7.
La strada verso l’universalismo
Quando s’introduce una nuova misura, a suscitare il maggiore interesse nell’opinione
pubblica è sempre lo stesso tema: la definizione dei beneficiari, cioè di chi è dentro
e di chi è fuori, aspetto decisivo nella vita delle persone interessate. La particolare
sensibilità degli esponenti politici nei confronti di questo argomento, dunque, non
stupisce.
1. Senza problema non c’è risposta
Non si può stabilire il disegno di un intervento se, preliminarmente, non si definisce
il problema da affrontare. Si tratta, ad esempio, di passare da generici richiami sulla crescita della criminalità
all’individuare come tema l’insufficiente presidio delle periferie da parte delle
forze dell’ordine. Nel nostro caso, prima bisogna specificare cosa s’intende per povertà,
e poi si possono individuare i beneficiari di una misura finalizzata a contrastarla.
Il passaggio non è per niente scontato, dato che il fenomeno viene abitualmente misurato
facendo ricorso a varie definizioni, ciascuna con un significato differente.
Le due principali accezioni di povertà – si è visto nel cap. 1 – sono quella assoluta
e quella relativa. La prima rappresenta la povertà propriamente intesa, dunque l’impossibilità
di conseguire uno standard di vita minimamente accettabile, mentre la seconda indica
una forma particolarmente accentuata di diseguaglianza, cioè una disponibilità di
risorse fortemente inferiore a quella della maggior parte degli individui della società
nella quale si vive (la povertà relativa, detto altrimenti, consiste in una «diseguaglianza
sotto false spoglie»).
Tuttavia, per decenni e fino alla metà degli anni Duemila, le stime al centro del
dibattito italiano – politico e accademico – hanno riguardato la povertà relativa. La ragione è semplice: mentre su tale fenomeno esistevano molti dati, prevalentemente
di fonte Istat, non ve n’era alcuno sulla povertà assoluta, estremamente complessa
da misurare. Invece, dal 2005 Istat pubblica regolarmente dati riferiti a un nuovo
e sofisticato indicatore di povertà assoluta. Progressivamente, questi numeri si sono imposti come il punto di riferimento per
la discussione, cioè come le cifre della povertà nel nostro Paese.
È stato così possibile sia fotografarne l’effettiva diffusione, sia dar conto delle
recenti trasformazioni della nostra società, sfuggite alla misurazione della povertà
relativa. Quest’ultima definizione non le ha rilevate perché l’elevata diseguaglianza
nella disponibilità di risorse economiche presente nel nostro Paese ha origini più
lontane nel tempo ed è rimasta sostanzialmente stabile durante la lunga crisi, mentre
è stata la povertà assoluta a crescere a dismisura. Infatti, le posizioni tra i diversi gruppi si sono mantenute perlopiù invariate
nell’ambito di un comune peggioramento delle condizioni economiche, che ha portato
con sé una maggiore diffusione della povertà assoluta nella parte più bassa della
scala sociale. Tradotto in dati Istat, tra il 2005 e il 2016 la percentuale di individui
in povertà relativa non ha subìto cambiamenti significativi – dal 13,1% al 14% del
totale –, mentre le persone in povertà assoluta sono più che raddoppiate, passando
dal 3,3% al 7,9%. Dunque, senza le cifre sul fenomeno assoluto, non avremmo avuto
numeri in grado di cogliere l’esplosione della povertà nel nostro Paese. Ciò sarebbe
stato un problema sul piano politico. La sua irruente crescita ha costituito, infatti,
un argomento cruciale per stimolare l’attenzione della politica nei confronti della
povertà: in mancanza dei nuovi dati Istat, non sarebbe stato possibile rappresentarla.
1.1. Il «minimalismo» della povertà assoluta
Negli anni successivi alla comparsa dei dati in proposito, peraltro, il riferimento
alla povertà assoluta non era sempre scontato. La proposta Acli per una Nuova social
card (2010) e il successivo avviamento dell’Alleanza contro la povertà (2013) furono
basati sulla scelta di elaborare risposte rivolte esclusivamente alla popolazione
in questa condizione (cap. 2). Lo facemmo nella convinzione che problemi diversi richiedono
risposte diverse. Dunque, la povertà dev’essere fronteggiata attraverso una misura
di reddito minimo (come la proposta del Reis) mentre la diseguaglianza con strumenti
vari di altra natura, quali politiche per il lavoro, la famiglia, il fisco e così
via. Vi fu, però, chi ci accusò di essere troppo «minimalisti» e di rinunciare a perseguire
l’interesse di coloro i quali si trovano in povertà relativa. Quando, in seguito,
ci si iniziò a confrontare con il dato di realtà, cercando di capire quali interventi
realizzare effettivamente contro la povertà, queste critiche perlopiù cessarono. Come
sempre accade, giudicare una proposta in una discussione senza ricadute concrete è
molto diverso che farlo davanti alla sfida di trovare soluzioni tangibili. Sino a
qualche anno fa, numerosi soggetti coinvolti nelle politiche di welfare e nel relativo
dibattito avevano interiorizzato la convinzione che la questione della povertà non
sarebbe mai stata affrontata: un simile stato d’animo rappresentava un terreno fertile
per ipotesi non aderenti alla realtà e di portata eccessiva. A mio parere, più ci
si trova di fronte a un contesto da lungo tempo statico, più gli attori interessati
– avendolo interiorizzato – si spingeranno verso posizioni massimaliste. È una supposizione
che ritengo applicabile anche ad altre riforme delle quali si parla da tempo e senza
esito in Italia.
2. Categorie a scelta, basta che non sia universalista
Il welfare italiano – com’è noto – è storicamente segnato da un accentuato orientamento
categoriale. Si tratta dell’abitudine a definire l’accesso alle prestazioni sulla base di criteri
ulteriori rispetto alla sola condizione di bisogno alla quale si intende rispondere,
legati all’appartenenza a specifici gruppi. Tale prassi può tradursi nel diversificare
gli interventi tra le categorie secondo logiche slegate dalla natura delle necessità
da affrontare e/o nell’escluderne alcune. Ciò significa, ad esempio, erogare gli assegni familiari esclusivamente ai nuclei
con lavoratori dipendenti, oppure differenziare le prestazioni per la disabilità tra
insiemi diversi di persone in tale condizione indipendentemente dalle loro effettive
esigenze. Il fenomeno riflette un tradizionale limite della cultura politica italiana,
cioè il mancato riconoscimento dei diritti di cittadinanza in quanto tali. Una determinata
condizione di bisogno in sé, infatti, non è ritenuta sufficiente per ricevere un sostegno
pubblico: essa dev’essere accompagnata dall’appartenenza ad un particolare gruppo
(una specifica situazione occupazionale, una certa età, la presenza di figli o altro).
Seppure da tempo siano stati compiuti significativi, e faticosi, passi tesi a superare
la categorialità in vari settori dello stato sociale, inizialmente le politiche contro la povertà vi sono state soggette.
Quando – nel corso del 2015 – apparve sempre più evidente l’intenzione del Governo
Renzi di introdurre una misura strutturale contro la povertà, che sarebbe poi diventata
il Reddito d’inclusione (Rei), si scatenò un vivace confronto pubblico in merito alla
platea di beneficiari. Fu subito chiaro, infatti, che i finanziamenti dedicati avrebbero
impedito di raggiungere l’intera popolazione in povertà assoluta e che, pertanto,
si sarebbe dovuto decidere da chi cominciare. L’Alleanza – coerentemente con le indicazioni
contenute nella sua proposta (il Reis) – suggerì di partire da chi si trova nelle
peggiori condizioni economiche, i più poveri tra i poveri. Si mirava dunque, a una
logica universalista: pur non potendo raggiungere tutti gli indigenti, si voleva evitare
di creare discriminazioni tra di loro, favorendo alcuni gruppi rispetto ad altri.
Pertanto, s’intendeva utilizzare come criterio di priorità esclusivo l’unico in grado
di considerare tutti allo stesso modo, appunto quello delle condizioni economiche.
Quest’ipotesi non fu mai presa in considerazione dall’Esecutivo né raccolse alcun
interesse nel dibattito politico di allora. Le due posizioni al centro della scena
erano accomunate dalla scelta di privilegiare una specifica categoria mentre si dividevano
su quale dovesse essere. Il Governo sosteneva la necessità di dare precedenza alle
famiglie con figli minori, mentre il presidente dell’Inps, prof. Boeri, ai nuclei
con persone ultracinquantacinquenni.
Perché il Governo pensava alle famiglie con figli minori? I suoi componenti sottolineavano
la forte diffusione della povertà al loro interno e l’obiettivo di ridurne la trasmissione
intergenerazionale. Se vogliamo dare all’Italia un futuro diverso – questa era l’argomentazione
– dobbiamo partire dai bambini creando così le condizioni per ridurre la povertà nelle
prossime generazioni. La spinta a favore di tale target riuniva due orientamenti.
Uno era quello della componente cattolica del Partito democratico, molto incisiva
in materia di welfare, particolarmente sensibile alle tematiche riguardanti le famiglie
con figli. Sue autorevoli personalità si spesero a fondo per questo obiettivo. L’altro
concerneva la narrazione dell’allora Presidente del Consiglio, Renzi, fondata su una
visione ottimistica della società e rivolta, pertanto, più alle opportunità di miglioramento
per il futuro che alle difficoltà del presente. Una visione, per dire, nella quale
faticavano a trovare spazio famiglie deprivate che vivono in una periferia urbana
degradata o persone senza dimora che chiedono la carità per strada. Era sicuramente
più ottimista, invece, puntare sul bimbo povero di oggi prefigurandolo – grazie all’intervento
del Governo – come un adulto realizzato domani.
La proposta Inps, a sua volta, individuava il target negli ultracinquantacinquenni
in quanto «fascia di età in cui la povertà è aumentata proporzionalmente di più rispetto
alle altre classi di età durante la Grande Recessione». Era, inoltre, congegnata in modo da essere finanziata attraverso i fondi gestiti
dall’Istituto stesso: le risorse per il reddito minimo agli over 55, infatti, dovevano
essere ricavate da una rimodulazione delle prestazioni assistenziali erogate dall’Inps
(innanzitutto assegni sociali e integrazioni al minimo), riducendo i trasferimenti
a chi non ne aveva davvero bisogno.
Se queste erano le posizioni in campo, le scelte compiute andarono nella direzione
indicata dal Governo: a fine 2015 fu stabilito che la nuova misura contro la povertà
– da sviluppare grazie a una successiva legge delega – inizialmente si sarebbe rivolta
soprattutto a famiglie in condizioni economiche inferiori a una certa soglia e con
almeno un figlio minore. Vi rientrarono – ma solo parzialmente – anche i nuclei con
componenti ultracinquantacinquenni, dato che furono inclusi unicamente quelli con
almeno una persona disoccupata di questa età. Il positivo superamento delle inerzie del welfare italiano, pertanto, aveva riguardato
l’introduzione del reddito minimo ma non l’abbandono della categorialità.
2.1. «Siamo sicuri di quello che proponiamo?»
In quella fase, dunque, la posizione dell’Alleanza risultò assolutamente minoritaria.
Quando ebbe luogo la discussione alla Commissione affari sociali della Camera, tutti
gli altri soggetti sociali e ogni forza politica si espressero per dare la precedenza
alle famiglie con figli, in alcuni casi proponendo di aggiungere ulteriori gruppi
specifici (oltre agli ultracinquantacinquenni, ad esempio, le donne vittime di violenza).
Gli slogan contrari alla categorialità contenuti nei nostri documenti – come «non
ci sono poveri di ‘serie a’ e di ‘serie b’» e «dare prima a chi sta peggio» – risultarono inefficaci. L’idea che fosse iniquo assegnare la misura a una famiglia
con un figlio minore ma non, ad esempio, a una con un figlio maggiorenne o a una con
un anziano non autosufficiente con meno risorse economiche della prima, proprio non
passava. In generale, a non venire preso in considerazione era un punto per noi cruciale:
scegliere un approccio categoriale significava escludere persone in condizioni di
grave povertà, non appartenenti ai gruppi prescelti.
Cercando di capire perché allora il suggerimento di adottare un’ottica diversa non
venisse preso in considerazione, mi sono dato due risposte. Una riguarda la forza
di prassi decisionali sedimentatesi nel tempo e la tendenza inerziale a ripetere i
comportamenti prevalenti adottati in precedenza. L’ambiente della politica nazionale,
infatti, per decenni aveva interiorizzato la categorialità quale fondamento per l’allocazione
delle risorse pubbliche: era, dunque, «naturale» agire in base a tale criterio. Non
a caso, le proposte inizialmente sul tappeto erano diverse ma condividevano, per l’appunto,
la logica categoriale, ormai radicatasi come un modo di pensare e di agire profondamente
assimilato.
Un’altra tocca la già menzionata definizione del problema. Bisogna considerare che
– come mostrato nel precedente capitolo – la coalizione di centro-sinistra era giunta
alla decisione di introdurre una misura contro la povertà faticosamente e non senza
dissidi interni, e vari componenti non avevano sposato questa scelta. Pertanto, sostenere
il Rei come una misura finalizzata esclusivamente a contrastare il problema della
povertà in quanto tale e senza ulteriori caratterizzazioni – come sarebbe successo
abbracciando il principio di partire dai più poveri tra i poveri – non poteva bastare.
Bisognava servirsene anche per affrontare un altro problema, nello specifico la questione
minorile.
Il confronto politico su quale dovesse essere l’utenza iniziale della nuova misura
ebbe conseguenze anche internamente all’Alleanza. In un contesto in cui le ragioni
a favore dell’opzione universalista non venivano riconosciute, il solo aspetto della
nostra posizione a passare era che volessimo «fare un torto ai bambini»: ciò non poteva
essere indolore. Si trattò dell’unica occasione che vide serpeggiare, all’interno
della coalizione sociale, il dubbio che le indicazioni contenute nella proposta del
Reis fossero sbagliate. Per verificare la nostra posizione venne tenuta persino una
riunione, durante la quale alcuni chiesero se fossimo sicuri di ciò che proponevamo.
Qui si confermò l’utilità del metodo utilizzato nella definizione del Reis, su due
piani. Su quello sostanziale, si poterono richiamare le ragioni a favore della scelta
di partire dai più poveri, già condivise da tutti gli aderenti nel lungo lavoro comune
di elaborazione della proposta. Sul piano formale, inoltre, fu chiaro che poiché il
Reis costituiva la base dell’accordo tra i diversi soggetti dell’Alleanza, disconoscerlo
avrebbe comportato un irreparabile indebolimento della coalizione sociale. L’opzione
a favore dei più poveri venne confermata. Superato il momento di disorientamento,
l’Alleanza riprese a sostenere la logica universalista con più vigore di prima e continuò
a farlo, costantemente e con insistenza, nei mesi e negli anni seguenti.
3. Le chiavi per l’universalismo
Alla logica universalista si arrivò invece successivamente, quando il Governo Gentiloni
– nella legge di bilancio per il 2018 – decise di impiegare gli ulteriori fondi resi
disponibili per superare i requisiti categoriali di ammissione alla misura. Il diritto
al Rei fu così esteso a tutti i nuclei rientranti nelle soglie economiche esistenti,
abolendo i criteri ulteriori previsti in precedenza. Parlo di logica universalista
e non di universalismo perché il target erano i 2,6 milioni di persone in povertà
assoluta con minori risorse tra i circa 5 allora in tale condizione. Il punto chiave consisteva
nella decisione di eliminare i criteri di accesso categoriali e di rivolgersi ai più
poveri tra i poveri esclusivamente in base alla loro situazione economica. Questo
è stato uno snodo cruciale, che ha condizionato anche le successive scelte riguardanti
il Reddito di cittadinanza (Rdc).
Si è, dunque, passati dal non prendere neppure in considerazione l’ottica universalistica
– nel 2015, al tempo della discussione sul target iniziale del Rei – all’individuarla
come strada da seguire nell’estate/autunno 2017, quando si decise come utilizzare
i fondi addizionali previsti dalla legge di bilancio per l’anno successivo; un simile
ribaltamento è avvenuto rimanendo invariata la coalizione di Governo. Come è stato
possibile? La mia esperienza suggerisce che questo esito sia dovuto a tre fattori concomitanti,
ognuno dei quali torna peraltro più volte nelle vicende narrate nel libro. Vediamoli.
3.1. Il ruolo di una forte comunità epistemica
All’inizio del 2016, dopo la presentazione del disegno di legge delega in Parlamento,
cominciò l’elaborazione della nuova misura contro la povertà. Seppure già prima vi
fossero stati numerosi contatti, è allora che prese forma la rete di esperti (con
la fisionomia di quella che viene abitualmente definita una comunità epistemica, come
visto nel cap. 4) che – sino alla fine della legislatura – operarono fianco a fianco
nella progettazione e nella messa a punto del Rei. I suoi perni erano: a) alcuni parlamentari di maggioranza presenti nelle commissioni di Camera e Senato
coinvolte; b) i tecnici del ministero del welfare; c) diversi consulenti e consiglieri della Presidenza del Consiglio; d) gli esperti dell’Alleanza.
È in questa rete che maturò progressivamente il consenso intorno alla logica universalistica
– in precedenza patrimonio della sola Alleanza – come parte di un lungo lavoro sul
merito dei contenuti di quella che avrebbe dovuto rappresentare un’opportuna risposta
contro la povertà; un’attività nella quale il Rei venne sempre più riconosciuto come
misura di contrasto alla povertà in quanto tale, superando l’iniziale necessità di
attribuirgli ulteriori obiettivi (spingendolo così verso la categorialità per affrontare,
come detto, la questione minorile). Una volta condivisa, tale opzione venne presentata
come la migliore possibile ai responsabili del Governo, ministro del welfare e Presidente
del Consiglio, che la adottarono. È da notare che, quando si decise il target iniziale
della misura (2015), il confronto che portò alla determinazione delle scelte venne
condotto quasi esclusivamente a livello politico.
La comunità epistemica poté giocare un ruolo cruciale su un tema di così forte interesse
per la politica grazie alla crescente influenza ottenuta nel tempo, per diverse ragioni.
Alcune dipendevano dalla sua natura, quali l’elevata competenza, il fatto che questa
fosse stata via via sempre più riconosciuta e la molteplicità di attori che vi erano
rappresentati. Altri motivi erano legati al contesto, con il passaggio – avvenuto
a fine 2016 – dal Governo Renzi a quello presieduto da Gentiloni. Rispetto alla precedente,
infatti, la nuova leadership aveva sia una maggiore predisposizione all’ascolto delle
posizioni altrui sia una minore forza politica (e, dunque, un’inferiore possibilità
di determinare univocamente le decisioni).
3.2. Per modificare orientamenti radicati ci vuole tempo
Questa è una considerazione tanto banale quanto rilevante. Non a caso, un crescente
numero di scienziati della politica sottolinea l’importanza da tributare al fattore
tempo nell’influenzare le decisioni. Semplicemente, era difficile immaginare che l’abbandono di un orientamento tanto
radicato nel contesto italiano – come quello categoriale – avvenisse rapidamente.
Dopo la delusione e l’isolamento del 2015, l’Alleanza continuò a insistere, con ogni
mezzo, sulla necessità di abbracciare un approccio universalista. Piano piano – riunione
dopo riunione, conversazione dopo conversazione, comunicato dopo comunicato, articolo
dopo articolo – l’idea guadagnò centralità.
Comunque, pur notando l’aumentare dei consensi raccolti da questa posizione, avevo
ormai raggiunto la convinzione che, al momento delle scelte, non si sarebbe abbandonato
l’abituale sentiero della categorialità. Non avevo, dunque, compreso il processo di
sedimentazione dell’idea universalista avvenuto nel corso degli anni. Quando un personaggio
chiave della comunità epistemica mi disse: «il Governo intende superare la categorialità,
come chiedete voi», restai positivamente sconcertato. Peraltro, credo che chiunque
faccia advocacy possa leggervi un messaggio positivo: le idee, pure quelle che all’inizio risultano
marginali, nel tempo possono attecchire. Ovviamente è anche necessario incontrare
– come in questo caso – condizioni di contesto favorevoli.
3.3. Sottrarre le decisioni al dibattito politico
Per arrivare al risultato è stato anche cruciale l’aver sottratto le scelte al dibattito
politico. Infatti, il processo decisionale sul target di popolazione a cui destinare
le nuove risorse reperite con la legge di bilancio per il 2018 ha avuto luogo dietro
le quinte ed è stato gestito dai membri della comunità epistemica in raccordo con
ministero del welfare e Presidenza del Consiglio: esattamente il contrario di quanto
avvenuto nella fase precedente. L’esito è stato l’annuncio pubblico del passaggio
alla logica universalistica durante la presentazione del disegno di legge di bilancio
al Parlamento da parte del Governo. A quel punto, era impossibile che qualche esponente
politico sollevasse la questione di avvantaggiare una categoria rispetto alle altre.
In concreto, si sarebbe trattato di proporre un’operazione sottrattiva per ridurre
l’utenza complessivamente prevista al fine di estendere i beneficiari appartenenti
ad uno specifico gruppo sociale: un’azione politicamente improponibile anche per il
più risoluto tra i suoi sostenitori.
Cosa sarebbe accaduto, invece, se il Governo avesse annunciato la disponibilità di
maggiori stanziamenti senza indicarne l’utilizzo e si fosse aperto un dibattito in
merito? È ragionevole supporre che alcune parti politiche – ripetendo quanto già avvenuto
in innumerevoli occasioni – avrebbero promosso le istanze di determinate categorie.
La forza delle istanze legate a singoli gruppi – chiaramente identificabili dall’opinione
pubblica e, magari, le cui esigenze erano meglio rappresentate presso la politica
– avrebbe prevalso su quella delle innumerevoli situazioni eterogenee sostenibili
grazie a un’impostazione universalista.
4. L’influenza di un’eredità
Le decisioni del Governo Gentiloni influenzarono quelle prese successivamente dal
primo Governo Conte, costituito dopo le elezioni del 2018. Quando i tecnici del Movimento
cinque stelle iniziarono ad elaborare il Reddito di cittadinanza – destinato a sostituire
il Rei – si è visto che partirono dal disegno di legge Catalfo, presentato nel 2013.
Era lì previsto che il Rdc raggiungesse il 15% delle persone con minori risorse economiche
in Italia (i poveri e coloro i quali rischiano di diventarlo). Tuttavia, nonostante
il proposito di riservare ingenti finanziamenti alla nuova misura, l’impossibilità
di coprire un target di popolazione così ampio divenne rapidamente evidente. Bisognava,
pertanto, circoscrivere l’utenza: quali sarebbero stati i prescelti? Il ddl Catalfo
era concentrato sull’inclusione lavorativa e rifletteva la fondamentale importanza
– politica e simbolica – della questione lavoro per il M5S. Una rilevanza presente
tanto al suo interno, dove dare un’occupazione agli svantaggiati costituiva una mission identitaria, quanto nella narrazione pubblica effettuata, che la enfatizzava. Sia
negli anni precedenti che nei primi mesi del nuovo Esecutivo, parlando con esponenti
del Movimento o ascoltandone gli interventi pubblici, colpiva la loro ripetuta insistenza
su questo obiettivo, spesso superiore all’attenzione dedicata al principale scopo
delle politiche contro la povertà (assicurare uno standard di vita decente a coloro
i quali non lo raggiungono). Dovendo selezionare un target, dunque, l’accentuazione del carattere occupazionale
del Rdc spingeva verso specifici profili segnati dalla mancanza di lavoro, come i
«neet», i disoccupati non coperti dagli ammortizzatori sociali ed altri.
La decisione finale, invece, è stata quella di ampliare l’utenza del Rei seguendo
il medesimo approccio universalistico, cioè esclusivamente elevando le soglie economiche
di accesso. Perché è stata compiuta questa scelta? Bisogna – per cominciare – collocarla in
un elemento di scenario, cioè la significativa attenuazione della natura lavoristica
del Rdc, rispetto al progetto iniziale, avvenuta durante l’elaborazione della nuova
normativa (cfr. cap. 8). Nello specifico, non ho un’ipotesi completa ma sono convinto
del ruolo giocato dalla path-dependence (traducibile come «dipendenza dal sentiero già tracciato»): si tratta dei meccanismi attraverso i quali le politiche pubbliche esistenti condizionano
in maniera rilevante le possibilità di cambiamento, spingendo chi decide a privilegiare
interventi coerenti con l’impianto già in essere. Detto diversamente, anche quando
mutano i Governi, si registra sovente – più di quanto possa apparire esternamente
– la tendenza a proseguire lungo la strada segnata dalle politiche vigenti. Nella
storia del nostro Paese si trovano innumerevoli esempi di path-dependence.
Rispetto al tema qui discusso, per il Rdc ereditare un’impronta categoriale avrebbe
incrementato le probabilità di confermarla. Ciò sarebbe comunque vero, ma lo è ancor
di più se si considera l’altro aspetto menzionato: l’Esecutivo aveva in mente una
precisa categoria, quella delle persone da (re)inserire lavorativamente. Il sentiero
tracciato e l’orientamento dei nuovi decisori, dunque, sarebbero stati coerenti. Una
misura contro la povertà, però, già esisteva e seguiva una logica universalista.
Proviamo ad immaginare cosa sarebbe successo qualora – giunti al termine della precedente
legislatura – il Rei fosse rimasto categoriale: a) il M5S avrebbe ereditato una misura disegnata secondo questa impostazione; b) sarebbe stato necessario selezionare i beneficiari, dato che il target dichiarato
del Movimento era irrealistico; c) sarebbe risultato naturale proseguire con la categorialità, semplicemente aggiungendo
a quelli già raggiunti (prevalentemente le famiglie con minori) altri gruppi, cioè
le persone senza lavoro verso le quali si concentrava l’attenzione del Movimento.
5. Universalismo per alcuni. L’irruente ricomparsa del capro espiatorio
Il mantenimento della logica universalista non ha riguardato la totalità dei poveri
presenti nel nostro Paese, poiché i cittadini stranieri extracomunitari hanno rappresentato un’eccezione. Nel passaggio dal Rei al Rdc, infatti, per loro i criteri di accesso sono stati
ristretti sensibilmente, principalmente attraverso l’innalzamento da cinque a dieci
degli anni di residenza nel nostro Paese necessari per ricevere la misura: si tratta,
non a caso, del periodo trascorso il quale è possibile richiedere la cittadinanza
italiana. Seppure le politiche contro la povertà vadano distinte da quelle di prima
accoglienza e, dunque, il requisito di una precedente presenza nel nostro Paese risulti
opportuno, dieci anni sono senza dubbio eccessivi. L’introduzione di questa discriminazione
è stata influenzata dalla posizione notoriamente dura in materia di migrazioni dell’allora
partner di Governo del M5S, la Lega di Salvini. Peraltro, secondo alcuni sono già
troppi i cinque anni previsti nel Rei.
Le due coalizioni di Governo succedutesi hanno seguito un approccio opposto sul tema:
una ne ha parlato il meno possibile, l’altra l’ha fatto troppo e male. Il decreto
per l’introduzione del Rei presentato inizialmente dall’Esecutivo di centro-sinistra
al Parlamento riproponeva semplicemente le medesime indicazioni della precedente misura
transitoria, il Sia. Nel centro-sinistra, non tutti concordavano sui cinque anni e,
da diverse parti, venivano segnalate alcune imprecisioni tecniche della norma. Peraltro,
alla natura fortemente ideologica e simbolica attribuita alla questione stranieri
dalla destra, si contrapponeva un atteggiamento speculare, simile ma in senso contrario,
riscontrabile in alcuni ambienti della sinistra. Durante tutto l’iter che ha portato
al testo finale, il Governo non ha mai promosso una discussione in merito a possibili
modifiche, una scelta – secondo la mia ricostruzione – dovuta all’incandescente sensibilità
politica del tema. Il ragionamento era: se si apre un confronto su questo punto, si
sa come si comincia ma non come si finisce e un dibattito politico in merito può danneggiare
– se non fermare – l’intero percorso della riforma. Meglio evitarlo.
Il Rdc non poteva risultare immune dalle politiche fortemente sfavorevoli agli stranieri
che hanno animato il primo Governo Conte. Le discriminazioni contenute nel Reddito
di cittadinanza sono riconducibili al vento di sovranismo che ha tra i suoi cardini
il rifiuto dello straniero, un tema sviluppato – nel dibattito sullo stato sociale
– intorno al concetto di welfare chauvism (letteralmente «sciovinismo del welfare»). Di pari passo, più il confronto politico in proposito si inaspriva – con il suo
carico di suggestioni evocative e di irreali timori nutriti adhoc – più si sentivano echeggiare argomenti e retoriche già impiegati in un’altra
recente vicenda del welfare italiano, la cosiddetta «lotta ai falsi invalidi». Mi
riferisco agli estesi controlli straordinari avviati dal Governo Berlusconi (2008-2011) per individuare coloro che percepivano prestazioni monetarie d’invalidità senza averne
effettivamente bisogno. Ma penso, soprattutto, alla decisa campagna politica e mediatica
che li ha accompagnati, tesa a proiettare l’immagine di una larga diffusione di «falsi
invalidi» a cui addossare la responsabilità di un consumo di fondi pubblici insostenibile
per il nostro welfare.
Si è assistito, in entrambi i casi, ad un’applicazione del meccanismo del capro espiatorio
alle politiche di welfare. In sintesi, si accusano delle minoranze, solitamente deboli
socialmente, di essere la causa di gravi situazioni che preoccupano l’intera collettività.
L’attribuzione di colpa non è fondata su elementi di realtà bensì su criteri arbitrari
e irrazionali, e consente di distogliere l’attenzione della popolazione dalle effettive
motivazioni dei problemi.
Nel caso degli extracomunitari, il Leitmotiv di fondo è noto: le difficoltà di tanti connazionali nel trovare lavoro o nel ricevere
adeguati interventi di welfare dipendono dal fatto che gli immigrati li tolgono agli
italiani. Di fronte a un simile convincimento, le enormi e complesse questioni legate
alla trasformazione del mercato del lavoro, così come alla necessità di adeguare il
welfare ai mutamenti della società, si dissolvono. Diviene tutto molto più semplice:
se «loro» non ci rubassero lavoro e welfare, «noi» saremmo a posto. Al tempo dei «falsi
invalidi», il Governo Berlusconi era stretto tra l’esigenza di offrire tutele alla
popolazione morsa dall’avvento della crisi economica e la difficoltà a mettere in
campo gli interventi sociali che sarebbero serviti. Ecco allora il messaggio: non
riusciamo a fornire le risposte necessarie perché una fetta troppo ampia della spesa
di welfare è destinata, impropriamente, alle prestazioni per la disabilità. Secondo
le parole dell’allora ministro dell’economia: «qui c’è uno dei fenomeni che vi fanno
capire perché il nostro Paese deve cambiare. Questo è un Paese che ha 2 milioni e
700 mila invalidi. Su 60 milioni di abitanti... 2,7 milioni di invalidi pone la questione
se un Paese così può essere ancora competitivo». In entrambi i casi, l’argomentazione non è suffragata da alcun dato di realtà, e non potrebbe essere altrimenti, ma ciò che conta è il messaggio che viene veicolato.
Peraltro, stranieri e persone con disabilità rappresentano due minoranze che – nel
corso della storia – sono state ripetutamente colpite dal meccanismo del capro espiatorio.
Le modalità di costruzione della narrazione mediatica si ripetono. Si fa costantemente,
e ossessivamente, riferimento a una piccola parte del gruppo sociale interessato,
quella che effettivamente commette irregolarità, finché agli occhi dell’opinione pubblica
diventa estremamente difficile distinguerla dalla totalità dei suoi componenti. Oggi,
gli stranieri di cui si parla sono sempre irregolari e criminali; ieri, le persone
con disabilità erano sempre raffigurate dai media come finti ciechi che giocavano
a pallone o presunti allettati scoperti a correre sul lungomare. Ovviamente, i problemi
menzionati esistono, il punto è che li si rappresenta come il tratto caratterizzante
dell’intero gruppo sociale in questione mentre la realtà è assai diversa.
Il violento ricorso ad un capro espiatorio nelle politiche di welfare – per ben due
volte in meno di un decennio – suscita preoccupazione rispetto al futuro; in particolare,
se si considera che le inevitabili tensioni dei prossimi anni – figlie della difficoltà
di rispondere a bisogni crescenti con risorse limitate – creeranno terreno fertile
per ricorrere a un meccanismo che, nella storia recente, i governanti italiani hanno
mostrato di adoperare con troppa facilità.
6. Prima ampliare l’utenza, poi migliorare le risposte
Un’altra questione riguardante l’utenza si è posta, ripetutamente, negli anni: il
dilemma tra il suo ampliamento e l’adeguatezza degli interventi forniti. Estendere
il numero dei beneficiari di una politica sociale e assicurare a ognuno una risposta
consona sono obiettivi di per sé in contraddizione, a causa di tensioni ineliminabili
sull’allocazione dei fondi e sulla tempistica degli interventi. Poiché i finanziamenti
non sono mai illimitati, bisogna decidere se assegnare priorità alla copertura (numero
di utenti) o all’intensità (risorse per utente); si tratta, in altre parole, della
scelta tra «dare di più a meno persone» o «dare di meno a più persone». Inoltre, i
contributi economici possono essere introdotti rapidamente mentre l’attivazione di
servizi nel territorio richiede tempo, tanto più se si vuole realizzarli bene; ciò
è particolarmente vero nel nostro Paese, dove il welfare locale risulta sovente ancora
poco sviluppato. Pertanto, spingere sull’allargamento dell’utenza significa – in una fase iniziale
di durata variabile – impedire ad alcuni di fruire dei servizi e/o offrirne di ridotta
qualità.
L’importo dei trasferimenti monetari previsti dal Rei era piuttosto basso e giudicato
insufficiente da tutti gli esperti. L’Alleanza aveva richiesto contributi economici
più elevati, rinunciando – per il momento – a raggiungere una quota di nuovi beneficiari.
Ci guidava un’ottica pluriennale: poiché auspicavamo che la misura introdotta rappresentasse
il passo iniziale della più ampia riforma necessaria, ritenevamo prioritario porre
oggi le basi più solide possibili in modo da fondarvi lo sviluppo ulteriore di domani.
Da un lato, dunque, si volevano rafforzare le risposte assegnando alle famiglie contributi
economici superiori. Dall’altro, si mirava a estendere più gradualmente l’utenza,
affinché vi fosse il tempo per costruire – nei territori – la capacità di realizzare
la presa in carico e l’accompagnamento dei beneficiari da parte dei servizi. La scelta,
invece, fu di puntare sul massimo allargamento della platea di percettori del Rei.
Durante la discussione sull’introduzione del Rdc, la ben maggiore dotazione di fondi
attenuò notevolmente le tensioni allocative. Vi erano, infatti, finanziamenti sufficienti
per un sensibile incremento degli utenti con contributi economici di importo significativo.
Il punto che qui interessa è un altro: l’entità dello stanziamento disponibile rendeva
possibile una notevole estensione degli aventi diritto in tempi rapidi. Di nuovo,
proponemmo la gradualità, suggerendo di ampliare progressivamente i beneficiari attraverso
un percorso distribuito su più annualità. In tal modo si sarebbe assicurato ai servizi
locali di welfare il tempo necessario per rinforzarsi e poter seguire un’utenza tanto
cresciuta. Fu deciso, invece, di utilizzare da subito tutte le risorse disponibili,
puntando al più vasto e celere allargamento possibile dei percettori. Le modalità
impiegate nelle due situazioni non sono comparabili, dato che nel caso del Rdc sia
l’ampliamento dell’utenza sia la sua velocità sono stati ben maggiori. La direzione,
invece, è stata la medesima: entrambi i Governi hanno dato priorità all’obiettivo
di espandere l’utenza rispetto a quello di predisporre risposte di qualità.
Le scelte compiute non risultano anomale nel panorama nazionale e internazionale.
I decisori, infatti, privilegiano abitualmente la massimizzazione del numero di beneficiari
nel minor tempo possibile. Ciò suscita sovente una reazione negativa in chi è impegnato
nel welfare a livello locale e, operando a stretto contatto con la popolazione interessata,
tocca con mano la debolezza delle risposte messe in campo nel caso l’importo dei contributi
risulti troppo basso e/o i servizi locali non siano ancora pronti. Questo è accaduto,
in forme diverse, sia con il Rei che con il Rdc. Chi lavora nei territori, a quel punto, sottolinea come a muovere
il decisore sia la ricerca del consenso (argomento: «più utenti più voti»). La presenza
di una spinta in tal senso è evidente, acuita dalla notevole attenzione ricevuta –
a livello politico e mediatico – dalla numerosità delle persone raggiunte, in qualunque
riforma. Ma è altrettanto evidente che per i poveri ricevere una risposta subito,
benché insufficiente e mal congegnata, rappresenta un sollievo (argomento: «un contributo
economico, anche modesto e non affiancato da servizi adeguati, per un povero fa la
differenza oggi»).
L’elemento chiave della posizione dell’Alleanza – come anticipato – risiedeva nella
prospettiva attraverso la quale guardavamo all’avviamento del Rei e del Rdc. Ancor
più che misure per soddisfare bisogni nell’immediato, infatti, entrambi erano considerati
come primi mattoni di una riforma strutturale – l’introduzione del reddito minimo
– attesa da decenni e da curare con particolare attenzione affinché rappresentasse
un solido pilastro del welfare futuro. Dunque, ogni scelta del presente doveva essere
pesata pensando attentamente ai prossimi anni (argomento: «è un’occasione storica,
e se la sbagliamo le prossime generazioni di poveri ne pagheranno le conseguenze»).
Questo non solo sul piano dei contenuti, per le ragioni già espresse, ma anche su
quello politico. Infatti, l’inevitabile minore efficacia che si ottiene privilegiando
copertura e rapidità spiana la strada a successivi attacchi alla bontà degli interventi
contro la povertà. In sintesi, l’eccessiva crescita del numero dei poveri aiutati
oggi rischia – secondo l’Alleanza – di danneggiare il possibile sostegno a quelli
di domani.
Questo è uno dei temi che più mi ha messo in difficoltà nel corso degli anni. Seppure
abbia dato sin dall’inizio priorità alla prospettiva di costruire per il futuro –
adottando quindi una visione pluriennale – è innegabile la forza, anche morale, dell’argomento
che qualche centinaio di euro mensili ad un povero servono subito. Come sempre nelle
politiche pubbliche, c’è poco da fare: la scelta univocamente migliore non esiste,
dipende dai punti di vista.