I.
Voltaire scopre Shakespeare
(1726-1748)
1. La tragedia in Francia
A vent’anni Voltaire nutriva un’ambizione: diventare un autore tragico, nel solco
tracciato da Corneille e Racine, e debuttare alla Comédie-Française1. A quel tempo in Francia la tragedia doveva essere regolare, in cinque atti e in
versi alessandrini, ispirarsi al mondo greco-romano, avere come protagonisti eroi,
re, principi, e come argomenti eventi straordinari tratti dalla mitologia e dalla
storia. Doveva rispettare le bienséances2, il gusto, il decoro, osservare la verosimiglianza (che vietava l’apparizione di
spettri, streghe e fantasmi) e seguire le regole di Aristotele. Per rispettare l’unità
di luogo, l’azione si svolgeva in un unico spazio; per rispettare l’unità di tempo,
l’intrigo veniva ridotto allo scioglimento, al suo finale. Tutto ciò che avveniva
in luoghi diversi o in tempi lontani, non era agito, ma solo raccontato. La tragedia
classica, infatti, si apre su una crisi. Inizia in medias res. Tutto è già avvenuto quando la pièce inizia. Corneille e Racine avevano scritto
come se Shakespeare, la cui unica regola era l’ispirazione, non fosse apparso mai
sulla terra, oppure fosse vissuto e fosse stato poi dimenticato, alla fine di un’altra
civiltà, considerata barbarica e superata. Invece si era spento nello stesso secolo
XVII, a poche centinaia di chilometri da Parigi. Ma allora le distanze, geografiche
e culturali, erano molto diverse da quelle di oggi. Quasi nessuno in Francia conosceva
il nome di Shakespeare.
Quando la prima tragedia di Voltaire compare sulle scene, nel 1718, Luigi XIV è morto
da appena tre anni. In attesa della maggiore età di Luigi XV, la reggenza è nelle
mani del duca Filippo d’Orléans, che trasferisce la corte da Versailles a Parigi.
Con l’inizio della reggenza si sgretola l’irrigidimento autoritario che aveva caratterizzato
il regno del vecchio re, svapora il mito della grandeur e subentra un nuovo ideale di libertà, di consumo e di godimento.
Finita l’epoca del Re Sole, lasciata Versailles e la corte per la città, la rappresentazione
della tragedia, cerimonia elitaria dell’aristocrazia, stava perdendo il ruolo centrale
di specchio della società che aveva avuto nel Seicento. Il pubblico non era più solo
quello esclusivo e delicato della corte, ma anche quello colto e borghese della città.
E con l’affiorare di un nuovo pubblico cominciavano a farsi sentire nuove esigenze.
Alla Comédie-Française, che dal 1680, quand’era nata per volontà di Luigi XIV, aveva
il monopolio della rappresentazione della tragedia, la messinscena si svolgeva in
condizioni che rendevano impossibile l’illusione da parte dello spettatore. La sala
era illuminata dalle candele, come la scena. Nulla indicava una separazione tra l’area
della finzione, dove agivano gli attori, e quella della realtà, dove sedevano gli
spettatori. Gli uni e gli altri in un certo senso davano spettacolo e così sarebbe
stato fino alla fine dell’Ancien Régime. Il palcoscenico era ingombro di panche, su cui sedevano i petits maîtres, giovani spettatori privilegiati che pagavano a caro prezzo quei posti adatti a mettersi
in mostra3. Per mancanza di spazio e per scarsa illuminazione, l’attore recitava in proscenio,
rivolgendosi più al pubblico che agli altri attori, e la scena, che rappresentava
un palazzo, uguale in tutte le tragedie, non era intorno a lui, ma dietro di lui,
come nel teatro antico. A differenza di quanto avveniva nell’Opéra, nella scena tragica
tutto era statico, non c’erano né grandezza né movimento. Il lavoro dell’attore e
l’attenzione dello spettatore durante la rappresentazione erano concentrati sulla
bellezza dell’espressione poetica e sulla musicalità dei versi. Nessun connaisseur, per definizione tradizionalista, si aspettava un nuovo brivido. La tragedia era
considerata un piacere mentale, squisitamente testuale e per niente visivo, che poggiava
sulla capacità di astrazione degli spettatori. Ma nello stesso tempo, e forse proprio
per questo, la tragedia era a giudizio di molti in grande decadenza. Il pubblico borghese,
ma anche parte di quello aristocratico, mostrava di preferire la commedia e gli spettacoli
irregolari e antiletterari dei teatri della Foire, che negli ultimi anni del regno
di Luigi XIV avevano cominciato a rappresentare non più solo acrobazie di funamboli,
giocolieri e saltatori di corda, ma anche brevi pièce di teatro4.
Le tragedie dei nuovi autori deludevano. Di volta in volta si incolpavano gli attori,
la loro recitazione, la scena, i costumi, i lunghi racconti che allontanavano dagli
occhi ciò che invece si aveva voglia di vedere5. Il periodo creativo iniziato da Corneille e portato alla perfezione da Racine sembrava
per sempre concluso. Stanco di grandeur, il pubblico incoraggia una trasformazione lenta, dall’interno, di un genere che
continua a chiamarsi tragedia ma ha perso l’aspetto rituale della rappresentazione.
2. Voltaire diventa autore drammatico
È per seguire un’ambiziosa strategia, più che per ispirazione poetica, che Voltaire,
fin d’allora abilissimo versificatore, decide di farsi il successore di Corneille
e Racine. Essere autore tragico era all’epoca il ruolo più prestigioso a cui un letterato
potesse ambire e a quella fama Voltaire mai avrebbe rinunciato, fino alla fine della
vita. Per le difficoltà che era necessario superare, le qualità di cui bisognava dare
prova, la tragedia era il risultato supremo della civiltà, una civiltà oggi a noi
lontana, incentrata sull’importanza del limite: creare un soggetto; inventare un intreccio
e un finale; dare a ogni personaggio il suo carattere, sostenerlo, renderlo interessante,
e aumentare questo interesse di scena in scena; far sì che nessuno appaia ed esca
di scena senza una ragione sentita da tutti gli spettatori; non lasciare mai il palcoscenico
vuoto; far dire a ciascuno ciò che deve dire, con nobiltà e senza enfasi, con semplicità,
senza bassezza6; superare la difficoltà di essere precisi ed eloquenti in versi nella lingua7; vincere continuamente la difficoltà della rima8; la strada che conduce al buono è strettissima.
La riabilitazione ufficiale della tragedia doveva aver luogo naturalmente alla Comédie-Française.
Il 18 novembre del 1718 Voltaire ha ventiquattro anni e nel teatro di rue des Fossés-Saint-Germain-des-Prés
viene rappresentato Œdipe. La sala, oggi demolita, corrispondeva al numero 14 dell’attuale rue de l’Ancienne-Comédie,
a pochi metri dal carrefour de l’Odéon, di fronte al Café Procope, che esiste ancora.
La capacità del teatro, a forma di sala di pallacorda, era di circa duemila posti.
Dietro la platea, dove il pubblico stava in piedi, c’era un anfiteatro per gli spettatori
più ricchi. Pagando un biglietto salato e per il piacere di mostrarsi al resto del
pubblico, c’era chi poteva occupare anche la scena, sedendo su piccole panche poste
di lato9.
Gli interpreti principali di Œdipe erano Dufresne e Mlle Desmares. Inizialmente gli attori erano restii a rappresentare
una tragedia senza amore. Con la reggenza si era diffuso il gusto del gioco mondano
e sentimentale e il modello corneilliano della tragedia virile era passato di moda.
Per accontentare gli attori che esigevano ruoli amorosi, Voltaire aveva incorporato
il personaggio di Filottete che fa la corte a Giocasta10. Quando la pièce va in scena, creando un effetto incongruo e comico in una tragedia
francese, il giovane Voltaire compare a sorpresa sul palcoscenico reggendo lo strascico
del sommo sacerdote, per evitare che finisse per impigliarsi nelle banquettes su cui sedevano i petits maîtres.C’era in questo esordio lo spirito irriverente e autoironico del Voltaire migliore.
Nelle sue mani la tragedia non era più, se non dal punto di vista formale, quella
che era stata nel Grand Siècle. Voltaire eredita il linguaggio, la forma, la compostezza, la semplicità, la struttura
della tragedia, ma non erano più la poesia, la pietà, la compassione, il sublime ad
attrarre il pubblico. Piacevano lo spirito di aperta ribellione, l’irriverenza religiosa,
l’ardore anticlericale, i riferimenti all’attualità teologica. Con Voltaire la tragedia
francese stava diventando l’occasione per esprimere nuove idee, la possibilità di
usare il teatro anche per formulare pensieri filosofici. Œdipe, in cui i protagonisti oppongono alla predestinazione giansenista il «ma» della loro
innocenza, è la prima tragedia filosofica di Voltaire11. Edipo e Giocasta sono predestinati al male, un Dio crudele precipiterà le due vittime
a loro insaputa nel parricidio e nell’incesto, punendoli per crimini a loro sconosciuti.
Ma qui insorge la protesta di Voltaire, che era stato educato dai gesuiti, contro
il Dio crudele, terribile e vendicativo dei giansenisti. Nel finale del suo Œdipe,l’innocenza dei due eroi è dichiarata. La responsabilità dell’incesto passa dagli
uomini agli dèi.
«Crediamo solo in noi; coi nostri occhi osserviamo. / Son per noi vaticini, oracoli,
e anche dèi».
(atto II, scena V)
«O impietosi numi, è vostro ogni mio crimine / E siete voi a punirmi».
(atto V, scena IV)
«Gli dèi ho svergognato che mi hanno spinta al crimine».
(atto V, scena VI, battuta finale di Giocasta, che chiude la tragedia)
L’orrore del Dio terribile si proietta sul clero che lo serve:
«Non sono i nostri preti come il volgo li vede / E fa la loro scienza la nostra sciocca
fede».
(Giocasta, atto IV, scena I)12
A differenza di Fedra che si riconosce colpevole e anticipando la meritata punizione
esegue su di sé la vendetta divina, l’Edipo di Voltaire non si riconosce peccatore,
non accetta la colpa. Ma, più che a Racine, l’Œdipe di Voltaire rispondeva all’Œdipe di Corneille (1659). La tradizione classica misconosceva l’idea di originalità, si
avvaleva di modelli, per questo era frequente che più autori scrivessero opere su
uno stesso soggetto. Corneille aveva una visione fondata su un eroismo della fede
più vicino ai gesuiti che ai giansenisti. Il suo Edipo si rivolta contro una condizione
che lo rende colpevole senza essere responsabile. Accecandosi, Edipo si punisce da
solo, rifiuta di continuare a vedere il fato antico come rappresentazione metafisica
del mondo. Il suo gesto di libero arbitrio13 protesta contro un’immagine dell’uomo e del divino che è quella della tragedia greca
ma anche quella del giansenismo. Prevenendo l’ingiustizia degli dèi, Edipo mostra
che l’uomo è superiore al destino che gli viene imposto, è capace di decidere. Punendosi,
si salva e salva anche la città. È proprio a causa delle virtù che non gli vengono dagli dèi che l’Edipodi Corneille decide di morire per tutti. Per il giovane Voltaire, invece, gli dèi
sono colpevoli. Poco a poco la fiducia che Edipo ripone in loro e nel loro rappresentante,
il sommo sacerdote, si sgretola. La sua morte non è una redenzione ma la testimonianza
di un eroe legittimo che con la sua terribile morte accusa gli dèi14.
Con Voltaire la tragedia stava cambiando. Ma nel 1718 il giovane Arouet non è ancora
un filosofo, vuole essere soprattutto un poeta. Vuole entrare nel mondo delle gens de lettres e degli autori drammatici. Grande conoscitore del pubblico, sa che per avere successo
bisogna fare delle concessioni. Per questo, pensando di rendere la tragedia più mossa
e grandiosa sulla scena, introduce nel primo atto di Œdipe un coro di tebani, ma la novità non piace agli spettatori del Théâtre-Français (così
veniva chiamata dai parigini la sala della Comédie-Française), che alla prima ridono15. Voltaire, che nelle sue lettere e nei racconti si rivelerà maestro nell’arte di
far ridere, temeva moltissimo il ridicolo nella tragedia e disprezzava le irriverenti
e dissacranti parodie del teatro della Foire16, che spesso seguivano il debutto di una nuova tragedia, non solo perché riteneva
inaccettabile la volgarità del burlesco che «parlava il linguaggio delle Halles»17, ma anche perché aveva paura dell’effetto sovversivo del dileggio, arte che lui stesso
esercitava con successo. Così, dopo la prima rappresentazione di Œdipe si corregge, elimina il coro e mai più lo proporrà in alcuna tragedia.
Sempre attentissimo a non urtare il gusto e i pregiudizi degli spettatori in ambito
teatrale, a differenza che nei suoi futuri scritti filosofici, Voltaire non osa mai
troppo, innova con estrema prudenza, cancella le novità se il pubblico non le accoglie,
evita gli eccessi. La riuscita immediata di un’opera, se non era sufficiente per consacrarla,
gli sembrava necessaria per farla vivere: non credeva alle rivelazioni postume. Sapeva
che il teatro aveva bisogno di essere subito condiviso, che era un’arte del presente,
necessariamente compromissoria, che non poteva permettersi, com’era concesso alla
musica e alla pittura, di cambiare in modo troppo rapido e radicale, accontentandosi
di essere capita in futuro.
Œdipe è un trionfo, ventinove rappresentazioni alla Comédie-Française e quattro al Palais-Royal,
dove risiedevano gli Orléans: il maggiore successo tragico della reggenza, al quale
Voltaire aveva lavorato da quando aveva diciotto anni. Gli spettatori del Théâtre-Français
sentono per la prima volta un autore che parla con il linguaggio della tragedia classica
e nello stesso tempo riesce a coinvolgerli con riferimenti all’attualità. Si mormorava
infatti che Voltaire avesse raccontato l’incesto di Edipo anche per alludere agli
amori contro natura del reggente Filippo d’Orléans con la figlia maggiore, la duchessa
de Berry, e che per questo il pubblico era accorso in folla alla prima. Poco dopo
Dominique, che era stato l’Arlecchino più celebre del teatro della Foire18, mette in scena al Théâtre-Italien la parodia Œdipe travesti. Era un segno di successo, una parodie d’hommage,riservata alla pièce di cui più si parlava. L’11 febbraio 1719 Œdipe viene recitato davanti al reggente. Poco dopo Voltaire pubblica il testo, dedica l’opera
alla duchessa d’Orléans, e per la prima volta si firma Arouet de Voltaire19.
Grazie a Œdipe il giovane Arouet acquista fama e diventa un tragediografo alla moda. È la prima pietra
di un successo di pubblico che continuerà sempre a curare come prova e misura del
proprio potere.
Incoraggiato dal buon esito, scrive una seconda tragedia, Artémire, non più basata su modelli letterari precedenti, ma interamente di fantasia, anche
se meno ispirata. Ambientata in Macedonia dopo la morte di Alessandro Magno, racconta
la storia della regina Artémire, donna virtuosa perseguitata da un marito che non
ama, Cassandre, ma a cui resta fedele. Al debutto, il 15 febbraio 1720, il primo atto
viene fischiato per l’interpretazione della protagonista, Adrienne Lecouvreur, amante
di Voltaire, che aveva rinunciato alla tradizionale declamazione cantata per una dizione
«semplice, nobile, naturale»20. Per difenderla, Voltaire interviene dal palco, arringa gli spettatori e riesce a
trasformare i fischi in applausi, manifestando un tratto a lui congeniale: la tendenza
a personalizzare il successo. Più del testo contava ormai l’autore, il vero protagonista
era lui. Dominique al Théâtre-Italien fa la parodia della tragedia, con il medesimo
titolo. Ma alla Comédie lo spettacolo non supera le otto repliche. Voltaire ritira
la pièce e ne impedisce la pubblicazione.
Nel 1716 il reggente Filippo d’Orléans aveva richiamato a Parigi gli attori italiani
che Luigi XIV aveva cacciato nel 1697. Con il ritorno degli Italiani inizia la crisi
anche economica dei teatri reali (Comédie-Française e Opéra) e lo sviluppo dei teatri
secondari nelle Fiere stagionali di Saint-Germain e Saint-Laurent. La crisi riflette
il cambiamento sociale in atto. Il pubblico di Racine era costituito da un ambiente
chiuso di sudditi che escludeva gli strati sociali ed economici inferiori e andava
a teatro per assistere a un avvenimento raffinato e mondano. Ma a partire dall’inizio
degli anni Venti il centro della gravità sociale comincia a spostarsi verso la classe
media, amante dell’azione, del pathos e del lieto fine, che non si riconosce nella
tragedia e accorre in massa alle rappresentazioni non ufficiali. Anche molti aristocratici
cominciano ad annoiarsi nei teatri reali e frequentano i teatri della Foireapprezzandone la libertà e la vivacità. Il rinnovamento della tragedia diventava sempre
più necessario.
Il 6 marzo del 1724 Voltaire affronta per la terza volta il pubblico della Comédie-Française
con una nuova tragedia incentrata sulla seconda moglie di Erode il Grande, Mariamne. Infrangendo la regola classica che lo vietava, la protagonista muore in scena. L’interprete
principale era ancora Adrienne Lecouvreur, ma gli altri attori della Comédie erano
ostili. Prima che la pièce vada in scena Voltaire scrive all’amico d’Argental:
Risponderò ai nostri signori attori con le belle parole che il duca d’Orléans dice
ai deputati del Parlamento: andate a... Mariamne piace più a me che a loro. Voglio che sia ben fatta prima che vada in scena. [...]
Lavoro giorno e notte. Faccio pochi versi e ne cancello molti21.
La sala alla prima è stracolma, perciò l’insuccesso appare ancor più clamoroso. Nel
finale il pubblico ride. Molti anni più tardi ricordando l’episodio Voltaire scriverà:
«Mariamne veniva avvelenata da Erode; appena bevve la coppa, la cabala gridò: “La
regina beve!” e la pièce fallì»22. Una regina non poteva bere da una coppa, era considerato volgare. Mariamne non viene replicata. Voltaire si accorge dei difetti della tragedia assistendo alla
rappresentazione e ancora prima che esca la solita parodia corre ai ripari. Ritira
la pièce e la rimaneggia. Elimina la morte in scena della protagonista e riporta tutto
in racconto. Evitare uno scandalo era più importante che modernizzare la tragedia
incrementando l’azione23. Rielaborata, la pièce torna in scena l’anno dopo come Hérode et Mariamne24.
Intanto Voltaire lavorava alla Henriade, il poema epico su Enrico IV che tesseva la gloria del grande re che aveva liberato
la Francia da trent’anni di guerre religiose, garantendo la libertà di culto. Opera
«monarchica e borbonica», l’Henriade, una sorta di Eneide trasposta in Francia, avrebbe dato a Voltaire una grande e duratura celebrità. Nel
1818, col ritorno dei Borboni, un esemplare del testo verrà rinchiuso nel ventre del
cavallo della statua di Enrico IV al Pont Neuf. Il 17 ottobre 1725, Voltaire scrive:
L’epica è affar mio, [...] e mi sembra che si proceda molto più a proprio agio in
una carriera in cui si hanno per rivali Chapelain, La Motte, e Saint-Didier, che in
quella in cui bisogna tentare di uguagliare Racine e Corneille25.
3. L’esilio in Inghilterra
e la scoperta di Shakespeare (1726-1729)
All’inizio del 1726, nonostante due insuccessi teatrali, Voltaire era ormai un giovane
autore conosciuto, ricevuto a corte e nei salotti parigini. Ma la fortuna mondana
e i successi cortigiani vengono bruscamente interrotti da una vicenda le cui conseguenze
sarebbero state decisive per la sua vita. Era entrato in polemica con un nobile, il
cavaliere Guy-Auguste de Rohan, conte di Chabot, il quale, in seguito a un diverbio,
lo fa bastonare dai suoi servi. Voltaire protesta e chiede aiuto, ma la legge stava
dalla parte degli aristocratici e lui era un borghese, così in aprile viene imprigionato
alla Bastiglia e subito dopo invitato ad andare in esilio. Sceglie l’Inghilterra,
paese che lo attirava per le istituzioni e le conquiste scientifiche. La sua curiosità
e la sua intelligenza trasformano il periodo inglese in un’occasione di formazione,
maturazione e crescita. Il giovane Arouet rivela fin da allora una grande capacità
di mettere a profitto le opportunità offertegli dalla vita.
Quando arriva in Inghilterra, Londra è una città immensa, grande il doppio di Parigi,
con più di 900.000 abitanti. Dal 1714, finita la lunga dinastia degli Stuart, cattolici
e filofrancesi, che avevano dominato oltre cento anni dalla morte di Elisabetta (1603),
regnava il protestante Giorgio I di Hannover. Trent’anni prima, con la «Glorious Revolution»
del 1689, il Parlamento aveva dato vita alla prima monarchia costituzionale europea.
L’Inghilterra possiede, agli occhi di Voltaire, due grandi pregi: è un paese libero
e non cattolico. A Parigi, fin dal 1719 Voltaire aveva frequentato la colonia inglese
e aveva subìto in particolare l’influenza di Lord Bolingbroke, leader dei Tories (conservatori) più illuminati, che si era esiliato volontariamente in Francia alla
morte di Anna, ultima sovrana del casato degli Stuart, e all’elezione di Giorgio di
Hannover sostenuta dai Whigs (liberali), scegliendo come residenza il castello de La Source, vicino a Orléans.
Politicamente Bolingbroke era per un «torismo rinnovato»26, pensava che il governo di un re forte, sostenuto dalle masse popolari, fosse più
favorevole al paese che non un’oligarchia parlamentare. Ma più che sul piano politico,
Bolingbroke è stato l’iniziatore di Voltaire come filosofo, incoraggiandolo a coltivare
la ragione e indirizzandone le letture. Il castello de La Source è servito come punto
di incontro di molti intellettuali ed è probabile che in quella cerchia Voltaire sia
stato avviato per la prima volta alla filosofia naturale, all’opera di Locke e in
particolare allo studio dei newtoniani inglesi. Bolingbroke era da poco rientrato
in Inghilterra quando Voltaire arriva a Londra all’inizio del maggio 1726. Dopo tre
mesi, il 12 agosto, scrive all’amico Thieriot:
Sono ancora molto incerto se ritirarmi a Londra. So che è un paese dove tutte le arti
sono onorate e ricompensate, dove c’è differenza tra le condizioni sociali, ma nessun’altra
differenza tra gli uomini che quella del merito. È un paese in cui si pensa liberamente
e nobilmente, senza essere trattenuti da alcun timore servile. Se seguissi la mia
inclinazione mi fermerei qui, non fosse che per imparare a pensare. Ma non so se la
mia modesta fortuna, così disturbata da tanti viaggi, la mia cattiva salute, più alterata
che mai, e il mio gusto per il più profondo ritiro mi permetteranno di andare a ficcarmi
in mezzo al chiasso di Whitehall27.
Alla fine di agosto Voltaire si ritira a Wandsworth, a sud del Tamigi, che oggi è
un quartiere periferico inglobato nella città, ma allora era un villaggio in campagna,
abitato fin dal 1685 da un’importante colonia di rifugiati religiosi e dai quaccheri.
Voltaire mostra una particolare simpatia per la semplicità primitiva dei loro costumi
e per la loro religiosità priva di formalismi. A Wandsworth lavora in solitudine,
scrive e acquisisce poco a poco familiarità con l’inglese. Il desiderio di ritirarsi
e isolarsi per poter pensare lo avrebbe accompagnato per tutta la vita, ed è uno dei
segreti della sua sconfinata produzione intellettuale.
Alla fine di ottobre, dopo quasi due mesi, Voltaire torna nella capitale, comincia
a frequentare i teatri e, grazie a Bolingbroke28, ha contatti con Alexander Pope29, Jonathan Swift e altri letterati.
L’interesse e l’apertura di Voltaire verso ogni aspetto della cultura inglese rappresentavano
un fatto del tutto nuovo per un francese. In quegli anni a Parigi pochi parlavano
e leggevano l’inglese, si era diffusa una certa anglofilia, ma di carattere esclusivamente
politico e non letterario. Voltaire si interessa invece a tutto, anche alla letteratura.
Alcuni scrittori avevano cominciato a sperimentare l’uso di forme letterarie come
la novella e il teatro per creare un nuovo genere di critica politica. I viaggi di Gulliver di Swift, apparsi solo pochi mesi prima del suo arrivo, sono l’esempio più famoso
di questa nuova fusione di scrittura letteraria e critica politica. Voltaire ne invia
una copia al suo amico Thieriot proponendogli di tradurlo:
Gulliver è il Rabelais d’Inghilterra, ma un Rabelais senza fronzoli. Il libro sarebbe
divertente anche solo per la singolare immaginazione di cui è pieno, per la leggerezza
del suo stile, se non fosse d’altronde la satira del genere umano30.
In novembre John Gay, grande amico di Swift, parla per primo della presenza di Voltaire
a Londra. Quando i due scrittori si incontrano, Gay mostra a Voltaire il manoscritto
di TheBeggar’s Opera (L’opera dei mendicanti), una satira dell’opera di Händel e della corruzione dell’inamovibile Robert Walpole31, primo ministro whig. Si tratta di un’opera cinica e brutale, che si svolge nella prigione di Newgate,
dove i ladri, purché avessero denaro, venivano trattati dai carcerieri come gran signori32. Dipinge una società immorale, che non controllava i suoi banditi e che, per un impulso
di ferocia, li ammirava. Attraverso Gay, Voltaire entra nel mondo teatrale inglese.
Viene presentato al commediografo Colley Cibber33 che lo mette in contatto con William R. Chetwood, suggeritore al Drury Lane. Grazie
a lui ha la possibilità di andare ogni giorno a teatro e di assistere a varie tragedie
di Shakespeare con il testo sotto mano: Amleto, Otello, Macbeth, Giulio Cesare e Riccardo III34. In una lettera scritta già in inglese all’amico Thieriot, Voltaire, in occasione
della recente morte di sua sorella, parafrasa il monologo di Amleto:
La vita non è altro che un sogno pieno di stelle di follia, e di miserie immaginarie
e reali. La morte ci risveglia da questo doloroso sogno, dandoci un’esistenza migliore,
o nessuna esistenza35.
E annota laconicamente nei Notebooks:
Scene in Shakespeare, non drammi.
Vogliamo azioni36.
È il primo riferimento a Shakespeare, che fino ad allora era per lui soltanto un nome.
Ma si capirà con gli anni che l’esperienza di «Shakespeare on stage» doveva essere
stata molto forte. In quel tempo la conoscenza di Shakespeare in Europa era limitata
alla sola Inghilterra. Da quando, con la restaurazione al trono di Carlo II Stuart,
nel 1660, erano stati riaperti i teatri rimasti chiusi per diciotto anni durante la
Rivoluzione e il Protettorato di Cromwell, Shakespeare era stato rappresentato in
versioni purgate, adattate ai princìpi classici francesi, che con Carlo II erano divenuti
precetti anche in Inghilterra. Tuttavia negli adattamenti shakespeariani della Restaurazione
molto dell’originale era rimasto, sfuggito alla mano livellatrice dell’estetica classica:
la miscela di tragico e comico ereditata dai morality plays, il linguaggio quotidiano e popolaresco mescolato alla declamazione tragica, il soprannaturale
delle apparizioni dei fantasmi e dei sogni premonitori, l’efferatezza dei delitti
che derivava dall’influsso che nell’Inghilterra della seconda metà del Cinquecento
aveva esercitato il teatro di Seneca. Voltaire resta sfavorevolmente sorpreso dalle
caratteristiche per lui barbariche di questo teatro così diverso, ma anche molto colpito
dal movimento, dall’impatto, dall’efficacia comunicativa.
Non è facile stabilire a quali versioni shakespeariane abbia assistito Voltaire, però
certamente non è attraverso la lettura, ma attraverso la rappresentazione, sul palcoscenico
e in presenza del pubblico, ch’egli ha fatto la conoscenza diretta delle tragedie
di Shakespeare. Non è colpito dal linguaggio verbale, per lui ancora difficile da
capire, ma dal linguaggio scenico, dall’azione. Shakespeare, che non infrange l’unità
di luogo, la trascende o la ignora, con due parole trasforma il palcoscenico in una
strada di Londra, in un bosco, in un palazzo, in una nave o nella terrazza di un castello.
Grazie alla capacità degli attori di ricreare un universo di immagini, tutte le sue
opere diventano un grande spettacolo pieno di frastuono d’armi, di cortei militari
e di duelli; vi si vedono banchetti e grandi bevute, buffoni che fanno le capriole,
venti e tempeste, atrocità e sofferenze. Lo spettatore crede veramente che sulla scena
sia scoppiata una tempesta, che la nave stia affondando, che il re e il seguito partano
per la caccia, che un sicario a pagamento passi l’eroe a fil di spada. Tutto avviene
per davvero37.
Bandita dalla tradizione per rispettare le unità aristoteliche di tempo e di luogo
e per dare centralità ai versi, sostituendo la vista con l’udito, l’azione era stata
sostituita in Francia dal racconto. Voltaire, che aveva timidamente cercato di inserire
l’azione nelle sue prime tragedie perché non risultassero monotone conversazioni,
sui palcoscenici dei teatri di Londra, più ampi di quelli francesi, vede per la prima volta il teatro: il male, l’ambizione, la sete di potere, l’ingiustizia,
il dolore, l’astuzia, la magnanimità, il dubbio, la vendetta, tutto il crogiolo dell’esperienza
umana non più raccontati, assorbiti nel racconto, come volevano le regole classiche,
ma finalmente agiti.
L’esperienza dei teatri inglesi ha un influsso decisivo sulle opere successive di
Voltaire e sulla sua concezione della tragedia. Nelle tragedie classiche francesi
tutto il peso del significato era affidato alle parole. Più che vedere, si ascoltavano
i drammi in versi proprio come si ascoltava la musica. La lingua di Shakespeare è
invece azione parlata. Persino il monologo non è un momento di stasi, è azione, rappresentata
col ritmo, coi suoni, coi gesti, coi movimenti scenici. Dopo l’esperienza dei teatri
di Londra, l’effetto visivo dello spettacolo, «gli avvenimenti necessari alla pièce»,
come scriverà in seguito, pur se subordinati ai bei versi, al discorso poetico38, diventano per Voltaire di importanza fondamentale. Sicuramente è colpito anche dalle
reazioni del pubblico, dal forte coinvolgimento che i drammi di Shakespeare provocavano
negli spettatori e forse cerca – come faranno anni dopo i Romantici – di studiarne
le ragioni. La partecipazione nei teatri inglesi era di natura diversa da quella cui
lui era abituato. La forza della rappresentazione, la concretezza, la recitazione
espressiva e gestuale degli attori inglesi erano le stesse che Diderot descriverà
anni dopo nella Lettre sur les sourds et muets:
Ci sono gesti sublimi che tutta l’eloquenza oratoria non renderà mai. È il caso di
Lady Macbeth nella tragedia di Shakespeare. La sonnambula Macbeth avanza in scena
in silenzio con gli occhi chiusi, imitando l’azione di una persona che si lava le
mani, come se le sue fossero ancora tinte del sangue del suo re che lei più di vent’anni
prima aveva sgozzato. Non conosco nel linguaggio verbale nulla di altrettanto patetico
del silenzio e del movimento delle mani di questa donna. Quale immagine del rimorso!39
Voltaire non riconosce a Shakespeare la statura di un grande autore, non sembra affascinato
dal suo mondo poetico, ma è scosso da quel teatro così diverso, dove la verità era
scenica e non letteraria. Shakespeare lo interessa per l’effetto che produce, le possibilità
teatrali che implica, i suggerimenti che è in grado di dare all’esangue tragedia francese.
L’apparizione degli spettri, banditi dall’estetica classica perché inverosimili e
invece frequenti nella drammaturgia shakespeariana, non lo attira per il mistero,
oggi diremmo l’inconscio, né per il meraviglioso, come sarà per i Romantici40, ma unicamente come espediente drammatico di successo. Tutto questo risulterà evidente
solo più tardi. Nella corrispondenza di Voltaire da Londra non ci sono tracce dirette
della sua esperienza di spettatore teatrale. L’Inghilterra sembra affascinarlo e convincerlo
più per i costumi sociali che per quelli estetici. Gli piacciono la rapidità e la
secchezza dello stile inglese, che influenzerà la scrittura delle sue lettere e dei
suoi racconti, e anche molti tratti della sua personalità, del suo modo di essere.
In Inghilterra tutti si preoccupano della cosa pubblica, in Francia unicamente dei
propri interessi. Un inglese è pieno di pensieri, un francese pensa solo a gesti,
complimenti, parole dolci e carezzevoli, si attacca a seducenti apparenze, esagera
con le parole, ossequioso con orgoglio e molto preoccupato di sé stesso mantenendo
le apparenze di una piacevole modestia. L’inglese è economo in parole, apertamente
fiero di sé e distaccato da tutto il resto. Dà vita il più rapidamente possibile ai
suoi pensieri per paura di perdere tempo. [...] Noi in Francia abbiamo cominciato
a scrivere abbastanza bene molto prima di aver iniziato a pensare. In Inghilterra
è il contrario41.
Soprattutto a Voltaire interessa la scienza e in particolare Newton, di cui ammira
le idee, il laicismo, l’empirismo razionale, la visione antimetafisica e il senso
tragico della vita, che più tardi contribuirà a divulgare in Francia e in Europa.
Oltre a Bolingbroke e alla sua cerchia di amici, un primo e importante contatto con
l’Inghilterra è l’amicizia con un giovane mercante suo coetaneo, Everard Falkener,
conosciuto a Wandsworth. Falkener introduce Voltaire in un ambiente londinese opposto
al circolo Tory raccolto intorno a Bolingbroke, aprendogli le porte dei Whigs, allora al potere, tra cui c’erano figure come il filosofo deista Samuel Clarke e
i suoi amici che si autoproclamavano newtoniani. Voltaire non ha conosciuto Newton,
che muore il 20 marzo 1727 a 85 anni, ma il 7 aprile assiste a Westminster Abbey ai
suoi funerali42. È sorpreso dal prestigio sociale e mondano di cui gode la scienza in Inghilterra,
dal riconoscimento e dalla considerazione rivolta ai pensatori, agli scienziati e
ai filosofi, che aveva spianato la carriera a più di un uomo politico. L’apertura
e la libertà di pensiero degli inglesi lo fanno sentire a suo agio. Verso i primi
di giugno incontra Swift a casa di Pope. Scriverà trent’anni dopo:
Swift diverte ed istruisce a spese del genere umano. Come amo l’arditezza inglese!
Come amo le persone che dicono quello che pensano! Non osar pensare che a metà equivale
a vivere a metà!43
Certamente, molto dipendeva anche dalla sua indole. Ma è fuor di dubbio che l’esperienza
inglese abbia avuto un’influenza determinante sul modo di pensare di Voltaire e sulle
sue scelte. L’indipendenza di giudizio che tanto ammirava negli inglesi sarebbe rimasta
la sua principale caratteristica, difesa nell’esilio e fino al letto di morte. L’Inghilterra
gli suggerisce un cambiamento radicale del ruolo dell’intellettuale di cui lui in
Francia costituirà il primo esempio44.
Nel gennaio del 1728 Voltaire assiste a The Beggar’s Opera di John Gay al Lincoln’s Inn Fields Theatre. La pièce ha un successo strepitoso,
viene rappresentata a Londra sessantatré sere di seguito e nella stagione successiva
in tutta l’Inghilterra. Anche lì, come in Francia, la tragedia stava cedendo il passo
alla commedia e a generi più leggeri come la ballad opera.
Nell’autunno di quell’anno, dopo aver pubblicato a Londra per sottoscrizione LaHenriade dedicata alla regina inglese Carolina45, Voltaire rientra in Francia. Aveva trentaquattro anni.
4. Tracce di Shakespeare nelle nuove tragedie:
Brutus, La mort de César, Ériphyle
Nell’aprile del 1729 a Parigi Voltaire inizia a scrivere Brutus, la prima tragedia «romana» ispirata a Shakespeare, di cui a Wandsworth aveva abbozzato
il primo atto in inglese46. L’opera, tipico mélange di un po’ di audacia inglese e molta prudenza francese,
mostrava in modo evidente l’ascendenza dal teatro di Londra. Il modello formale era
il Giulio Cesare, che Voltaire considerava la più corneilliana delle tragedie di Shakespeare per il
soggetto incentrato su una congiura. Come nel Giulio Cesare l’ultimo Bruto, figlio adottivo di Cesare, uccide il padre perché era un tiranno,
nella tragedia di Voltaire il suo avo Bruto, che aveva abbattuto il despota Tarquinio
e istituito il potere dei consoli, condanna a morte i figli che avevano tradito la
Repubblica. Entrambi antepongono agli affetti familiari i loro ideali di libertà.
Era l’elogio della libertà civile tanto apprezzata in Inghilterra, la condanna di
ogni potere dispotico, il tema della pièce. Più tardi, durante la Rivoluzione, la
tragedia sarà interpretata e utilizzata come manifesto del Repubblicanesimo, Tarquinio
verrà equiparato a Luigi XVI e Roma alla Francia rivoluzionaria. Dal 1790 fino alla
caduta di Robespierre, Brutus sarà l’opera più rappresentata sulle scene francesi, Voltaire verrà celebrato come
un antesignano della Rivoluzione e nel 1791 – poche settimane dopo il ritorno di Luigi
XVI, catturato e riportato a Parigi mentre tentava la fuga – il sarcofago con le sue
spoglie sarà portato trionfalmente al Panthéon.
Ma non era la Repubblica l’ideale di Voltaire. Roma era per lui metafora dell’Inghilterra
monarchica e costituzionale, Tarquinio era tiranno non perché re, ma per il carattere
dispotico della sua forma di governo47. Voltaire non aveva alcuna intenzione di preconizzare per la Francia delle istituzioni
repubblicane. Combatteva ogni potere dispotico, non la monarchia, anche se assoluta,
come in Francia, alla quale restò sempre fedele, auspicando la libertà pubblica, il
rispetto delle leggi e dei diritti fondamentali dell’individuo, qualunque fosse la
forma di governo. E avrebbe avuto sicuramente orrore di Robespierre e del suo dispotismo,
come di quello di Tarquinio.
Alla fine del 1729, terminata la stesura di Brutus, Voltaire riunisce gli attori della Comédie-Française e legge loro il testo. Ma poco
dopo, per paura degli attacchi di Crébillon, che oltre a essere suo rivale diventerà
censore ufficiale delle opere teatrali in attesa di rappresentazione48, e forse anche per il poco entusiasmo degli attori, lo ritira e prende tempo per
rielaborarlo.
Nel frattempo, il 20 marzo del 1730, muore a Parigi, a 38 anni, Adrienne Lecouvreur.
L’attrice, in vita, era stata acclamatissima e ricevuta in tutti i salotti della capitale,
ma un’antica legge vietava in Francia la sepoltura degli attori in terra consacrata
se prima di morire non avessero rinunciato alla loro professione, per antichi pregiudizi
considerata sconveniente49. Adrienne Lecouvreur muore improvvisamente, secondo alcuni avvelenata, e non ha il
tempo di abiurare. Il suo corpo viene sepolto in un champ commun, un cimitero per morti senza nome, come avviene ancora per i clochard nel quartiere
du Gros Caillou, tra il Champ de Mars e les Invalides. La contraddizione era bruciante.
La tragedia in Francia era considerata il vertice della cultura, dell’orgoglio e dell’identità
nazionale, mentre i suoi interpreti avrebbero dovuto aspettare la Rivoluzione per
vedere riconosciuti i propri diritti civili, insieme ai protestanti e agli ebrei.
Voltaire, che era stato amico e amante dell’attrice, reduce dall’Inghilterra dove
aveva constatato il rispetto e gli onori che venivano tributati agli attori, annota:
«Attori pagati dal re, e dichiarati infami»50. In seguito scriverà un poema, La mort de Mlle Lecouvreur, pubblicato due anni dopo, in cui paragonerà l’empio trattamento riservato al corpo
dell’attrice francese con le celebrazioni che in Inghilterra si erano svolte quello
stesso anno per la morte di Mrs Oldfield, attrice inglese sepolta a Westminster Abbey,
come Dryden51, Addison52 e Newton. Quando il poema esce in Francia dà scandalo. La grande maggioranza del
pubblico considera la gente di teatro estranea alla società53.
Alla fine dell’anno, l’11 dicembre, Brutus va in scena alla Comédie-Française. Per incrementare lo spettacolo e l’elemento visivo,
come aveva visto fare in Inghilterra, Voltaire inserisce precise note di messinscena
all’inizio degli atti, con indicazioni dettagliate dei costumi, degli atteggiamenti
e dei gesti dei personaggi. Per dare coralità all’evento tragico, contravvenendo alla
regola francese che vietava la comparsa di molti personaggi, mostra i senatori riuniti
in assemblea, vestiti di rosso e disposti in semicerchio, davanti all’altare di Marte.
Per imprimere più ritmo e movimento alla pièce, avrebbe voluto un décor simultaneo, contenente i vari luoghi dell’azione (il tempio, la casa dei consoli,
la sala dell’udienza, l’altare di Marte), ma le sue indicazioni non vengono seguite
e Brutus viene rappresentato in modo convenzionale, con il solito palais à volonté come sfondo. Il colpo di scena alla fine della quinta scena del quarto atto, in cui
il fondale del teatro si apre e Bruto appare al figlio, viene eliminato.
Alla prima la tragedia ottiene grande successo di sostenitori e di amici. Ma a partire
dal secondo giorno l’incasso crolla da 5.065 a 2.540 lire e all’ultima rappresentazione,
dopo quindici repliche, è di sole 660. La cifra è eloquente. I tentativi di rinnovare
la tragedia utilizzando il modello inglese non risultavano particolarmente graditi
al pubblico francese54.
Il successo relativo di Brutus era probabilmente dovuto anche alla debolezza dell’intrigo amoroso. Voltaire sapeva
che in Francia una pièce senza personaggi femminili e senza amore non poteva più piacere.
Per questo aveva introdotto, pur senza molta convinzione, il ruolo di Tullia, figlia
di Tarquinio amata da Tito, figlio di Bruto. Ma il personaggio risultava sbiadito.
Mlle Dangeville, l’attrice quindicenne che lo impersonava, non viene ben accolta.
L’indomani della prima Voltaire le scrive una lettera per rassicurarla, scagionandola
dalla responsabilità dell’insuccesso e facendo autocritica.
La pièce è indegna di voi, ma siate sicura che vi guadagnerete la gloria spandendo
le vostre grazie sul mio ruolo di Tullia [...]. Non scoraggiatevi, pensate che avete
recitato meravigliosamente durante le prove, che ieri vi è mancata una sola cosa:
essere ardita. La vostra stessa timidezza vi fa onore. Domani dovete prendervi la
vostra vendetta55.
Il 24 gennaio 1731, al Théâtre-Italien Dominique mette in scena Bolus, una parodia di Brutus. Pochi mesi dopo, quando Brutus viene pubblicato, Voltaire fa precedere il testo da una prefazione dedicata al suo
amico Bolingbroke, Discours sur la tragédie à Milord Bolingbroke. Shakespeare non si sarebbe mai sognato di far precedere le sue tragedie da una prefazione.
Scriveva per essere ascoltato dal vivo, non per essere letto. Non si occupò mai delle
pubblicazioni delle sue opere e non ne diede una versione autorizzata. La doppia identità
di un autore come poeta e teorico, la fusione fra valore creativo e valore critico,
è una prerogativa, relativamente recente, nata nell’epoca classica francese. Il teatro
ateniese e quello elisabettiano ignoravano il dibattito teorico. L’immaginazione regnava
sovrana. Solo dalla metà del XVII secolo in poi i drammaturghi si fanno critici e
teorici, scrivono per demolire una vecchia teoria o difendere una tesi, introducono
i loro lavori con dichiarazioni programmatiche e manifesti. In Inghilterra il prototipo
di questo tipo di intellettuale, al tempo stesso autore e teorico, era Dryden, che
Voltaire apprezzava. Consapevole della grandezza di Shakespeare, Dryden restava nello
stesso tempo fedele ai canoni della tradizione classica, ammirava Corneille e lo stile
elevato della tragedia francese, riteneva che il blank verse elisabettiano non corrispondesse all’argomento grande e nobile del genere tragico.
Il Discours sur la tragédie è il primo scritto teorico sul teatro in cui l’influenza dell’esperienza inglese è
evidente. È un documento ambivalente56, in cui Voltaire da un lato insiste sulla indiscutibile superiorità della poesia
e della versificazione nella tragedia classica francese (per la purezza, l’eleganza,
l’andamento regolare, lo stile) e dall’altro coglie per primo nell’uso inglese di
sostituire l’azione al racconto una prerogativa essenziale che, di lì a qualche anno,
avrebbe prodotto in Europa la morte della tragedia classica e l’avvento di una nuova
era teatrale.
Gli Inglesi danno molta più importanza di noi all’azione, parlano di più agli occhi.
I Francesi danno più importanza all’eleganza, all’armonia e al fascino dei versi57.
In Francia ci sono stimate tragedie che più che la rappresentazione di un avvenimento
sono conversazioni [...]. La nostra eccessiva delicatezza a volte ci forza a raccontare
ciò che vorremmo mostrare. Temiamo l’azzardo di rappresentare sulla scena teatrale
spettacoli nuovi davanti a una nazione abituata a ridicolizzare tutto ciò che non
le è abituale58.
Ciò che a Parigi era il racconto di un avvenimento, che lo spettatore ricostruiva
per immagini nella sua mente tramite le parole, a Londra era l’avvenimento stesso,
facile da vedere nel concreto. Molti erano gli esempi: la presenza in carne ed ossa
del fantasma di Pompeo e dello spettro di Bruto, il cadavere di Cesare esposto allo
sguardo della populace e sul quale Marc’Antonio declamava una commovente richiesta di vendetta nel Giulio Cesare, il corpo senza vita di Marco, portato davanti agli occhi del padre nel Catone di Addison59, una pièce che a Voltaire piaceva particolarmente.
Voltaire reclama anche in Francia – come aveva visto a Londra – una scena ampia, capace
di dare spazio a una scenografia simultanea e nello stesso tempo rispettare la tradizionale
unità d’azione. Per questo interviene contro le banquettes che sulla scena della Comédie-Française occupavano un quarto del palco ostacolando
ogni «azione grande e patetica», un’usanza in seguito molto mal vista anche da Diderot
che chiederà di liberare il palcoscenico dalla presenza dei petits maîtres per permettere alla scena di apparire come un quadro, favorendo l’illusione ottica60.
Il luogo in cui si rappresenta la commedia e gli abusi che vi si sono intrufolati
sono ancora la causa di quell’aridità che si può rimproverare ad alcune delle nostre
pièce. I posti per gli spettatori che sono sul palcoscenico restringono la scena e
rendono ogni azione del tutto impraticabile. Questo difetto è il motivo per cui gli
abbellimenti scenici, così raccomandati dagli antichi, sono raramente adatti alla
pièce. Soprattutto ciò impedisce che gli attori passino da una stanza all’altra sotto
gli occhi degli spettatori, come i greci e i romani facevano saggiamente, per preservare
sia l’unità di luogo sia la verosimiglianza61.
Inglesi e francesi nella tragedia tendevano secondo Voltaire a eccessi opposti. Gli
inglesi, scambiando spesso – come i greci – l’orrore con il terrore, rischiavano di
superare i limiti del tragico. I francesi, al contrario, spesso non raggiungevano
il tragico per effetto di eccessiva prudenza.
So bene che i tragici greci, d’altronde superiori a quelli inglesi, hanno commesso
errori scambiando spesso l’orrore con il terrore, e il disgustoso e l’incredibile
con il tragico e il meraviglioso. L’arte era nell’epoca della propria infanzia al
tempo di Eschilo come a Londra al tempo di Shakespeare; ma fra i grandi errori dei
poeti greci, e anche fra i vostri, si ritrova un reale patetico e singolari bellezze;
e se qualche francese che conosce le tragedie e i costumi stranieri solo attraverso
traduzioni o il sentito dire, le condanna senza alcuna riserva, egli è, a mio parere,
come un cieco che sostiene che una rosa non può avere colori vivaci solo perché ne
conta a tastoni le spine. Ma se voi e i greci oltrepassate i limiti della convenienza,
e se soprattutto gli inglesi hanno rappresentato spettacoli spaventosi volendo rappresentarne
dèi terribili, noi altri francesi, tanto scrupolosi quanto voi temerari, ci siamo
trattenuti troppo, per paura di lasciarci prendere la mano e talora non arriviamo
nemmeno al tragico, nel timore di oltrepassarne i limiti62.
Nel Discours sur la tragédie l’apertura al modello inglese è evidente: il rinnovamento della tragedia supponeva
una flessibilità e un’idea di natura più forte della rigidità dei precetti. Voltaire
invitava i francesi al cambiamento:
Tocca all’abitudine, che è regina di questo mondo, sia di cambiare il gusto della
nazione, sia di mutare in piacere gli oggetti della nostra avversione [...]. La natura
non è la medesima in tutti gli uomini?63
Nel giugno 1731 Voltaire finisce di scrivere la sua seconda tragedia «romana», La mort de César, dichiaratamente ispirata al Julius Caesar, di cui nel Discours aveva tradotto alcuni passi64. L’accoglienza non troppo entusiasta riservata al Brutus non lo aveva scoraggiato. Continuava a utilizzare Shakespeare per rinnovare la tragedia
francese. A causa dell’ambientazione romana e del tema della congiura, topos della
tragedia classica come nel Cinna di Corneille, la tragedia shakespeariana sembrava il modello ideale per una riscrittura
regolare nel filone corneilliano. Voltaire cerca di inserire la trama del Giulio Cesare nella tradizione francese, di correggere e migliorare Shakespeare sottomettendolo
alle norme, al gusto, alle bienséances, alle unità di tempo e di luogo e al verso alessandrino, senza accorgersi di perderne
la poesia. A noi tutto ciò appare incomprensibile, arido, una questione formale. Ma
fino alla fine dell’Ancien Régime la forma rappresentava per i francesi la sostanza. Per Voltaire e per la tradizione
classica nella quale si era formato, le regole erano il simbolo della civiltà, la
base della società, del gioco, della letteratura e anche della tragedia. Le regole
erano il segno dell’intervento e del dominio della ragione umana sul caos. L’assenza
di regole portava il trionfo del disordine e della barbarie. E le regole, nonostante
l’apertura di Voltaire ad un certo relativismo culturale, non dovevano valere solo
per i francesi: dovevano essere uguali per tutti e diventare così universali.
Voltaire fa conoscere Shakespeare ai francesi non perché lo ritenga superiore, ma
perché è interessante, concetto nuovo, destinato ad avere fortuna, che prima del Settecento non esisteva.
Shakespeare poteva offrire spunti e suggerimenti, ma andava corretto e non soltanto
adattato. La diversità, l’anomalia e l’eccentricità shakespeariana – tutto ciò che
a partire dal Romanticismo noi apprezziamo in lui – andavano normalizzate, reinserite
nei canoni della dottrina classica. La superiorità del modello classico restava fuori
discussione, era un dogma.
Il punto di vista di Voltaire era indiscutibilmente francese, ma esprimeva allora
idee condivise anche dalla più consapevole critica shakespeariana inglese. Un compromesso
tra l’aspirazione all’ordine e alla regolarità e l’ammirazione per Shakespeare, con
la sua irregolarità e la sua esuberanza. Shakespeare viene biasimato per non aver
rispettato le regole, ma giustificato in base alle condizioni culturali in cui si
era trovato a operare. Nicholas Rowe, nella prefazione alla sua edizione di Shakespeare,
aveva scritto nel 1709:
Se uno dovesse impegnarsi a esaminare la maggior parte dei [suoi] drammi secondo le
regole stabilite da Aristotele e prese dal modello del teatro greco, non sarebbe compito
difficilissimo trovare un gran numero di difetti; ma siccome Shakespeare viveva sotto
una specie di semplice luce della Natura, e non aveva mai fatto la conoscenza del
regolamento di tali precetti scritti, sarebbe ingiusto giudicarlo secondo una legge
della quale non sapeva nulla. Lo dobbiamo considerare come un uomo che viveva in uno
stato di quasi universale licenza e ignoranza. Non c’era nessun giudice preposto,
quindi ognuno si prendeva la libertà di scrivere secondo i dettami della propria fantasia65.
E Pope, nel 1725, aveva accettato Shakespeare «nonostante» le sue irregolarità:
Concludo dicendo a proposito di Shakespeare, che con tutti i suoi difetti e con tutta
l’irregolarità dei suoi drammi, le sue opere a confronto di altre più rifinite e più
regolari, si possono vedere come un maestoso e antico esempio di architettura gotica
paragonata a una graziosa costruzione moderna; quest’ultima è più elegante e vivace,
ma la prima è più forte e solenne. Bisogna ammettere che in quest’ultima si trovano
materiali sufficienti per costruirne tante delle altre. Ha una varietà molto maggiore
e ha appartamenti molto più nobili; benché spesso ci si arrivi attraverso dei passaggi
bui, strambi e rozzi. Il tutto non manca di infonderci un maggiore rispetto, anche
se molte delle sue parti sono infantili, mal situate e non all’altezza della sua grandezza66.
Nel Giulio Cesare di Shakespeare i primi due atti della tragedia trattano della congiura, la morte
di Cesare apre il terzo atto, seguono due atti sul fallimento politico dell’assassinio
da parte dei congiurati fino alla battaglia di Filippi e al suicidio di Cassio e di
Bruto. Dei cinque atti dell’originale inglese Voltaire conserva nella sua tragedia
soltanto i primi tre ed elimina gli ultimi due che non lo interessano perché esulano
dal tema della congiura, fermandosi alla morte di Cesare; riprende fedelmente il discorso
di Antonio che ammirava particolarmente. Cancella i ruoli femminili e le scene di
folla, riduce i personaggi a cinque e concentra l’azione sul conflitto interiore di
Bruto, diviso tra l’amore personale per il Cesare padre e l’odio politico per il Cesare
dittatore67. Attirato dalla forza della presenza in scena del cadavere visto a Londra, Voltaire,
per rispettare le bienséances, non mostra l’assassinio di Cesare come aveva fatto Shakespeare ma riesce a «spectraliser
la mort»68 introducendo nell’ultimo quadro il cadavere sanguinante del dittatore.
Tra la tragedia di Voltaire e quella di Shakespeare le differenze sono profonde. Nel
Giulio Cesare non ci sono né vincitori né vinti e i personaggi storici sono trattati al rango di
uomini comuni, spesso moralmente e fisicamente fragili, che commettono errori, hanno
sentimenti, debolezze, dubbi, preoccupazioni, incubi, paure e allucinazioni. Voltaire,
invece, resta fedele all’idea della tragedia eroica: Cesare mantiene la posizione
e il rango di un semidio, Bruto sacrifica i suoi sentimenti personali in nome di un
principio civico e così l’idea dell’eroe tragico rimane intatta, come volevano i francesi.
Niente era più lontano da Shakespeare della tragedia eroica. Oltre a mostrare l’umanità
dei personaggi, Giulio Cesare offre un’immagine della fragilità e mutevolezza umana e della relatività del reale.
Non ci sono eroi nel Giulio Cesare perché non ci sono certezze, né valori assoluti. Tutto passa e tutto cambia; i miti
sorgono e decadono, per essere sostituiti da altri che a loro volta crolleranno; la
realtà è inafferrabile e sfuggente, osservabile da mille punti di vista e suscettibile
di mille interpretazioni, nessuna delle quali è sicuramente vera, come nessuna è sicuramente
falsa69. Non è certamente questo il tema di La mort de César, anche se il soggetto è lo stesso. La tragedia di Voltaire non è una tragedia storica
che ci fa riflettere sulla tragica inutilità della morte di Cesare nella conquista
della libertà; è una tragedia psicologica circoscritta al personaggio di Bruto, diviso
tra l’amore filiale e l’imperativo di abbattere la tirannia, simile nell’impianto
alle tragedie di Corneille. In questo le due pièce scritte da Voltaire dopo l’esilio
inglese si somigliano: entrambe sono celebrazioni della vittoria della libertà sulla
tirannide.
Eppure Voltaire non si è mai spinto a interrogarsi su cosa stesse alla base della
libertà inglese, garantita dal Parlamento e quindi dalla divisione dei poteri, né
si è mai arrischiato a pensare all’ipotesi per la Francia di una monarchia costituzionale,
basata sull’equilibrio dei poteri che tanto impressionò Montesquieu. Nei Notebooks qualche anno dopo farà una difesa dell’assolutismo francese:
Gli inglesi che non hanno viaggiato credono che il re di Francia sia il padrone dei
beni e della vita dei sudditi, il quale dicendo soltanto «è così che ci garba», toglie
le rendite a un suddito per donarle a un altro. Un simile governo non esiste su tutta
la terra. Le leggi sono osservate, nessuno è oppresso, un uomo a cui un intendente
dovesse fare un’ingiustizia ha il diritto di lamentarsene presso il consiglio. Non
si obbliga nessuno a servire, come in Inghilterra, e se i ministri abusano troppo
del loro potere le grida pubbliche sono loro funeste. È quando i re non erano assoluti
che i popoli erano infelici. Erano preda di cento tiranni70.
In La mort de César, Cesare dichiara ai suoi avversari che «Roma chiede un capo» perché in «tempi corrotti»
la libertà non è che anarchia e solo l’ascesa di un capo può impedire che le fazioni
scatenino la guerra civile. Per Voltaire non sembra esserci nulla oltre l’alternativa
tra assolutismo e tirannide.
Dal punto di vista formale Brutus e La mort de César erano un tentativo di regolarizzare e correggere Shakespeare per farlo accettare
ai francesi e nello stesso tempo un modo di rinnovare il teatro francese accogliendo
alcuni elementi di Shakespeare71. Anche se in questa fase giovanile predomina ancora in Voltaire un certo relativismo
che lo induce alla comparazione e non alla competizione per il primato culturale,
come sarà più tardi, con La mort de César inizia il confronto Shakespeare-Corneille che negli anni successivi diventerà un
tema dominante, quasi ossessivo.
Il 7 marzo del 1732 va in scena la terza pièce di Voltaire in cui si avverte l’influenza
di Shakespeare, Ériphyle, vagamente ispirata all’Amleto72. Questa volta Voltaire prova a introdurre un fantasma sulla scena francese73. Ma quando nel quinto atto l’ombra di Amphiaraus fa il suo ingresso sul palcoscenico
della Comédie-Française, ingombro delle solite panche dei petits maîtres, l’effetto è sgradevole, incongruo. Tuttavia, «si perdona il dessert, quando gli
altri piatti sono stati passabili», scrive Voltaire in una lettera74. La pièce viene applaudita soprattutto per i tipici versi frondeurs contro i cortigiani e contro la superstizione.
Se ora volete credere al loro acuto sguardo
Traditore è il ministro, e tiranno ogni principe, [...]
E quando di un gran re s’avvicina il declino,
La moglie o anche suo figlio ne affrettano il destino
Ma degli dèi la voce, o piuttosto dei preti
Da vent’anni mi ha tolto il rango dei miei avi.
Bisognava soccombere alle superstizioni
Che sugli Stati regnano ben più dei nostri re75.
Non contento della sua opera Voltaire si propone di rimaneggiarla e per verificarne
l’efficacia la mette in scena privatamente in casa di Mme de Fontaine-Martel, in rue
des Bons Enfants, dietro il Palais Royal, dove in quel momento lui viveva. Era l’inizio
di una pratica che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Nel Settecento il théâtre desociété, cioè il teatro fatto in casa, era abituale nelle residenze degli aristocratici e
dei ricchi borghesi. Voltaire amava la pratica del teatro, amava occuparsi della scelta
degli attori, della distribuzione delle parti, amava aiutare l’interprete non solo
a leggere e declamare il ruolo ma anche a creare il personaggio. E gli piaceva recitare.
A partire da Ériphyle mettere in scena personalmente un testo diventa un modo per poterlo osservare dall’esterno,
giudicare e correggere. «Ho rilavorato alla mia tragedia con l’ardore di un uomo che
non ha altre passioni», scrive all’amico Cideville. «Sapete bene che solo l’esecuzione
decide il merito del soggetto»76. «Gli effetti teatrali non si indovinano a tavolino», confiderà qualche anno dopo
a de La Noue77. Alla riapertura del teatro, dopo la Pasqua, Ériphyle va in scena in una nuova versione. Voltaire decide però di non farla stampare. La
tragedia rimane inedita e verrà pubblicata solo dopo la sua morte, nel 1779.
5. Zaïre
La quarta tragedia in cui si avverte l’eco di Shakespeare è Zaïre. Voltaire la scrive in soli ventidue giorni. Dopo una tragedia politica, rigorosa
e virile, come La mort de César, è la volta di una tragedia di soggetto amoroso, come il pubblico sembrava chiedere,
in particolare quello femminile. Voltaire guardava con un certo disprezzo le tragedie
incentrate sull’amore e a giudicare dalla sua vita, come emerge dalle lettere, non
era incline alla tenerezza e apprezzava nelle donne soprattutto l’attività intellettuale,
che considerava una caratteristica maschile. Gli piacevano alcune donne, dotate di
tratti virili, ma non la femminilità. «La maggior parte delle donne non conosce che
la passione e l’indolenza», scriverà sprezzantemente anni dopo78. Ma Voltaire è ambizioso, e pur di avere successo si concede ai gusti del pubblico.
«Il mio vero interesse è la mia reputazione»79, dichiara, e il pubblico finalmente lo premia. Zaïre è di tutte le tragedie di Voltaire quella che ha avuto più repliche, più apprezzamenti,
non solo in Francia ma anche in Inghilterra, in Germania, in Italia, in Russia e in
America. Per il tema della gelosia immotivata, Zaïre somigliava all’Otello di Shakespeare. Ma Voltaire trasporta il soggetto nel Medioevo e in Oriente, tra
i cavalieri cristiani francesi a Gerusalemme.
L’azione si svolge al tempo delle Crociate. Zaira, nata cristiana, ma cresciuta nell’islam,
è amata dal sultano turco Orosmane. Il giovane Nerestano è incaricato della raccolta
del riscatto per la liberazione dei cristiani. Il sultano rilascia un centinaio di
cavalieri, ma si rifiuta di rilasciare Zaira. Il vecchio re Lusignano, liberato a
sua volta, riconosce in Zaira e Nerestano i suoi figli che credeva morti. Orosmane,
ingannato da una lettera ambigua, pugnala Zaira che crede infedele. Accortosi del
suo errore, si uccide sul corpo della sua amata.
Riferirsi al disprezzato mondo medievale e dare nomi e cognomi autentici ai re e alle
loro famiglie invece di nasconderne l’identità dietro modelli classici costituiva
una grande novità per il teatro francese, tratta esplicitamente dal teatro inglese
e che preludeva al teatro romantico. Zaïre era un primo esempio di tragedia storico-nazionale, un genere destinato al successo.
È al teatro inglese che devo l’ardire che ho avuto nel mettere in scena i nomi dei
nostri re e delle antiche famiglie del regno. Ritengo che questa novità potrebbe essere
l’inizio di un genere di tragedia sinora sconosciuto, di cui abbiamo bisogno80.
Voltaire intuisce che con l’ascesa della borghesia il centro degli interessi si stava
spostando dalla vita pubblica a quella privata, familiare. Se fino ad allora in una
tragedia erano implicati dei personaggi mitici, si avverte ormai il bisogno di un
dramma che abbia luogo tra individui normali e luoghi storici reali. L’empirismo e
l’evoluzione del pubblico avevano logorato l’inclinazione per i simboli, il linguaggio
allegorico, la mitologia. Voltaire inscena per la prima volta una nazione francese
che risaliva alle Crociate e all’eroismo della cavalleria.
La struttura di Zaïre è schematica. Orosmane è un sultano illuminato. Zaira, fiera e modesta insieme, è
l’immagine positiva della donna. Nerestano è un concentrato di valori: nobiltà, fedeltà,
coraggio e generosità. L’opera era un altro elogio evidente della libertà: invitava
all’abolizione della schiavitù. Ma era anche un modo per mettere a contrasto i costumi
cristiani con quelli islamici. Pur non ponendo in dubbio la superiorità dei francesi,
Voltaire era portato a interessarsi anche ad altre culture e civiltà.
Mi venne l’idea di mettere a contrasto, in uno stesso quadro, da un lato l’onore,
la nascita, la patria, la religione, e dall’altro l’amore più tenero e il più sfortunato;
i costumi dei maomettani e quelli dei cristiani; la corte di un sultano e quella di
un re di Francia81.
Voltaire non ne parla, ma la critica, in ogni epoca, è sempre stata d’accordo nel
ritenere che la tragedia ricalchi in modo evidente il tema della gelosia che Voltaire
aveva scoperto in Otello, adattandolo a un contesto diverso. La nobiltà d’animo di un eroe esotico e valoroso
come Orosmane, la lotta impotente contro una gelosia ossessiva, l’assassinio, l’errore,
il suicidio ricordano Otello82. Il contrasto tra un maschio potente e una tenera e fragile vittima suggerisce una
parentela evidente tra le due pièce83. E tuttavia la parentela è formale. Otello ha offerto lo spunto, ma non la sostanza a Zaïre. Il modello seguito da Voltaire è Racine, non Shakespeare. Il tema principale di
Zaïre non è la gelosia, la protagonista è lei, non Orosmane. Il motivo è raciniano: è il
conflitto interiore di una giovane donna divisa tra la passione amorosa e l’identità
di cristiana, la fedeltà alla religione in cui è cresciuta, a cui appartiene: tema
per eccellenza classico, di cui la gelosia non è che una conseguenza. Zaïre resta una pièce classicamente francese84.
La tragedia debutta il 13 agosto 1732. L’esito è mediocre. Voltaire scrive all’amico
Formont:
Mi irrita molto che abbiate visto solo la prima rappresentazione di Zaïre. Gli attori recitavano male, la platea era tumultuosa e io avevo lasciato nel testo
alcuni passi un po’ trascurati, che furono evidenziati con un tale accanimento che
tutto l’interesse era distrutto85.
E nel Commentaire historique aggiunge: «È stata sul punto di venire fischiata»86. Voltaire rimette mano alla tragedia che, a partire dalla quarta rappresentazione,
diventa un trionfo – il primo dopo Œdipe –, presto sancito da diverse parodie nei teatri della Foire e al Théâtre-Italien:
Les Enfants-trouvés ou le Sultan poli par l’amour, Caquire: parodie de Zaïre, Arlequin au Parnasse ou la Folie de Melpomène87.
Il 14 ottobre, la Comédie recita Zaïre a Fontainebleau, davanti al re Luigi XV che ormai, raggiunta la maggiore età, regnava
dal 1723 e aveva reintegrato l’uso delle rappresentazioni a corte. Poco dopo la pièce
viene tradotta in inglese e adattata da Aaron Hill col titolo Zara. Nel 1736, rappresentata al Drury Lane per quattordici sere, essa rivela al pubblico
Susannah Cibber, giovanissima e sconosciuta attrice debuttante. Il successo è prodigioso.
Coperta di gloria in poche ore, Mrs Cibber diventerà una delle attrici più in vista
del secolo. Da allora Zara verrà associata per anni al suo nome88.
Grande «successo di lacrime», Zaïre è stata anche la pièce più amata da Voltaire attore, che si divertiva a recitare
i ruoli delle sue tragedie. Sostenendo di essere vecchio, malato e addirittura moribondo
anche da giovane – vezzo del suo carattere ipocondriaco che ricorre spesso nella corrispondenza –,
posseduto dalla passione teatrale, ha continuato per tutta la vita a interpretare
la parte del vecchio Lusignano, malato e moribondo, su tutte le sue scene private,
quasi fosse un doppio di sé stesso. Molti hanno descritto Voltaire come un commediante,
un istrione, un Proteo sempre propenso allo sdoppiamento ironico; lui stesso teneva
molto a questo ruolo enigmatico e inafferrabile. «Un uomo che non era sé stesso se
non quando recitava il personaggio di un altro, ma di un altro proveniente dalla sua
propria invenzione, l’essere riflettendo l’apparire e reciprocamente, all’infinito,
come entro due specchi»89.
Nel 1733 il testo di Zaïre viene pubblicato in tre successive edizioni. La terza conteneva come dedica l’Épître à Falkener (Lettera aFalkener). Unico vero grande amico dei suoi anni giovanili, Everard Falkener (o Fawkener,
1684-1758) era il ricco mercante inglese, proprietario di un’importante impresa di
import-export, che Voltaire aveva conosciuto a Wandsworth. Con la sua presenza e la
sua ospitale disponibilità, Falkener aveva addolcito i primi mesi del suo esilio inglese.
Voltaire si sarebbe ricordato di lui anni dopo tratteggiando il personaggio di Jacques,
il buon anabattista del Candide90. Per la prima volta un’opera letteraria veniva dedicata non più a un personaggio
influente della corte, un aristocratico di cui assicurarsi la protezione, ma a «un
degno e virtuoso cittadino», un intraprendente borghese «semplice negoziante», solido,
attivo e scapolo, per il quale Voltaire suo coetaneo sentiva una forte affinità91. Era una svolta provocatoria e significativa.
Ho il grande piacere di poter dire alla mia nazione con quali occhi siano visti presso
di voi i commercianti, di quanta stima goda una professione che fa la grandezza dello
Stato e con quale preminenza alcuni di voi rappresentino la loro patria in Parlamento,
elevandosi al rango di legislatori [...]. «Un adulatore ipocrita / Dentro me proietta,
triste, / Il timore suo e il contegno. / Ma uno spirto audace e libero / Desta in
me pensiero e ardore»92.
Anche se compariva come dedica in una tragedia, l’epistola a Falkener non affrontava
questioni teatrali. Il teatro viene utilizzato da Voltaire per elogiare pubblicamente
i costumi e la libertà di pensiero degli inglesi. Falkener era uno spirito libero.
Voltaire aveva appreso in Inghilterra una realtà fondamentale: che i soldi sono un
modo per emanciparsi dalle protezioni e dai privilegi, conquistare l’indipendenza
e permettersi di parlare chiaro. Nel 1730, grazie ad alcuni investimenti riusciti
e alla parte di eredità avuta dal padre, Voltaire era diventato ricco. Disponeva di
un notevole capitale, che nel tempo, grazie alla sua intraprendenza, sarebbe ulteriormente
aumentato. Questo gli avrebbe permesso di rinunciare alle pensioni del re, che implicavano
la soggezione, come agli introiti, sempre incerti, delle sue produzioni letterarie,
non regolate dal diritto d’autore e spesso in balia della pirateria editoriale, allora
imperante. L’agio economico gli avrebbe consentito di non dipendere da alcuno, di
scrivere in libertà e di farsi rispettare dai potenti. Poco dopo la pubblicazione
di Zaïre con la dedica a Falkener, la Comédie-Italienne mette in scena una parodia che ridicolizzava
Voltaire e quella dedica a «un semplice negoziante». In risposta, in una successiva
edizione (1736), Voltaire pubblica una seconda lettera a Falkener, divenuto nel frattempo
ambasciatore d’Inghilterra a Costantinopoli, in cui ribadiva il concetto di merito:
Alcune persone corrotte dall’indegna abitudine di rendere omaggio solamente alla grandezza,
hanno tentato di irridere la novità di una dedica fatta ad un uomo che all’epoca non
vantava altri titoli se non il proprio merito93.
6. Lettres philosophiques:
Voltaire introduce Shakespeare in Francia
Escono intanto in Inghilterra (1733) le Letters Concerning the English Nation94 che Voltaire aveva scritto tra il 1726 e il 1729. Il libro è provocatorio e appare
come una glorificazione dell’Inghilterra: la vendetta di Voltaire cacciato dalla Francia95, che vuole far conoscere ai francesi quel paese fino ad allora a loro ignoto, per
farli riflettere sulle proprie istituzioni comparandole con quelle inglesi, assai
più avanzate grazie alla divisione dei poteri, e aperte anche ai borghesi. Il libro
tratta di religione, di politica, di scienza, di vaccini96 e, nella lettera XVIII, della tragedia.
Il ritratto che Voltaire fa dell’Inghilterra è un’apologia della diversità, della
tolleranza religiosa, della libertà dello spirito e delle istituzioni inglesi. Voltaire
ha simpatia per la sobrietà, l’apertura e il pacifismo dei quaccheri più che per lo
zelo conformista del clero anglicano e per la severità dei presbiteriani, ma soprattutto
vede nella molteplicità e nella convivenza delle dottrine – oltre che nel potere globalizzante
del denaro – non la conseguenza bensì la ragione della tolleranza religiosa:
Entrate nella Borsa di Londra, questa piazza ben più rispettabile di molte corti;
vi vedrete riuniti i rappresentanti di tutte le Nazioni per l’utilità degli uomini.
Lì l’ebreo, il maomettano e il cristiano si trattano l’un l’altro come se fossero
della stessa religione e non danno il nome di infedeli che a quelli che fanno bancarotta;
là il presbiteriano si fida dell’anabattista e l’anglicano riceve la promessa del
quacchero. All’uscita di queste libere e pacifiche assemblee, gli uni vanno alla Sinagoga,
gli altri vanno a bere; uno va a farsi battezzare in nome del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo; l’altro fa tagliare il prepuzio di suo figlio e mormorare sul
bambino delle parole ebraiche che non capisce; altri ancora vanno nella loro chiesa
ad aspettare l’ispirazione divina, col cappello in testa, e tutti sono contenti. [...]
Se in Inghilterra non ci fosse che una religione ci sarebbe da temere il dispotismo;
se ce ne fossero due si taglierebbero la gola; ma essendocene trenta vivono in pace
e felici97.
La più grande diversità tra Francia e Inghilterra riguardava naturalmente la monarchia.
In Inghilterra il potere del Parlamento regolava tutti i poteri, compreso quello del
re:
La Nazione inglese è la sola della terra che sia riuscita a regolare il potere dei
Re resistendo loro, e che, di sforzo in sforzo, abbia infine stabilito quel saggio
governo in cui il Principe, onnipotente per fare il bene, ha le mani legate per fare
il male, in cui i Signori sono Grandi senza insolenze e senza vassalli, in cui il
popolo condivide il governo senza confusione. [...] I Francesi pensano che il governo
di quest’isola sia più tempestoso del mare che la circonda, ed è vero; ma (questo
avviene) quando il Re comincia la tempesta, quando vuole diventare padrone del vascello
di cui non è che il primo pilota. Le guerre civili francesi sono state più lunghe,
più crudeli, più feconde in crimini di quelle inglesi; ma di tutte queste guerre civili
non ce ne è stata una che abbia avuto per oggetto una saggia libertà98.
Proprio perché Voltaire non arriverà mai a proporre una monarchia parlamentare in
Francia e resterà ancorato fino alla fine al mito del Re Sole, colpisce la sua lucidità
nel descrivere ed elogiare le istituzioni inglesi, le cause e gli effetti della democrazia.
Voltaire auspicava in Francia una monarchia illuminata ma pur sempre assoluta. Non
amava Luigi XV non perché era un sovrano assoluto, ma perché non era illuminato. Il
modello inglese, che lui osserva, descrive ed elogia con tanta chiarezza non lo smuove
dalle sue posizioni nel proprio paese. Voltaire sembra indifferente alla questione
della forma di governo: il suo progetto non era in primo luogo politico, ma civile.
E tuttavia ha uno straordinario acume nel cogliere la modernità, come quando, nella
decima lettera, elogia il commercio:
Il commercio, che ha arricchito i cittadini in Inghilterra, ha contribuito a renderli
liberi, e questa libertà ha esteso a sua volta il commercio; così si è formata la
grandezza dello Stato. È il commercio che ha dato vita poco a poco alle forze navali,
grazie alle quali gli inglesi sono i padroni dei mari. Attualmente hanno circa duecento
vascelli di guerra. La posterità verrà a sapere forse con sorpresa che una piccola
isola, che non ha di suo che un po’ di piombo, stagno, terre à foulon99 e lana grezza è diventata a causa del commercio abbastanza potente per inviare, nel
1723, tre flotte contemporaneamente in tre estremità del mondo: una davanti a Gibilterra,
conquistata e conservata con le armi, l’altra a Portobelo per impedire al Re di Spagna
di godere dei tesori dell’India e la terza nel mar Baltico per impedire alle Potenze
nordiche di combattere100.
Riprendendo l’elogio del negoziante della Épître à Falkener, pubblicata lo stesso anno, Voltaire scrive:
In Francia è Marchese chi lo vuole; e chiunque arrivi a Parigi dal fondo di una provincia
con denaro da spendere e un nome in Ac o in Ille può dire «un uomo come me, un uomo
della mia qualità», e disprezzare sommamente un negoziante; il negoziante sente lui
stesso così spesso parlare con disprezzo della sua professione che è così stupido
da arrossire. Io non so però chi sia più utile a uno Stato, se un Signore incipriato
che sa esattamente a che ora si sveglia il Re, a che ora va a letto e che si dà delle
arie di Grandeur rivestendo il ruolo di schiavo nell’anticamera di un Ministro, o
un negoziante che arricchisce il proprio paese, dà ordini nel suo ufficio a Surate101 e al Cairo e contribuisce alla felicità del mondo102.
Ritorna il tema del merito: come il negoziante è superiore al cortigiano, così ai
grandi politici e ai conquistatori (Cesare, Alessandro, Tamerlano, Cromwell) Voltaire
contrappone la vera grandezza, quella di chi, come Newton, avendo ricevuto da Dio
la genialità, se ne era servito per illuminare sé stesso e gli altri:
È a chi domina gli spiriti con la forza della verità, non a chi crea degli schiavi
con la violenza, è a chi conosce l’Universo, non a chi lo deturpa, che noi dobbiamo
il nostro rispetto103.
Subito dopo l’elogio di Newton, nella diciottesima lettera sulla tragedia, Voltaire
introduce finalmente Shakespeare ai francesi dandone un giudizio ambivalente.
Gli inglesi avevano già un teatro, così come gli spagnoli, quando i francesi non avevano
che dei palchi da saltimbanchi. Shakespeare, che passava per il Corneille degli inglesi,
fiorì più o meno all’epoca di Lope de Vega. Creò il teatro. Aveva un genio pieno di
forza e di fecondità, di naturalezza e di sublime, senza la minima scintilla di buon
gusto e senza la minima conoscenza delle regole. Vi dirò una cosa azzardata ma vera:
il merito di questo autore ha rovinato il teatro inglese; ci sono delle belle scene,
dei passi così grandi e così terribili sparsi nelle sue farse mostruose che vengono
chiamate tragedie, che sono sempre state rappresentate con grande successo. Il tempo,
solo a creare la reputazione degli uomini, finisce col rendere rispettabili i loro
difetti. La maggior parte delle idee bizzarre e gigantesche di questo autore hanno
acquistato, dopo duecento anni, il diritto di passare per sublimi; gli autori moderni
l’hanno quasi tutti copiato; ma ciò che riusciva a Shakespeare viene fischiato quando
si tratta di loro e voi capirete che la venerazione che si ha per questo anziano aumenta
quanto più si disprezzano i moderni104.
In Inghilterra la posizione ambigua di Voltaire nei confronti di Shakespeare non era
una novità. Nei primi decenni del Settecento gli intellettuali inglesi erano ancora
classicisti. Lo erano dal 1660, quando, morto Cromwell e restaurata la monarchia,
i teatri chiusi dai puritani avevano riaperto e l’Inghilterra era passata sotto il
dominio culturale francese. Thomas Rymer aveva definito le commedie di Shakespeare
«sfoghi spontanei di un talento naturale» e i drammi elisabettiani un esempio di sfrenata
fantasia dalla quale derivavano eccessive licenze e inverosimiglianze come quella
di Gloucester che nel Re Lear si butta dalle scogliere di Dover105. Nel 1725, un anno prima del soggiorno londinese di Voltaire, Pope aveva pubblicato
un’edizione di Shakespeare106 in cui parlava di un genio rozzo e grossolano, le cui pièce, disseminate di passi
e tratti luminosi, non erano che il frutto amaro di una immaginazione debordante.
Shakespeare andava apprezzato come genio poetico, per la sua forza, la naturalezza
e la fantasia, ma andava respinto per il cattivo gusto, le espressioni volgari e l’assenza
di regole, retaggio di un’epoca lontana, primitiva e ineducata, che aveva preceduto
l’età classica. Era questo il giudizio dominante su Shakespeare quando Voltaire arriva
in Inghilterra. Dunque agli inglesi di allora Voltaire non diceva niente di nuovo.
Ma Voltaire si rivolgeva ai francesi, alla maggioranza dei quali il nome di Shakespeare
era rimasto fino ad allora ignoto107.
Tutto ciò che precedeva il Grand Siècle era ritenuto vetusto, volgare e ancora barbarico. Imprimere a Shakespeare il buon
gusto, la regolarità e la lingua della tradizione classica era un’impresa impossibile.
Shakespeare non poteva essere normalizzato né imitato. (Eppure proprio questa operazione
impossibile Voltaire aveva tentato con La mort de César!)
Voltaire respinge il linguaggio e l’impianto delle tragedie shakespeariane nel loro
complesso ma salva «dei passi sorprendenti che domandano la grazia per tutti i suoi
errori», un’operazione selettiva tipica della critica classicista. E per i francesi
traduce in versi alessandrini il monologo dell’Amleto, mantenendone il senso. Era il suo secondo intervento sulla tragedia, ma questa seconda
volta esplicito.
Non crediate che io abbia reso l’inglese parola per parola; guai a chi fa traduzioni
letterali, che traducendo parola per parola snaturano il senso! È uno di quei casi
in cui si può dire che la lettera uccide e il senso vivifica.
Demeure; il faut choisir et passer à l’instant
De la vie à la mort, et de l’être au néant.
Dieux justes! s’il en est, éclairez mon courage.
Faut-il vieillir courbé sous la main qui m’outrage,
Supporter ou finir mon malheur et mon sort?
Qui suis-je? Qui m’arrête? et qu’est-ce que la mort?
C’est la fin de nos maux, c’est mon unique asile;
Après de longs transports, c’est un sommeil tranquille;
On s’endort et tout meurt108.
|
To be, or not to be, that is the question:
Whether ’tis nobler in the mind to suffer
The slings and arrows of outrageous fortune, Or to take arms against a sea of troubles
And by opposing end them. To die—to sleep,
No more; and by a sleep to say we end The heart-ache and the thousand natural shocks
That flesh is heir to: ’tis a consummation
Devoutly to be wish’d.
To die, to sleep...
|
Voltaire non temeva tanto Shakespeare, la sua mancanza di gusto e le espressioni volgari
quanto i suoi cattivi imitatori, come Otway109, che in Inghilterra avevano prodotto, secondo lui, una pessima letteratura drammatica.
In Francia questo non doveva accadere, perché ciò avrebbe portato alla decadenza della
tragedia.
Le pièce degli inglesi, quasi tutte barbariche dal punto di vista dell’ordine e della
verosimiglianza, hanno barlumi stupefacenti in mezzo a questa notte. Lo stile è troppo
ampolloso, troppo fuori della natura, troppo copiato dagli scrittori ebrei, così pieni
di influenza asiatica; ma bisogna anche confessare che i trampoli dello stile figurato,
sui quali si regge la lingua inglese, elevano lo spirito molto in alto, sebbene con
andamento irregolare. [...] Il primo Inglese che ha fatto una pièce ragionevole, scritta
dall’inizio con eleganza, è l’illustre M. Addison. Il suo Catone è un capolavoro, per la dizione e per la bellezza dei versi. Il ruolo di Catone è
a mio avviso molto al di sopra di quello di Cornelia nel Pompée di Corneille, che d’altronde non è un personaggio necessario e tende talvolta a fare
discorsi sconnessi [...]. L’uso di introdurre a tutti i costi l’amore nelle opere
drammatiche passò da Parigi a Londra verso il 1660, con i nostri nastri e le parrucche.
Le donne, che con la loro presenza abbelliscono lo spettacolo, come qui, non sopportano
che si parli loro d’altro che d’amore. Il saggio Addison ebbe la molle compiacenza
di piegare la severità del suo carattere ai costumi del tempo, e rovinò un capolavoro
per aver voluto piacere.
Dopo di lui le pièce sono diventate più regolari, il popolo più difficile, gli autori
più corretti e meno arditi. Ho visto delle nuove pièce molto sagge ma fredde. Sembra
che gli inglesi non abbiano fatto finora che produrre bellezze irregolari. I mostri
brillanti di Shakespeare piacciono mille volte di più che la moderna saggezza. Il
genio poetico degli inglesi somiglia, finora, a un albero dal fogliame denso e disordinato
piantato dalla natura, che getta casualmente mille rami e che cresce irregolarmente
con forza. Muore se volete forzare la sua natura e lo tagliate come un albero dei
giardini di Marly110.
Shakespeare per Voltaire era inimitabile: un’idea diffusa nell’Europa settecentesca.
Ma l’affermazione si poteva leggere in due modi: inimitabile perché insuperabile,
superiore – sarà questa la posizione dei giovani dello Sturm und Drang dopo il 1770 – oppure inimitabile perché privo delle prerogative necessarie per essere
imitato. Solo un autore di gusto poteva servire da modello, mentre un barbaro geniale
non avrebbe prodotto che guasti. Questo pensava Voltaire. L’idea del resto era già
stata sostenuta da Dryden, che aveva scritto: «La magia di Shakespeare non si può
copiare / Dentro quel cerchio nessuno tranne lui osa camminare»111.
Affiora nella lettera sulla tragedia un tema di grandissimo successo in Europa lungo
tutto il Settecento: il contrasto tra il gusto, sommo valore della società secentesca,
e il genio, qualità che stava per affermarsi nel XVIII secolo. Il genio del poeta
come virtù – innata, naturale – era stato preso in considerazione anche dall’estetica
classica francese, ma sempre in seconda linea rispetto all’arte e al gusto, così come
delle regole non veniva messa in dubbio l’esistenza, bensì eventualmente il contenuto112. Poco per volta, nel corso del XVIII secolo, prima in Inghilterra poi anche in Francia,
il ruolo del genio poetico acquista sempre più importanza e la parola «genio» da attributo
qualitativo (sinonimo di genialità) diventa sostantivo. Di Shakespeare si comincia
a dire non più solo che aveva «del genio» ma che era un genio poetico, anche se privo di gusto. Il passo successivo sarà la competizione
esplicita tra genio e gusto: gli inglesi (seguiti dai tedeschi) privilegeranno il
primo, i francesi (Voltaire in testa) il secondo.
Le Letters hanno successo in Inghilterra. Voltaire scrive a Formont:
Le lettere filosofiche, politiche, critiche, poetiche, eretiche e diaboliche si vendono
in inglese a Londra con gran successo. Ma gli inglesi sono degli eretici che dio ha
maledetto, sono fatti apposta per approvare l’opera del demonio. Temo che la Chiesa
gallicana sarà un po’ più difficile113.
In effetti, quando un anno dopo, nel 1734, le lettere escono segretamente in Francia
(Lettres philosophiques),vengono immediatamene condannate e bruciate dal Parlamento parigino come «scandalose,
contrarie alla religione, ai buoni costumi e al rispetto dovuto ai poteri». Inizia
così la lunga trafila di condanne, richieste di incarcerazioni, censure, confini ed
esilî scaturiti dalla penna di Voltaire, che lo avrebbero perseguitato per tutta la
vita. Il libro viene giudicato «idoneo ad ispirare il più pericoloso libertinaggio
per la religione e per l’ordine della società civile». L’attacco si riferisce soprattutto
ai giudizi di Voltaire in campo politico e sociale. Ma il suo atteggiamento nei confronti
di Shakespeare, che, se paragonato alle posizioni inglesi, appare tradizionale, cauto
e addirittura arretrato, in Francia appariva del tutto scandaloso. «Le Lettres philosophiques – ha scritto Gustave Lanson, che ne realizzò la prima edizione critica nel 1909 –
furono un grande avvenimento nella vita intellettuale del XVIII secolo [...], la prima
bomba lanciata contro l’Ancien Régime»114.
7. Mme du Châtelet, polemiche su
La mort de César, Voltaire cortigiano
Era cominciata da poco la relazione di Voltaire con Mme du Châtelet, la femme savante che è stata l’unico grande amore della sua vita, «il genio di Leibniz con della sensibilità»,
come lui l’ha definita115. Per sfuggire all’arresto in seguito alla condanna delle Lettres philosophiques, Voltaire si nasconde nel castello di lei a Cirey, in Champagne, e si rinserra nel
lavoro. È l’inizio di un periodo particolarmente felice. Lei è appassionata di scienza,
traduce Newton, distoglie Voltaire dalla poesia, lo incoraggia a darsi una formazione
scientifica. Ma è anche la guida femminile e la protezione materna di cui lui, celebre
ma instabile e imprudente come un bambino, ha bisogno116. In cambio lui diventa la guida intellettuale che lei aveva cercato in Maupertuis,
Clairaut, König117. Cirey è il riposo, lo studio, la sicurezza.
Mentre Voltaire è lontano, l’11 agosto 1735 a Parigi, al Collège d’Harcourt dove pochi
anni prima aveva studiato Diderot, viene rappresentata per iniziativa di un insegnante
di retorica, l’abate Asselin, La mort de César, in forma privata e riservata ad un pubblico esclusivamente maschile. In seguito
alla serata la pièce, che Voltaire non riteneva ancora pronta per la scena né per
la pubblicazione, viene stampata senza la sua approvazione, con tagli e integrazioni
arbitrarie. Ciò non sorprende, non esistendo all’epoca il diritto d’autore118. Voltaire protesta. E Desfontaines, un tempo suo amico119 e ora suo nemico, lo attacca:
In questa pièce in tre atti non ci sono né donne, né amore. Tutti i personaggi si
danno del tu come tra pari, anche Bruto dà del tu a Cesare, che riconosce come padre
senza smettere di volerlo assassinare. Questo Romano, più quacchero che stoico, ha
dei sentimenti più mostruosi che eroici. Se questa pièce, in cui l’intreccio, lo svolgimento,
il dialogo, lo stile e i pensieri sono nel gusto del teatro inglese, da un lato potrebbe
in qualche modo essere utile ai nostri costumi, ispirando uno zelo generoso per la
patria e per la libertà pubblica, dall’altro potrebbe anche essere nociva perché offre
l’esempio di un coraggio feroce e snaturato. Il carattere di Cesare è piuttosto debole;
non ha altra grandezza al di fuori di quella che gli attribuiscono le lusinghe di
Antonio. Non si capisce alla fine che ne è di Bruto, capo e anima della congiura:
l’azione termina con l’ottava scena dell’ultimo atto; ciò che segue è una sorta di
orazione funebre per Cesare sotto forma di controversia. Antonio e i Romani esprimono
il proprio pensiero sulla morte e poi escono per andare ad appiccare il fuoco alle
case dei congiurati.
Questa tragedia (se così possiamo chiamarla), malgrado tutti i suoi difetti, reca
pur sempre l’impronta del suo autore, cioè di un grande genio e di un grande scrittore.
Si ammirano diversi pensieri vivaci, maschi e nuovi e bellissimi versi. Ma quanti
altri ce ne sono deboli e duri! Quante espressioni maldestre! Quante brutte rime!
Credo che l’autore, i cui lumi, il cui talento e la cui reputazione sono assolutamente
al di sopra di ogni critica, ritenga anche lui quest’opera come un tentativo singolare.
Affidandola a un teatro di scuola, ha voluto tentare di far conoscere in Francia il
gusto tragico inglese: sono persuaso che egli non abbia scritto questa pièce per la
scena francese e ancor meno per la stampa. Del resto mi sono permesso di far notare
che l’amore della patria è molto diverso in Francia e in Inghilterra: in Francia,
non è molto diverso dall’amore per il Principe; noi siamo buoni sudditi e buoni cittadini
nella misura in cui amiamo e rispettiamo il capo dello Stato, il nostro maestro, nostro
legislatore, nostro padre. È vero, d’altronde, che Cesare aveva oppresso la Repubblica
e usurpato l’autorità, ma seguendo le regole della sana morale non spettava né a Bruto,
né a Cassio, né agli altri congiurati, che erano dei privati cittadini nella Repubblica,
punire il tiranno: da cui concludo che La mort de César e tutte le tragedie di questo genere, prese alla lettera, potrebbero essere molto
più dannose delle pièce in cui regna l’amore. Ma fortunatamente le nostre circostanze
fanno sì che la morale non abbia nulla da temere da parte di tali rappresentazioni120.
Voltaire risponde a Desfontaines con una lettera questa volta tutta a favore di Shakespeare
e molto critica nei confronti dei francesi:
La Francia non è l’unico paese in cui si scrivono tragedie e il nostro gusto o piuttosto
la nostra abitudine di non rappresentare a teatro che delle lunghe conversazioni d’amore
non piace alle altre nazioni. Il nostro teatro è privo d’azione e solitamente di grandi
interessi. Manca d’azione perché la scena è nascosta dai nostri petits maîtres; e i grandi interessi sono banditi perché la nostra nazione non li conosce. La politica
piaceva ai tempi di Corneille, perché si era in piena guerra della Fronda, ma oggi
non si va più a vedere le sue pièce. Se voi aveste visto rappresentare l’intero testo
di Shakespeare, come l’ho visto io e come l’ho più o meno tradotto, le nostre dichiarazioni
d’amore e le nostre confidenze vi sembrerebbero a confronto povere cose121.
Il passo è una delle testimonianze più favorevoli a Shakespeare che Voltaire abbia
scritto. In quegli anni esitava ancora tra la teoria classica del diamant brut – Shakespeare è un genio stimolante ma primitivo e per portarlo sulla scena francese
andrebbe levigato – e la teoria più moderna del gusto locale: a ogni popolo o clima,
a ogni cultura, nazione o tradizione letteraria, corrisponde una forma artistica peculiare
che dobbiamo comprendere, non giudicare.
Nel 1736, per cancellare nel pubblico l’impressione negativa lasciata dall’edizione
pirata della tragedia, piena di lacune ed errori, Voltaire pubblica La mort de César preceduta da una prefazione e da una Lettera d’Algarotti, giovane veneziano che era stato ospite di Mme du Châtelet e suo a Cirey122. Algarotti presenta la tragedia di Voltaire come un esempio felice di integrazione
fra le culture.
Monsieur de Voltaire ha imitato in alcuni passi Shakespeare, poeta inglese, che ha
riunito nella stessa pièce le più ridicole puerilità e i pezzi più sublimi; ne ha
fatto lo stesso uso che Virgilio faceva delle opere di Ennio [...]. Non è forse un
residuo di barbarie in Europa volere che i confini che la politica e la fantasia degli
uomini hanno prescritto per la separazione degli Stati servano anche da limiti per
le scienze e le belle arti, i cui progressi potrebbero estendersi attraverso uno scambio
reciproco dei lumi dei vicini? Questa riflessione conviene ancor più alla nazione
francese che a tutte le altre: essa si trova nella situazione di quegli autori dai
quali il pubblico richiede di più, perché ne ha ricevuto di più; essa è così generalmente
educata e colta che dà il diritto di esigere da lei non solo di approvare, ma anche
di cercare di appropriarsi di ciò che trova di buono presso i suoi vicini123.
Dopo il 1736, con l’affievolirsi del ricordo dell’esperienza inglese, l’interesse
di Voltaire per Shakespeare passa in secondo piano. Si attutisce anche la sua vena
drammatica: tra il 1736 e il 1741 non compone alcuna pièce. Nei primi anni dell’operoso
e felice ritiro nel castello di Cirey in compagnia di Mme du Châtelet Voltaire è assorbito
da altre passioni.
Ho abbandonato due teatri che sono troppo pieni di cabale, quello della Comédie-Française
e quello del mondo. Vivo felice in un affascinante ritiro [...]. Godo nella pace più
pura e nel più operoso tempo libero le dolcezze dell’amicizia e dello studio con una
donna unica nella sua specie, che legge Ovidio ed Euclide e che ha l’immaginazione
dell’uno e la precisione dell’altro124.
Nel 1741 Voltaire compone una tragedia dedicata agli orrori dell’intolleranza, Le Fanatisme ou Mahomet le prophète (Il fanatismo o il profeta Maometto)125, nella quale riesce a far diventare attuale un profeta, quasi fosse un contemporaneo,
trascinando il pubblico da una parte alla condanna e dall’altra all’ammirazione più
sconsiderata. La tragedia suscita feroci nemici e accesi sostenitori. Gli eccessi
di Voltaire urtano anche alcuni suoi fedelissimi ammiratori come Lord Chesterfield126:
Voltaire mi affascina, finanche la sua empietà, con la quale non riesce a fare a meno
di ingrassare ogni suo scritto e che dovrebbe sopprimere con giudizio perché in fin
dei conti non bisogna turbare l’ordine stabilito. Ognuno la pensi come vuole, o come
può, ma non diffonda le sue idee quando queste saranno tali da compromettere la quiete
della società127.
Ritirata dalla scena dopo la terza rappresentazione, Mahomet è perseguitata in Francia dai giansenisti che la denunciano come «scandalosa ed empia»
ma è protetta a Roma grazie a una dedica al papa Lambertini Benedetto XIV, e dopo
alcune correzioni viene riammessa sul palcoscenico, accolta con entusiasmo e rappresentata
158 volte nel corso del secolo128. Tradotta da Goethe, piacerà molto a Nietzsche che in Umano, troppo umano scriverà nell’aforisma «La rivoluzione nella poesia»:
Basta leggere ogni tanto il Maometto di Voltaire per rappresentarsi alla mente con chiarezza che cosa una volta per tutte
con quella rottura della tradizione sia andato perduto per la civiltà europea. Voltaire
è stato l’ultimo dei grandi autori drammatici che ha saputo dominare la sua anima
polimorfa, che era all’altezza anche delle più grandi tempeste tragiche, con la misura
greca129.
All’inizio del Novecento il critico americano Thomas Lounsbury mette in relazione
il Mahomet con Macbeth:
In questa pièce è presente un’imitazione diretta di Shakespeare. Essa consiste nelle
circostanze che accompagnano la morte di uno dei personaggi, Zopiro, il venerabile
sceicco de La Mecca. Seid, trasportato dal fanatismo, uccide l’anziano governatore
nonostante nutra per lui un’istintiva venerazione. Dopo aver commesso l’atto, resta
orripilato apprendendo che colui che ha colpito a morte era suo padre. Affianco a
lui c’è la protagonista, Palmira, che da una parte tenta di dissuadere il suo amato
dal perpetrare il crimine la cui ricompensa sarebbe la sua mano e dall’altra è propensa
all’atto grazie al quale si realizzerebbe il suo più grande desiderio. Di fronte alle
conversazioni che precedono l’assassinio e poi alla rappresentazione dell’atto stesso,
nessun lettore che abbia dimestichezza con la letteratura inglese mancherà di cogliere
l’evidente tentativo di riprodurre l’effetto delle tremende situazioni che precedono
e seguono l’assassinio di Duncan nel Macbeth. Tutte le componenti della scena presenti nella pièce shakespeariana vengono introdotte
in quella di Voltaire, nella misura in cui lo consentono le differenze tra le due
trame. È la presenza di Lady Macbeth e il ruolo da lei svolto nella tragedia a ispirare
a Voltaire la partecipazione di Palmira all’omicidio. È la conversazione tra marito
e moglie, appena precedente l’atto del crimine (nel Macbeth), a suggerirgli la conversazione tra i due innamorati. Ma per quanto forti siano
le scene rappresentate da Voltaire, esse risultano tenui e deboli, in confronto all’incredibile
grandezza delle scene originali. In queste, l’intensità dell’eccitazione giunge quasi
al punto del dolore. Ancora più considerevole è l’inferiorità della pièce francese
sul piano dell’arte drammatica. Nel Mahomet, la presenza della donna è una necessità teatrale, e non naturale. Ciò che in Shakespeare
deriva da un’esigenza artistica inevitabile, in Voltaire è il frutto di un artificio130.
Oggi Mahomet ha ritrovato una tragica attualità, tanto che la sua rappresentazione sulle scene
francesi è diventata impensabile.
Voltaire per qualche anno si guarda dal provocare scandalo con opere troppo ardite
e nel 1743 fa rappresentare alla Comédie-Française Mérope, una tragedia sull’amore materno, ispirata all’omonima pièce di Maffei131, che a causa del tema, molto gradito al pubblico borghese, verrà replicata fino a
fine Ottocento132. Era la prima volta, dai tempi di Athalie di Racine, che una tragedia senza intrigo amoroso veniva accolta con favore. Commenterà
più tardi il romantico Gérard de Nerval:
In Mérope Voltaire è veramente grande e inimitabile, e nessuno più di lui si è avvicinato agli
effetti solenni e pomposi della tragedia greca [...]. Ha superato persino meglio di
Racine la difficoltà di sostenere l’interesse di una pièce senza intrigo amoroso [...].
Mérope ha tutte le qualità che devono avere le tragedie: la grandezza, l’interesse e la semplicità133.
Il successo di Mérope «è straordinario», racconta un contemporaneo: «Non si è mai visto rendere a nessun
autore simili onori»134. Alla prima a Parigi la tragedia viene così apprezzata che Voltaire alla fine della
recita appare in uno dei primi palchi ed è applaudito per un quarto d’ora, dall’anfiteatro
alla platea. Inoltre – cosa che non era mai accaduta prima per nessun autore –, viene
chiamato sulla scena insieme agli attori. Un omaggio fino ad allora impensabile ma
che in seguito, nei casi di grande successo, sarebbe diventato consueto.
Gli anni Quaranta sono anche gli anni del Voltaire cortigiano. Entrato nelle grazie
di Mme de Châteauroux, favorita del re, dopo la morte di lei trova una protezione
ancor più devota in Mme de Pompadour, che lo introduce a corte. Scrive una comédie-ballet da rappresentare a Versailles, La princesse de Navarre (1745), e con Rameau Le temple de la gloire (1745), un’opéra à grand spectacle per celebrare la vittoria di Fontenoy135. Diventa Gentilhomme de la Chambre, storiografo di corte – come Racine era stato storiografo di Luigi XIV – e membro
dell’Académie Française (1746), oltre che delle Accademie di Roma, San Pietroburgo,
Cortona e Firenze. È apparentemente al colmo della gloria, eppure non piace a Luigi
XV che «di quel tipo di gente non si fida»136. Più tardi Voltaire scriverà nei suoi Mémoires:
[L’amicizia con Mme de Pompadour] mi valse delle ricompense che non sarebbero mai
state date né alle mie opere né ai miei servizi. Fui giudicato degno di essere uno
dei quaranta membri inutili dell’Académie. Fui nominato storiografo di Francia e il
re mi fece il regalo di un incarico di Gentilhomme ordinaire de sa Chambre. Conclusi che per fare la minima fortuna era meglio dire quattro parole all’amante
di un re che scrivere cento volumi137.
8. Prima traduzione di Shakespeare in Francia: Le Théâtre Anglois di de La Place
Voltaire riprende a interessarsi a Shakespeare solo nel 1745138. Un anno prima la Francia aveva dichiarato guerra all’Inghilterra, inserendosi nella
guerra di successione austriaca, che sarebbe finita quattro anni dopo139.
L’occasione per il rinnovato interesse per Shakespeare è la pubblicazione dei quattro
volumi del Théâtre Anglois di Pierre-Antoine de La Place (1746-1747)140. Anche se l’opera era dedicata solo in parte a Shakespeare, adattato al gusto francese
e tradotto in modo approssimativo, volutamente infedele, grazie all’edizione di de
La Place la conoscenza di Shakespeare in Francia sfugge per la prima volta alla mediazione
e al controllo del solo Voltaire. E la possibilità di leggerlo, ristretta fino ad
allora a pochi specialisti e letterati, si allarga al pubblico colto141.
Il primo volume è preceduto da un Discours sur le Théâtre Anglois142in cui il traduttore, che dichiara di essersi ispirato a Pope e alla sua edizione
shakespeariana del 1728143, esprime giudizi e punti di vista originali e aperti, proposti con toni pacati, senza
accenti polemici.
De La Place si mette dalla parte del pubblico, insiste sull’importanza del piacere
teatrale dello spettatore, che deve essere metro di giudizio di una pièce al posto
della critica e della fedeltà alle regole che raffreddano il godimento: «Preferisco
la licenza che mi sveglia all’esattezza che mi addormenta». Shakespeare, «inventore
dell’arte drammatica inglese», era un attore e ragionava ed agiva come tale, voleva
piacere al pubblico, «essere applaudito e guadagnare denaro», non seguire Aristotele.
«Se è riuscito a piacere ha raggiunto il suo scopo: non merita che elogi». Shakespeare,
afferma de La Place, esprime ciò che gli inglesi chiedevano e dopo 150 anni continuano
a chiedere al teatro: spettacolo, azione, movimento e immagini. Anticipando di diversi
anni Diderot, a proposito delle scene di Shakespeare de La Place parla di tableau: «Un inglese non concepisce che il naturale possa scioccare gli occhi, se è esente
da indecenza, [...] la tragedia non è in fondo che la storia messa in azione».
De La Place non utilizza Shakespeare come aveva fatto Voltaire nelle Lettres philosophiques, da un lato per criticarlo, dall’altro per correggere il teatro francese. Il suo
intento è sinceramente anglofilo e cosmopolita: divulgare la conoscenza del teatro
inglese e in particolare di Shakespeare. Egli si apre alle culture, ai costumi, ai
caratteri e al gusto di altri paesi, mostra curiosità e interesse nei confronti del
diverso e dichiara: «poco importa che [Shakespeare] abbia lavorato in un gusto differente
dal nostro: questa stessa ragionenon deve servire che a raddoppiare la nostra curiosità». In linea con questo pensiero,
de La Place arriva ad accusare di provincialismo alcune prese di posizione francesi:
«Chi volesse giudicare Shakespeare conformemente alle regole di Aristotele sarebbe
altrettanto ingiusto di un giudice che non consultasse che le leggi della propria
provincia per giudicare uno straniero».
Il Discours diventa così un’equilibrata analisi comparativa del teatro e dello spettacolo in
Francia e Inghilterra: «Vi devo confessare che sarebbe desiderabile che il Francese
fosse meno schiavo dell’Arte e l’Inglese meno attaccato alla Natura». In una tragedia
inglese «lo stile è sempre soggetto alle cose e mai le cose allo stile», come invece
è in Francia.
Il gusto delle pièce inglesi corrisponde al gusto degli inglesi. Se i francesi vogliono
piacere e ragione, gli inglesi si accontentano del piacere, se è piccante. Chi è più
saggio o più felice? Mi guardo bene dal deciderlo144.
Nel presentare Shakespeare ricorrono frequentemente le parole «natura» e «ispirazione»,
che paiono preannunciare il Romanticismo. «Shakespeare sembra aver conosciuto ciò
che viene chiamato il mondo per una specie di ispirazione», deve essere visto «meno
come l’imitatore e il pittore della natura che come l’organo dei sentimenti e dei
movimenti che la caratterizzano». I suoi personaggi sono sempre veri (e non verosimili),
sempre naturali, mai simili gli uni agli altri. «Ciò che conta è “la verità del sentimento”
che deve interessare o commuovere lo spettatore, verità del sentimento che non è né
verità reale che presenti i fatti e i personaggi così come sono stati, [...] né verosimiglianza
che li mostri come avrebbero potuto essere, ma un quadro che li rappresenti come devono essere nel momento in cui sono presentati per fare
impressione sullo spettatore nella situazione attuale in cui li vede». E la verità
del sentimento è sempre relativa: «dipende dai diversi caratteri di ogni popolo, dai
suoi costumi e dal suo governo». «In Francia normalmente è la Corte che dà il tono
alla capitale, e la capitale al resto del Regno. Non è così in Inghilterra. La libertà
inglese non rispetta, non fugge, non gusta che ciò che gli piace».
Ma prudentemente de La Place bilancia il desiderio di far conoscere il teatro inglese
con il rispetto per la delicatezza francese. Di Shakespeare e delle tragedie inglesi
vengono descritte anche le mancanze. La mescolanza di comico e tragico viene respinta
per le stesse ragioni indicate da Voltaire. «Ci sono in Shakespeare quadri, passi,
discorsi ingiustificabili in qualsiasi tempo e in qualsiasi paese perché sono contrari
alla verità, alla ragione e alle bienséances generali, che sono dappertutto le stesse. Quando Amleto conversa coi becchini o quando
uccide Polonio prendendolo per un topo, l’effetto è rivoltante [...] ma questi sono
difetti che gli inglesi perdonano a lui, non però agli autori moderni [...]. Se l’autore
tragico ci coinvolge e ci sveglia, tutti i suoi difetti sono perdonati».
Complessivamente de La Place assume una posizione relativistica, agli antipodi della
fede universalista di Voltaire, ma straordinariamente illuminata e aperta al futuro.
Perché avremmo la presunzione di credere che le nostre conoscenze siano arrivate all’ultimo
grado di perfezione nel genere drammatico? O il dolore di immaginare che non si perfezioneranno
più quando vediamo giornalmente che si fanno delle scoperte in un’infinità di altri
generi? Le facoltà del cuore e dello spirito sarebbero più limitate delle proprietà
materiali? O la loro conoscenza più perfezionata di quella della fisica, della geometria,
e dell’anatomia, così da sentire di essere ancora lontani dalla perfezione? [...]
Guardiamoci dal condannare oggi in modo unilaterale ciò che i nostri nipoti forse
un giorno applaudiranno145.
Voltaire reagisce positivamente alla pubblicazione del Théâtre Anglois. Forse perché de La Place si inserisce prudentemente sulla strada da lui aperta,
lo riconosce, lo cita e lo loda, o forse perché la traduzione di de La Place è frammentaria
e imprecisa, parzialmente in prosa, e «uno che vuole scrivere una tragedia in prosa
somiglia a uno che ad un ballo invece di danzare cammina»146, Voltaire non vede in lui un rivale che gli contende il monopolio shakespeariano,
come avverrà in futuro. Dopo l’uscita dei primi volumi si adopera perché escano gli
altri e scrive a un amico: «Il signor de La Place, autore del Théâtre Anglois, ha pubblicato da tempo tre volumi senza che nessuno abbia avuto nulla da ridire.
È un’opera molto valida. Il pubblico si lamenterebbe se non uscissero gli altri due
volumi e l’autore sarebbe rovinato»147.
9. L’eco di Amleto: Sémiramis
Nel 1746, poco dopo l’edizione di de La Place, Voltaire pubblica la tragedia Sémiramis. Era una ripresa, rimaneggiata, di Ériphyle. Molte scene e situazioni erano tratte in modo evidente, seppure non dichiarato,
da Shakespeare. Nella tragedia la regina babilonese istiga l’amante Assur a uccidere
il marito Nino. Nel terzo atto compare l’ombra di Nino che chiede vendetta a suo figlio
Arsace. Il modello è Amleto, che Voltaire aveva visto a Londra e da cui era stato colpito per il colpo di scena
dell’apparizione del fantasma del padre, da lui già imitato in Ériphyle. La citazione shakespeariana in Sémiramis è una doppia risposta a de La Place. Voltaire sembra sfruttare una nascente moda
shakespeariana e dimostrare una conoscenza diretta di Shakespeare, da spettatore,
più profonda e teatrale di quella dello stesso de La Place, la cui opera era destinata
alla sola lettura.
Due anni dopo, nella Dissertation sur la tragédie ancienne et moderne pubblicata come premessa a Sémiramis, Voltaire bilancia le solite critiche all’Amleto di Shakespeare con considerazioni positive sui suoi bizzarri «tratti geniali e sublimi»:
Sicuramente gli inglesi non credono ai fantasmi più dei romani, tuttavia ogni giorno
vedono con piacere nella tragedia di Amleto l’ombra di un re che appare sulla scena in un’occasione più o meno simile a quella
in cui a Parigi si è visto lo spettro di Nino. Sono certamente ben lontano dal giustificare
completamente la tragedia di Amleto: è una pièce grossolana e barbara, che non sarebbe tollerata dalla più vile populace francese e italiana.
Amleto impazzisce al secondo atto e la sua amante al terzo; il principe uccide il
padre dell’amante, fingendo di uccidere un topo, e l’eroina si getta nel torrente.
Si scava per lei la fossa in scena. I becchini dicono dei quodlibet degni di loro, tenendo in mano dei teschi. Il principe Amleto risponde alle loro
volgarità abominevoli con follie non meno disgustose. Nel frattempo uno degli attori
conquista la Polonia. Amleto, sua madre e il suo patrigno bevono insieme in scena:
si canta a tavola, si discute, ci si batte e ci si uccide. Si direbbe che quest’opera
sia il frutto dell’immaginazione di un selvaggio. Ma in mezzo a queste volgari irregolarità,
che ancora oggi rendono il teatro inglese tanto assurdo e barbaro, si trovano in Amleto, per una ancor maggiore bizzarria, tratti sublimi, degni dei maggiori geni. Sembra
che la natura si sia compiaciuta a riunire nella mente di Shakespeare ciò che ci si
può immaginare di più forte e di più grande insieme a ciò che la volgarità senza spirito
può avere di più basso e detestabile148.
L’ombra del padre di Amleto che viene a chiedere vendetta per il crimine subìto, diventa
agli occhi di Voltaire e del suo deismo ottimista l’espressione e la prova rassicurante
dell’esistenza onnipotente di un Essere Supremo:
Bisogna confessare che, tra tutte le bellezze che scintillano in mezzo a queste terribili
stravaganze, l’ombra del padre di Amleto è un colpo di scena che fa effetto. Quest’ombra ispira più terrore alla sola lettura dell’apparizione
di Dario nella tragedia di Eschilo I Persiani. Perché? Perché Dario in Eschilo compare solo per annunciare le disgrazie della sua
famiglia, mentre in Shakespeare l’ombra del padre di Amleto viene a chiedere vendetta,
a rivelare crimini segreti. Essa non è né inutile, né introdotta per forza: serve
a convincere che esiste un potere invisibile che è il padrone della natura. Gli uomini,
che hanno tutti un fondo di giustizia nel loro cuore, naturalmente si augurano che
il cielo sia interessato a vendicare l’innocenza. Si vedrà sempre con favore, in ogni
epoca e in ogni paese, un Essere Supremo che si preoccupi di punire i crimini di coloro
che gli uomini non possono chiamare in giudizio149.
Il 29 agosto 1748 Sémiramis va in scena alla Comédie-Française. Nelle intenzioni di Voltaire l’opera deve offrire
al pubblico «un’azione grande, spettacolare e patetica». Le scene lussuose, da grand spectacle, affidate ai fratelli Slodtz150 e pagate da Luigi XV 5.000 franchi, avanzano nella parte laterale e anteriore della
scena, fino a toccare i palchi. Molte comparse impersonano cortei di schiavi e soldati.
La critica loda «i quadri, lo splendore dello spettacolo, il patetismo delle azioni,
la giusta distribuzione delle comparse su piani adatti e lieti»151, insomma ciò che oggi chiameremmo la mise en scène, la regia152. Ma alla prima la tragedia si risolve in un insuccesso per l’incongruità della scena,
ingombra come al solito di spettatori, che impedisce ogni illusione e verosimiglianza,
come quando si vede «l’ombra di Nino urtare un riscossore di imposta sgomitando per
passare» e un soldato di guardia gridare: «Signori, prego, fate posto all’ombra!»153. L’abitudine che consentiva ai petits maîtres di sedere su panche che occupavano lateralmente un quarto del palco continuava a
ostacolare la messinscena. Voltaire scrive nella Dissertation sur la tragédie ancienne et moderne:
Uno dei maggiori ostacoli che impediscono al nostro teatro azioni grandi e patetiche
è la folla di spettatori confusi sulla scena con gli attori; tale indecenza si è fatta
particolarmente sentire alla prima rappresentazione di Sémiramis. La principale attrice di Londra, che era presente allo spettacolo, non si riprendeva
dallo stupore; non poteva concepire come ci fossero uomini talmente nemici dei propri
piaceri da rovinare lo spettacolo senza goderne154.
Voltaire – commenta Mercier – dopo aver visto questa pièce [Amleto], immaginò anche lui di far apparire un’ombra, ma la fece venire in mezzo agli Stati
Generali riuniti per Semiramide. I Grandi dello Stato sollevarono educatamente i loro
sgabelli per lasciar passare l’Ombra. Ma chi può aver paura di un’ombra quando essa
appare davanti a una grande assemblea?155
«L’ingresso dell’Ombra è fallito», scrive Voltaire a un amico156 e immediatamente elimina la scena nella nuova stesura della tragedia. L’effetto mancato
viene messo in evidenza da una parodia anonima, Zoramis ou le spectacle manqué (Zoramis o lo spettacolo mancato), fortunatamente non rappresentata grazie all’intervento del duca di Richelieu. «Richelieu
ci fa sapere di aver proibito per sempre le parodie. Non conosco nulla di più essenziale
per il buon gusto», commenta Voltaire ai d’Argental157.
Il teatro francese non era ancora in grado di accogliere mutamenti, era strutturato
per la conversazione158. Dopo Sémiramis e la Dissertation sur la tragédie ancienne et moderne, Voltaire si disinteressa di Shakespeare per più di dieci anni.