7.
In cattive acque
Quando pensiamo al giardino dell’Eden ci viene in mente un posto meraviglioso. Un
giardino lussureggiante, il paradiso terrestre, dove c’è acqua in abbondanza. Un giardino
delle delizie, come lo dipinse Bosch, pieno di animali, di alberi esotici e di personaggi
bizzarri, con una strana fontana nel mezzo, la fontana della vita, che si trasforma
in un mondo in fiamme, un inferno dove l’acqua si colora con il sangue dei dannati.
Infatti l’Eden è anche il mondo perduto per sempre, il posto da cui siamo stati cacciati
per troppa curiosità, per aver disobbedito alle leggi di Dio, per essere caduti in
tentazione. Ed è un posto che non dovrebbe esistere se non nei racconti biblici.
Invece, secondo alcuni studiosi, l’Eden esiste davvero, a est della terra promessa,
nell’Iraq meridionale. Una distesa verde di paludi e pianure alluvionali dove il Tigri
e l’Eufrate si incontrano. La terra dove i Sumeri, più di cinquemila anni fa, inventarono
l’agricoltura e poi la scrittura, per ricordarsi come e chi utilizzava l’acqua per
irrigare i campi.
Sembra quasi un paradosso che il paradiso terrestre si trovi in un paese dilaniato
da quarant’anni di conflitti. Da quando sono nato, l’Iraq per me è sinonimo di guerra,
invasioni e Saddam Hussein. Cose che con l’acqua e l’Eden c’entrano veramente poco.
Secondo Nadia, invece, la storia di questa terra rivela ancora una volta la centralità
dell’acqua nel definire i destini dell’umanità. Nadia è una professoressa di biologia
all’Università di Bassora, nel sud della Mesopotamia, la terra di mezzo fra il Tigri
e l’Eufrate. Nadia ha studiato in Galles, poi ha lavorato per molti anni in Nuova
Zelanda, dove ha anche preso la cittadinanza. Come molti immigrati non ha mai veramente
lasciato la sua terra. È tornata in Iraq nel 2009 per una conferenza e non è più andata
via. Il desiderio di fare qualcosa, i continui inviti dei suoi colleghi e l’amore
per la sua terra l’hanno convinta a restare.
Adesso Nadia studia i cambiamenti ambientali dell’Iraq. Ci incontriamo a una conferenza
in Giordania, dove mi parla per la prima volta dell’Ahwar. Così si chiama l’Iraq meridionale,
un paesaggio unico fatto di paludi e rovine delle antiche civiltà mesopotamiche. Quando
ci conosciamo Nadia è molto allegra, su di giri, perché l’Ahwar era da poco diventato
patrimonio mondiale dell’Unesco. Lei non parlava d’altro, era molto contenta che fosse
arrivato questo riconoscimento per la sua terra, le sue paludi e la sua storia. Non
parlava delle difficoltà di essere donna in un paese che stava diventando sempre più
conservatore, della guerra contro l’Isis e dei continui disagi causati dall’instabilità
politica. Non parlava della difficoltà di vivere ogni giorno con il dubbio di aver
sbagliato, perché in fondo chi sarebbe così stupido da tornare in un paese in guerra?
Nadia parlava solo delle paludi dell’Awhar, della loro storia e del loro destino.
Alla conferenza Nadia parla molto velocemente, con uno strano accento inglese dove
le ‘i’ sembrano ‘u’, forse un’eredità del tempo passato in Nuova Zelanda. Mostra le
foto delle paludi, e racconta la loro genesi. Il Tigri e l’Eufrate sono due fratelli
gemelli, che nascono dalle montagne dell’Anatolia in Turchia a soli trenta chilometri
di distanza e poi scorrono paralleli attraversando la Siria prima di entrare in Iraq.
Nell’estremo sud dell’Iraq, arrivati a fine corsa, stanchi, si riabbracciano formando
una fittissima rete di canali e stagni: le paludi della Mesopotamia. Una distesa di
giunchi, una terra fertile abitata sin dagli albori della civiltà dai Sumeri.
Nadia ripete in continuazione che l’abbraccio dei due fiumi è la culla della civiltà.
Qui è dove l’umanità ha smesso di girovagare e ha iniziato a lavorare la terra, a
costruire società complesse, a creare leggi e a gestire, e molte volte distruggere,
l’ambiente. Forse l’Iraq stesso prende nome da questi luoghi, perché in arabo araqa vuol dire terra fertile e ricca d’acqua. E l’importanza di questi luoghi va molto
al di là della loro eredità storica e culturale come culla della civiltà. Le paludi
della Mesopotamia sono infatti un ecosistema unico, habitat di centinaia di specie
di animali e piante. Sono la casa degli altri abitanti del giardino dell’Eden: qui
riposano milioni di uccelli migratori che si spostano lungo le rotte che collegano
l’Africa alla Siberia.
Il titolo della relazione di Nadia però non è Una storia delle paludi della Mesopotamia, ma: Il futuro delle paludi della Mesopotamia fra scarsità d’acqua e migrazioni. E infatti dopo aver descritto le origini della civiltà Mesopotamica, inizia a parlare
della moderna cacciata dall’Eden; una migrazione non dovuta al peccato originale,
ma alla mancanza d’acqua. Nel luogo dove c’era acqua in abbondanza, dove l’umanità
è diventata sedentaria perché c’era talmente tanta acqua da irrigare ettari di campi,
le persone adesso scappano per mancanza d’acqua.
Nadia sa che la migrazione è un tema attuale, un tema su cui si gioca il futuro dell’Europa.
È per questo che ne parla a lungo nella sua relazione. Lei fa la biologa, dovrebbe
parlare di piante e animali. Invece ha capito che i problemi ambientali meritano l’attenzione
delle platee internazionali solo se messi in relazione con due fattori: l’economia
e la sicurezza nazionale. Infatti, appena l’acqua viene messa in relazione con le
migrazioni, tutti stanno attenti, prendono appunti. Tirano fuori i loro telefoni e
iniziano a fare foto alle diapositive. «L’Iraq», dice Nadia, «non è solo guerra e
Stato Islamico. È anche paesaggi meravigliosi e culture millenarie, fondati su un
delicato equilibrio fra bisogni umani e naturali. Quando quest’equilibrio si spezza,
le persone si spostano».
Nel sud dell’Iraq la gente non scappa dalla guerra e dalla violenza, scappa dalla
mancanza d’acqua. Nadia cita dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni:
la mancanza d’acqua è il primo motivo che spinge più del cinquanta per cento della
popolazione nel sud dell’Iraq ad abbandonare la propria casa. «Ancora prima della
violenza e della guerra, gli abitanti delle paludi si muovono perché senz’acqua non
c’è vita», dice Nadia. La scarsità d’acqua è anche una delle ragioni principali che
impedisce a questi migranti di tornare nelle proprie case. I rifugiati ambientali
esistono davvero.
Parlare con Nadia dopo il suo intervento in Giordania è difficile, viene circondata
da funzionari delle Nazioni Unite che le fanno domande, vogliono sapere se il riconoscimento
Unesco porterà benefici, se l’ecoturismo può essere una strada per fermare le migrazioni,
se ci sono rischi ambientali connessi con la scoperta di nuovi giacimenti petroliferi
nell’area.
Mi fermo ad ascoltare le sue risposte. Usa abilmente il linguaggio internazionale
che spiega il mondo con parole come resilienza, sviluppo sostenibile e rischi globali.
Sa che questo linguaggio può aiutare a mantenere alta l’attenzione internazionale
su queste paludi, creare pressioni sul governo di Baghdad affinché estenda le aree
protette e permetta di inondare parte delle paludi. «Abbiamo bisogno della vostra
attenzione per continuare a proteggere la culla della civiltà, le persone che ci vivono
ed evitare che si ripeta la distruzione causata da Saddam Hussein».
Saddam? Cosa c’entra Saddam con il giardino dell’Eden e con le paludi della Mesopotamia?
Continuavo a guardare Nadia che rispondeva alle domande ma non la ascoltavo più, perché
scavavo nella mia memoria, cercavo qualche indizio per provare a collegare i punti:
Saddam, la guerra, le migrazioni e l’acqua. Eppure l’unica cosa che mi veniva in mente
era la faccia di Saddam appena catturato, con lo sguardo perso nel vuoto e la barba
lunghissima. E poi le sue presunte armi di distruzione di massa, i genocidi contro
i curdi e gli sciiti e gli oppositori politici. Ma mai l’acqua.
Le paludi della Mesopotamia sono abitate dai ma’dan, spesso chiamati semplicemente
gli arabi delle paludi. I ma’dan abitano questa grandissima maremma da secoli, raccogliendo
canne e allevando bufale. Con le canne fabbricano ceste, costruiscono case galleggianti
ed edificano grandissime capanne, le mudhif, usando le stesse tecniche dei Sumeri. Per secoli, più di mezzo milione di ma’dan
hanno vissuto una vita in equilibrio con la natura, sparsi su un’area equivalente
al Lazio. I ma’dan sono sciiti come la maggior parte degli iracheni, quella parte
di islam che crede che gli unici successori di Maometto siano i suoi consanguinei,
a partire dal genero e cugino Ali.
La storia dei ma’dan, i custodi delle paludi, si interrompe bruscamente negli anni
Ottanta, quando Saddam li identifica come nemici del suo regime, alleati del nemico
Iran sciita. Fra i giunchi si nascondevano i disertori, i ribelli e i nemici del regime.
Saddam mette in atto una campagna per sterminarli, come tutti i suoi oppositori politici
dal Kurdistan fino al Golfo Persico. All’inizio usa le solite tattiche: esecuzioni
sommarie, arresti e violenze. Poi si accorge che un’area così vasta è difficile da
rastrellare e allora usa contro i ma’dan quello che Leonardo e Machiavelli volevano
usare contro Pisa: l’acqua.
Nei primi anni del Cinquecento Leonardo lavorò per conto della Repubblica fiorentina
e del suo cancelliere Machiavelli a un piano per deviare il corso dell’Arno e lasciare
gli odiatissimi pisani a secco per costringerli alla resa. Saddam probabilmente non
conosceva il progetto di Leonardo. Però sapeva benissimo che l’acqua può essere uno
strumento di guerra. E sapeva benissimo che l’acqua era l’elemento fondamentale che
permetteva alle paludi di esistere e dare rifugio ai ma’dan e ad altri avversari politici
e disertori.
L’acqua è da sempre uno strumento e una vittima delle guerre. In Siria, la terribile
battaglia di Aleppo si è combattuta anche con l’acqua. Per indebolire Aleppo est,
la stazione di pompaggio di Bab al-Nayrab venne bombardata nel settembre del 2016.
Per rappresaglia, un’altra stazione, quella di Suleiman al Halabi, venne spenta per
piegare Aleppo ovest.
Come dice Azzam Alwash, il più grande ambientalista iracheno, l’acqua è la vera arma
di distruzione di massa di Saddam. L’arma che gli americani e gli ispettori delle
Nazioni Unite non hanno mai trovato. Per compiere il genocidio dei ma’dan, Saddam
decise di toglier loro l’acqua. Come tutti i genocidi, anche il genocidio dei ma’dan
venne pianificato nel dettaglio. Saddam si servì della disciplina più puntigliosa
di tutte, la disciplina che meglio insegna a pianificare nel dettaglio: l’ingegneria
idraulica. Per prosciugare le paludi, Saddam devia il corso dell’Eufrate con un enorme
canale. Il flusso della dea Inanna, l’inondazione dell’Eufrate venerata dai Sumeri,
smette di pulsare attraverso le paludi che si prosciugano. Le paludi iniziano a sparire
e con loro il sostentamento di migliaia di ma’dan, che scappano inseguiti dalle bombe
e dalle persecuzioni di Saddam. Molti si rifugiano in Iran, altri si spostano all’interno
dell’Iraq. In un decennio, dall’inizio degli anni Novanta fino al Duemila, il numero
di ma’dan che vivono nelle paludi si riduce da circa mezzo milione a poche migliaia,
non più di ventimila secondo alcune stime.
Saddam non compie solamente un genocidio, ma anche la distruzione del novanta per
cento delle paludi e con esse la perdita di migliaia di specie animali e vegetali.
Il giardino dell’Eden diventa improvvisamente un deserto disabitato, un inferno da
cui si può solo scappare. Lo stesso inferno visto da Bosch nel suo trittico del Giardino delle delizie. Come chiamarlo? Terrorismo ecologico? Ecocidio? Biocidio? La distruzione sistematica
della natura. È una cosa in cui l’umanità si è specializzata da millenni, eppure non
abbiamo ancora trovato una parola per descriverla. Di solito quando distruggiamo la
natura lo facciamo per un qualche movente economico, non per distruggere una cultura.
Nel caso dell’Iraq meridionale, invece, l’ecocidio è parte del genocidio; è un’arma
in più per cancellare i dissidenti e i nemici, per fargli pagare la loro opposizione.
Nadia mi racconta questa storia al telefono. L’ho contattata dopo la conferenza in
Giordania e le ho chiesto un’intervista. Ci sono lunghe pause nel suo racconto. Voglio
pensare che è la connessione che si blocca, forse mi farebbe sentire meglio. Mi farebbe
sentire meno in imbarazzo. L’imbarazzo di trovarsi di fronte a un dolore che non riesco
a immaginare. Ma so che il silenzio non è la connessione che si blocca, è solo Nadia
che cerca di avanzare piano piano nel racconto. Non riesce a separare la storia delle
paludi dalla sua storia. «Negli anni Novanta mi ero appena trasferita in Galles e
solo dopo vari mesi mi resi conto della gravità della situazione. All’inizio non capivo
quando mi dicevano che non c’era più acqua, che Saddam aveva spostato un fiume e che
gli zii e i nonni erano dovuti scappare. Da lontano provavo a immaginare come stavano
cambiando i paesaggi, provavo a pensare a una casa senza più fiumi verdi e canneti,
ma solo polvere e terra arsa. Una casa senz’acqua».
Nadia passava le sue vacanze estive nelle paludi. Per lei e per molti altri abitanti
di Bassora, le paludi erano un posto dove andare a rilassarsi, mangiare il pesce preparato
dai ma’dan, nuotare nel fiume, raccogliere i datteri, girare in barca nei canneti,
comprare il latte di bufala appena munto. Più di tutto, Nadia amava visitare le paludi
per il verde. Dice proprio così: «Amavo il verde». Sembra quasi sia l’unica cosa che
ricordi delle paludi degli anni Settanta. «Tutto era verde: l’orizzonte, i giunchi,
i riflessi delle piante nell’acqua. Era un paradiso».
Nei paesi arabi il Paradiso è verde. Questa fissazione con il verde forse viene dalla
vita nel deserto dove il verde indica la presenza d’acqua e segnala la vita. Anche
per questo il verde è il colore dell’islam, perché contrasta con il fuoco del deserto
dove è nata questa religione. Oggi il verde è quasi del tutto assente dalle paludi.
Le paludi della Mesopotamia stanno diventando un deserto. «Invece delle bufale», sussurra
Nadia, «vedo i cammelli».
Nadia iniziò a studiare le paludi un po’ per caso. All’inizio della sua carriera si
interessava più di acqua salata, del mare e dell’impatto dell’inquinamento sulla vita
marina. «L’acqua potabile non mi interessava», dice, «ne avevamo in abbondanza». Poi
negli anni Ottanta la guerra fra Iran e Iraq la costringe a cambiare tema. Diventa
praticamente impossibile andare in mare per prelevare campioni. Il braccio di mare
davanti a Bassora diventa teatro di battaglie e alcune delle navi militari affondate
sono ancora lì, scheletri lasciati da una guerra mai finita.
Così Nadia e suo marito, un esperto di scienze ambientali, iniziano a studiare le
dinamiche ambientali delle paludi e a misurare la qualità dell’acqua dolce. Le paludi
smettono di essere solo un luogo di relax. Nadia e suo marito iniziano a scoprire
un ecosistema vastissimo che si intreccia con culture millenarie. Interagiscono con
le comunità, fanno amicizia. «Ricordo i ma’dan fieri del loro lavoro. Le donne portavano
le barche, gli anziani indicavano dove far abbeverare le bufale, usando le piante
per identificare le acque più pulite. Un popolo laborioso, la cui ricchezza e felicità
risiedeva nella coscienza delle proprie tradizioni».
Forse c’è qualcosa di romantico nella descrizione di Nadia, perché vivere nelle paludi
non deve essere mai stato facile. Adesso però vivere nelle paludi è quasi impossibile.
Il cambiamento in atto è troppo drammatico: «Un tempo i bambini dei ma’dan erano bruni.
Adesso i pochi bambini rimasti hanno pochi capelli biondicci e rossi. All’inizio pensavo
se li dipingessero con l’henna per imitare la tinta della barba di alcuni adulti.
Poi ho capito che era un sintomo di malnutrizione e mancanza di proteine». La progressiva
distruzione delle paludi fa anche altre vittime. Gli uccelli migratori sono scomparsi;
disorientati dalla mancanza di verde, vanno a nidificare altrove.
Eppure per un attimo c’era stata speranza per le paludi. Dopo l’invasione americana
del 2003, Saddam scappa per poi essere catturato e impiccato pochi anni più tardi.
Non temendo più la sua violenza e sentendosi protetti dagli americani, i ma’dan iniziano
a tornare ai loro canneti. Rompono gli argini dei canali fatti costruire da Saddam
e lasciano che ancora una volta l’acqua inondi le paludi. A poco a poco la terra torna
ad essere fertile, a respirare. Saddam non ce l’ha fatta ad annientarli, molti ma’dan
stanno tornando. Anche Nadia nel 2009 decide di lasciare la Nuova Zelanda per tornare
a Bassora. Non ce la fa più a vivere lontana.
Anche se le paludi hanno iniziato a respirare, è come se avessero un solo polmone.
L’altro se l’è portato via Saddam con il suo ecocidio. Nadia racconta: «Appena tornata
mi accorsi subito che l’ambiente era troppo cambiato, che forse la situazione era
irrecuperabile». Il trauma è stato troppo grande; come dopo un’operazione chirurgica,
le cose non possono tornare come prima. Si può provare a ricostruire qualcosa, ma
forse qualcosa di diverso.
I ma’dan iniziano a ricostruire le paludi, un paesaggio che esiste solo grazie all’interazione
millenaria fra uomo e natura. Vista da fuori la vita dei ma’dan sembra facile: tirano
a campare tagliando le canne, pescando e allevando bufale. Ma non è così semplice.
Perché la gestione ambientale richiede conoscenza, e in queste paludi i canneti vengono
gestiti secondo un modello antichissimo. Le canne si possono raccogliere solo in certi
periodi dell’anno, la pesca è limitata ad alcuni mesi, e alcune zone delle paludi
vengono incendiate per promuovere la crescita di nuova vegetazione. Raccolta selettiva
e pesca solo in alcuni periodi dell’anno hanno permesso ai ma’dan di conservare queste
aree, al tempo stesso ricavando profitti, vita e lavoro.
Qui il paesaggio è cultura, riflette pratiche millenarie di gestione delle risorse.
«Sei italiano, pensa a Venezia. Dovresti intuire la bellezza di un paesaggio costruito
sull’acqua», mi dice Nadia. Le chiedo quante generazioni ci vogliono affinché tutto
questo si perda. «Basta una generazione per perdere tutte queste conoscenze, perdere
questo paesaggio. L’operazione di Saddam ha accelerato la transizione, ha alterato
il precario equilibrio delle paludi».
L’equilibrio delle paludi è nuovamente minacciato, questa volta non dalla follia omicida
di Saddam, ma dai cambiamenti climatici. Le temperature si stanno alzando e qui già
si registrano temperature più alte della media. Nell’estate del 2016 si sono registrati
cinquantaquattro gradi, così caldo da poter friggere un uovo sul cofano della macchina.
Temperature così elevate rendono la vita impossibile. A cinquantaquattro gradi le
bufale muoiono, le piante si seccano. Chi non ha l’aria condizionata aspetta immobile
la sera per non morire, letteralmente, di caldo.
E non ci sono solo i cambiamenti climatici ad alterare l’equilibrio delle paludi della
Mesopotamia. Ci sono milioni di agricoltori nelle altre regioni dell’Iraq che consumano
enormi quantità d’acqua per le loro coltivazioni, e le raffinerie irachene e iraniane
che scaricano inquinanti. Le paludi della Mesopotamia sono un grandissimo canale di
scolo che riceve tutte le schifezze di tutti i bagni, cucine, macellerie e industrie
dell’Iraq, un paese dove le fogne di trentotto milioni di persone scaricano direttamente
nel Tigri e nell’Eufrate senza ricevere nessun tipo di depurazione. Anche l’agricoltura
inquina le paludi: i fertilizzanti e i diserbanti che le piante non assorbono scivolano
nei due grandi fiumi, uccidendo pesci e contaminando l’acqua.
E poi ci sono le dighe in Turchia, Siria e Iran che trattengono più acqua, riducendo
i flussi verso le paludi. Il Tigri e l’Eufrate, come quasi tutti i grandi fiumi del
mondo, passano per diversi paesi, sono fiumi transfrontalieri. La politica estera
non è mai facile, ancora meno quando c’è di mezzo l’acqua. Le dighe turche, siriane
e iraniane riducono la portata del Tigri e dell’Eufrate. La sola diga di Atatürk in
Turchia può contenere un volume d’acqua pari a tutta l’acqua che scorre nell’Eufrate
in un anno. I turchi possono chiudere i rubinetti e lasciare l’Iraq a secco.
Questo rischio domina da sempre il dibattito sulla gestione dell’acqua in Iraq, e
ancora di più negli ultimi tempi. Nel 2019 la Turchia ha inaugurato la diga di Ilisu,
un bastione lungo più di 1.800 metri e alto 135 metri sul fiume Tigri. La diga di
Ilisu è a più di mille chilometri a nord delle paludi, ma può accelerarne il declino.
Se dovesse essere gestita senza tener conto delle necessità irachene, Ilisu ridurrebbe
ulteriormente i flussi d’acqua verso le paludi. Anche se i rapporti diplomatici fra
Iraq e Turchia rendono possibile un accordo, purtroppo non esiste ancora nessun trattato
di cooperazione per gestire le acque del Tigri e dell’Eufrate.
La diga di Ilisu da sola non distruggerà le paludi. Come spesso capita in politica
estera, concentrarsi sui problemi causati dai vicini permette di scordarsi dei propri,
quelli che si possono risolvere all’interno dei confini nazionali. In Iraq, molti
dei problemi dell’acqua sono legati alla sua cattiva gestione interna, che privilegia
l’irrigazione di coltivazioni di poco valore nutrizionale che consumano molta acqua,
e alla mancanza di infrastrutture, la maggior parte distrutte da decenni di guerre
e invasioni.
Gestire le paludi della Mesopotamia non vuol dire farle tornare com’erano prima di
Saddam, delle dighe turche e dell’agricoltura. Il giardino dell’Eden è stato abbandonato
e gli uomini non vi faranno più ritorno. Gestire le paludi, e gestire l’ambiente,
significa abbandonare la visione di una natura incontaminata alla quale è facile credere,
ma che è menzognera come tutte le visioni puriste del mondo.
Le dighe turche e siriane non si possono rimuovere. Le coltivazioni in Iraq non scompariranno.
Quindi bisogna ridurre gli sprechi per garantire l’acqua necessaria a mantenere le
paludi, cercare di migliorare la qualità dell’acqua e al tempo stesso raggiungere
accordi affinché la Turchia garantisca un rilascio minimo d’acqua dalle sue dighe.
Bisognerà anche capire quali parti delle paludi sarà più facile conservare con la
poca acqua a disposizione. Bisogna fare in fretta, perché le paludi si stanno prosciugando
e la scarsità d’acqua spinge le persone a emigrare. I ma’dan sono in cattive acque.
«L’umanità e la natura non sono necessariamente due avversari», continua Nadia. «L’integrità
ecologica delle paludi dipende dall’integrità culturale e dalla trasmissione di modelli
di gestione sostenibile. Se vogliamo che si mantengano, dobbiamo salvaguardare la
cultura e la conoscenza dei ma’dan».
Mi piace il pensiero di Nadia, che si interessa ai paesaggi e agli ecosistemi non
in quanto tali ma per il loro significato umano. Forse è una visione antropocentrica
della realtà, ma sembra riflettere la condizione di molti luoghi del nostro mondo.
Il giardino dell’Eden non è forse mai esistito, perché questo paesaggio è stato creato
da uomini e natura insieme. La storia dei ma’dan non vuol dire che non ci siano altri
modi di trovare un equilibrio in queste zone, che non ci siano modi di gestire le
acque del bacino in maniera coordinata. I ma’dan non sono dei santi dell’ecologismo,
però sanno bene che la gestione dell’acqua richiede particolare attenzione all’equilibrio
e ai cambiamenti. Quando quest’equilibrio si rompe, perché i cambiamenti avvengono
troppo rapidamente o le condizioni diventano troppo estreme per permettere agli uomini
di adattarsi o perché, molto più semplicemente, manca la volontà politica per agire,
donne, uomini e bambini si spostano, diventando rifugiati ambientali.
Chiedo a Nadia com’è la situazione a Bassora, poco più a sud delle paludi. Quella
che un tempo veniva chiamata la Venezia d’Oriente è oggi un cimitero di navi militari,
poggiate sul letto di fiumi senz’acqua e canali fetidi pieni di spazzatura.
«Guarda le foto dei primi del Novecento, avevamo anche i gondolieri, come Venezia»,
dice Nadia. Adesso i gondolieri non ci sono più. Ci sono ancora gli allevamenti di
bufale, anche se stanno scomparendo perché le bufale si ammalano. L’acqua che bevono
è troppo salata. Molti allevatori stanno andando via, in cerca di lavoro a Baghdad
e in Europa. «La cosa che rende più difficile restare» racconta Nadia «è la consapevolezza
di un grande passato, che sembra irrecuperabile. Troppo duro vivere il presente, e
sentire anche il peso del passato».
Nadia ha deciso di rimanere; spinta dall’interesse scientifico di vedere da vicino
i cambiamenti delle paludi, ma anche dalla voglia di vivere i propri luoghi senza
la nostalgia che aveva quando viveva in Nuova Zelanda. Fino a quando riuscirà Nadia
a rimanere a Bassora? L’acqua cattiva la costringerà a spostarsi? È difficile fare
previsioni a lungo termine sulla vivibilità dell’area. Sicuramente, senza interventi
di protezione contro l’ingressione marina e senza accordi per far rilasciare più acqua
dalle dighe turche e siriane, sarà molto difficile per i ma’dan e per i cittadini
di Bassora rimanere in queste terre. I ma’dan sono in cattive acque.
La chiacchierata con Nadia si conclude, ci salutiamo con la promessa di rincontrarci
presto e scrivere qualcosa assieme. Una settimana dopo leggo sul giornale che ci sono
stati dei violenti scontri a Bassora causati dalla mancanza d’acqua. La protesta è
esplosa dopo che dai rubinetti di tutta la città è iniziata ad uscire acqua gialla
e salmastra. Centomila persone si sono riversate negli ospedali della città con sintomi
tipici delle malattie intestinali causate dall’acqua contaminata: tifo, gastroenterite
ed epatite.
Con più di cinquanta gradi e senza acqua potabile, non c’è voluto molto per spingere
gli abitanti di Bassora a scendere in strada a protestare, anche a costo di farsi
sparare addosso dalla polizia. Infatti almeno venti persone sono morte negli scontri.
I cittadini sanno che l’accesso all’acqua è un loro diritto e chiedono al governo
di fare di più per migliorare l’affidabilità del servizio idrico. Chiedono che dai
loro rubinetti smetta di uscire acqua con livelli di sale sei volte superiori al limite
consigliato dall’Organizzazione mondiale della sanità. Chiedono di potersi lavare
la faccia senza che brucino gli occhi.
Migliaia di persone protestano, frustrate dall’assurdità della loro condizione: vivono
in un paese fra i principali produttori di petrolio al mondo, in una provincia che
contiene il settanta per cento delle riserve petrolifere dell’Iraq, in una città che
esporta petrolio per un valore di decine di miliardi di euro all’anno, e non possono
bere un bicchiere d’acqua. L’acqua nel Sud dell’Iraq non è solo un problema di protezione
della natura e di stili di vita millenari. È soprattutto un problema di diritti per
milioni di persone che vivono senz’acqua e che per questo rischiano di dover abbandonare
per sempre le loro case. Quando questi diritti non vengono rispettati, le persone
protestano, l’acqua scatena lotte e rivalità. La profezia delle guerre per l’acqua
diventa improvvisamente reale.