpretazione del ruolo che ebbe nell’America degli anni ’50
e ’60, dovremo anche fare riferimento alle trame oscure già intraviste dietro la morte
di John F. Kennedy nel 1963 – e poi di nuovo, dopo l’attentato a King, intorno a quella
del fratello Robert – che mostravano il volto di un paese inquieto, nervoso e impaurito.
In quel tempo l’America aveva bisogno di un personaggio come King. Vivo o morto. Aveva
bisogno della sua autorità morale, della sua capacità di contenere le spinte più radicali
dei “separatisti neri”, della sua prosa immaginifica e rassicurante sul fatto che
– prima o poi – le ragioni della pace e della giustizia avrebbero vinto su quelle
dell’odio razziale e del militarismo. King serviva da vivo ma, paradossalmente, servì
– anche meglio – da morto. L’iperbole retorica che accompagnò le esequie e orientò
una densa produzione di biografie apologetiche, infatti, coprì i contenuti più radicali
sui quali egli si era speso negli ultimi mesi della sua vita – la denuncia della guerra
in Vietnam, la lotta contro la povertà persistente nel paese più ricco del mondo –,
costruendo un “mito popolare” condiviso anche dalla popolazione afroamericana senza
che però questo incidesse sulla dinamica “razziale”.
Un altro tema sul quale ci soffermeremo è quello del rapporto di King con il movimento
che ne fece il suo leader. Per quanto proveremo a documentare che King fu il prodotto
e non l’artefice del movimento in un eccezionale momentum della storia americana, resta però il fatto che come nessun altro egli seppe incidere
sul suo tempo e sull’establishment politico di allora. Intendiamo cioè sottolineare
che non fu tanto una star solitaria che si impadronì della scena pubblica, quanto
un direttore d’orchestra che seppe dare forma e metodo politico a un movimento diviso
sugli obiettivi e la strategia da perseguire. Nel linguaggio biblico, più Mosè che
guida Israele nell’Esodo – peraltro senza mai raggiungere la Terra Promessa – che
il Messia che riscatta il suo popolo.
Il problema della collocazione di King in un quadro assai più ampio di lui e della
sua strategia non è di poco conto. Da una parte, infatti, rischiamo di personalizzare
un movimento la cui forza fu, invece, nella coralità e nella pluralità delle identità;
dall’altra, minimizzando il ruolo del leader, perdiamo di vista l’indiscusso valore
aggiunto – come vedremo, riconosciuto anche dai suoi critici – della sua personalità
e della sua strategia. Per risolvere questa contraddizione, proveremo a collocare
King in un “sistema concentrico” che vede al centro egli stesso; quindi intorno a
lui i collaboratori più fidati, che in massima parte coincisero con gli uomini e le
donne della SCLC; poi la rete di associazioni, laiche e cristiane, che aderì alle
campagne nonviolente di King quale, ad esempio, il Congress for Racial Equality (CORE)
o, almeno in una prima fase, lo Student Nonviolent Coordinating Commitee (SNCC); e
ancora, la massa delle chiese e delle associazioni sia bianche che nere che parteciparono
ad alcune fasi della lotta per i diritti civili; infine, nell’area più esterna, le
componenti più diverse, anche molto critiche nei confronti di King, di quel tumultuoso
movimento di protesta che nei primi anni ’60 scosse l’intera società americana. Cercheremo
insomma di mettere in luce quella dinamica fruttuosa per cui King seppe farsi forza
del movimento, ma il movimento trovò in lui un riferimento ideale e politico di eccezionale
rilevanza.
Vedremo anche come negli anni tra il 1955 ed il 1968 King non si mosse sempre lungo
un percorso lineare e anzi, spesso incompreso anche dai suoi collaboratori più stretti,
impose delle “svolte”. La più evidente e controversa fu esplicitata nel 1967, quando
scese decisamente in campo per denunciare la guerra in Vietnam. Non crediamo che sottolineare
questi riposizionamenti ideologici e tattici indebolisca la figura di King o lo esponga
a critiche di incoerenza, avventurismo o opportunismo. Al contrario, siamo convinti
che proprio la capacità di imporre a se stesso e di suggerire al movement svolte importanti attesti la complessità del personaggio King e il suo sforzo teso
a modificare i piani d’azione in relazione a nuovi stimoli e all’aggiornamento dell’analisi
del contesto e del momento politico nel quale operava.
Tra il boicottaggio di Montgomery iniziato nel 1955 e l’attentato mortale del 1968
passarono solo 13 anni: un periodo “lungo”, scandito da cambiamenti economici, sociali
e culturali estremamente rapidi e rilevanti; ma breve allo stesso tempo, almeno in
relazione alla storia dell’emancipazione afroamericana. Furono 13 anni straordinari
di cui, negli USA come in Europa, resta la memoria collettiva di cambiamenti epocali.
Iniziato con le melodie romantiche e patriottiche di Frank Sinatra, quel periodo si
concluse con i canti pacifisti di Joan Baez e Bob Dylan; in quell’arco di tempo la
democrazia americana passò dall’opacità della segregazione e del maccartismo alle
fibrillazioni sociali prodotte da nuovi soggetti che, almeno temporaneamente, occuparono
il centro della scena pubblica: il civil rights movement ma anche le associazioni pacifiste; le black churches così come le denominazioni protestanti liberal; le associazioni studentesche che, contestando la struttura del potere americano,
mettevano in discussione anche il loro ruolo sociale; gli intellettuali di una nuova
generazione che non aveva paura di rilevare e denunciare la crisi ormai irreversibile
dell’American dream.
King attraversò questo periodo soprattutto con la coscienza dell’uomo di fede convinto
di camminare in un deserto che conduce alla terra promessa. Mai dubitò dell’esito
finale di un processo immaginato non solo come un percorso di liberazione per gli
afroamericani, ma anche come occasione per l’America di ritrovare la sua anima perduta,
quello spirito e quella visione che avevano ispirato le tanto nobili quanto tradite
promesse contenute nella Dichiarazione d’indipendenza: «Noi riteniamo che sono per
se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi
sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono
la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità».
Ad oltre cinquant’anni dalla morte, è assolutamente evidente che il progetto che King
aveva per l’America non si è realizzato e che il paese non è mai stato quella “città
sulla collina” che con le sue virtù civili e morali risplende orientando i viandanti. Iscrivendosi
a pieno titolo nella tradizione puritana, infatti, anch’egli vedeva nella storia americana
qualcosa di più di una costruzione politica: un “sacro esperimento” ispirato da Dio
per il bene dell’umanità.
King non fu quello che la tradizione popolare definisce “un santo”: aveva delle debolezze,
ebbe delle relazioni extraconiugali, nel suo rapporto con le donne non si sottrasse
al maschilismo dominante anche nella comunità cristiana afroamericana; talora si comportò
da individualista e attraversò momenti di confusione e incertezza. D’altra parte,
varie fonti citano le sue chiamate alla cantante gospel Mahalia Jackson, alla quale
King confessava, anche in piena notte, di avere avuto una giornata molto dura. A quel
punto lei con grande garbo gli cantava alcuni dei suoi inni favoriti con una intensità
che arrivava a commuoverlo. «Mahalia – King l’avrebbe salutata con queste parole –
mi hai restituito la voce del Signore»: un’immagine che suggerisce fragilità e tenerezza che convive con quella di un leader
che non si risparmiava comportamenti e considerazioni tipicamente maschili se non
maschilisti. Ella Baker, una delle prime donne ad assumere cariche di rilievo nella
SCLC, gli attribuì l’«ego del predicatore», la peculiare attitudine di chi è più abituato
a parlare che ad ascoltare. Eppure tutto questo, per quanto amplificato da campagne ricorrenti con le quali
l’FBI cercò di demolire la portata della sua azione e del suo ministero, non intacca
la portata del suo servizio alla causa dei diritti degli afroamericani, della giustizia
sociale e della pace. Simul iustus ac peccator, diceva Lutero, e tale fu anche quel pastore battista che per una strana coincidenza
ne prese il nome. Se, tra le altre cose, il puritanesimo ci consegna il senso drammatico
della condizione umana e ci indica un cammino di redenzione che passa attraverso la
fatica della traversata di un deserto, King fu un perfetto interprete di questa tradizione
che fu al centro della sua predicazione e della sua stessa vita.
Preso atto che Washington non è e mai sarà la Gerusalemme celeste descritta nelle
profezie escatologiche, resta la domanda sulla consistenza e sul valore dell’eredità
che di questo personaggio è arrivata sino a noi. Osservando gli USA di oggi, verrebbe
da dire che quell’eredità si è dispersa ed esaurita in una Realpolitik del primato americano tanto esibita quanto idealmente povera. Una politica che, più
che sogni e visioni, oggi alimenta frustrazioni e rancore sociale. Ma crediamo sia
una conclusione affrettata. King non ci lascia una città ideale, un’utopia perfetta
e conclusa nella sua progettazione civile e politica come quella immaginata da Thomas
More. Come ha detto uno dei suoi studiosi più importanti, James M. Washington, ci
consegna piuttosto un «testamento di speranza», un bene che è immateriale e per questo
assai distante dalla logica del mercato e della politica. In questo lavoro intendiamo
sostenere che proprio questo “testamento” può offrire argomenti e visioni utili a
rigenerare una politica spesso ridotta a mera negoziazione e gestione del potere.
I.
Iniziando dalla fine
Se qualcuno di voi sarà presente quando arriverà il mio giorno, non voglio un lungo
funerale. E se riesci a convincere qualcuno a pronunciare l’elogio funebre, digli
di non parlare troppo a lungo... Digli di non menzionare che ho un Premio Nobel per
la pace – non è importante. Non dire che ho ricevuto altri 300 o 400 premi – questo
non è importante.
Digli di non menzionare dove sono andato a scuola. Vorrei che qualcuno menzionasse
quel giorno che Martin Luther King Jr. ha cercato di dare la vita servendo gli altri.
Vorrei che qualcuno dicesse che Martin Luther King Jr. ha cercato di amare. Voglio
che tu dica quel giorno che ho cercato di avere ragione sulla questione della guerra.
Voglio che tu possa dire quel giorno che ho provato a nutrire gli affamati.
Voglio che tu possa dire quel giorno che ho provato nella mia vita a vestire coloro
che sono nudi. Voglio che tu dica quel giorno che ho provato nella mia vita a visitare
coloro che erano in prigione. E voglio che tu dica che ho cercato
di amare e servire l’umanità.
Martin Luther King, 3 marzo 1968
Un attimo dopo lo sparo, King spirò tra le braccia di alcuni dei collaboratori di
una vita: tra gli altri, Ralph Abernathy, il suo amico più fidato e alter ego in molte
occasioni pubbliche; Andrew Young, il giovane e brillante pastore della United Church
of Christ, destinato a un’importante carriera diplomatica alle Nazioni Unite; Jesse
Jackson, il giovane attivista – non ancora pastore – che aveva guidato con successo
una campagna a sostegno dei diritti dei lavoratori di colore a Chicago e che nel 1984
e nel 1988 sarebbe arrivato a candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti; Jim Lawson,
pastore metodista e vero interprete della nonviolenza gandhiana che King aveva scelto
come esclusivo metodo di azione; Hosea Williams, uno dei consiglieri più ascoltati
dal leader – «il mio uomo selvaggio, il mio Castro», diceva di lui King –, capace di alternare capacità di negoziazione con le autorità e azione diretta.
E anche Georgia Davis Powers, giovane senatrice nello Stato del Kentucky, che in quel
momento aveva una relazione con Martin Luther King, successivamente resa pubblica
in un saggio autobiografico. Solo per qualche ora si era fermata a Memphis anche Dorothy Cotton, a quel tempo
unica donna nello staff esecutivo della SCLC e anche lei legata a King in una complicata
relazione affettiva.
Gli scatti dei drammatici istanti che seguirono l’unico colpo di fucile furono di
un giovane fotografo free lance, Joseph Louw, incaricato di seguire King a Memphis: solo immagini asciutte ed efficaci, come quella
dei collaboratori di King che all’unisono indicano il punto dal quale hanno sentito
il colpo di fucile; i ritratti di persone disperate come una cameriera di colore che
intuisce la portata e le conseguenze politiche dell’attentato; i poliziotti disorientati
che corrono da tutte le parti senza sapere esattamente dove andare; nessuna foto macabra
o d’effetto a ritrarre il corpo sfigurato di King: «Evitai di riprenderlo in faccia
– spiega Low – perché sentivo di dover mantenere distanza e rispetto».
King venne rapidamente trasferito al St. Joseph Hospital, dove i medici lo dichiararono
morto alle 19.05.
Tra i primi a sapere dell’omicidio e a comunicarlo pubblicamente fu Bob Kennedy, che
si trovava a Indianapolis, impegnato in una campagna elettorale per le elezioni presidenziali
che non avrebbe mai concluso. Il rapporto con King era stato dialettico ma intenso.
Come vedremo, spesso il pastore nero fu un problema per la Casa Bianca di John F.
Kennedy che, soprattutto nel primo biennio del mandato, non sembrava disposto ad accelerare
il processo di approvazione della legge sui diritti civili. All’epoca Bob era Attorney
General dell’Amministrazione, una posizione paragonabile a quella di ministro della
Giustizia, e in qualche occasione fu lui a telefonare alla signora King per comunicarle
per telefono o con un telegramma che il marito era stato arrestato e che la Casa Bianca
seguiva con attenzione il caso. Ma al di là di questi gesti benevoli e persino gentili,
i rapporti politici tra i Kennedy e King non furono facili, e risulta immotivatamente
irenica l’interpretazione secondo cui in varie occasioni Bob Kennedy testimoniò «la
scelta inequivoca dell’Amministrazione dalla parte dei diritti civili». Al massimo si può riconoscere che di fronte a palesi violazioni della legge – ad
esempio in occasione degli abusi della polizia che non proteggeva il diritto ad entrare
a scuola degli studenti di colore – Bob Kennedy e l’Amministrazione reagirono cercando
di far rispettare le norme sulla desegregazione. Ma si trattò, appunto, di gesti reattivi,
mentre in quegli anni l’attesa del movimento era che l’Amministrazione agisse proattivamente
a sostegno dei diritti civili. Il rapporto tra JFK, BFK e MLK fu tutt’altro che di
reciproca solidarietà. A chi va attribuita la responsabilità di questa tensione? Si
dice che, per parte sua, King si sia sempre guardato dallo stringere rapporti troppo
impegnativi con i politici, anche quelli apparentemente meglio disposti nei confronti
della causa dei diritti degli afroamericani. Non a caso gli si attribuisce la frase:
«A volte non è possibile cenare con il presidente e rappresentare efficacemente i
neri in America».
Sia JFK che Bob, però, sapevano di dovere qualcosa a King, il leader nero che con
la sua azione diretta e incisiva li aveva costretti ad uscire, almeno per un attimo,
dalle sicurezze ovattate di Camelot per riconoscere la rilevanza della questione razziale, inserendo quel tema in uno
dei punti alti dell’agenda politica. Toccò a Bob ammettere tutto questo in un commosso
discorso improvvisato alla notizia giunta da Memphis:
Martin Luther King è stato assassinato questa sera a Memphis, nel Tennessee. Martin
Luther King ha dedicato la sua vita alla causa dell’amore e della giustizia per tutti
gli esseri umani, ed è morto proprio a causa di questo suo impegno. In questo momento
così difficile per gli Stati Uniti, dovremmo forse chiederci che tipo di nazione rappresentiamo
e quali sono i nostri obiettivi. Può certo esserci amarezza, odio, e desiderio di
vendetta tra le persone di colore che si trovano tra voi, viste le prove che ci sono
dei bianchi tra i responsabili dell’assassinio. Possiamo scegliere di muoverci in
questa direzione come nazione, in una ulteriore polarizzazione, dividendoci neri con
neri, bianchi con bianchi, pieni di odio gli uni verso gli altri. O possiamo invece
fare uno sforzo per capire, come ha fatto Martin Luther King, e sostituire a questa
violenza, a questa macchia di sangue che si è allargata a tutto il paese, un tentativo
di comprendere attraverso la compassione e l’amore.
Parole e contenuti erano un puro distillato della filosofia politica di King. Il richiamo
alla giustizia, all’amore e alla compassione, così come la visione di un’unità americana
interrazziale che comprendesse neri e bianchi insieme in contrapposizione alla violenza
e al sangue, costituirono un omaggio non solo alla visione e alla persona di King
ma persino al suo linguaggio.
Il 9 si svolsero i funerali, alla presenza di una folla eccezionale di amici, sostenitori,
osservatori, ma anche di critici ed avversari. Il feretro di King arrivò trasportato
su un modesto carro trainato da due asini. Un’immagine evidentemente costruita ma
efficace nel raccontare il senso del servizio di King ai poveri e a coloro che non
avevano trovato un posto nell’American dream. Fiera e dignitosa come sempre era stata, anche nei momenti più difficili, a ridosso
del carro c’era Coretta, vestita interamente di nero, sorretta da Abernathy da una
parte e dai figli dall’altra. A pronunciare quello che fu una via di mezzo tra un
sermone e un’orazione funebre fu Benjamin Mays, il presidente del College nel quale
King aveva studiato, l’uomo che gli era stato mentore prima e consigliere dopo e che
mai avrebbe immaginato di dover partecipare al funerale del suo allievo più brillante.
Le sue parole non furono abbondanti ma bastarono a comporre quello che fu definito
«uno dei capolavori dell’oratoria del XX secolo». In effetti fu un grande discorso, che non aveva unicamente l’obiettivo di ricordare
un martire celebrandone le virtù, ma anche quello di orientare un movimento che dopo
la scomparsa del leader rischiava di perdere la sua connotazione nonviolenta e la
sua nuova strategia improntata sul tema della povertà. Il carattere del discorso era
evidentemente politico: «Non fate errori. Il popolo americano – affermò Mays – è in
parte responsabile della morte di Martin Luther King Jr. L’assassino ha ascoltato
un numero sufficiente di parole di condanna verso King e i neri da convincersi di
godere di un sostegno pubblico. Sapeva che milioni di persone odiavano King». Un giudizio politico molto severo sul clima di concordia post mortem che già si poteva respirare attorno alla memoria di King. Solo alla fine il discorso
di Mays assunse la retorica propria di una eulogia:
Se Amos e Michea sono stati profeti nell’VIII secolo a.C., Martin Luther King Jr.
è stato un profeta nel XX secolo. Se Isaia fu chiamato da Dio per profetizzare ai
suoi tempi, Martin Luther è stato chiamato da Dio per profetizzare nel suo tempo.
Se Osea fu mandato a predicare l’amore e il perdono secoli fa, Martin Luther è stato
mandato a esporre la dottrina della nonviolenza e del perdono nel terzo quarto del
XX secolo. Se Gesù fu chiamato a predicare il Vangelo ai poveri, Martin Luther è stato
chiamato a dare dignità all’uomo comune. Se un profeta è colui che interpreta in un
linguaggio chiaro e intelligibile la volontà di Dio, Martin Luther King Jr. risponde
a questa definizione. Se profeta è uno che non cerca le cause popolari ma piuttosto
quelle che pensa siano giuste, Martin Luther ha raggiunto questo obiettivo. No! Non
era in anticipo sui tempi. Nessun uomo è in anticipo sui tempi. Ogni uomo è sotto
la sua stella, ognuno nel suo tempo. Ogni uomo deve rispondere alla chiamata di Dio
nella sua vita e non nel tempo di qualcun altro.
Che cosa ha ucciso King?
Se fin dai primi istanti fu abbastanza chiara la direzione dalla quale il colpo era
stato sparato, nessuno poté identificare il punto esatto né riuscì a vedere il killer.
Più tardi alcuni testimoni dichiararono però di aver visto un uomo che fuggiva. Grazie
ai suoi precedenti penali e al ritrovamento dell’arma utilizzata e di un binocolo,
l’uomo fu presto identificato: James Earl Ray, alias Eric Starvo Galt, Harvey Lohmeyer
e Paul E. Bridgeman, nomi che aveva utilizzato nel corso di una latitanza durata quasi
un anno. Ray fu arrestato il 19 luglio del 1968 all’aeroporto Heathrow di Londra,
quando, con l’ennesimo falso nome di Ramon George Sneyd, cercava di lasciare il Regno
Unito per recarsi a Bruxelles.
La verità giudiziaria dell’omicidio di Martin Luther King afferma quindi che a compierlo
fu James E. Ray, un criminale allora quarantenne che, dopo aver commesso una serie
di reati minori, nel 1959 era stato condannato a vent’anni di reclusione come habitual offender. Evaso nel 1967, un anno dopo era a Memphis nei pressi del Lorraine Motel, con un
fucile in mano, dal quale era stato sparato il colpo letale che aveva ucciso King;
poche ore dopo, avvalendosi di un falso passaporto canadese, aveva già abbandonato
gli Stati Uniti per riparare nel Regno Unito. Individuato a Heathrow, fu immediatamente
estradato in Tennessee, dove si svolse il processo che il 19 marzo del 1969 lo condannò
a 99 anni di reclusione. Ray è morto in carcere nel 1998 senza mai confessare la propria
responsabilità e anzi avanzando la tesi di un complotto di cui egli stesso era vittima, convinzione peraltro fatta propria dalla famiglia
King e da personalità di spessore anche politico e istituzionale quali Andrew Young o James Lawson.
Nel 1979, lo United States House Select Committee on Assassinations (HSCA) – una commissione
istituita dalla Camera dei rappresentanti per fare luce sugli omicidi di John F. Kennedy
e Martin Luther King – pubblicò un rapporto in cui si dava credito alla verosimiglianza
dell’ipotesi cospirativa, confermando però la responsabilità di Ray, escludendo un
ruolo attivo del governo o dell’FBI e, comunque, senza arrivare a dettagliare le responsabilità
e i fatti connessi con il complotto.
La teoria cospirativa tornò attuale nel 1998, quando il tribunale di Memphis dovette
esprimersi su un procedimento civile intentato dalla famiglia King. Per quanto la
sentenza non avesse rilievo penale, arrivò a concludere che l’assassinio era il frutto
di una cospirazione che coinvolgeva la mafia e che aveva a capo il tenente della polizia
locale Earl Clark. Nel 2000, infine, l’Attorney General incaricato di chiudere una nuova inchiesta
sull’omicidio, Janet Reno, escluse ogni ipotesi di complotto.
Per quanto plausibili, le ipotesi cospirative non si sono mai trasformate in certezze
giudiziarie. Documenti, fatti e testimonianze, però, non autorizzano a rubricare l’omicidio
di King come l’attentato solitario di un suprematista esaltato. Ray ebbe sicuramente
delle coperture prima e dopo il suo gesto, e il rapido passaggio dall’immediata confessione
di colpa al momento dell’arresto alla ritrattazione poco dopo suggerisce un atteggiamento
lucidamente teso a confondere e inquinare la verità.
Vari interrogativi non hanno mai trovato risposta; tra gli altri, come si è mantenuto
Ray nel periodo della latitanza? Come faceva ad avere un passaporto canadese? Come
ha potuto allontanarsi così facilmente dalla zona del delitto, arrivare in aeroporto
e prendere indisturbato un volo per l’Europa? Perché stava cercando di partire da
Londra? Dov’era diretto in realtà? E come spiegare la prontezza a confessare e l’altrettanto
rapida ritrattazione? Sono questi gli interrogativi alla base della teoria cospirativa
descritta e sostenuta da Pepper e dalla famiglia King.
Più interessante del “chi”, allora, ci pare ragionare sul “che cosa” abbia ucciso
King, quale “meccanismo” abbia deciso la sua condanna a morte. Ci muoviamo sul piano
delle speculazioni.
Qualsiasi essa sia, infatti, la verità giudiziaria non chiude la questione politica
della possibile presenza, dietro l’omicidio di King, di un disegno che mirava e eliminare
dalla scena pubblica americana di quegli anni un protagonista dei movimenti di protesta
contro la guerra e contro il complesso militare industriale che la sosteneva. In questa
ipotesi, Ray potrebbe anche aver ucciso materialmente King, ma potrebbero essere stati
altri a mettergli in mano il fucile e a guidarlo a Memphis. Il profilo criminale di
Ray non corrisponde a quello del razzista imbevuto di ideologie suprematiste; era
latitante e con una pesante condanna sulle spalle; riuscì a fuggire all’estero con
un passaporto falso. Tutti elementi che fanno pensare, più che a un “lupo solitario
del suprematismo bianco”, a una persona sbandata, ricattabile, con poco o nulla da
perdere.
Per capire che cosa ha ucciso King e perché, bisogna allora richiamare il contesto
politico nel quale l’omicidio era maturato e fu compiuto. E la prima domanda riguarda
il perché non solo King ma il suo intero staff fossero a Memphis all’inizio di aprile.
Il 1° febbraio 1968 due netturbini di Memphis, Echol Cole e Robert Walker, erano stati
uccisi da un camion malfunzionante. L’incidente era solo l’ultimo di una serie e,
soprattutto, si aggiungeva allo sfruttamento sistematico di una categoria di lavoratori
ai quali, ad esempio, non veniva riconosciuta la paga minima oraria. Vista l’assoluta
indisponibilità a negoziare espressa dal sindaco Henry Loeb, l’11 febbraio i netturbini
dichiararono uno sciopero a oltranza e il giorno successivo sfilarono per la città
reggendo dei cartelli sui era scritto “I’m a man”. Tra i pastori afroamericani che
operavano a Memphis in quel periodo vi era Jim Lawson, come si è visto uno stretto
collaboratore di King, il quale suggerì ai manifestanti di contattare formalmente
la SCLC e il suo leader per chiedere sostegno alla loro causa. Nei giorni successivi
la situazione si fece incandescente, anche a seguito della decisione del sindaco Loeb
di dichiarare la legge marziale e di chiedere l’intervento della Guardia nazionale.
Mentre gruppi radicali del Black Power cercavano un’escalation violenta, King e i
suoi cercarono una strada diversa, immaginando di promuovere una protesta popolare,
determinata e radicale nei contenuti ma pacifica nella forma. Questa particolare azione,
inoltre, si sarebbe inserita in un progetto più ampio e ambizioso al quale la SCLC
lavorava da tempo: la Poor People Campaign, una nuova mobilitazione di massa che si sarebbe dovuta concludere a Washington.
Partendo dalla denuncia che tra 40 e 60 milioni di americani – e cioè una percentuale
compresa tra il 22 e il 33% della popolazione del paese più ricco del mondo – vivevano
sotto la soglia di povertà, la campagna intendeva avviare un nuovo ciclo di protesta che coinvolgesse bianchi
e neri. Memphis era quindi tappa di un percorso e di un progetto assai più ampio e
ambizioso del sostegno a una categoria ingiustamente sfruttata, la cui meta finale
era Washington. La speranza era di poter tornare ai picchi di consenso di quell’eccezionale
momento del 1963 quando con il suo celebre discorso I have a dream era riuscito a toccare l’anima dell’America.
Per raggiungere Memphis, King era partito da Atlanta alle 7 del mattino del 3 aprile,
insieme a Ralph Abernathy, il braccio operativo di tante campagne di disobbedienza
civile, e ad altri colleghi della SCLC. Era stata una partenza come innumerevoli altre,
con la moglie Coretta che aveva preparato la colazione e li aveva accompagnati all’aeroporto.
Giunti a Memphis, la destinazione fu il Lorraine Motel, l’albergo nel quale King era
solito stabilirsi quando arrivava in città. Il primo incontro fu con gli avvocati,
per studiare una strategia nel caso in cui, l’indomani, fossero sorti dei problemi
nel corso della manifestazione di sostegno ai netturbini. Nel tardo pomeriggio era
previsto un incontro pubblico presso il Mason Temple della città, il cui nome nulla
ha a che fare con la massoneria ma onora Charles H. Mason, fondatore di una comunità
pentecostale afroamericana aderente alla Church of God in Christ. King era stanco,
pioveva e preferiva recuperare le forze per l’impegnativa giornata che lo aspettava
all’indomani. Mandò avanti Abernathy, il quale, però, si trovò di fronte una folla
di oltre duemila persone in attesa del reverendo King e non di uno dei suoi collaboratori,
per quanto fidato e intimo. Il momento psicologico di King non era dei migliori: sentiva
la crisi di un movimento che aveva bisogno di rinnovare la sua strategia di comunicazione
e di mobilitazione; subiva un crescente isolamento dovuto alle posizioni politiche
che aveva assunto, prima tra tutte l’opposizione alla guerra in Vietnam; era inoltre
sottoposto allo stress di una continua sovraesposizione mediatica e alla fatica di
continui spostamenti negli USA e all’estero. Informato della folla che lo attendeva,
King si fece comunque forza e, salito su una Cadillac noleggiata da un’impresa di
pompe funebri, arrivò al Mason Temple dove, nonostante stanchezze e preoccupazioni,
pronunciò un discorso – l’ultimo – che suscitò un notevole impatto emotivo sul pubblico.
Abbiamo davanti a noi giorni difficili – disse concludendo il suo intervento – ma
questo veramente ora non mi preoccupa. Poiché io sono stato in cima alla montagna.
Anche a me, come a chiunque altro, piacerebbe vivere una lunga vita. La longevità
ha il suo valore. Ma adesso non è questo che mi preoccupa. Voglio solo fare la volontà
di Dio. Egli mi ha permesso di salire sulla montagna. Ed io guardo al di là e ho visto
la terra promessa: Può darsi che io non ci arrivi con voi ma voglio che voi sappiate
che noi come popolo arriveremo alla terra promessa. Così questa sera sono felice.
Non sono turbato da niente. Non ho paura di nessun uomo. I miei occhi hanno visto
la gloria dell’avvento del Signore.
«Un finale stranamente profetico che ancora ossessiona la memoria dell’America», ha scritto Ralph Abernathy, il testimone più diretto di quelle ore.
Un omicidio “politico”
Perché King fu ucciso? A chi giovava di più la sua morte? E perché l’omicidio ebbe
luogo proprio a Memphis? Sono domande che si trascinano da oltre cinquant’anni e che
non hanno mai trovato una risposta definitiva e certa. La nostra ipotesi di ricerca,
anticipata nell’Introduzione, è che per provare a capire il significato dell’attentato
occorre innanzitutto delineare il contesto nel quale fu pianificato ed eseguito.
Il 1968 era l’anno delle elezioni presidenziali, scadenza di eccezionale rilievo sul
piano politico perché il voto non avrebbe deciso soltanto il futuro della Casa Bianca,
ma anche quello della strategia militare americana in una guerra logorante, controversa
e per certi aspetti fallimentare come quella in Vietnam. A gennaio l’offensiva del
Têt scatenata da nordvietnamiti e vietcong aveva sorpreso sia l’esercito americano
che quello sudvietnamita ed evidenziato le crepe tattiche della campagna militare
di Washington. In quel frangente la leadership del presidente Lyndon Johnson si mostrò
assai debole e confusa, al punto che egli stesso aveva deciso di non candidarsi per
un secondo mandato. In quelle stesse settimane si registrava inoltre un efferato attacco
contro la popolazione civile di un villaggio vietnamita: il 16 marzo una compagnia
della 11a divisione di fanteria dell’esercito americano aveva commesso una strage
contro civili disarmati uccidendo nel villaggio di My Lai oltre cinquecento persone.
Benché questo fatto specifico sia poi venuto a galla solo a novembre, da mesi la presidenza
Johnson subiva le pressioni contrapposte dei vertici militari che chiedevano più mezzi
e più libertà d’azione da una parte, e dei movimenti di massa per il ritiro dalla
palude vietnamita dall’altra. Nell’indecisione, il potere militare sembrava avere
la meglio su quello politico, e proprio su questo punto King attaccò frontalmente
la Casa Bianca e il presidente che pure aveva firmato le leggi sul diritto di voto.
Nonostante alcuni inviti alla Casa Bianca, dai primi mesi del 1967 King aveva di fatto
interrotto le comunicazioni con un presidente «di cui non aveva personalmente fiducia
e le cui politiche giudicava sempre più disgustose».
E qui si pongono altri interrogativi: che cosa era successo? Come si era arrivati
allo scontro tra il leader del civil rights movement e il presidente Johnson che, rompendo gli indugi e pagando un prezzo importante sul
piano del consenso, aveva concesso quello che Kennedy non aveva voluto e potuto riconoscere?
Pochi mesi dopo la firma del Voting Rights Act, King aveva già iniziato a pensare alle mosse successive. E cercava idee, strategie,
temi per quella che sentiva come una nuova fase di mobilitazione che andasse oltre
il tema del voto e dell’eguaglianza e si aprisse a una più diretta e ampia partecipazione
dei bianchi.
Dal 1966, e con crescente intensità, King denunciava il nesso strutturale tra militarismo
e razzismo, che a loro volta erano espressione e conseguenza del capitalismo. La tesi
e l’utilizzo stesso del termine “capitalismo” meritano una sottolineatura. Come vedremo
in dettaglio nel capitolo VI, nel 1966 si precisa una “svolta” o, meglio, una radicalizzazione
in senso economico-politico dell’analisi sui mali dell’America. Negli anni delle marce
e dei sit-in per conquistare il diritto di voto il tema della disuguaglianza sociale
era rimasto sospeso, ma a quel punto King mirava a denunciare la struttura portante
del sistema americano che a suo avviso produceva razzismo, ingiustizia economica e
militarismo.
L’impegno su un tema di politica internazionale quale la guerra in Vietnam, apparentemente
distante dagli interessi primari della comunità afroamericana, non era affatto scontato,
e per questo, dopo aver anticipato il tema in varie interviste, King decise di aderire
all’invito dell’associazione interreligiosa Clergy and Laity Concerned about Vietnam
(CALC), che gli aveva affidato il ruolo di keynote speaker in occasione di un dibattito nella cornice solenne della Riverside Church di New
York: sede prestigiosa che, benché largamente finanziata da una famiglia di orientamento
conservatore come i Rockefeller, già negli anni ’60 si proponeva come tempio del pacifismo
di matrice cristiana. L’evento ebbe luogo il 4 aprile del 1967 e King, per quanto
ospite d’onore, intervenne in una tavola rotonda aperta da John Bennett, presidente
dello Union Theological Seminary, vero e proprio think tank del protestantesimo liberal nordamericano. Prima di King prese la parola anche il rabbino Abraham Joshua Heschel, anche lui
personalità di primo piano del civil rights movement. L’intervento di King aveva uno specifico obiettivo: dimostrare in termini razionali
e politicamente remunerativi che l’impegno contro la guerra in Vietnam non andava
a scapito del sostegno ai diritti civili, ma che le due questioni potevano considerarsi
come aspetti diversi di un’unica strategia di mobilitazione a sostegno della causa
degli afroamericani. Nella sua analisi l’intervento militare in Vietnam aveva interrotto
il percorso di crescita di una nuova coscienza della “crisi razziale” americana e
allargato il gap economico e sociale tra bianchi e neri:
Fu allora che compresi che l’America non avrebbe mai investito i fondi e le energie
necessarie alla riabilitazione dei suoi poveri per il tempo che le avventure come
la guerra in Vietnam avrebbero continuato ad assorbire competenze e capitali come
una diabolica macchina di distruzione [...]. I giovani neri rovinati dalla nostra
società, li prendiamo e li mandiamo a ottomila miglia da casa loro per difendere delle
libertà che non avevano trovato né in Georgia né ad Harlem.
Anche in questa occasione schiettamente politica, però, utilizzò il registro della
comunicazione pastorale. A King stava a cuore la “redenzione” dell’America, la salvezza
della sua anima corrotta dal «razzismo, dal materialismo e dal militarismo». La crisi
dell’America era insomma morale e politica insieme e il Paese, per superarla, da una
parte doveva ricostruire la sua radice spirituale e dall’altra distruggere il deposito
storico di ingiustizie e ineguaglianza di cui il razzismo era la punta più visibile
e odiosa.
Un giorno o l’altro bisognerà comprendere che tutta la strada di Gerico [il riferimento
è all’episodio del buon samaritano, che il Vangelo di Luca colloca sulla strada che
da Gerusalemme scendeva a Gerico, N.d.A.] è da rifare, affinché gli uomini cessino di essere battuti [picchiati, N.d.A.] e spogliati quando viaggiano su questa grande strada che è la vita. La compassione
autentica non consiste nel gettare una moneta a un mendicante: ciò non è che superficialità...
Essa [la compassione, N.d.A.] nasce dall’evidenza che una struttura sociale che produce la povertà ha bisogno
di essere riorganizzata da cima a fondo. Un’autentica rivoluzione dei valori si troverà
rapidamente a cattivo agio [disagio, N.d.A.] davanti all’evidente contrasto tra povertà e ricchezza.
Altri passaggi furono invece più specificamente politici, ad iniziare dalle cinque
precise richieste rivolte all’Amministrazione Johnson: la fine di tutti i bombardamenti
nel Vietnam del Nord e del Sud; la dichiarazione unilaterale del cessate il fuoco
come premessa necessaria per avviare un negoziato; la prevenzione dell’allargamento
del conflitto in altre regioni nel Sud-Est asiatico, limitando la presenza militare
americana in Thailandia e l’interferenza nel Laos; il riconoscimento del ruolo del
Fronte di liberazione nazionale come soggetto politico del Vietnam del Sud e quindi
come interlocutore necessario del negoziato. È in questo intreccio di interventismo
militare e rapporti di forza interni a un’amministrazione politica debole quale fu
quella di Johnson negli ultimi mesi del suo mandato che, ancora oggi, vanno cercate
le risposte agli interrogativi sull’assassinio di Martin Luther King.
II.
Nel solco di una lunga storia
When Israel was in Egypt’s land,
let my people go,
oppressed so hard they could not stand,
let my people go,
so the Lord said,
«Go down, Moses, way down to Egypt’s land.
Tell old Pharaoh to let my people go».
Negro spiritual
Pochi spiritual come quello che chiede a Mosè di guidare il suo popolo nella fuga
dall’Egitto esprimono il senso profondo della spiritualità e della teologia politica
delle black churches nelle quali King si formò e che, per molti aspetti, costituirono la base primaria
del movimento che si raccolse attorno a lui. Quelle chiese non erano soltanto il luogo
primario della socializzazione della comunità afroamericana, ma anche il deposito
di conservazione di una tradizione basata su uno specifico paradigma teologico che,
per semplificare, possiamo ricondurre all’Esodo. Così come era accaduto per i Padri
pellegrini sfuggiti alle persecuzioni in Europa, anche per milioni di afroamericani
il racconto del secondo libro della Bibbia costituì il manifesto della propria condizione
di uomini e donne figli di schiavi che ancora cercavano la loro emancipazione, impegnati
in un lungo e doloroso cammino nel deserto ma anche fiduciosi nella prossimità alla
terra promessa dell’emancipazione e della parità nella dignità umana e nei diritti
civili. Dalle prime lotte a Montgomery sino all’ultimo discorso pronunciato a Memphis,
è stato questo il cuore della teologia di King, il suo “sermone della vita”, come
si dice di quei predicatori che riescono a lasciare una traccia nella coscienza e
nella vita di chi ascolta.
In questo capitolo vogliamo presentare un’altra tesi derivata dalla ricostruzione
di quel processo che, in pochi mesi, portò un giovane pastore afroamericano ai vertici
della popolarità e dell’autorevolezza nella leadership del civil rights movement. L’idea che abbiamo maturato in questo percorso è che King sia il “frutto maturo”
di un solido movimento di protesta e di resistenza morale e politica al razzismo che
precede la nascita di quello che convenzionalmente definiamo civil rights movement.
Il contesto nel quale egli crebbe era quello di “Jim Crow”, espressione dall’origine incerta
che indicava lo stereotipo del nero razzisticamente stilizzato, che suonava e ballava
inconsapevole della sua condizione di sfruttato. Un’immagine a uso e consumo del razzismo
bianco, rassicurante e da qualcuno considerata persino divertente, al punto da produrre
un vero genere teatrale: i menestrels. Erano bianchi goffamente mascherati da neri che si esibivano in balli, musiche e
dialoghi che, imitando caricaturalmente atteggiamenti dei neri, proponevano battute
e argomenti esplicitamente razzisti. Per estensione, “le leggi di Jim Crow” divennero
quindi quelle norme approvate dai singoli Stati, generalmente dopo il 1876, tese a
costruire una società segregata – scuole, servizi pubblici, mezzi di trasporto – sotto
il principio del “separati ma eguali”. Tra le norme più odiose, quelle che di fatto impedivano la registrazione e quindi
la partecipazione al voto. La stridente contraddizione stava nel fatto che dopo la
Guerra civile, nel 1870 era stato approvato il XV emendamento della Costituzione,
che sanciva e garantiva il diritto all’elettorato attivo anche per gli afroamericani.
Tuttavia, dal momento che erano i singoli Stati a definire le norme che regolavano
questo diritto, nel Sud esso veniva sostanzialmente negato: i requisiti per accedere
alla registrazione e al voto venivano infatti ristretti e limitati, a seconda delle
convenienze, con la precisa intenzione di escludere i neri dal processo politico democratico.
Tra le conseguenze di questa divaricazione economica e politica tra Nord e Sud, antica
almeno quanto la Guerra civile, vi fu la “grande emigrazione” di molti afroamericani
dal Sud verso il Nord. Si calcola che se nel 1910 viveva nelle grandi città del Nord
– New York, Chicago, Philadelphia, Detroit, Cleveland e Pittsburgh – il 10% della
popolazione nera; trent’anni dopo tale percentuale era salita al 25%.
King nacque e crebbe in un milieu religioso, politico e organizzativo che fu la sua scuola di formazione, gli aprì gli
occhi e gli ispirò la visione di una nuova stagione di lotta contro il segregazionismo.
Al tempo stesso fu il network che gli garantì una base operativa senza la quale avrebbe
potuto fare ben poco. Sappiamo di non dire nulla di particolarmente nuovo, anche se
il tono agiografico di buona parte della letteratura sul personaggio – come abbiamo
visto a partire dalle biografie di alcuni dei suoi collaboratori – tende a trascurare
ciò che c’era “prima” di King e che contribuì a rafforzare la sua leadership, certamente
dotata di un grande carisma e di un’acuta lucidità nell’analisi politica. Lo diremo
con le parole di Ella Baker, un’attivista dotata di grande talento organizzativo e
politico che per alcuni anni collaborò con la SCLC, prima della “rottura” con King
e la sua organizzazione per aderire alla formazione più radicale e movimentista dello
SNCC: «Ad essere onesti, io credo che il movimento abbia creato Martin piuttosto che
Martin abbia creato il movimento. Non è per screditarlo, ma secondo me è così che
bisognerebbe mettere le cose».
Ma ciò che la stessa Baker chiama «movimento» non nasce dal nulla. Esso fu un soggetto
politico che si andò strutturando dopo il boicottaggio di Montgomery e che probabilmente
raggiunse il suo apice di consenso ed efficacia tra il 1963 e il 1965 e cioè, per
indicare due fatti precisi, tra la già citata manifestazione di Washington del 1963
e le marce di Selma del 1965. Prima del “movimento”, insomma, non c’era il deserto,
ma una rete di soggetti religiosi e laici attorno ai quali si era strutturata una
società civile afroamericana cosciente della sua identità, della sua tradizione e
dei suoi diritti.
Le negro churches
Le prime trame di questa rete, se non altro in senso cronologico, vanno cercate nelle
black churches o, secondo l’espressione del tempo, le negro churches. Si trattava di luoghi comunitari di eccezionale importanza per la comunità nera,
una sorta di patrimonio collettivo che ne ha garantito la coscienza e la coesione
e, soprattutto, ne ha rafforzato il peso pubblico. Resta celebre a riguardo la frase
del grande studioso nero – in realtà aveva radici haitiane, olandesi e ugonotte, quindi
associate al calvinismo europeo – W.E.B. Du Bois, che produsse le sue opere più importanti
a inizio Novecento, secondo cui «la chiesa nera è stata l’unica istituzione sociale
tra i neri che era iniziata nella foresta africana ed era sopravvissuta alla schiavitù». Tecnicamente si tratta di comunità di diversa tradizione teologica – battista, metodista,
pentecostale – la cui origine risale alla seconda metà del XVIII secolo, in piena
epoca di schiavismo. La nascita di queste comunità va ricondotta all’impossibilità
per i neri di accedere al sacramento eucaristico, quella che la tradizione protestante
generalmente definisce “Santa Cena”. I padroni bianchi erano lieti di mostrare il
loro volto benevolente e pietoso nel momento dell’incontro con il loro Dio, ma non
erano disponibili a condividere questo momento, e in qualche occasione allontanarono
violentemente i loro correligionari di colore dal tavolo dal quale il pastore e gli
anziani distribuivano il pane e il vino. Andò così a Savannah, Georgia, dove si ritiene che nel 1777 si sia costituita la
prima black church degli USA. Nel 1787, a Philadelphia, Absalon Jones e Richard Allen costituirono la
Free African Society, una chiesa a tutti gli effetti, di cui divennero i primi “vescovi”,
e di cui nel 1794 fu eretto il primo tempio.
L’azione missionaria di questi nuclei favorì la nascita di vere e proprie denominazioni
nazionali: la prima fu la National Baptist Convention of America che circa un secolo
dopo, nel 1895, raccoglieva circa 3 milioni di afroamericani, concentrati soprattutto
negli Stati del Sud. Dopo la Guerra di secessione si organizzarono anche i metodisti,
dando vita nel 1865 alla African Methodist Episcopal (AME) Church. Discordie teologiche
e contenziosi sulla leadership determinarono delle divisioni e la nascita di nuove
denominazioni afroamericane come la Colored Methodist Episcopal Church o l’African
Methodist Episcopal Zion Church. Per un padre della cultura afroamericana come W.E.B.
Du Bois, queste comunità erano «il centro sociale della vita dei neri degli Stati
Uniti, e la più caratteristica espressione del carattere africano»; nelle parole di un altro leader dell’emancipazione afroamericana come Booker T.
Washington, la chiesa nera «rappresentava le masse del popolo nero. Essa – spiegava
– è stata la prima istituzione a sviluppare la vita delle masse nere e ancora esercita
il ruolo più importante su di esse». Più recentemente, un altro grande storico delle chiese nere, E. Franklin Frazier,
ha affermato con nettezza che «non fu ciò che rimaneva della cultura africana o l’esperienza
religiosa africana a garantire la nuova base della coesione sociale [della comunità
afroamericana, N.d.A.], ma la religione cristiana».
Già nei primi anni del XIX secolo, oltre che denominazioni nazionali, crebbero innumerevoli
chiese indipendenti a carattere locale, alcune con una grande capacità di impatto
sulla vita sociale e culturale della città in cui operavano. Un esempio importante
e tuttora molto significativo è quello della Abyssinian Churchdi New York, una comunità battista istituita nel 1808 da una scissione dalla First
Baptist Church dovuta al fatto che, nel nome della segregazione razziale, questa chiesa
costringeva gli afroamericani a sedere in specifici posti loro riservati. Dopo la
rottura, un facoltoso gruppo di commercianti di origine etiopica investì nella costruzione
di una chiesa “nera” a Anthony Street (poi spostatasi a Worth Street) denominata Baptist
Abyssinian Church, nome evidentemente ispirato dal gruppo dei fondatori. Negli anni
la chiesa crebbe notevolmente e nelle prime decadi del XX secolo, animata dall’energico
pastore Adam Clayton Powell, divenne un modello e un riferimento primario per la comunità
afroamericana della città. Nel 1922, grazie alle decime regolarmente pagate dal 95%
dei suoi membri, la chiesa si dotò di un grande tempio nel quale si svolgevano, oltre
alle consuete attività spirituali e di culto, diverse iniziative sociali, culturali
e persino economiche che, producendo reddito, consentivano l’espansione della chiesa
stessa.
La vitalità sociale e l’impegno pubblico delle negro churches sono ben documentate, oltre che da una celebre raccolta di scritti curata da Du Bois
nel 1903, da una preziosa ricerca del 1933 condotta con metodo scientifico dall’Institute of Social and Religious Research –
un centro finanziato dalla famiglia Rockefeller – e affidata a Benjamin E. Mays, come
abbiamo visto presidente del Morehouse College, dove King compì i suoi primi studi
accademici. La ricerca fu realizzata sul campo, raccogliendo dati e interviste in
oltre 600 chiese afroamericane e fu pubblicata con il titolo The Negro’s Church. La conclusione principale confermava che la chiesa nera «era la prima comunità o
organizzazione pubblica che il nero possedeva e controllava pienamente». All’autore
non sfuggiva la particolare struttura di quelle chiese, tutte protestanti e “congregazionaliste”,
governate cioè con procedure tipicamente democratiche. Ogni comunità si costituiva
in assemblea, approvava il bilancio, decideva l’organizzazione interna e le iniziative
da svolgere all’esterno. Allora come oggi il pastore era assunto dalla comunità locale
dopo essere stato ascoltato ed “eletto” all’interno di una rosa di candidati. Oltre
al pastore, l’assemblea di ogni chiesa eleggeva il Consiglio degli anziani, laici
che potevano coadiuvare nelle funzioni pastorali. Durante il culto, importanti momenti
della liturgia erano affidati ai laici, che leggevano brani della Bibbia o guidavano
la comunità in preghiera. Nella particolare tradizione battista, inoltre, ampio spazio
era dedicato alle preghiere spontanee e alla testimonianza individuale della propria
fede. Vogliamo così dire che la particolare forma teologica ed ecclesiologica delle
chiese nere, propria della tradizione della Riforma protestante, ebbe una funzione
importante nel favorire la partecipazione, la selezione della leadership, il confronto
democratico. In questo contesto sociale, un ruolo del tutto particolare avevano i
pastori, che, come notava già Du Bois, per il loro ruolo pubblico e la loro cultura
finivano per svolgere un ruolo primario nella costruzione dell’immagine pubblica della
comunità afroamericana.
Oltre ad avere una insostituibile funzione sociale, le black churches furono fabbrica di una teologia afroamericana che ha aiutato la comunità nera, oltre
che a riprendersi la Bibbia brandita dai padroni schiavisti per educarli al rispetto
delle gerarchie della piantagione, a costruire una teologia della speranza e della
dignità dell’uomo di colore. L’adattamento delle categorie bibliche all’esperienza individuale e collettiva dello
schiavo e della sua liberazione è il grande Leitmotiv della teologia delle negro churches, che si esprime compiutamente e a livelli artistici molto alti, ad esempio, nel canto
spiritual. In questa peculiare espressione della spiritualità afroamericana, la sofferenza
della schiavitù, la promessa di una terra, il cammino per raggiungerla, la fedeltà
e l’infedeltà del popolo di Dio nel suo cammino finiscono per costruire un paradigma
autoreferenziale nel quale la comunità degli schiavi o dei discendenti degli schiavi
ritrova la sua storia e la sua identità ma anche le ragioni della sua speranza e della
sua fede. In genere i negro spirituals si basavano su un preciso schema: il grido di sofferenza, l’invocazione di aiuto
e la speranza della redenzione. Dal punto di vista degli schiavi tutto questo significava
cantare la speranza della liberazione e invocare l’intervento di Dio affinché essa
avvenisse nel più breve tempo possibile. Per i padroni, invece, era un canto di fede
che aiutava gli schiavi a prendere atto della loro condizione e a rinviare la loro
speranza di riscatto all’aldilà. Lo spiritual non “mascherava” il linguaggio politico
della protesta: esprimeva in categorie bibliche una fede che era speranza e liberazione.
In questo senso lo spiritual va letto in primo luogo attraverso categorie teologiche.
Il suo aspetto più geniale e popolare era l’identificazione della sofferenza degli
afroamericani nelle pene del popolo d’Israele, costretto alla schiavitù in Egitto
ma anche destinatario della promessa di una terra in cui avrebbe riconquistato la
sua libertà. In questo senso il canto spiritual recupera dunque in toto il paradigma veterotestamentario della liberazione attraverso l’Esodo, e lo applica
allo schiavo afroamericano.
Un prodotto rilevante del mondo delle negro churches furono i predicatori e i pastori: essi provenivano dal popolo afroamericano ma, grazie
ai loro studi e al prestigio sociale connesso con il loro ministero, finivano con
l’assumere un ruolo pubblico talora di primaria importanza. Il pastore diventava il
referente primario della comunità nelle sue relazioni esterne, svolgeva un riconosciuto
compito formativo e di indirizzo, aveva la responsabilità di far quadrare i conti
della sua congregazione. Aveva insomma le qualità essenziali per diventare un “attivista”,
il portavoce delle richieste della base, il mediatore nel caso di trattative complesse
e impegnative. Come annotava Mays nella ricerca sociologica appena citata, il pastore
afroamericano era una delle persone più libere, nonché la più influente sulla scena
americana. La sua forza stava nel fatto che non rispondeva a un’istituzione che doveva
relazionarsi al potere bianco ma, economicamente e ideologicamente indipendente, poteva
far valere con maggiore facilità, coerenza e libertà le ragioni della comunità afroamericana.
Era inoltre una persona di cultura e di grande carisma; per definizione, doveva avere
un ruolo pubblico sia all’interno sia all’esterno della comunità. Tutte queste ragioni
rendevano i pastori neri dei leader naturali della loro comunità.
King a parte, quindi, non fu certo un caso che soprattutto nel Sud alcuni pastori
siano stati referenti primari del civil rights movement e protagonisti di importanti battaglie politiche: così Fred Shuttlesworth a Birmingham
(Alabama), Ralph Abernathy a Montgomery (Alabama), Jesse Jackson a Chicago, James
Bevel e C.T. Vivian a Nashville (Tennessee), il già citato Lawson a Memphis (Tennessee),
e John Lewis, uno dei primi freedom riders, giovani bianchi e neri che nel luglio del 1961 avviarono una campagna per rendere
effettive e rispettate le norme sulla desegregazione sui mezzi pubblici.
In conclusione, ci pare evidente che il tessuto primario di quello che a fine anni
’50 si struttura come movimento fosse in larga parte costituito dalle negro churches. Per quanto iperbolica, aveva fondamento la parafrasi del Vangelo di Giovanni citata
da alcuni preachers: «All’inizio c’era la chiesa nera e la chiesa nera era con la comunità nera, e la
chiesa nera era la comunità nera. Sin dall’inizio la chiesa nera era con la gente
nera; tutto veniva fatto attraverso la chiesa nera e senza la chiesa nera non si faceva
nulla. Nella chiesa nera c’era la vita; e la vita era la luce del popolo nero».
Il Social Gospel
A cavallo tra il XIX e il XX secolo le chiese afroamericane furono investite da un’altra
corrente teologica, questa volta trasversale alle diverse denominazioni: il Social Gospel. Non fu il prodotto delle prestigiose accademie europee o nordamericane, piuttosto
la scoperta sul campo di nuove frontiere della testimonianza cristiana nel contesto
dello sviluppo capitalistico e delle sue contraddizioni. L’ultimo quarto dell’Ottocento
americano fu costellato da una serie di mobilitazioni operaie che talvolta si conclusero
nel sangue: accadde nel 1877, nel 1886, nel 1892 e nel 1894. Le chiese storiche del protestantesimo americano non seppero cogliere il significato
di quella stagione di proteste, che videro, piuttosto, come il risultato del disordine
morale prodotto dalla secolarizzazione e come una minaccia all’ordine sociale stabilito.
Intanto, nel 1877 era nato il Socialist Labor Party e nel 1898 si era costituito il
Socialist Democratic Party: in generale, le chiese guardavano con preoccupazione alla
crescita di queste organizzazioni di massa, che da una parte sottraevano loro alcune
energie e, soprattutto, ponevano fine all’incontrastato monopolio delle strutture
ecclesiastiche nell’ambito dell’organizzazione sociale americana. Solo una piccola
minoranza di clergymen avvertì il pericolo di una spaccatura tra il mondo operaio, che si stava organizzando
sulla base di una linea di classe, e la realtà delle chiese, con il loro storico e
riconosciuto ruolo sociale. Una minoranza ancora più esigua aderì al movimento socialista
e nel 1890 nacque la Society of Christian Socialists, ma si trattò di esperienze aleatorie,
incapaci di lasciare una traccia profonda.
Furono un pastore e un teologo a dare forma a una testimonianza cristiana intrecciata
con l’impegno per la giustizia sociale nel contesto delle lotte operaie di quegli
anni: Washington Gladden e Walter Rauschenbusch. Nel 1905 il primo pubblicò un libro
significativamente intitolato Christianity and Socialism; quanto a Rauschenbusch, nel 1907 scrisse Christianity and the Social Crisis e nel 1917 Theology for the Social Gospel. «Il fondamentale convincimento dei profeti era che Dio chiede giustizia e nient’altro
se non la giustizia», scriveva Rauschenbusch nelle pagine iniziali del suo primo libro
che, in breve, divenne un vero e proprio manifesto del Social Gospel, letto e apprezzato sia per la sua teologia sia per la forte carica di impegno sociale
che lo animava. «Ed è importante notare – proseguiva – che la morale che i profeti
avevano in mente nella loro strenua insistenza sul tema della giustizia, non era meramente
la morale privata della propria famiglia ma era una morale pubblica sulla quale si
fondava la vita della nazione». Non...