1.
Coppe di solidarietà
Vino...
Amoroso, marino,
nunca has cabido en una copa,
en un canto, en un hombre,
coral, gregario eres,
y cuando menos, mutuo.
Pablo Neruda, Oda al vino
Omero, una guida d’eccezione
Come era fatto Omero? Se qualcuno ci ponesse questa domanda, è probabile che, ripescando
nella memoria immagini viste in un museo o su un libro di scuola, penseremmo a un
vecchio cieco e canuto, dall’aspetto autorevole, con una lunga barba, intento a cantare,
accompagnandosi con una cetra, storie meravigliose di eroi e di dei di un tempo lontano.
Per noi, come per gli antichi, Omero è un poeta, il poeta: nessuno lo immaginerebbe come guerriero, sacerdote, araldo, e ancor meno come
donna, contadino, fabbro o umile servitore pronto a rispondere agli ordini del padrone.
Eppure, Omero è anche tutto questo: perché gli esametri dei poemi sono così vividi
che egli sembra vestire di volta in volta i panni di ciascuno dei personaggi che popolano
le sue storie.
Iliade e Odissea non narrano solo gesta e vicissitudini di individui ben al di sopra degli altri esseri
umani, e delle divinità che interagiscono con loro; non parlano solo dell’ira di Achille
– l’eroe che a Troia, offeso da Agamennone, decide di ritirarsi dal combattimento,
causando in questo modo «infiniti lutti agli Achei» –, e del tormentato viaggio di
ritorno di Ulisse in un’Itaca presa d’assedio dai Proci che aspirano alle nozze con
sua moglie Penelope. Omero racconta anche di una quotidianità popolata da individui
semplici e da uomini ordinari: il fine dei suoi poemi è infatti quello di tramandare,
agli ascoltatori del tempo come ai lettori di oggi, l’intero patrimonio culturale
della Grecia antica, fatto di storie, di oggetti, di mestieri, di tecnica, di modelli
di comportamento a cui ispirarsi e attenersi.
Non sappiamo quando visse Omero, né tantomeno se sia davvero esistito; questo problema
– che forma parte della celebre «questione omerica» – è tuttavia ai nostri fini del
tutto marginale. Quel che importa, infatti, è che egli racconta di un’epoca (molto
ampia, che va probabilmente dal X all’VIII secolo a.C.) in cui il sapere non era affidato
alla scrittura, ma era trasmesso oralmente: perché le conoscenze acquisite non andassero
perdute era necessario cristallizzarle, ripeterle e affidarle ad altri affinché a
loro volta questi le facessero proprie e le consegnassero alle generazioni successive.
Per questo, i quarantotto libri in cui complessivamente i poemi sono suddivisi trattano
solo parzialmente di vicende utili all’avanzamento dell’azione: una parte cospicua
è riservata a descrizioni di situazioni contingenti, che, oltre a servire da cornice
narrativa, contengono indicazioni pratiche sul «che cosa fare» in circostanze determinate:
quasi si tratti di un manuale di istruzioni, a uso e consumo di chiunque ascolti i
versi del poeta. Così, vi si trovano spiegazioni dettagliate sulla fabbricazione delle
armi e sulla vestizione di un guerriero, sulla costruzione di un’imbarcazione, sulla
modalità di uccisione degli animali da sacrificio e sulle preghiere da rivolgere agli
dei, sulle regole da seguire per convocare un’assemblea o per prendere in essa la
parola.
In questo contesto, non sorprende che Omero dedichi uno spazio tutt’altro che trascurabile
anche al vino, una presenza costante e fondamentale nella vita dei suoi personaggi.
Nell’Iliade e nell’Odissea, in effetti, il vino scorre a fiumi: si beve durante i pasti quotidiani, nelle pause
dal faticoso lavoro nei campi, al termine della battaglia, prima e dopo aver preso
una decisione importante; si beve per celebrare una festa, per suggellare un patto,
per accogliere e per congedare un amico o un ospite. Insomma, il vino è un piacere
che nessuno, eroe o semplice guerriero, re o servitore, nega a se stesso: insieme
alla buona tavola, esso fa la felicità dei ricchi e dei poveri. Sono pochissimi nei poemi i libri privi di riferimenti al vino, tanto che il poeta
latino Orazio giunge ad apostrofare Omero come vinosus, «ubriacone»; un giudizio tagliente – peraltro giustificato dalla sua collocazione in un componimento
particolarmente velenoso –, ma decisamente poco veritiero se preso alla lettera, dal
momento che ben di rado i personaggi omerici, pur bevendo molto, soccombono all’ebbrezza
(su questo punto ritorneremo nel capitolo 4). L’abbondanza di vino nei poemi, piuttosto,
trova una sua precisa ragione d’essere nell’altissimo valore sociale che al vino è
collegato.
Per questo, a Omero non interessa granché il vino consumato nel déipnon, ossia nella colazione o nella cena di tutti i giorni, dove, insieme al cibo, esso
è semplice nutrimento, utile a soddisfare una necessità fisiologica e a ricordare
all’uomo la sua natura mortale (all’argomento era particolarmente sensibile Ulisse,
il quale a più riprese lamenta di essere schiavo del proprio odioso ventre vuoto).
Omero indugia molto più volentieri sui pasti delle occasioni speciali o solenni, e
tra questi, in particolare, sulla dais, il «banchetto aristocratico»: qui, il vino che – rigorosamente miscelato con acqua,
secondo il tipico uso greco e poi romano – innaffia nel prima, nel durante e nel dopo
abbondanti porzioni di carne arrostita, non è semplice bevanda, ma diviene cultura,
essenza stessa di civiltà.
Le descrizioni dei numerosi banchetti ricorrenti nei poemi sono a tratti così intense
da dare anche a noi lettori moderni la sensazione di partecipare a essi in qualità
non di semplici spettatori, ma di veri e propri commensali. Omero sarà dunque il maestro
di cerimonie nel percorso che ci porterà a osservare da vicino quel che succedeva
durante i banchetti, e a scoprire i possibili significati del cibo e del vino che
lì venivano consumati.
Nei poemi di Omero, i banchetti sono condotti secondo un rituale che, pur con qualche
variante, non si discosta da questo schema tipico: ai presenti viene dapprima distribuito
del vino, in parte versato puro come libagione agli dei; quindi si procede con le
operazioni di cucina, che consistono nel taglio e nell’arrostitura di carne infilata
sugli spiedi (in alcuni casi già pronta, in altri preparata all’occorrenza con l’uccisione
di uno o più animali). La consumazione del cibo e del vino non pone fine al banchetto:
la formula ricorrente «dopo aver tolto il desiderio di cibo e di bevanda» segna il
passaggio a una nuova fase, di conversazione, durante la quale le coppe vengono nuovamente
e continuamente riempite, fino a che i convitati non decidono di dedicarsi ad altro.
Questi gesti si ripetono praticamente identici qualunque sia la funzione del banchetto:
placare gli dei, far pace, celebrare un evento, siglare una decisione presa, o, ancora,
accogliere un ospite. Proprio sui banchetti di accoglienza vale la pena soffermarsi
più a lungo: l’ospitalità è infatti uno dei meccanismi relazionali fondanti dell’etica
omerica, e nel codice della xenía («ospitalità», appunto) il vino era senza dubbio tra i protagonisti.
Dare vino agli ospiti
Tra le regole di comportamento che un personaggio omerico è tenuto a rispettare rientra
quella di dare degna accoglienza a chi giunge nella sua dimora.
Le modalità di accoglienza sono le medesime a prescindere dal rango sociale di chi
ospita: le divergenze tra l’eroe aristocratico e l’uomo del popolo rilevano infatti
solo sotto il profilo della quantità e della qualità, non sotto quello del contenuto.
Così Eumeo, l’umile porcaro di Ulisse, si affretta a invitare nella sua capanna il
vecchio mendicante sotto le cui spoglie si nasconde proprio il suo padrone, per rifocillarlo
con quel che ha: recatosi nel porcile, uccide due maialini – perché, come ricorda,
i maiali grassi se li mangiano i Proci che imperversano nella reggia – e li cuoce
sugli spiedi, offrendoli poi al suo ospite insieme a vino profumato di miele versato
in un semplice boccale di legno. Lo stesso rituale, solo in forma più sontuosa, si
ripete alle corti dei nobili: quando Telemaco con alcuni compagni giunge dal re di
Pilo, Nestore, per avere notizie del padre Ulisse, viene subito accolto con arrosto
di carni nutrienti e vino soave servito in un calice d’oro; i ricchi erano naturalmente
soliti offrire vino particolarmente pregiato, o elargirne in quantità molto abbondanti.
È peraltro opportuno osservare che, al di là dell’iterazione della nota sequenza nel
servizio di vino e cibo, vi sono anche altri elementi che ricorrono in modo costante.
Tra questi vi è innanzitutto l’irrilevanza del momento della giornata in cui l’ospite
si presenta; non importa se sia o non sia ora di colazione, di pranzo o di cena, e
non importa neppure se l’ospitante o l’ospitato abbiano da poco mangiato e bevuto:
nel nono libro dell’Iliade, Ulisse e Aiace, mandati come ambasciatori da Agamennone ad Achille per convincere
quest’ultimo a desistere dalla sua ira e a ritornare a combattere, si ritrovano nel
giro di poche ore seduti a due tavole diverse, a ingurgitare quantità di carne e di
vino che ai nostri occhi di occidentali del XXI secolo appaiono quantomeno poco salutari
(anche se poi gli antichi non si ponevano affatto il problema: è significativo che
Ulisse riporti in modo incolore, senza segnalarla come fatto singolare, la consumazione
di un abbondante doppio pasto). La prima cosa da fare dopo il contatto anche solo visivo con l’ospite è mettergli
in mano una coppa colma di vino e preparare la tavola – oppure ammetterlo a una tavola
già riccamente imbandita. Per il vero, vi sono anche rari casi in cui a essere offerto
è innanzitutto un bagno che ristori dalla fatica di un lungo viaggio: questo accade
per esempio a Telemaco e Pisistrato, che da Pilo sono giunti a Sparta nella reggia
di Menelao; comunque sia, si tratta di una parentesi veloce, il cui unico scopo è quello di
mettere l’ospite nella condizione migliore per mangiare e bere.
Vi è poi un’altra, importantissima regola a cui chi ospita deve attenersi: quella
della corretta alternanza tra parole e silenzio: mai fare domande all’ospite prima
che questi si sia tolto «il desiderio di cibo e di bevanda». In particolare, vino
e cibo devono essere offerti all’ospite sconosciuto senza alcuna preventiva richiesta
di rendere nota la sua identità, e all’ospite noto prima che questi dichiari il motivo
della sua presenza. Non importano né il perché ci si presenti, né da dove si provenga o da chi si discenda:
semplicemente, non bisogna mai negare una benevola accoglienza. Solo dopo che «il
desiderio di cibo e di bevanda» è stato soddisfatto le coppe vengono nuovamente riempite
di vino e i presenti iniziano a parlare e a interrogarsi reciprocamente.
Certo, quando giungeva uno straniero, chi ospitava era consapevole del pericolo di
trovarsi di fronte a un malintenzionato: i mari del tempo erano infestati dai pirati.
Lo sapevano bene i Feaci, abili navigatori che non di rado dovevano essersi imbattuti
nei predoni del mare, e che erano noti per non essere particolarmente ben disposti
nei confronti degli estranei. Ciò nonostante, quando il naufrago Ulisse giunge nella
loro terra e si presenta supplice al cospetto della regina Arete, abbracciandone le
ginocchia secondo i consigli di Nausicaa, essi gli danno immediata accoglienza: pur
sospettosi, i Feaci non esitano a riconoscere che è disdicevole non offrire al forestiero
vino e cibo.
Il rispetto delle regole sull’accoglienza, evidentemente, è a tal punto cogente da
imporre l’accettazione del potenziale rischio. Ospitare è themis, «principio posto», consolidato e sacrosanto, che è illecito, per non dire impensabile,
trasgredire. In un mondo contraddistinto dall’assenza di leggi codificate, Omero descrive
e diffonde regole di comportamento non scritte la cui conoscenza e il cui rispetto
segnano il discrimine netto tra cultura e natura. L’obbedienza a queste regole è un
dovere morale a cui non ci si può sottrarre; e chi contravviene a esse si pone automaticamente
al di fuori della comunità e delle norme che governano la vita civile: proprio come
il Ciclope Polifemo.
Su Polifemo dovremo ritornare ancora nelle pagine che seguono; è però opportuno parlare
sin da ora del celebre episodio dell’Odissea che lo vede protagonista, perché il suo agire aberrante conferisce un rilievo ancora
più limpido al significato e al rigore dei valori condivisi dell’ospitalità. Il comportamento
con cui il Ciclope dà il benvenuto a Ulisse e compagni giunti nella sua grotta rappresenta
infatti l’esatta negazione del codice etico dell’ospite. Non appena si accorge della
presenza di stranieri, Polifemo fa l’opposto di quel che dovrebbe; domanda immediatamente
la loro identità, avanzando il sospetto di aver di fronte a sé dei briganti: «Stranieri,
chi siete? Da dove navigate le strade del mare? Vagate per commercio o alla ventura,
come i predoni sul mare, che errano mettendo in pericolo le loro vite, portando agli
altri malanno?». Va notato che le stesse parole vengono pronunciate anche dal re di
Pilo Nestore, quando alla sua reggia giunge Telemaco con alcuni compagni; tuttavia – posto che, come abbiamo detto poco fa, nel mondo di Omero il rischio
di trovarsi di fronte dei pirati era reale –, è significativo che Nestore, nel pieno
rispetto delle regole dell’ospitalità, formuli la domanda dopo aver accolto e rifocillato
il suo ospite, e non prima, come invece fa il Ciclope.
L’esordio infelice di Polifemo, con il suo mancato rispetto della normale sequenza
tra silenzio e parola, è notoriamente preludio di un banchetto snaturato e orribile.
A Ulisse, che supplica ospitalità, Polifemo risponde imbandendo, solo per se stesso,
una cena a base di carne umana: quella dei poveri compagni di Ulisse che egli afferra
e sfracella a terra con le sue possenti mani, che fa a pezzi in una sorta di sacrificio
sui generis e divora poi crudi, senza lasciare indietro neppure un pezzetto. La triplice aberrazione
rispetto al banchetto tradizionale – le vittime immolate sono umane anziché animali,
la carne viene mangiata cruda anziché arrostita, il pasto non è consumato in compagnia
– non potrebbe descrivere meglio la sua empietà.
Manca ancora un particolare per concludere la descrizione del quadro: Polifemo innaffia
le pietanze con il latte puro munto dalle capre che vivono con lui nella grotta. La
cosa non stupisce: il mostro monocolo, che non conosce l’ospitalità, naturalmente
non conosce il vino che dell’ospitalità è il simbolo principe.
«Ospite» in greco è xenos; parola ambigua, perché essa significa anche «straniero», ergo potenziale «nemico» (tanto che in latino il «nemico», l’«ostile», è hos-tis, termine strettamente imparentato, a livello etimologico, con hos-pes, «ospite»). Il lessico basta da solo a mettere in luce le due diverse facce di una
stessa medaglia, e al contempo mostra come per gli antichi – ed evidentemente non
solo per loro – la diffidenza nei confronti degli stranieri fosse un sentimento oggettivo,
naturale. Era tuttavia altrettanto naturale, almeno per Omero, fare dello «straniero»
un «ospite»: bastava porgergli una coppa di vino, ammetterlo alla tavola, bere e mangiare
insieme a lui.
Ma, almeno nella dais (ossia nel banchetto aristocratico), la xenía va ben al di là di una semplice offerta di ristoro. Qui, quando i convitati hanno
terminato di bere e di mangiare, dopo che le coppe sono state ulteriormente riempite,
il silenzio che ha dominato il pasto viene interrotto dalla conversazione tra ospitato
e ospitante; è questo, come sappiamo, il momento giusto per domandare allo straniero
chi sia e da dove venga, e, nel caso, per promettergli di compiere ciò che egli è
giunto a chiedere. Tale promessa è poi resa solenne – oltre che da un’ulteriore, immancabile
bevuta – da uno scambio reciproco di doni, oppure, quando lo straniero non abbia nulla
con sé, dalla consegna univoca di doni all’ospite, con la tacita intesa che questi
ricambierà quando potrà. Gli oggetti scambiati nella dais, tra cui in primis vino di eccellente qualità, crateri e coppe preziose, non servono solo a fare sfoggio
di ricchezza o di generosità; essi sono soprattutto il segno solenne e tangibile del
fatto che le due parti hanno raggiunto un accordo, hanno siglato un’alleanza, hanno
stretto un’amicizia destinata a vincolare non soltanto loro, ma anche le generazioni
successive. A questo proposito non si può non pensare al celebre episodio dell’incontro
sul campo di battaglia tra il troiano Glauco e il greco Diomede: i due eroi stanno
per affrontarsi a duello quando riconoscono di discendere da famiglie legate da un’antica
ospitalità; non solo, dunque, evitano il combattimento, ma decidono anche di rinnovare
il patto dei loro antenati con un nuovo scambio di doni: «si presero le mani e si
scambiarono un gesto di fedeltà; allora però Zeus figlio di Crono tolse il senno a
Glauco, che scambiò con Diomede figlio di Tideo armi d’oro con armi di bronzo, cento
buoi contro nove buoi».
Non è difficile riconoscere in questa reciprocità – fatta di «dono e contro-dono»,
secondo la celebre definizione del sociologo e antropologo francese Marcel Mauss –
una forma primigenia di accordo internazionale di non belligeranza. Peraltro, il meccanismo
omerico del «dono e contro-dono» sottende un altro, importante significato, al quale
è necessario fare almeno un accenno: esso fornisce infatti la chiave indispensabile
per comprendere il valore del simposio nell’età successiva.
Il banchetto e gli «uguali»
Quando Achille decide di ritornare a combattere con gli Achei per vendicare la morte
di Patroclo, sua madre Teti chiede a Efesto di fabbricare per lui nuove armi; il fabbro
divino si adopera soprattutto per istoriare riccamente uno splendido scudo, sul quale
raffigura, in particolare, una scena di aratura e una scena di mietitura. Nella prima
gli aratori, intenti a spingere l’aratro per lavorare un terreno grasso e fertile,
ricevono una coppa di vino dolcissimo ogni volta che completano il giro del campo;
nella seconda i mietitori portano fasci di spighe al re, posto nel centro, il quale
provvede poi a dare loro in cambio, come pranzo, «molta bianca farina».
In un interessante studio di qualche anno fa John Rundin, ricorrendo alle teorie economiche
sviluppate da Karl Polanyi, commentava la seconda scena osservando che essa è caratterizzata
da un movimento dei beni «verticale», dapprima centripeto, verso il re che riceve
le spighe dai mietitori, e quindi centrifugo, verso i mietitori che ricevono «molta
bianca farina» dal re; e concludeva che il meccanismo economico qui operante, quello
della (re)distribuzione, presenta anche chiare implicazioni politiche, perché presuppone
un modello di società gerarchicamente strutturato, in cui la figura regale – e centrale
– ha il controllo delle risorse e del potere. Un simile schema può essere applicato
anche alla scena dell’aratura, anche se in essa la distribuzione del vino non parte
dal centro bensì dai limiti del terreno che i lavoranti raggiungono a ogni giro; comunque
sia, si tratta anche in questo caso di un movimento «verticale», che riceve impulso
da chi sovrintende al lavoro nei campi.
Ora, è evidente che a tale verticalità si contrappone l’orizzontalità tipica dello
scambio reciproco di doni nel banchetto. Non solo: mentre la verticalità rimanda a
una gerarchia, l’orizzontalità è sinonimo dell’uguaglianza tra i convitati, come prova
il fatto che Omero qualifica spesso la dais con l’aggettivo eíse, variante di ise, «uguale». Non si tratta tuttavia di una uguaglianza in senso assoluto: essa riguarda
solo una élite, composta di individui pari per grado, che hanno ben più del necessario e possono
permettersi di privarsene, donandolo. La partecipazione alla dais, anzi, è uno dei tratti distintivi dell’appartenenza alla élite; quando Ulisse, durante il suo viaggio nel regno dei morti, domanda alla madre Anticlea
della posizione sociale di suo figlio Telemaco, la donna lo rassicura: il giovane
non è caduto in disgrazia, ma «si gode le tenute regali e banchetta alla dais eíse».
L’uguaglianza della dais, insomma, si applica a un gruppo circoscritto; è un’uguaglianza letteralmente «esclusiva»,
perché da essa sono tagliati fuori tutti coloro che non partecipano della ricchezza
e del potere. Pertanto, non vi rientrano gli individui di bassa estrazione sociale,
e – tranne in casi sporadici e notoriamente eccezionali, come quello di Arete, moglie
del re dei Feaci Alcinoo – non vi rientrano neppure le donne.
A questa idea ristretta di uguaglianza rimangono ben ancorati, almeno nelle occasioni
conviviali, i Greci di età successiva.
Bere vino e dire discorsi
Il sole è tramontato. La servitù, prima impegnata a servire la cena, è ora intenta
a spazzare il pavimento, per ripulirlo dei resti del cibo. Addossati alle pareti della
sala, rettangolare o quadrata, si scorgono dei divanetti ben imbottiti e riccamente
decorati: sono le klinai, i letti sui quali tra breve si accomoderanno, sdraiati sul fianco sinistro, da soli
o due a due, il padrone di casa e i suoi amici, per proseguire a oltranza la serata.
Dopo essersi lavati le mani con l’acqua attinta dalle brocche, e dopo aver incoronato
il capo con ghirlande di edera o di vite – le piante sacre a Dioniso, il dio del vino
–, essi si intratterranno in lunghe conversazioni, destinate a protrarsi fino a notte
fonda, se non fino all’alba del nuovo giorno; nel frattempo, coccolati dalla musica
di una lira o di un flauto doppio, berranno vino.
Questa bevuta collettiva, segnata da una netta cesura rispetto alla precedente e non
alcolica consumazione del pasto, è una delle consuetudini più piacevoli a cui molti
Greci amano dedicarsi; un momento che è allo stesso tempo di spensierato abbandono
e di ferrea obbedienza a regole stabilite, e che racchiude in sé, per molti aspetti,
l’essenza della società e della cultura ellenica. Questo «bere insieme», syn-pínein, è il simposio: la più tipica tra le molte occasioni in cui i Greci amavano gustare
vino.
Per parlare di simposio dobbiamo mettere da parte Iliade e Odissea. Omero, infatti, non solo ignora la parola «simposio», ma non conosce neppure i rudimenti
della pratica e dell’etica simposiale, che fanno capolino a cavallo tra il VII e il
VI secolo a.C. con i primi poeti lirici (ne parleremo tra breve). Tuttavia, una seppur
vaga idea di quello che in età successiva evolve a vero e proprio simposio non gli
è del tutto estranea. Anche se notoriamente nei suoi banchetti non esiste soluzione
di continuità tra il momento dell’assumere cibo e quello del sorseggiare vino, è però
vero che spesso il vino rimane unico protagonista dopo che il pasto è terminato: soddisfatto
il «desiderio di cibo e di bevanda», il padrone di casa può ordinare di mescolare
nuovo vino nei crateri e di riempire ad libitum le coppe dei suoi ospiti. La bevuta che segue fa da sfondo a contesti differenti:
si possono rivolgere preghiere agli dei, si può conversare, si possono prendere decisioni.
Nella più recente Odissea, poi, il bere insieme non di rado è presentato come un’abitudine dei nobili convitati
che, dopo il pranzo o la cena, gustano vino e nel frattempo ascoltano aedi che al
suono di una cetra cantano avventure di eroi: questo accade tra i Proci che a Itaca
oziano nella reggia di Ulisse, come pure a Scheria, l’isola dei Feaci, dove Alcinoo
e i suoi uomini proseguono volentieri il banchetto alzando coppe, allietati dai canti
dell’aedo Demodoco. Dopocena alcolici, nobiltà, sale dedicate, invocazioni agli dei
e canto: alcuni dei tratti essenziali del simposio si stagliano con chiara evidenza
già nelle corti omeriche.
Ma che cosa è il simposio? Non è semplice fornirne una definizione univoca e lineare,
capace di dare conto delle sue molteplici sfaccettature; esso può assumere forme diverse
sulla base delle occasioni e del luogo (pubblico o privato) in cui si svolge, e la
cornice su cui insiste può variare da città a città e cambiare, spesso in modo sensibile,
nel lunghissimo arco di tempo in cui esso rimane vitale. Per questo ci limiteremo
qui a parlare della forma più tipica, rilevante e meglio conosciuta: quella del simposio
privato aristocratico.
Il simposio è innanzitutto un rito, di natura insieme religiosa e sociale, provvisto,
come ogni rito che si rispetti, di un preciso codice di comportamento. A segnare il
suo inizio è una libagione alla divinità, seguita da un brindisi reciproco tra i partecipanti,
e, quindi, da un sorso di vino puro. I simposiasti scelgono poi, mediante sorteggio,
un simposiarca, il loro «capo», che detta le modalità di svolgimento del simposio:
è lui a stabilire la proporzione tra acqua e vino (perché il vino, per i Greci come
per i Romani, si beve solo diluito), l’intervallo tra una bevuta e l’altra, la quantità
di vino da bere e il tema della conversazione destinata ad accompagnare la serata.
Mescolato con le prescritte parti di acqua nel cratere (alla lettera «contenitore
in cui miscelare»), il vino viene versato tramite una sorta di caraffa con beccuccio
chiamata oinochóe («recipiente per versare») nelle singole coppe, di solito a due manici; l’ordine
della distribuzione procede rigorosamente da sinistra a destra, nella direzione che
si riteneva essere di buon auspicio.
Dopo aver ricevuto una coppa ricolma, i simposiasti iniziano a discorrere del tema
proposto. Nessuno può astenersi dal vino e dalla conversazione, che formano l’uno
con l’altra un binomio indissolubile: presenziare al simposio da semplici spettatori
è, semplicemente, inconcepibile. Come ricorda Plutarco, autore greco del I-II secolo
d.C., la principale finalità del simposio è il rafforzamento del vincolo di philía, «amicizia», tra i partecipanti; e, proprio come i lottatori usano la sabbia per
avere migliore presa sul loro avversario, così i simposiasti devono affidarsi al vino
mescolato alle parole per «rafforzare la presa» sugli amici. Chi manca di farlo partecipa
al simposio solo per riempire la pancia, non per arricchire l’anima.
Bere tra «uguali»
Chi ha pensato che questa compartecipazione di phíloi, «amici», al bere e al discorrere insieme presupponga ed esprima una comunità di
uguali – che istintivamente ricorda la dais eíse omerica – ha pensato bene. Il simposio è in effetti profondamente improntato a un
principio ideale di uguaglianza, che si manifesta sotto molteplici aspetti.
Primo tra tutti, quello architettonico: nella sala ove esso si svolge le klinai sono disposte lungo i muri, in modo da essere tutte equidistanti dal centro; nessuno,
dunque – né il padrone di casa, né l’ospite particolarmente in vista –, occupa una
posizione privilegiata.
Il secondo aspetto dell’uguaglianza è di tipo ideologico: il posto d’onore nel mezzo
della sala, verso il quale lo sguardo di tutti gli invitati converge, è riservato
al cratere con il vino, che, a sua volta, viene identificato con il dio che ne ha
fatto dono agli uomini, Dioniso. Ora, i simposiasti non solo attingono dal centro
il loro vino allo stesso modo e nella stessa quantità; tutti quanti, con l’atto del
bere, assimilano la divinità e in questo modo diventano parte della «comunione» intima
con il dio: che è poi quel che succede nella «comunione» cristiana, la quale presuppone
anch’essa una comunità di uguali e dove, non a caso, lo strumento che permette la
realizzazione dell’uguaglianza è ancora una volta il vino, simbolo, insieme al pane,
di Gesù e del suo sacrificio.
Ancora, l’uguaglianza del simposio è un’uguaglianza sociale: a esso, che si svolge
nella parte della casa riservata agli uomini (l’andrón), sono ammessi solo individui liberi di sesso maschile, gli stessi legittimati a
partecipare attivamente alla vita politica della città. Sono dunque rigorosamente
escluse le donne, o almeno le donne perbene e oneste che appartengono a una famiglia,
e che sono, ovvero sono destinate a essere, mogli e madri di cittadini. Come vedremo
meglio nel capitolo 6, le uniche figure femminili autorizzate ad accedere alla sala
del simposio sono le etère, cortigiane appositamente retribuite per intrattenere gli
ospiti con musica e canto, oltre che con prestazioni sessuali: è chiaro, tuttavia,
che del simposio le cortigiane non sono protagoniste, ma semplici personaggi di contorno,
indispensabili strumenti per la sua buona riuscita.
Non tutti i maschi liberi e adulti, comunque, sono ammessi al simposio indiscriminatamente:
gli «uguali» che prendono parte a esso formano un gruppo esclusivo con caratteristiche
ben definite. Prima di considerare più da vicino queste caratteristiche, tuttavia,
dobbiamo prenderci una momentanea pausa dal vino e aprire una indispensabile parentesi
che chiarisca meglio che cosa i Greci intendevano quando parlavano di uguaglianza.
Forme diverse di uguaglianza
Per affrontare questo tema dobbiamo iniziare con una scontata ma necessaria premessa:
solo in tempi molto recenti (e purtroppo in una parte ancora circoscritta del mondo)
l’uguaglianza ha iniziato a essere concepita in termini assoluti, come fatto che prescinde
da differenze di nascita, di ricchezza, di sesso, di cultura, di credo politico o
religioso. In passato naturalmente non era così, e l’antica Grecia non faceva eccezione:
per quanto ampiamente essa fosse intesa, e per quanto essa variasse anche sensibilmente
in base all’ordinamento costituzionale proprio di ciascuna polis, l’uguaglianza escludeva gli schiavi, le donne – gli uni e le altre di regola considerati
inferiori per natura – e chi non apparteneva alla comunità cittadina: gli stranieri
erano «diversi», dunque automaticamente «non uguali». Anche questa uguaglianza relativa,
comunque, non era univoca: comprenderne qualche ulteriore aspetto è necessario per
capire più a fondo l’etica simposiale.
È indubbio che l’«uguaglianza» sia il principio attorno al quale le città greche,
a prescindere dalla loro costituzione, costruiscono la propria identità. E, come è
ben noto, l’uguaglianza nella sua forma più completa e radicale, almeno per i tempi,
viene raggiunta ad Atene nel V secolo, con l’affermazione della democrazia: chiunque
sia maschio, libero, maggiorenne e cittadino (ossia, a sua volta, nato da due genitori
cittadini) può partecipare alla cosa pubblica; non importa che sia ricco o povero,
nobile o di bassi natali. Molti termini del linguaggio politico ateniese sono in effetti
composti con isos, che, come già sappiamo, significa «uguale». L’assemblea a cui tutti i cittadini
partecipano è il luogo della isegoría, «uguaglianza di parola», perché in essa chiunque abbia qualcosa da dire o da proporre
nel pubblico interesse può farlo. L’ordinamento di Atene garantisce la isonomía, «parità di diritti», nel senso che tutti i cittadini hanno uguale diritto di partecipare
alla vita della polis. Le leggi scritte assicurano ise dike, «parità di giustizia», e dunque uguaglianza di fronte alla legge per il ricco e
per il povero. Vi è un noto passo di una tragedia di Euripide, le Supplici, in cui il re di Atene, Teseo, usa proprio questo argomento per esaltare i meriti
e la giustizia della democrazia e screditare la tirannide, nella quale all’assenza
di giustizia corrisponde l’assenza di uguaglianza: «quando le leggi sono scritte,
il debole e il ricco hanno pari diritti, ed è possibile per il povero, qualora egli
si senta offeso, replicare al facoltoso: l’umile prevale sul potente, se ha dalla
sua la giustizia». Ancora, Pericle – lo statista che porta la democrazia di Atene al suo massimo splendore
–, nel suo famoso discorso per commemorare i caduti del primo anno della guerra del
Peloponneso (431 a.C.), ricorda che il più grande merito della costituzione di Atene
sono le leggi, che prevedono per tutti «uguaglianza», to ison: «per il fatto che la nostra costituzione opera non nell’interesse di pochi ma dei
più, essa si chiama democrazia; per quanto riguarda gli affari privati, di fronte
alle leggi a tutti spetta to ison».
Ancora, proprio come abbiamo osservato per il simposio, l’uguaglianza della democrazia
ateniese si esprime anche attraverso le forme architettoniche: il luogo in cui si
riunisce l’assemblea dei cittadini è semicircolare, in modo che la postazione dei
partecipanti sia relativamente equidistante dal centro, occupato solo da chi voglia
proporre qualcosa di utile nell’interesse collettivo. Un altro dei luoghi simbolo
dell’Atene democratica è il teatro, a cui tutti i cittadini hanno non soltanto il
diritto, ma anche il dovere di partecipare, perché assistere alle rappresentazioni
era considerata un’esperienza formativa e «politica». Ebbene, anche il teatro ha forma
semicircolare: gli sguardi degli spettatori convergono ancora una volta verso il centro,
in direzione dell’attore che con la sua performance insegna ai presenti come essere
cittadini migliori.
Tra l’uguaglianza del simposio e quella della democrazia, che si esprime al suo massimo
grado nell’Atene classica, la contiguità sembra essere strettissima; l’uno e l’altra
prevedono che tutti i partecipanti siano posti sullo stesso piano, l’uno e l’altra
si sviluppano in luoghi la cui forma strutturale richiama la medesima idea di parità.
Eppure, tale somiglianza è solo apparente. Proprio la relatività, e la conseguente
multiformità, del concetto antico di uguaglianza, fa sì che simposio e democrazia
poggino su due forme di uguaglianza tra loro disomogenee.
Mogens Hansen, uno dei massimi studiosi contemporanei della democrazia di Atene, ha
messo bene in chiaro che i valori ugualitari alla base dell’ideologia democratica
– ison, isonomía e isegoría – sono limitati alla sfera politica, senza estendersi mai a quella economica, sociale
o ideologica. Per capire meglio questa distinzione, è opportuno ritornare per un attimo
ai banchetti di Omero e passare velocemente in rassegna l’evoluzione del concetto
di uguaglianza in Grecia.
Quando abbiamo parlato della dais, il banchetto aristocratico dei poemi epici, abbiamo ricordato che essa è qualificata
dall’aggettivo ise: è un banchetto di «uguali», la cui uguaglianza è tuttavia definita dalla disponibilità
di beni e dallo stato sociale privilegiato che la ricchezza assicura. Nel successivo
sviluppo storico, l’idea di uguaglianza continua a farsi strada su di un terreno decisamente
ristretto, oligarchico o aristocratico: basti pensare che nella costituzione spartana,
additata come modello perfetto di oligarchia, il potere politico è in mano a un gruppo
esiguo di cittadini di pieno diritto, gli Spartiati, che – guarda caso – si definiscono
Hómoioi, gli «Uguali». Anche ad Atene il principio della isonomía attecchisce in primis in ambito aristocratico: i nobili Armodio e Aristogitone, passati alla storia come
«tirannicidi» perché intorno al 514 a.C. uccidono il tiranno Ipparco, figlio di Pisistrato,
vengono osannati per aver liberato Atene e averla resa isónomos. Ora, visto che a quell’epoca la democrazia non esiste ancora, è evidente che l’isonomía si innesta proprio su un contesto fortemente elitario.
Solo più tardi, almeno ad Atene, la nozione di uguaglianza viene intercettata dall’ideologia
democratica e diviene cavallo di battaglia dei fautori della democrazia.
La valenza originaria di un’uguaglianza per pochi, tuttavia, non si cancella, e anzi
continua a manifestarsi molto chiaramente in alcuni ambiti specifici. E uno di questi
è proprio il simposio.
Quel che può fare una coppa di vino:
il simposio, fucina di cospiratori...
Sin dai tempi più antichi della formazione delle prime città-stato, intorno all’VIII-VII
secolo a.C., gli appartenenti all’aristocrazia prendono l’abitudine di unirsi in gruppi
contraddistinti da interessi condivisi, da esperienze comuni e da un orientamento
politico simile; tali gruppi, chiamati eterìe, assumono il simposio come luogo di
ritrovo privilegiato per rafforzare il loro vincolo di solidarietà e di philía, «amicizia». Tra una coppa di vino e l’altra, essi discutono degli argomenti più
disparati: di giovinezza, di vecchiaia, di amore, di guerre; non di rado, accompagnandosi
con una lira, esprimono il loro pensiero in forma di poesie. Di queste sono giunti
fino a noi molti frammenti, che formano il genere della poesia lirica («accompagnata
dalla lira», appunto); sfogliandoli, non è raro imbattersi in versi che parlano con
tono acceso e partecipato di questioni politiche.
I componimenti che rivestono per noi l’interesse maggiore sono soprattutto quelli
di Alceo, poeta conterraneo e contemporaneo di Saffo, vissuto a Mitilene, nell’isola
di Lesbo, a cavallo tra il VII e il VI secolo a.C. La città, al pari del resto di
molte altre poleis greche, sta vivendo un fase politica estremamente travagliata, caratterizzata da forti
contrapposizioni tra il popolo, che fa pressione per ottenere maggiori diritti, e
l’aristocrazia dominante; per dirla con un altro poeta lirico, Teognide, lo scontro
era tra kakói, «cattivi», e agathói, «buoni»: due aggettivi sufficienti a far capire quale fosse l’atteggiamento dei
nobili «buoni» verso i «cattivi» che non appartenevano alla casta. In questo clima
di tensione non era raro che a prendere in mano il governo della città fosse un týrannos: non tanto un «tiranno» nel senso moderno e degenere del termine, quanto un capo
che riusciva a imporsi, spesso con l’appoggio popolare, e in genere al di fuori della
cerchia aristocratica, ovvero dei meccanismi consueti di attribuzione del potere.
Il nostro Alceo, naturalmente un esponente della nobiltà, nella sua vita ha a che
fare con ben tre týrannoi (tali o da lui definiti tali), che si avvicendano al governo di Mitilene: Melancro,
Mirsilo e Pittaco. I frammenti dei suoi carmi non consentono di ricostruire in modo
preciso le sorti politiche della città, intrecciate indissolubilmente con le sue vicende
personali; tuttavia, essi ci mostrano un uomo che lotta senza risparmio per consentire
agli «uguali» del suo gruppo aristocratico di appartenenza di riconquistare il potere.
E il simposio è la cornice consueta in cui il poeta esprime un vero e proprio manifesto
politico, condiviso con compagni di bevute che, come lui, sono membri di un’eterìa
politicamente molto impegnata.
Alceo saluta trionfante la morte di Mirsilo, e nell’occasione invita gli amici non
solo a bere ma addirittura a «ubriacarsi e bere a forza»: è il celebre nyn chre methýsthen, in seguito ripreso dal poeta latino Orazio con il più pacato nunc est bibendum, «ora dobbiamo bere», nell’incipit dell’ode che celebra la morte di Cleopatra (ne riparleremo nel capitolo 4). La morte di Mirsilo è il momento da tempo atteso per mettere in atto il piano che
l’eterìa ha architettato, e consacrato con un solenne giuramento, in modo da impedire
il ritorno della tirannide. Qualcosa, tuttavia, va storto; e la cosa più terribile
è che la responsabilità del fallimento del piano è proprio di un membro dell’eterìa,
il quale finisce per violare i patti e prendere il potere. Costui è Pittaco, il traditore
contro il quale Alceo si scaglia con forza e che apostrofa, con un tono che non potrebbe
essere più sprezzante, come «bastardo», «týrannos» di una città maledetta e vigliacca. Non potrebbe esservi onta più imperdonabile del venir meno a un giuramento, dell’abbandonare
i compagni e del cessare di difendere gli interessi dei pochi «uguali».
Per fortuna, la cura passeggera ma infallibile per allontanare la delusione bruciante
della sconfitta è sempre lui, il vino.
... e di rivoluzionari
Le eterìe aristocratiche non sono solo un fenomeno circoscritto all’età arcaica (quella
di Alceo e compagni, per intenderci); esse continuano a ritrovarsi intorno a coppe
di vino per moltissimi anni, animate dallo stesso spirito di uguaglianza elitaria
e velleità di potere dei tempi più antichi. Sono vitali soprattutto nella democraticissima
Atene del V secolo a.C., che tollera la loro presenza in base a quel principio del
«vivere e lasciar vivere» di cui gli Ateniesi vanno fieri. Per diverso tempo, in effetti,
le loro attività rimangono nell’ombra e le loro riunioni non giungono mai a costituire
un pericolo per la democrazia. È nel 415 a.C. che i drinking groups ritornano prepotentemente alla ribalta, per imprimere un segno carico di conseguenze
per la storia della città.
Da una quindicina di anni Atene è impegnata a combattere Sparta nella guerra del Peloponneso.
Sin dalle fasi iniziali il conflitto non era andato secondo i piani degli Ateniesi,
che avevano visto ben presto sfumare le loro speranze di una facile e veloce vittoria
sugli avversari. Dopo aver sottoscritto un precario trattato di pace nel 421, gli
Ateniesi decidono, di fatto, di riaprire le ostilità proprio nel 415, quando ricevono
una richiesta di aiuto da parte della città siciliana di Segesta, da tempo in lotta
con Selinunte e Siracusa, alleate di Sparta. Quale migliore occasione per conquistare
la Sicilia, isola ricchissima, e risollevare così le sorti delle stremate finanze
ateniesi? Anche se l’idea non piace a buona parte dell’opinione pubblica, l’assemblea
dei cittadini è infine convinta a votare l’invio di una consistente flotta da Alcibiade,
nobile esponente della jeunesse dorée, uomo bellissimo, spregiudicato, amante dei simposi, desideroso di potere ed estremamente
carismatico. Insomma, uno di quegli individui con tutte le carte in regola per poter
essere un politico doc.
Proprio quando le navi stanno per partire dal Pireo, tuttavia, si succedono, a brevissima
distanza l’uno dall’altro, due fatti che gettano presagi molto foschi sull’imminente
spedizione e che non lasciano dubbi su una prossima vendetta divina. Una mattina di
giugno, al loro risveglio, gli Ateniesi trovano mutilate diverse Erme, statue con
le fattezze sommarie del dio Hermes (il protettore dei viaggiatori), sparse nei crocicchi
e nelle strade della città. Le persone che offrono la loro testimonianza per ricostruire
l’accaduto rivelano che al contempo, in alcune case private, sono stati profanati
i Misteri di Eleusi in onore delle dee Demetra e Persefone: riti noti solo a un gruppo
ristretto di iniziati, che era dunque vietato, sacrilego, «profanare», ossia rivelare
a chi iniziato non era.
Tucidide, lo storico greco che è la nostra principale fonte di informazione per la
guerra del Peloponneso, riferisce che i testimoni non esitarono ad addossare la responsabilità
dell’accaduto su dei giovani che non erano nuovi a questo genere di imprese, e che
erano soliti agire nei simposi, «tra scherzi e vino». Inutile dire che tra quei giovani vi era anche Alcibiade. Dopo varie vicissitudini,
chiamato a presentarsi in tribunale per difendersi da un’accusa di empietà, Alcibiade
preferisce però darsi alla macchia. Poco dopo, venuto meno il suo leader e il suo
più convinto fautore, la spedizione siciliana si conclude con un disastro, preludio
tanto della disfatta di Atene nella guerra del Peloponneso, quanto anche del definitivo
declino politico della città.
Dobbiamo soffermarci ancora un po’ sul nesso tra i due episodi del 415 (mutilazione
delle Erme e profanazione dei Misteri) ed eterìe simposiali. Tucidide non è l’unico
a raccontare come si svolsero i fatti e chi fu denunciato come autore. Tra coloro
che furono accusati di avervi preso parte vi era anche un famoso oratore, Andocide,
anche lui, al pari di Alcibiade, esponente di una tra le famiglie più in vista di
Atene. Deciso a collaborare con la giustizia per avere salva la pelle, Andocide non
solo conferma che l’iniziativa di mutilare le Erme gli era stata comunicata nel corso
di un simposio («mentre bevevamo», come si legge nel suo discorso Sui Misteri), ma aggiunge anche che quell’atto – dal quale egli, a suo dire, si era da subito
dissociato – doveva essere una sorta di prova, in greco pistis, «segno di lealtà».
Sappiamo che «prove» come queste non erano infrequenti nei gruppi aristocratici, e
potevano essere ben più audaci del danneggiamento di statue: Tucidide racconta per
esempio che un giorno gli oligarchici di Atene e quelli di Samo avevano deciso di
uccidere un uomo proprio al fine di scambiarsi reciproca pistis. La pistis è insomma un’azione che per la sua stessa spregiudicatezza è dotata di forza vincolante,
proprio come il giuramento di Alceo e dei suoi amici di cui abbiamo parlato poco fa;
è lo strumento che serve a rendere il gruppo ancora più compatto, che differenzia
i suoi membri dal resto della comunità, che testa nel modo più forte la fede dei suoi
componenti. Tradire l’eterìa, nell’Atene del V secolo a.C. proprio come nella Lesbo
di Alceo di due secoli prima, è atto gravissimo; e Andocide, che si risolve a farlo
per mettere in salvo se stesso e i suoi cari, non esita a dire che è terribile dover
scegliere tra eterìa e famiglia, perché venir meno alla fedeltà giurata ai compagni
di eterìa può essere considerato pari al commettere un parricidio.
Ma qual è la finalità del legame indissolubile sancito dalla parola data, dalla pistis e dalla bevuta che le accompagna? Alceo congiurava con i suoi compagni di eterìa
per restituire il potere al suo gruppo aristocratico; possibile che nell’Atene di
fine V secolo l’obiettivo di Alcibiade & Co. fosse quello di una semplice, per quanto
audace, bravata? Certamente no. Anche in questo caso l’obiettivo è più serio e ha
ancora una volta contenuto politico. Tucidide in effetti riferisce che agli occhi
degli Ateniesi la mutilazione delle Erme era apparsa da subito come «una congiura
(synomosía: ritorneremo tra breve su questo termine) per ordire rivolgimenti politici e per
giungere ad abbattere la democrazia». Alcibiade, del resto, era sospettato di essere il capo della fazione che auspicava
il ritorno a un ordinamento costituzionale di stampo aristocratico; non a caso, quando
decide di fuggire per sottrarsi al processo che deve accertare le sue responsabilità,
egli trova accoglienza proprio nell’oligarchica Sparta.
Nel 415 a.C. il target finale non viene raggiunto; ma le fonti antiche forniscono chiari indizi del fatto
che la mutilazione delle Erme e la profanazione dei Misteri servirono a preparare
il terreno al colpo di stato oligarchico che si concretò quattro anni più tardi, quando,
nel 411, il potere venne tolto al popolo e affidato a un organo ristretto, il Consiglio
dei Quattrocento. La storia degli anni successivi, fino al 404/403, è punteggiata
dall’alternanza tra ritorni alla democrazia e tentativi più o meno riusciti di golpe.
A ordire questi ultimi, naturalmente, vi erano sempre le eterìe simposiali, come sembra
confermare, tra le altre, una fonte a tutta prima insospettabile: la celebre Apologia di Socrate di Platone.
Socrate era stato processato per empietà nel 399 a.C., quando, dopo la sconfitta nella
guerra del Peloponneso e una breve ma drammatica parentesi di governo filospartano,
ad Atene era stato finalmente ristabilito un ordinamento democratico. Le accuse specifiche
mosse a Socrate erano tre: non credere nelle divinità tradizionali della polis, introdurre nuovi dei e corrompere i giovani. Tra autori antichi e storici moderni,
sono in molti tuttavia a ritenere che il vero movente del processo fosse prettamente
politico: Socrate era, ed era stato in passato, un personaggio molto scomodo, che
aveva più volte mostrato segni di insofferenza verso la democrazia, e che era stato
inoltre mentore di alcuni dei più controversi leader oligarchici degli ultimi anni;
quelli, per intenderci, che avevano a più riprese dato vita alle cospirazioni contro
la democrazia (e tra questi, in primis, il solito Alcibiade, di cui Socrate era stato non solo maestro ma anche amante).
Nella dinamica processuale, tuttavia, l’accusa non si avventura mai sul terreno propriamente
politico; e nella sua difesa Socrate fa altrettanto. Nonostante questo, nell’Apologia di Platone – che non è il vero discorso pronunciato da Socrate dinnanzi ai giudici,
ma è comunque una sua verosimile idealizzazione – vi è almeno una frase, brevissima,
in cui l’imputato replica in modo molto chiaro alle accuse sotterranee e indirette
che avevano dato vita alla causa contro di lui. A un certo punto, egli afferma di
non aver mai preso parte a «congiure», in greco synomosíai; synomosíai che, se ripensiamo alla testimonianza di Tucidide a cui accennavamo poco fa, altro
non sono se non le eterìe simposiali. Un’ennesima conferma che sono proprio queste
il vero motore dei putsch antidemocratici.
Per tutto il V secolo il simposio rimane dunque centro di aggregazione vivace di un
numero circoscritto di individui che vantano di essere tra loro «uguali». All’idea
inclusiva di un’uguaglianza popolare, democratica, un po’ superficiale perché si estrinseca
in una pari ma eterogenea partecipazione alla cosa pubblica, i simposiasti contrappongono
un’uguaglianza ben più radicata, fatta di ideali, di esperienze, di sentire e di progetti
affini.
In una società di uguali, essi si sentono senza dubbio più uguali degli altri.
Dal simposio greco al convivio romano: bevute collettive in due mondi agli antipodi
In una domus sul colle Palatino, quartiere ambìto della Roma più antica, il padrone di casa ha
invitato i suoi parenti e gli amici più stretti a un banchetto; vuole celebrare una
ricorrenza importante, come una festa del calendario, una nascita, un matrimonio,
un suo personale successo politico o militare. La tavola è stata imbandita secondo
i dettami della leggendaria frugalitas dell’età repubblicana – con legumi, cereali, formaggio, focacce di farro, un po’ di
carne e di pesce, qualche bicchiere di vino – e tra breve gli ospiti si accomoderanno
per cenare, mettendosi a sedere: l’abitudine di consumare il pasto sdraiati, che pure
è in voga presso i vicini Etruschi, non ha attecchito a Roma. O, almeno, non ancora.
Roma è una piccola città-stato, in tutto simile alle poleis greche; in più occasioni ha avuto modo di dimostrare il proprio carattere militare
alle comunità vicine, quei bellicosi popoli italici che hanno cercato invano di sottometterla.
Ma con le sue guerre non si è mai spinta al di fuori della penisola. La situazione
inizia a cambiare nel corso del III secolo a.C., quando, vittoriosa contro Cartagine,
Roma si affaccia sul Mediterraneo e si appresta a diventare una potenza internazionale,
padrona di un impero destinato a diventare sempre più esteso. Di lì a poco, l’esercito
romano giunge in Grecia e, nonostante le iniziali promesse di garantire libertà e
autonomia alle sue città, la conquista intorno alla metà del II secolo a.C. (per la
precisione nel 146, anno in cui viene distrutta Corinto).
La trasformazione di Roma da città-stato in impero ha naturalmente un impatto fortissimo
non solo sulla politica, ma anche sull’economia e, di conseguenza, sulla quotidianità
dei suoi abitanti. L’importazione massiccia di grano dai territori conquistati e l’arrivo
sul mercato cittadino di generi alimentari che fino ad allora erano del tutto sconosciuti
migliorano e al contempo cambiano, spesso in modo sensibile, il modus vivendi dei Romani; molti di loro abbandonano la sobria dieta quasi-vegetariana degli antenati
e iniziano a concedersi qualche rara prelibatezza.
A scatenare un vero e proprio terremoto è però il contatto diretto con i Greci e con
la loro raffinata cultura. Non che fino ad allora i Romani fossero rimasti del tutto
digiuni di cultura greca, che anzi aveva contagiato, chi più chi meno, moltissimi
dei popoli con cui essi erano venuti in contatto; quella grecità mediata aveva tuttavia
avuto scarso appeal tra gli abitanti di Roma antica. La conquista effettiva della Grecia, invece, produce
una rivoluzione tale da ribaltare i ruoli del vincitore e dello sconfitto; lo dice
bene il poeta Orazio, nei celeberrimi versi in cui ricorda: Graecia capta ferum victorem cepit et artes / intulit agresti Latio, «la Grecia conquistata conquistò il rude vincitore e portò le arti nel Lazio contadino».
Inutile dire che il simposio è una delle manifestazioni culturali greche di cui i
Romani si innamorano di più, e a prima vista. Tra le famiglie più facoltose (non,
dunque, presso il popolo) si diffonde con incredibile rapidità la moda del cenare
«alla greca», sdraiati su letti (klinai) a tre posti che vengono per questo chiamati «triclini» («tre letti», appunto); e
la fortuna dei triclini è tale che «triclinio» passa anche a indicare la sala che
accoglie il banchetto e che non può mancare nelle case aristocratiche che si rispettino,
nelle quali i triclini erano in genere più di uno, sfruttati nelle diverse stagioni
dell’anno a seconda della loro posizione e della vista che da essi si godeva. In men
che non si dica, le ore trascorse nel triclinio diventano, per chi può permetterselo,
essenza di una vita felice e degna di essere vissuta: Cicerone giunge a dire che i
Romani hanno saputo innovare il modello del simposio a cui hanno attinto, tanto che
da semplice occasione di «bevuta collettiva» lo hanno reso momento imperdibile del
vivere comune: convivium (cum-vivere, «vivere insieme»), appunto. Proprio per la loro volontà di condividere la vita,
e non solo un bicchiere di vino – chiosa in una lettera il famoso oratore, non senza
una punta di orgoglioso sciovinismo – i Romani sono ben più saggi dei Greci.
Già da questo slittamento terminologico simposio-convivio si intuisce che, al di là
della posizione sdraiata degli ospiti, tra le due istituzioni vi è una chiara soluzione
di continuità. Si potrebbe giungere a dire, proseguendo la metafora amorosa, che l’innamoramento
dei Romani per il simposio è in realtà più un’infatuazione che un amore vero. Con
buona pace di Cicerone, i Romani non sono stati più saggi dei Greci: hanno attinto
alla forma del simposio e ne hanno fatto qualcosa di diverso. L’etica profonda, le
ferree regole che avevano informato il simposio greco stentano a mostrarsi (se mai
lo fanno) nel suo apparente alter ego. Cerchiamo di capirne i perché.
In primo luogo, nel convivium manca la separazione tra cibo e vino che, come sappiamo, rappresenta uno dei principali
tratti distintivi del simposio. Inutile dire che questa assenza non è solo un fatto
esteriore, ma implica il venir meno dell’intero apparato di norme – nomina del simposiarca,
decisione delle quantità di vino da mescolare con acqua e delle coppe da bere, scelta
del tema di cui discutere – e di concetti – consapevolezza della comunione con il
dio, senso di appartenenza alla medesima comunità – che la cesura posta dai Greci
comporta. Il vino smette i panni del protagonista, per trasformarsi, di fatto, in
semplice comparsa. Non c’è più lui, al centro della sala; c’è invece una tavola ricca
di ogni genere di leccornie, che a tratti lascia il posto a spettacoli di intrattenimento
di vario genere: declamazioni poetiche, balletti spesso lascivi, performance musicali,
esibizioni di acrobati, siparietti di nani e di buffoni. E se anche rimane talora
invalso l’uso di far seguire il banchetto da una finale comissatio – momento dedicato soltanto a solenni bevute, con tanto di nomina di un rex convivii che al pari del simposiarca stabilisce quanto e come bere –, il fatto che essa sia
una semplice appendice di «gozzoviglia» basta a rendere chiara la distanza che la
separa dal simposio.
Ancora, è profondamente diversa nelle due occasioni l’identità dei partecipanti: mentre
al simposio sono ammessi solo gli uomini (le etère, come sappiamo, non rappresentano
un’eccezione alla regola), il convivio apre le sue porte anche alle mogli, che si
sdraiano accanto ai loro consorti (con importanti implicazioni di tipo etico, come
vedremo nel capitolo 6). Anche in questo caso, non si tratta di una differenza veniale:
la presenza di donne al convivio nega in radice una qualsiasi possibile idea di uguaglianza,
che costituisce invece l’elemento portante delle bevute comuni in Grecia.
Una cena a dir poco esuberante
Trimalchione era talmente ricco da non sapere neppure fino a dove si estendessero
i suoi fondi, quanti schiavi lavorassero per lui, a quanto ammontasse la sua disponibilità
liquida. Ma la sua ricchezza aveva una particolarità: egli non l’aveva ereditata dalla
famiglia. Trimalchione, infatti, era nato schiavo e aveva iniziato a fare carriera
e ad accumulare la sua fortuna quando, dopo essere stato affrancato dalla servitù,
era divenuto liberto.
Trimalchione non è un individuo realmente esistito: è il frutto della talentuosissima
penna di Petronio, nonché l’eroe indiscusso di quella sezione del Satyricon nota proprio come Cena Trimalchionis. È però indubbio che di uomini come Trimalchione, al tempo di Petronio (che visse
sotto Nerone), ce n’erano a bizzeffe: da qualche tempo l’amministrazione imperiale
aveva preso al proprio servizio moltissimi liberti che con l’astuzia e l’adulazione
avevano visto crescere esponenzialmente il loro peso sociale e il loro patrimonio,
e che facevano di tutto per mostrare al mondo la fortuna che avevano accumulato e
l’opulenza in cui vivevano.
Il nostro Trimalchione, dunque, allestisce un giorno nella sua immensa e fastosa villa
campana una cena memorabile, apoteosi di pacchianeria e di ostentazione.
Sulla tavola il cibo abbonda, naturalmente, ma non è semplicemente cibo: è spettacolo,
che serve non tanto a nutrire quanto a stupire. Nelle uova di pavone che sembrano
andate a male si nascondono beccafichi immersi nel tuorlo, ben pepati e lardellati;
l’immenso cinghiale portato in tavola cela al suo interno uno stormo di tordi, che
si alzano in volo quando il fianco della bestia viene inciso; dal ventre di un maiale
ancora più grande del cinghiale precedente fuoriescono salsicce e sanguinacci; le
torte e la frutta servite come dolce, non appena vengono sfiorate, fanno schizzare
sugli ospiti una beneaugurante polvere di zafferano. E poi c’è il vino: anch’esso
abbondante e di ottima qualità, che viene però sprecato ben più che gustato, e che
gli ospiti sono addirittura invitati a usare per sciacquarsi le mani.
Le portate e le bevute sono intervallate ora da performance di canto, di danza e di
giochi, ora da intermezzi di filosofia spiccia del padrone di casa, che non manca
di dare sfoggio della sua pseudocultura, acquisita – come lui stesso tiene a dire
– attraverso i libri greci e latini di cui sono strapiene le sue tre biblioteche.
La Cena immortalata da Petronio è la rappresentazione vivida di uno spaccato della società
del suo tempo: quella dei servi che sono divenuti padroni, degli ex poveri che fanno
a gara con i ricchi, dei parvenus che si atteggiano a intellettuali. Certo, non tutti i banchetti del tempo si svolgevano
come quello offerto da Trimalchione; ma è pur vero che esso, seppure in modo parossistico,
riproduce almeno in parte ciò che effettivamente accadeva, o poteva accadere, nel
corso di una cena. Eliminando dalla descrizione petroniana gli aspetti più forzati,
grotteschi e triviali, potremo farci una buona idea di che cosa potevano essere i
convivi romani di età imperiale.
Postazioni e gerarchie
Se confrontiamo la forma del triclinio romano con quella della sala che in Grecia
era adibita al simposio, non notiamo grandi differenze: la struttura architettonica
e la disposizione dei letti, a «U» attorno alle pareti, sono praticamente identiche
nell’uno e nell’altra. Ancora una volta, tuttavia, la somiglianza è solo esteriore:
per i Greci – lo sappiamo – la forma (e in particolare l’equidistanza dal centro)
implicava una precisa sostanza, cioè l’uguaglianza dei simposiasti. Non così per i
Romani, che certo non pensarono a istituire, con il convivium, una compagine di uguali: al convivium è del tutto estranea l’idea della pari partecipazione a un rituale solenne e a una
conversazione condivisa; al contrario, esso è un’occasione per esaltare, sottolineare,
enfatizzare una precisa gerarchia.
La stanza del triclinium ospita in genere tre letti, ciascuno a tre posti. Sulla base della collocazione essi
sono denominati lectus summus («letto più alto»), lectus medius («letto mediano», posto di fronte alla porta di ingresso) e lectus imus («letto più basso»); a sua volta, le tre posizioni di ciascun letto sono dette locus summus («postazione più alta»), locus medius («postazione intermedia») e locus imus («postazione più bassa»). Ora, sui letti gli invitati vengono disposti in base al
loro status sociale: l’ospite d’onore è fatto accomodare a una delle estremità del letto centrale
(imus in medio, chiamato anche, significativamente, locus consularis), quello da cui si godeva di una visuale perfetta degli ambienti adiacenti alla sala
da pranzo: i triclini usati d’estate affacciavano di regola su un lussureggiante giardino.
Il padrone di casa reclina invece nel posto esterno del letto più basso (summus in imo), in modo da poter agevolmente conversare con l’ospite d’onore, che si trova proprio
di fianco a lui, e al contempo controllare i movimenti del personale di servizio da
e verso la cucina. Le altre postazioni sono riservate ai commensali di minore o di
nessuna importanza, spesso invitati solo per consentire all’ospite di far mostra del
seguito di persone su cui egli può contare; non di rado essi sono apostrofati come
umbrae, «ombre», presenze assenti, persone mute utili a riempire i posti vuoti. Tutto questo,
come è evidente, sarebbe stato semplicemente inconcepibile per i simposiasti greci,
i quali – per ripetere le già citate parole di Plutarco – se non mescolano parole
al vino non partecipano realmente al simposio, ma si limitano a riempire la pancia.
Nella distanza tra simposio e convivio si traduce la differenza di fondo tra la società
greca e quella romana. La prima, come abbiamo visto, da sempre incentrata sul principio
dell’uguaglianza (e poco importa che questa fosse variamente declinata a seconda del
contesto specifico – politico, sociale, culturale – di riferimento). La seconda, invece,
da sempre imperniata sull’enfatizzazione delle diversità di rango, di status, di ricchezza: nell’età più antica, tra patrizi e plebei; in seguito, verso la fine
dell’età repubblicana, tra nobilitas senatoria e popolo; infine, tra imperatore e sudditi. Una delle istituzioni più antiche
di Roma è la clientela: e i clientes sono persone di stato libero ma umili, subordinate a un patronus che garantisce loro protezione in cambio di obbedienza e di servigi. Inutile dire
che il numero di clienti su cui il patrono può contare è direttamente proporzionale
al suo prestigio sociale, di cui rappresenta uno tra i simboli più visibili: per questo,
egli non manca di invitarli ai suoi convivi – come umbrae, naturalmente. Se è così, è facile allora capire che la presenza dei clientes, insieme all’eloquente posizione che essi occupano nel triclinio, non fa altro che
perpetuare le forme di ineguaglianza esistenti al di fuori del convivio.
Tentativi, mal riusciti, di imitazione
Eppure, non è raro trovare negli scrittori romani descrizioni compiaciute dell’armonia
che regna nei convivia, ovvero riferimenti alla necessità che essi siano governati da principi alti e nobili,
che a tutta prima possono apparire simili a quelli del simposio greco. Così, per esempio,
il poeta Stazio esalta la generosità dell’imperatore Domiziano, che organizza banchetti
pubblici a cui vengono invitati individui di ogni estrazione sociale: senatori, cavalieri
e plebe, oltre a donne e bambini. Ancora, sono in molti ad auspicare che nel convivio regni l’uguaglianza, o che almeno
tutti gli ospiti ricevano lo stesso trattamento: in una delle sue Epistole, Plinio il Giovane (nipote di quel Plinio che morì osservando l’eruzione del Vesuvio
del 79 d.C.) si vanta del fatto che nei banchetti da lui organizzati egli considera
commensali, nel senso pregnante di «partecipanti alla stessa mensa», anche i liberti,
cioè gli ex schiavi, appartenenti a un rango universalmente riconosciuto come inferiore,
sia sotto il profilo sociale che sotto quello giuridico, rispetto a quello degli ingenui, i «nati liberi».
Affermazioni come queste, tuttavia, hanno valore più retorico che reale e dipingono
una situazione idealizzata che mal si coniuga con il quadro effettivo emergente dal
complesso delle testimonianze disponibili. A tacer d’altro, è sufficiente ricordare
che uno dei più famosi banchetti pubblici di Domiziano fu allestito nell’Anfiteatro
Flavio – il Colosseo –, che nella parte destinata al pubblico era strutturato in modo
tale da accentuare le divisioni sociali anche materialmente, grazie a barriere che
dividevano le sezioni riservate a ciascuna classe, e dove l’imperatore sedeva in una
tribuna preminente e isolata rispetto alle altre, a tutti visibile ma a tutti inaccessibile.
Quanto a Plinio, la cornice nella quale si inscrive la dichiarazione poco sopra riportata
è quella di un convivio in cui il padrone di casa ha fatto servire pietanze di prima
qualità per sé e per gli ospiti più illustri, e cibi scadenti, e in porzioni ridotte,
per quelli di nessuna importanza: comportamento che non rappresenta certo l’eccezione,
ma semmai la regola. Una regola che Plinio contesta a parole, ma nei fatti si guarda
bene dal violare: tant’è che altrove egli dichiara che non vi è nulla di più diseguale
dell’uguaglianza generata dall’annullamento delle differenze tra le diverse classi
sociali. Non potrebbe essere diversamente, del resto, in un mondo in cui gli esponenti del
ceto dominante, dall’alto della loro posizione, fanno a gara per mostrarsi prodighi
verso chi ha di meno e a propria discrezione concedono ora ad alcuni, ora ad altri,
il presunto onore di accedere alle posizioni subalterne della loro tavola. Insomma,
se in apparenza il convivio si ispira all’idea dell’opportunità di promuovere armonia
e uguaglianza, nella realtà esso serve al contrario a rafforzare le gerarchie sulle
quali la società romana si impernia; armonia e uguaglianza si raggiungono quando viene
rispettato il buon ordine che trova il suo fondamento nella disuguaglianza tra le
classi sociali.
Allo stesso modo, non dobbiamo neppure dare troppo peso a chi celebra il convivium come luogo utile a far nascere, a coltivare e a cementare l’amicitia (apparente corrispettivo di quella philía che era principio cardine del simposio greco). Va innanzitutto precisato che, in generale,
il lessico latino dell’amicizia è poco sincero, nel senso che tende volentieri a glissare
su differenze nette, e nettamente percepite, di status. Così, si possono chiamare «amici» gli ex schiavi, benché poi la loro riconosciuta
inferiorità riveli il valore solo formale dell’appellativo. Naturalmente, non possono
che essere apostrofati come «amici» anche i convitati che vengono ammessi al banchetto
in una posizione di subordine, che li esclude dal partecipare alla conversazione,
al cibo e al vino di qualità.
È evidente, tuttavia, che gli amici veri sono altri. O meglio, si pensa siano altri;
perché l’amicizia del convivio non è mai disinteressata, come ben dimostra un epigramma
di Marziale, poeta del II secolo d.C.: «l’amico che la tavola, che la cena ti ha procurato,
lo ritieni forse amico fidato? Lui ama il cinghiale, le triglie, le mammelle di scrofa
e le ostriche; non ama certo te». Marziale, sicuramente, generalizza. Ma in questo suo generalizzare emerge comunque
con chiarezza il fatto che il convivio è soprattutto un’opportunità per mostrare quanto
si vale, per rafforzare legami con persone che contano, per concludere affari e ottenere
sinecure e appoggi politici.
L’intimità profonda e «uguale» creata dai brindisi nei simposi greci è decisamente
acqua passata.
2.
Il vino e il divino
Some people never go crazy.
What truly horrible lives they must lead.
Charles Bukowski, Some people
Il dio che nacque due volte
Semele era figlia di Cadmo, re di Tebe, e di Armonia. Di lei si innamorò Zeus, che,
dopo averla conquistata, non riuscì a nascondere la scappatella extraconiugale a sua
moglie Era. E quest’ultima, come accadeva tutte le volte che scopriva le tresche del
marito, decise di prendersi la sua terribile vendetta: con inganno sottile, suggerì
a Semele di chiedere all’amante di unirsi a lei in tutto il suo possente splendore.
Zeus, che aveva promesso di soddisfare ogni desiderio della fanciulla, dovette accondiscendere,
e si presentò a Semele nelle sue vesti divine, con tanto di tuoni e fulmini, pronto
a consumare l’amplesso; ma la giovane mortale non resse alla vista e morì folgorata.
Poiché era incinta, Zeus estrasse il feto dal ventre materno e lo cucì nella sua coscia
per portare a termine la gestazione. Quando fu tempo, al bambino venuto alla luce
venne dato nome di Dioniso, che, in forza di una diffusa etimologia, significherebbe
proprio «il nato due volte»: la prima dalla madre e la seconda dal padre.
Come molti dei figli generati dalle unioni adulterine di Zeus, Dioniso divenne oggetto
della persecuzione della gelosissima Era, e per questo ebbe un’infanzia tutt’altro
che facile. Per sottrarlo all’ira della moglie, Zeus dapprima lo affidò alla zia materna
Ino, sorella di sua madre Semele; quando però l’ira di Era si abbatté anche su Ino
e su suo marito Atamante – che, resi folli dalla dea, finirono con l’uccidere i loro
figli –, Zeus riuscì a mettere in salvo il piccolo Dioniso in Asia, a Nisa («Dioniso»,
in base a un’altra etimologia, sarebbe proprio «il fanciullo di Nisa»); qui lo consegnò
alle ninfe, e, per nasconderlo meglio, lo trasformò in capretto. Lo stratagemma, tuttavia,
fu ancora una volta poco efficace: Era stanò Dioniso e gli instillò una follia dalla
quale egli infine fu liberato da Cibele, la Grande Madre, signora delle ambivalenti
forze della natura.
Dopo aver scoperto la dolcezza del frutto della vite e aver imparato a produrre vino,
Dioniso iniziò a viaggiare per il mondo in compagnia di un corteo di seguaci formato
da donne, le baccanti o menadi, e da satiri, creature per metà uomini e per metà capri
(l’animale nel quale il giovane Dioniso era stato trasformato da Zeus e che per questo
divenne a lui sacro); ben di rado, tuttavia, egli venne accolto con favore dai re
e dai popoli con cui entrò in contatto. Così, quando giunse in Tracia, il re degli
Edoni Licurgo imprigionò i suoi seguaci e terrorizzò a tal punto lo stesso Dioniso
che questi gli sfuggì gettandosi in mare, dove venne accolto dalla ninfa Teti. Licurgo
dovette scontare a caro prezzo il suo gesto: in un accesso di follia procuratogli
dal dio, convinto di recidere con un’ascia un tralcio di vite, il re uccise il proprio
figlio Driante, e venne successivamente fatto a pezzi dal suo popolo.
Simile sorte toccò a Penteo, re di Tebe e cugino di Dioniso per parte di madre (era
infatti figlio di Agave, sorella di Semele), la cui vicenda è raccontata in una delle
più celebri tragedie greche: le Baccanti di Euripide (ne parleremo nel prossimo paragrafo). Come molti degli abitanti di Tebe,
Penteo negava che Dioniso fosse figlio di Zeus e rifiutava di celebrare il suo culto;
per questo, il dio un giorno si presentò in città sotto le spoglie di un giovane e
rese folli le donne, inducendole ad abbandonare le loro occupazioni e a recarsi sui
monti. Deciso a riportare ordine, Penteo fu infine catturato e dilaniato dalle mani
della sua stessa madre, invasata da Dioniso.
Più fortunati rispetto a Licurgo e a Penteo – come si narra nell’Inno a Dioniso attribuito a Omero – furono i pirati che accolsero Dioniso sulla loro imbarcazione;
poiché lo credevano figlio di un ricco re, essi decisero di metterlo in ceppi, sperando
di ricavarne un cospicuo riscatto. Naturalmente, Dioniso riuscì a liberarsi con facilità
dai legami che lo stringevano, e, prese le spaventose sembianze di un orso e di un
leone, avvolse la nave con tralci di vite e la riempì di germogli di edera; i pirati,
atterriti, si gettarono in mare, dove vennero trasformati in delfini: se i delfini
sono amici degli uomini, è perché essi sono in realtà pirati pentiti.
Non tutti i mortali, tuttavia, furono così ostili nei confronti di Dioniso: una ben
diversa accoglienza gli riservò in Attica il pastore Icario.
Quando ad Atene era re Pandione, l’Attica ricevette la visita di due divinità: Demetra,
che donò agli uomini il grano e insegnò loro a coltivare i campi; e Dioniso, che si
presentò a Icario sotto l’aspetto di un giovane. Per ringraziarlo della sua ospitalità,
il dio gli fece assaggiare il vino che aveva portato con sé e gli spiegò come far
crescere la vite, come lavorarla e come farne fermentare il succo; gli chiese poi
di diffondere tra gli uomini le tecniche apprese. Entusiasta, Icario prese il vino
che l’ospite gli aveva regalato e lo offrì ai pastori suoi amici: la nuova bevanda
piacque così tanto che essi, dopo averne bevuto in quantità smodate, caddero a terra
e sprofondarono nel sonno, ubriachi; al loro risveglio, convinti che Icario avesse
tentato di avvelenarli, decisero di ucciderlo e ne occultarono il cadavere. Il giorno
dopo Erigone, figlia di Icario, non vedendo rincasare il padre andò a cercarlo insieme
alla sua cagnolina Mera. Fu proprio questa a indicare alla giovane il luogo dove Icario
era stato sepolto: la scoperta sconvolse Erigone, che per la disperazione si impiccò
a un albero.
I mortali, comunque, avevano infine ricevuto il dono del vino; un dono preziosissimo,
che, insieme alla spiga di Demetra, permetteva loro di accedere a un superiore livello
di civiltà. Ma, se il pane era del tutto innocuo, lo stesso non poteva dirsi del nettare
dell’uva.
Quel sottile discrimine tra follia ed euforia
Le storie degli dei greci non sono mai lineari, e quella di Dioniso non fa eccezione.
La sua biografia – anche nella forma semplificata in cui è stata qui raccontata, dalla
quale sono stati sfrondati elementi tutto sommato marginali per i fini di questo libro
– basta da sola a far capire che egli è un dio complesso (estremamente complesso!),
e che è inoltre ben lungi dall’essere soltanto il dio del vino.
Dioniso è anche il dio della follia, una follia che egli conobbe in prima persona
per colpa di Era e che imparò poi a instillare negli altri. Quella dionisiaca è una
follia che, a seconda delle circostanze, può fare del bene o del male: nuoce quando
viene usata sui nemici, per far perdere loro il controllo e mandarli in rovina, mentre
è benefica quando è impiegata come strumento che avvicina il fedele alla divinità
– pensiamo alle menadi, le donne del suo corteggio che molto spesso vengono raffigurate
come pazze invasate, con il capo riverso all’indietro in un atteggiamento di totale
abbandono.
Ancora, Dioniso è il dio della vegetazione, o almeno di alcune forme della vegetazione.
Tra le piante che gli sono sacre, oltre alla vite, vi è soprattutto l’edera, che non
solo condivide molte delle caratteristiche fisiche della vite – si insinua, si avviluppa,
si attorciglia –, ma si presenta spesso come manifestazione del dio (come dimostra
la storia dei pirati, nella quale Dioniso riempie la nave dei suoi nemici proprio
con germogli di edera). Senza contare poi che proprio di edera sono fatti i tirsi,
ossia i tipici bastoni che sono attributo inseparabile delle menadi sue seguaci.
Infine, Dioniso è un dio che viaggia, vaga, si allontana e infine ritorna: proprio
come le forze della natura, che periodicamente si ripresentano agli uomini con spettacoli
ora di gioia e di rigoglio, ora di desolazione e di terrore.
Eppure, questa complessità intimamente connaturata in Dioniso è stata ignorata per
molto tempo: fino a quando, cioè, rimase radicata la convinzione (errata!) che gli
elementi caratterizzanti dell’antichità greca fossero l’armonia e l’equilibrio. Ancora
oggi, se ci pensiamo, nel nostro immaginario collettivo Dioniso è soprattutto un giovinetto
placido e benigno, dalle fattezze molli ed effeminate, che porta ai mortali concordia
e joie de vivre: un’immagine che, certamente presente almeno in una parte delle fonti greche di età
classica, si diffuse ampiamente dall’ellenismo all’epoca romana, per essere infine
immortalata da Lorenzo de’ Medici nel Trionfo di Bacco e Arianna: «Questo è Bacco e Arianna, / belli, e l’un dell’altro ardenti: / perché ’l tempo
fugge e inganna, / sempre insieme stan contenti. / Queste ninfe ed altre genti / sono
allegre tuttavia. / Chi vuol esser lieto, sia: / di doman non c’è certezza».
La riscoperta di un Dioniso diverso – non pacifico ma violento e folle, selvaggio
più che civilizzatore – si deve soprattutto a Friedrich Nietzsche, che nella Nascita della tragedia descrive il dio come una forza della natura primitiva, un principio cosmico dal carattere
dirompente. Dioniso, sostiene il filosofo tedesco, è la negazione della razionalità
e dell’ordine rappresentati da Apollo, di quel principio che consente a ogni essere
umano di riconoscere in se stesso una precisa identità: «si trasformi l’inno alla
gioia di Beethoven in un quadro e non si rimanga indietro con l’immaginazione [...]:
così ci si potrà avvicinare al dionisiaco. Ora lo schiavo è uomo libero, ora s’infrangono
tutte le rigide, ostili delimitazioni che la necessità, l’arbitrio o la ‘moda sfacciata’
hanno stabilite tra gli uomini».
Il ritratto più completo e palpabile del lato oscuro del dio si trova senza dubbio
nelle Baccanti, la tragedia scritta da Euripide negli ultimi anni del V secolo a.C., che, come abbiamo
accennato poco fa, tratta della terribile punizione del re Penteo, colpevole di non
riconoscere Dioniso come divinità. Nel dramma l’associazione di Dioniso con il vino,
rimedio per tutti i dolori dei mortali, si presenta come semplice elemento di contorno:
a emergere come tratto caratteristico della divinità è, invece, la follia. Chi è colpito
dalla follia data da Dioniso vive in uno stato di ékstasis, «estasi», che consiste alla lettera in un «uscire fuori di sé»: ma questo «svuotamento
di sé» si risolve poi in quella particolare forma di «riempimento» chiamata enthousiasmós, «entusiasmo», nel senso letterale di «avere dentro il dio». L’individuo che viene
invasato da Dioniso, e che al suo interno fa posto a Dioniso, cessa insomma di essere
se stesso e finisce con il perdere del tutto i suoi tratti caratteristici: le donne
non sono più il «sesso debole», e acquistano l’energia e la forza fisica tipica degli
uomini; i vecchi sentono leggere le loro membra e ringiovaniti i loro corpi, e possono
così partecipare con vigoroso trasporto alle danze movimentate in onore del dio.
La follia che Dioniso procura nelle Baccanti è duplice, al contempo placida e terribile; essa provoca nell’individuo una regressione
– o meglio, una reintegrazione – nel mondo armonioso della natura, per mutarlo d’un
tratto in un essere dalla forza smisurata e devastatrice. Lo si comprende bene ripercorrendo
i versi della tragedia in cui il messaggero, inviato dal re Penteo a spiare e a cacciare
le donne che su impulso del dio si sono rifugiate sui monti, racconta quel che ha
visto. Le menadi vivono tutte insieme, giovani e vecchie, in una comunità perfettamente
ordinata; strette in pelli screziate di cerbiatto, con il capo inghirlandato di edera,
esse maneggiano serpenti che non fanno loro del male, e allattano al seno cuccioli
di animali selvatici. La natura dà loro tutto ciò di cui esse hanno bisogno: percossi
dai loro tirsi, da cui stilla spontaneo abbondante miele, il suolo e le rocce fanno
zampillare vino e acqua, mentre il latte sgorga copioso dalla terra per dissetarle.
Poi, d’improvviso, la trasformazione: i tirsi diventano armi pericolose, mentre le
baccanti, animate da un’energia prodigiosa, si avventano sulle mandrie; con la sola
forza delle loro mani nude, esse fanno a pezzi giovenche e tori – la stessa sorte
che poco più tardi tocca allo stesso Penteo –, si cibano delle loro carni crude e
si lanciano in una corsa impazzata che devasta tutto ciò che le circonda. Infine,
fanno ritorno là da dove sono venute, e, nuovamente mansuete, si lavano via il sangue
con l’acqua delle sorgenti.
È stato sottolineato che ciò che Euripide descrive non sembra affatto essere frutto
della sua immaginazione o della sua creatività poetica: ancora ai tempi del tragediografo
esistevano in Grecia luoghi marginali in cui le donne celebravano Dioniso con rituali
antichissimi, praticamente identici a quelli raccontati nella tragedia (e fenomeni
simili di «menadismo» sono tuttora osservabili in moltissime società, almeno stando
a quel che riferisce Eric Dodds nella prima appendice del suo affascinante lavoro
I Greci e l’irrazionale). Vi era innanzitutto la oreibasía, ossia la salita ai monti circostanti, seguita da musiche assordanti che portavano
a danze sfrenate e contagiose in cui le menadi, in trance, divenivano éntheoi, «invasate dal dio», perdendo del tutto la loro identità individuale. Culmine di
questo stato collettivo di alterazione della personalità era lo squartamento di una
preda viva (in greco sparagmós), seguito dalla consumazione delle sue carni crude ancora palpitanti (homophaghía), che serviva a inglobare la forza dell’animale (anzi, poiché quell’animale era spesso
ritenuto figura di Dioniso, mangiare la vittima significava mangiare dio per diventare,
a propria volta, divini). Si trattava forse, come è stato ipotizzato, di riti con
i quali la società lasciava sfogare la follia potenzialmente presente in ogni individuo
per poterla gestire più facilmente: provocata artificialmente con musica, danze e
regressioni allo stato di natura, e incanalata in rituali specifici, la follia aveva
un inizio e una fine ben definiti. Liberatisi dei loro stress, tutti potevano far
ritorno con più leggerezza alla vita abituale.
La tragedia euripidea conferma dunque le conclusioni di Nietzsche sui caratteri sconvolgenti
di Dioniso e del dionisismo. Conclusioni che rappresentarono un punto di svolta con
il quale tutti, anche i molti accademici che le avevano contestate con forza, non
poterono fare a meno di confrontarsi. Tuttavia, pur con qualche rara eccezione, si
fece molta fatica ad ammettere che un dio dai tratti così inquietanti fosse greco
di nascita: nella persistente convinzione che la Grecia consistesse di ordine e di
misura, si affermò che il Dioniso folle era un infiltrato straniero: non dimostrerebbero
proprio questo i miti relativi al suo arrivo da luoghi esotici? Dioniso sarebbe originario
di regioni lontane e barbare come la Lidia, la Tracia o la Frigia; il suo culto venne
importato in Grecia intorno all’VIII secolo a.C., e dunque in tempi relativamente
recenti.
Una simile teoria è stata tuttavia smentita quando, poco più di una cinquantina di
anni fa, venne decifrata la lineare B, ossia la scrittura degli antichi Micenei –
il primo popolo indoeuropeo che nel II millennio a.C. occupò la Grecia continentale
e l’isola di Creta –; su alcuni dei documenti che riportano questa scrittura, infatti,
si legge chiaramente il nome di Dioniso, a prova del fatto che il dio era ben noto
sin dai primordi della storia dei Greci.
Non solo: già gli autori greci più antichi sono consapevoli della natura duplice e
ambivalente del dio. Nei poemi di Omero, ove pure Dioniso è nominato di rado, egli
è qualificato ora come charma brotóisin, «delizia per i mortali», con un palese richiamo al dolce dono che fece agli uomini,
ora come mainómenos, «folle». Un altro poeta arcaico, Esiodo, da un lato chiama Dioniso polygethés, «dalla molta gioia», dall’altro riconosce la sua ambiguità definendolo charma kai achthos, «gioia e dolore».
Quel che è singolare è che ebbrezza e...