A mio avviso, in generale, nella maggior parte dei paesi si percepisce una corruzione
più grave rispetto a trent’anni fa19. Tuttavia, se misuriamo la corruzione in base al numero di casi di cui si è venuti
a conoscenza, questa impressione potrebbe rivelarsi fuorviante. Può darsi che ad aumentare
sia la capacità di controllare la corruzione e punire i criminali, e non la corruzione
in quanto tale. Oppure, in alternativa, la nostra percezione di un fenomeno in aumento
a livello globale potrebbe essere determinata dal fatto che oggi, molto più che in
passato, disponiamo di informazioni sulla corruzione non solo locale, ma anche nelle
altre parti del mondo. Nessuna delle due possibilità può essere facilmente esclusa.
Per quanto riguarda la prima, non disponiamo di dati affidabili nel tempo sull’applicazione
della legge e, anche se ne avessimo, un aumento del numero di casi di corruzione perseguiti
non potrebbe dirci nulla sull’entità della corruzione o sul rigore con cui si applicano
le norme. Questo perché l’entità della corruzione (il denominatore che vogliamo avere
nel giudicare se l’applicazione delle norme sia migliorata oppure no) è per definizione
sconosciuta. Conosciamo solo i casi di corruzione che arrivano in tribunale, non la
vera portata del fenomeno.
A questa mancanza di conoscenza si può porre rimedio in qualche misura attraverso
indicatori basati su indagini che chiedono il parere di vari esperti sulla diffusione
della corruzione, come il Corruption Perceptions Index elaborato da Transparency International
e i Worldwide Governance Indicators della Banca mondiale. Non si tratta di indagini
sulla corruzione in quanto tale, ma piuttosto su come il fenomeno viene percepito20. Queste, però, sono cominciate solo a metà degli anni Novanta, quando la globalizzazione
era già in pieno svolgimento. Cosa ancora più importante, tali indicatori consentono
solo confronti relativi (la Russia è stata più corrotta della Danimarca in un determinato
anno?), e non l’evoluzione della corruzione nel tempo (la Russia è più corrotta nel
2018 rispetto al 2010?) né confronti cardinali (rispetto alla Danimarca, la Russia
è più corrotta quest’anno di quanto non fosse l’anno scorso?). Questo perché gli indicatori
classificano semplicemente i paesi anno per anno, ma non confrontano i valori da un
anno all’altro. Non possiamo nemmeno dire molto sul fatto che le percezioni delle
persone stesse possano o meno essere influenzate dal maggior numero di casi di corruzione
denunciati, da mezzi di comunicazione più aperti e da una conoscenza più approfondita
della corruzione al di fuori delle loro cerchie ristrette.
Per maggiori informazioni, possiamo fare riferimento alle recenti stime sull’ammontare
dei fondi che prendono il largo verso i paradisi fiscali. Il ricorso a questi rifugi
non è un chiaro indicatore di corruzione, ma un collegamento c’è. Naturalmente, il
denaro ricavato dalla corruzione non deve stare necessariamente nei paradisi fiscali;
può essere «convertito» in attività legittime o, per esempio, essere utilizzato per
acquistare proprietà immobiliari a Londra o a New York. Pertanto, limitandosi a valutare
l’entità dei soli paradisi fiscali si potrebbe sottostimare la corruzione, ma anche
sopravvalutarla, poiché chi fa confluire nei paradisi fiscali il denaro guadagnato
legalmente può anche agire al solo scopo di sottrarlo all’imposizione fiscale. In
entrambi i casi, tuttavia, la gran parte del denaro depositato nei paradisi fiscali
è di provenienza illegale in quanto corrotto o in origine o nelle intenzioni (evadere
il fisco)21. Utilizzando i dati sulle anomalie delle posizioni patrimoniali in vari paesi, Gabriel
Zucman (2013, p. 1322) ha stimato che nel 2008 circa 5900 miliardi di dollari – ossia
l’8 per cento della ricchezza finanziaria globale delle famiglie, equivalente al 10
per cento del Pil globale – si trovavano in paradisi fiscali (tre quarti dei quali
non registrati). La cifra è rimasta stabile dal 2000, anno delle prime stime di Zucman,
fino al 201522. Per definizione, include solo la ricchezza finanziaria e non tiene conto delle molte
altre forme (beni immobili, gioielli, opere d’arte) che può assumere il denaro rubato
oppure anche quello acquisito legalmente, ma sottratto alla tassazione.
Un altro modo per valutare la corruzione è quello di considerare a livello globale
errori e omissioni, una particolare voce della bilancia dei pagamenti di ciascun paese
che riflette in parte errori reali e in parte la fuga di capitali che può essere correlata
ad attività di corruzione interna come la sottofatturazione delle esportazioni o la
sovrafatturazione delle importazioni (così da tenere all’estero la differenza risultante),
e altre transazioni illecite. I dati del Fondo monetario internazionale mostrano che
il valore globale netto di errori e omissioni, che prima della crisi finanziaria globale
del 2008 non era mai andato oltre i 100 miliardi di dollari annui, ha invece superato
una media di 200 miliardi di dollari all’anno nel quinquennio per il quale vi sono
dati disponibili23.
Un altro approccio alla quantificazione della corruzione – o, più esattamente, alla
quantificazione di un dato indiretto per la ricchezza acquisita attraverso le aderenze
politiche – è quello adottato da Caroline Freund nel suo pionieristico libro Rich People Poor Countries: The Rise of Emerging-Market Tycoons and Their Mega Firms
(2016). Freund ha classificato miliardari di tutto il mondo a seconda che la fonte
principale della loro ricchezza sia frutto di un’attività individuale oppure di un’eredità.
All’interno della prima categoria, Freund ha isolato un gruppo di miliardari la cui
ricchezza deriva da risorse naturali, privatizzazioni o altri rapporti con il governo24. La figura 4.2 mostra la percentuale di miliardari (non la percentuale della loro
ricchezza totale) stimata come rientrante in quel gruppo. Nelle economie avanzate,
la quota è di circa il 4 per cento (con un aumento per i paesi anglosassoni e l’Europa
occidentale tra il 2001 e il 2014). Nelle economie di mercato emergenti, la quota
è compresa tra il 10 e il 20 per cento, con l’eccezione di una quota straordinariamente
elevata nel gruppo composto da Europa dell’Est, Russia e Asia centrale, guidato da
miliardari provenienti dalle repubbliche dell’ex Unione Sovietica. Tranne che in quest’ultima
regione (che può essere considerata di gran lunga la più corrotta) e in America Latina,
la percentuale di miliardari che devono la loro ricchezza alle aderenze politiche
è in crescita in tutte le regioni. L’aumento è particolarmente significativo nell’Africa
subsahariana e nell’Asia meridionale (soprattutto a causa dell’India). La quota mondiale
della ricchezza totale dei miliardari, che si stima sia stata acquisita attraverso
agganci con il governo, è aumentata dal 3,8 per cento nel 2001 al 10,2 per cento nel
2014, con, prevedibilmente, la quota più alta in Est Europa, Russia e Asia centrale
(73 per cento), Medio Oriente e Nord Africa (22 per cento) e America Latina (15 per
cento)25.
Figura 4.2. Percentuale di miliardari la cui ricchezza è stimata come derivante da
risorse naturali, privatizzazioni o altri legami con il governo, 2001 e 2014.
I paesi anglosassoni sono l’Australia, il Canada, la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti.
L’Est asiatico sviluppato è stato omesso in quanto il valore in entrambi gli anni
è pari a zero.
Fonte: Dati tratti da Freund (2016, tabella 2.4, pp. 37-38).
4.4a. Tre motivi di corruzione nell’era della globalizzazione
Malgrado l’impossibilità di misurare direttamente la corruzione e la necessità di
affidarsi a dati indiretti, esistono solide basi teoriche per ritenere che la corruzione
a livello mondiale sia maggiore ora di quanto non fosse venti o trent’anni fa, e che
probabilmente continuerà ad aumentare. I motivi, a mio modo di vedere, sono almeno
tre: (a) il capitalismo ipercommercializzato e globalizzato, che misura il successo nella
vita solo ed esclusivamente in funzione del successo economico (argomento che analizzeremo
in maggiore dettaglio nel capitolo 5); (b) l’apertura dei conti capitale, che facilita il trasferimento del denaro tra le giurisdizioni
e il riciclaggio di quest’ultimo quando si tratti di somme rubate o di evadere il
fisco; e (c) l’effetto dimostrativo della globalizzazione, per cui le persone (specie i burocrati)
nei paesi a medio reddito e in quelli poveri ritengono di meritare i livelli di consumo
alla portata delle persone che detengono posizioni simili nei paesi ricchi, un livello
che essi, con le loro misere retribuzioni ufficiali, possono raggiungere solo se arrotondano
con le tangenti. Il punto (a) è fondamentalmente ideologico e generale (vale a dire, si applica ovunque nel mondo
e in linea di principio a tutti); il punto (c) è più ristretto e si applica solo a gruppi selezionati di persone; e il punto (b) è una condizione necessaria, un fattore che facilita la corruzione mondiale.
Vado ad analizzare brevemente questi punti uno per uno.
Limiti alla corruzione dei paesi non integrati nell’economia mondiale capitalista
Do qui per scontato un argomento che elaboro più diffusamente nel capitolo 5: l’iperglobalizzazione
richiede come sovrastruttura intellettuale un’ideologia che giustifichi il fare soldi
(in qualsiasi modo) e in cui il successo economico sia preponderante rispetto a tutti
gli altri obiettivi, con il risultato di creare una società sostanzialmente amorale.
L’amoralità implica che la società e gli individui sono indifferenti riguardo al modo
in cui la ricchezza viene acquisita fintanto che si fanno le cose sull’orlo della
legalità (anche se non in maniera etica), oppure oltre la legalità ma senza essere
scoperti, o in un modo che è illegale in una giurisdizione ma che può essere presentato
come legale in un’altra. In queste condizioni, ne consegue direttamente che vi saranno
forti incentivi ad adottare comportamenti corrotti26. L’obiettivo sarà quello di praticare una corruzione «ottimale» o «intelligente»
che può essere eticamente inaccettabile, ma che è difficile da individuare o addirittura
da classificare come tale. Anche se queste attività fossero considerate corrotte dai
più, ciò non significa che sarebbero legalmente classificate come tali e perseguite
dalle autorità, come per esempio negli Stati Uniti, dove il lobbismo è sempre in bilico
fra legalità e illegalità27. La corruzione viene inoltre favorita dalla creazione di un imponente apparato di
avvocati il cui scopo è quello di consigliare ai clienti come raggiungere al meglio
i loro obiettivi in materia di corruzione senza infrangere apertamente la legge, oppure
violandola in modo minimo. A Londra, per esempio, è attivo un settore legale che si
è adoperato abilmente per consentire a individui corrotti provenienti da Russia, Cina,
Nigeria e molti altri paesi di riciclare il loro denaro in Inghilterra o di utilizzare
Londra come centro di smistamento per riciclarlo altrove.
La diffusione della globalizzazione in tutte le parti del mondo ha avuto un ruolo
decisivo nel facilitare la corruzione. Nei suoi libri essenziali sulla corruzione
in Cina, Minxin Pei spiega come mai il fenomeno fosse pressoché inesistente nella
Cina maoista (Pei 2006, pp. 147-148) e individua diverse ragioni: la capacità delle
persone di monitorare i modelli di spesa dei funzionari locali, che vivevano vicini
ai loro elettori ed erano esposti a periodiche epurazioni (se sospettati di corruzione28 o slealtà); la povertà e la mancanza di merci attraenti che limitavano fortemente
ciò che i funzionari corrotti potevano acquistare con il loro denaro; e l’isolamento
della Cina dal resto del mondo, che rendeva impossibile ai funzionari il trasferimento
del denaro all’estero. L’ultimo elemento era probabilmente il più decisivo.
Il modo in cui un diverso sistema economico così come l’autarchia o l’isolamento dal
capitalismo hanno limitato la corruzione è effettivamente più visibile nel caso dei
paesi comunisti. La maggior parte delle transazioni monetarie in questi paesi avveniva
tra aziende statali e non sfiorava minimamente i flussi di denaro delle famiglie.
Tali somme aziendali erano spesso solo unità contabili che circolavano all’interno
dell’impresa e non potevano essere utilizzate per gli acquisti delle famiglie. Forse
il modo più semplice per farsene un’idea è immaginare una situazione in cui tutte
le transazioni commerciali tra aziende vengono condotte in una moneta elettronica
che non può essere utilizzata per pagare i salari o per i beni acquistati privatamente29. Un’azienda produttrice di arredi può vendere mobili in cambio di moneta elettronica
solo a un’altra azienda statale. Ora, il dirigente di quest’ultima azienda potrebbe
rubare fisicamente i mobili consegnati. Sarebbe però una cosa non soltanto difficile
(i mobili sarebbero registrati nei libri contabili) ma anche evidente e goffa. In
altre parole, ci sarebbe solo una minima possibilità che i beni acquistati attraverso
il denaro aziendale possano finire illegalmente nelle mani di singoli individui.
Vantaggi speciali e premi ricevuti da alti funzionari statali e di partito o dirigenti
d’azienda erano quasi sempre in natura: l’uso di auto di proprietà dello Stato, o
l’accesso a merci esclusive o appartamenti più grandi. Non erano vantaggi che si potessero
monetizzare, mettere da parte o trasmettere alla generazione successiva. Inoltre,
potevano essere revocati in qualsiasi momento, per esempio quando il funzionario in
questione perdeva il posto di lavoro a cui determinati privilegi erano associati.
Erano infatti prerogative strettamente di diritto che non venivano concesse a caso,
bensì per garantire l’obbedienza, proprio perché potevano essere ritirate così facilmente.
Un privilegio che può essere monetizzato, trasmesso ai propri eredi, o inalienabile
in generale, crea una sfera di indipendenza per l’individuo. La concessione di tale
indipendenza è incompatibile con i regimi autoritari o totalitari. Ma c’è di buono
che questa mancanza di indipendenza ha limitato la corruzione.
Un altro fattore importante che limitava la corruzione è stato la mancanza di una
piena integrazione nell’economia internazionale (capitalistica). Ciò valeva anche
per i paesi capitalisti ricchi, in molti dei quali – negli anni Sessanta e Settanta
– vigevano controlli valutari finalizzati a limitare la quantità di denaro contante
che si poteva portare all’estero, sia in vacanza sia nei viaggi d’affari30. I vincoli erano ancora maggiori nei paesi in via di sviluppo con valute non convertibili,
e la massima severità era quella applicata nei paesi socialisti o pseudosocialisti
(come l’Unione Sovietica, i paesi dell’Europa dell’Est, la Cina, l’India, l’Algeria,
il Vietnam e la Tanzania) che non erano integrati nell’economia mondiale. Anche se
i funzionari fossero riusciti in qualche modo a procurarsi del denaro (e ammesso e
non concesso che ce la facessero a convertirlo in valuta estera), non avrebbero saputo
come trasferirlo all’estero. Affidarsi all’aiuto di altri, capaci di condurre operazioni
del genere, avrebbe esposto un funzionario all’accusa non solo di corruzione ma anche
di tradimento, poiché la maggior parte di coloro che conoscevano il funzionamento
delle economie capitaliste e sapevano come investire erano in genere persone emigrate
dai paesi comunisti e quindi considerate nemici del popolo.
Ricordo un caso della metà degli anni Ottanta, quando i regimi comunisti in Europa
erano già in fase di disintegrazione, il controllo dei partiti si stava notevolmente
indebolendo e l’idea di funzionari che rubavano denaro e lo nascondevano all’estero
cominciava a essere vista come una possibilità, anche se penso che all’epoca non fosse
quasi mai una realtà. (Lo sarebbe poi diventata con il crollo dei regimi comunisti
e la privatizzazione dei beni di proprietà dello Stato.) Correva voce che il primo
ministro iugoslavo avesse comprato un appartamento a Parigi. Parlandone con i miei
amici, avevo sostenuto che ben difficilmente poteva essere vero. Innanzitutto – osservai
–, era difficile capire dove si fosse procurato così tanti soldi in valuta estera
senza essere notato dalla polizia segreta. Forse, nella sua ascesa ai vertici, aveva
aiutato un’azienda straniera a ottenere un contratto particolarmente vantaggioso,
forse l’unica attività con cui poteva sperare di «guadagnare» una notevole quantità
di denaro. Ma già allora non era chiaro come potesse essere stato pagato per questo
«servizio». Possedere conti all’estero era illegale, e aprire un conto, a nome proprio
o di un parente, era una mossa estremamente pericolosa che, se scoperta, avrebbe posto
fine alla sua carriera ben prima che diventasse primo ministro. L’apertura di un conto
estero in seguito, quando ormai occupava una posizione di preminenza, sarebbe stata
altrettanto pericolosa e difficile. Quando andavano in visita all’estero, i funzionari
di così alto rango non venivano mai lasciati soli. Era inconcepibile che il primo
ministro potesse entrare nella filiale di una banca a Parigi e aprire un conto corrente.
(Ma a prescindere da questo, in quegli anni in cui esistevano controlli sui capitali
anche nelle principali economie di mercato, gli sarebbe stato difficile fare una cosa
del genere, dal momento che non sarebbe stato in grado di fornire un indirizzo locale
né un documento d’identità.) Anche incaricare qualcun altro di provvedere al posto
suo sarebbe stato pericoloso, in quanto lo avrebbe esposto a possibili ricatti ma
anche al pericolo di cadere in disgrazia politicamente se tale attività fosse giunta
all’attenzione degli «organi competenti». Infine, proseguendo nella mia argomentazione,
osservai che se pure avesse in qualche modo aggirato tutti questi ostacoli, non riuscivo
proprio a immaginare in che modo avrebbe potuto tecnicamente acquistare un immobile
all’estero, dato che di sicuro non sapeva nulla su dove ottenere informazioni circa
gli appartamenti in vendita, i prezzi, o come sbrigare le necessarie pratiche legali.
(E di certo non avrebbe potuto affidarsi a un avvocato del posto.) Si noti come anche
i funzionari dei paesi non comunisti che non erano parte integrante del mondo capitalista
(India, Turchia) spesso non avevano conoscenze e contatti per trasferire denaro all’estero.
L’impossibilità di fare qualcosa di significativo con il denaro guadagnato illegalmente
rendeva certo meno attraente la prospettiva di un coinvolgimento in attività corrotte.
Quindi non solo le opportunità di fare soldi attraverso la corruzione erano minori
nei paesi meno «integrati», ma – cosa forse altrettanto importante –, la possibilità
di utilizzare il denaro ottenuto illegalmente per procurarsi cose desiderabili era
molto più limitata. Non è chiaro che cosa dei funzionari corrotti di un paese non
integrato avrebbero potuto fare con questi soldi. Abbiamo visto che non sarebbero
stati in grado di acquistare un appartamento all’estero, e nemmeno di trasferire denaro
oltre frontiera. Di certo non potevano sognare nemmeno lontanamente di ritirarsi in
Costa Azzurra né di utilizzare questi fondi neri per far studiare i figli all’estero.
Anche quest’ultima ipotesi non era praticabile, perché mandare i figli a studiare
nei paesi capitalisti era ritenuto un tradimento del socialismo e dell’educazione
socialista. Qualsiasi funzionario di un paese comunista i cui figli fossero andati
a studiare negli Stati Uniti (a parte nel caso di un incarico ufficiale all’estero)
sarebbe stato immediatamente retrocesso e indagato sull’origine dei fondi. In altre
parole, avrebbe dovuto essere disposto ad andare in prigione. Non sorprende quindi
che gli unici a poter prendere anche solo lontanamente in considerazione di mandare
i figli a studiare in un altro paese fossero gli imprenditori privati (che dovevano
essere sufficientemente ricchi), o le persone in qualche modo indipendenti dal potere
politico (per esempio, medici o ingegneri) con dei parenti all’estero.
Questa differenza tra i paesi che erano integrati nel sistema capitalistico e quelli
che non lo erano (così come tra i milionari e le persone «normali») mi ha molto colpito
quando ho letto un articolo autobiografico di José Piñera, figlio di uno degli uomini
più ricchi del Cile, divenuto poi ministro del Lavoro e della Previdenza sociale sotto
Augusto Pinochet31. Piñera menzionava con una certa nonchalance di aver frequentato Harvard. Avevo trovato
questa disinvoltura – la stessa che ho avuto modo di osservare in molti ricchi, specie
latinoamericani – davvero straordinaria. Trascurando per un momento l’aspetto di come
chi non sia figlio di una persona molto ricca possa riuscire a entrare in una delle
scuole secondarie d’élite (le cosiddette prep schools) che fungono da vivaio per i giovani più promettenti destinati alle migliori università,
praticare sport costosi, o trovare il tempo per svolgere le attività insolite (paracadutismo,
suonare in un’orchestra) utili ad acquisire i titoli richiesti per entrare a Harvard
o in un’università di pari livello, resta comunque il fatto che il denaro necessario
per pagare le tasse scolastiche e affrontare le spese di tutti i giorni è talmente
tanto che nessun cittadino di un paese non anglofono con un livello di reddito medio
e una disuguaglianza moderata, e senza moneta convertibile, potrebbe nemmeno accarezzare
l’idea di studiare a Harvard. Naturalmente, mi riferisco qui alla situazione degli
anni Sessanta e Settanta (quando Piñera ha studiato all’estero).
In un mondo non integrato – che in seguito, dopo la sua integrazione, avrebbe prodotto
attraverso la Russia e la Cina la maggior parte della corruzione internazionale –
il fenomeno era quindi limitato in modo sistemico.
Facilitatori della corruzione mondiale nei paesi riceventi
Il secondo motivo per cui si ritiene che la corruzione sia in aumento è legato al
quadro generale. L’ho già accennato evidenziando come i controlli valutari – che erano
comuni in tutto il mondo, comprese le economie avanzate –, e le valute non convertibili
limitassero la possibilità di trasferire denaro all’estero. Inoltre, non esisteva
un quadro di riferimento per consentire la corruzione in paesi che potenzialmente
potevano ricevere denaro.
La crescita delle banche specializzate in soggetti ad alto potenziale di investimento
e degli uffici legali il cui ruolo è essenzialmente quello di facilitare i trasferimenti
di denaro acquisito illegalmente è avvenuta in concomitanza con la globalizzazione.
Maggiori opportunità di corruzione – o, in questo caso, una maggiore «offerta» di
parti interessate a nascondere o investire il proprio denaro all’estero – hanno comportato
una maggiore «domanda» di tali fondi, come dimostra la creazione di nuove figure professionali
la cui occupazione è quella di contribuire a trovare una nuova collocazione al denaro
acquisito illegalmente. Non è quindi un caso che l’offerta e la domanda siano aumentate
di pari passo e che la crescita del settore bancario e di quello legale che rendono
possibile tutto questo sia stata stimolata dalla fuga di capitali dalla Russia e dalla
Cina. Secondo Novokmet, Piketty e Zucman (2017), circa la metà dei capitali russi
sono detenuti all’estero, per gentile concessione di facilitatori stranieri, e gran
parte di essi viene utilizzata per investire in azioni di società russe. Questo dato
evidenzia uno dei nuovi aspetti della globalizzazione, in cui il capitale nazionale
viene tenuto all’estero per beneficiare di un’imposizione fiscale più leggera e di
una maggiore tutela della proprietà, ma viene poi impiegato nel paese di origine sotto
forma di investimento estero per beneficiare delle migliori condizioni offerte agli
investitori stranieri e anche per sfruttare gli agganci locali e i vantaggi legati
alla conoscenza del territorio, fra cui la lingua, i costumi, chi corrompere e come.
Il caso russo è solo un esempio estremo di questo fenomeno generale; un altro esempio
è che circa il 40 per cento degli investimenti esteri indiani proviene da Mauritius
(il principale investitore in India!) e da Singapore32. Questi, naturalmente, non sono nient’altro che fondi indiani camuffati, molti dei
quali acquisiti illegalmente a livello nazionale e poi trasferiti all’estero, da dove
ritornano in India in qualità di «investimenti esteri»; una cosa che sarebbe stata
difficile da immaginare nell’India degli anni Settanta così come nell’Unione Sovietica
della stessa epoca, ma che è diventata una tecnica se vogliamo anche un po’ banale
nell’era della globalizzazione.
Qui occorre considerare con maggiore attenzione il ruolo svolto dai centri finanziari
globali e dai paradisi fiscali. Questi ultimi – in particolare Svizzera e Lussemburgo
– sono stati analizzati nel dettaglio da Gabriel Zucman nel suo libro La ricchezza nascosta delle nazioni (2017). Il ruolo dei paradisi fiscali è stato anche ampiamente documentato dalla pubblicazione
dei Panama Papers e dei Paradise Papers, e nel libro di Brooke Harrington Capital without Borders (2016). Ma il ruolo dei grandi centri finanziari come Londra, New York e Singapore ha suscitato
minore attenzione. Senza la creazione di un sistema articolato di servizi bancari
e legali che si mettano al suo servizio e la favoriscano, la corruzione su scala globale
non sarebbe stata possibile. Il furto interno di denaro ha senso solo se i fondi possono
essere riciclati a livello internazionale, e ciò richiede il sostegno dei grandi centri
finanziari globali. Questi ultimi si sono quindi adoperati direttamente contro la
creazione, o il rafforzamento, dello Stato di diritto in Russia, Cina, Ucraina, Angola,
Nigeria e altrove, per la semplice ragione che sono i principali beneficiari dell’illegalità
di tali nazioni, a cui garantiscono un rifugio sicuro per tutti i beni rubati. Ironia
della sorte, paesi caratterizzati da un solido Stato di diritto (e, naturalmente,
in cui si chiude un occhio su come il denaro straniero sia stato acquisito) hanno
svolto un ruolo chiave nel favorire la corruzione a livello mondiale dimostrandosi
determinanti per riciclare le somme sottratte illegalmente a tassi molto più elevati
rispetto a quelli di qualsiasi attività tradizionale di riciclaggio (come l’apertura
di un ristorante o di una sala cinematografica in perdita).
Accanto a quell’apparato di banche e studi legali, operano università, think tank,
Ong, gallerie d’arte e altre nobili cause. Mentre le banche agiscono sul fronte del
riciclaggio di denaro vero e proprio, queste organizzazioni offrono quello che potremmo
definire riciclaggio «morale». Lo fanno fornendo rifugi sicuri dove gli individui
corrotti, donando una piccola parte dei loro beni rubati, possono presentarsi nella
veste di imprenditori socialmente responsabili, instaurare contatti importanti, e
introdursi negli ambienti più esclusivi dei paesi in cui hanno trasferito il loro
denaro33. Un esempio significativo è quello dell’uomo d’affari russo Michail Chodorkovskij,
che, grazie ai propri agganci politici in Russia, ha acquistato beni per una frazione
del loro valore – a quanto pare si è appropriato indebitamente di circa 4,4 miliardi
di dollari di denaro pubblico – e poi ha distrutto le prove affondandole in un fiume
a bordo del camion che le trasportava34. Chodorkovskij e altri come lui sono ora ricomparsi in Occidente in veste di «donatori
responsabili». Chodorkovskij merita una menzione speciale perché è stato un innovatore
nell’arte del riciclaggio morale. Già all’inizio del xxi secolo aveva capito che per agevolare i propri affari in tutto il mondo e in Russia,
l’investimento più redditizio che potesse fare sarebbe stato quello di offrire contributi
alle campagne elettorali dei politici americani e donazioni ai think tank di Washington.
Da allora, questo approccio si è diffuso sempre di più.
Anche se per Chodorkovskij la cosa non ha funzionato (è stato arrestato e incarcerato
da Putin), nell’era della globalizzazione, dove molte grandi decisioni si prendono
in centri politici come Washington o Bruxelles, questa strategia è probabilmente quella
giusta nel lungo periodo. Altre imprese straniere, non ultime quelle saudite, hanno
adottato lo stesso approccio. Alcuni oligarchi – per esempio, Leonid Blavatnik, che
ha fatto fortuna durante gli anni della privatizzazione nella Russia del «Selvaggio
Est» degli anni Novanta – pensavano che investire in una business school o in una galleria d’arte che portasse il loro nome fosse un’idea migliore che non
dare contributi alle campagne elettorali come mezzo di riciclaggio morale35. In una comunicazione privata, un amministratore di un’università indiana mi ha detto
che è molto difficile ottenere donazioni da parte dei super-ricchi indiani, che invece
elargiscono decine di milioni di dollari alle università della Ivy League. Questo
avviene, ha affermato, perché vogliono sembrare buoni cittadini negli Stati Uniti
quando i legislatori cominciano a porre domande scomode sul numero di lavoratori indiani
muniti di visto che impiegano nelle loro aziende anziché assumere degli americani.
Non otterrebbero un beneficio paragonabile se destinassero le loro donazioni a un’università
indiana.
Imitazione del modello di consumo dei paesi ricchi
La terza ragione dell’aumento della corruzione nell’era della globalizzazione è l’effetto
dimostrativo, altrimenti noto come «non voler essere da meno dei vicini». Ora, l’effetto
dimostrativo non è un fenomeno nuovo. Gli strutturalisti dell’America Latina sostengono
fin dagli anni Sessanta che uno dei motivi per cui la propensione al risparmio nei
paesi latinoamericani è bassa è che i ricchi non sono disposti a fare economia per
paura di rimanere indietro, dal punto di vista del modello di consumo, rispetto ai
loro omologhi nordamericani (più ricchi). Thorstein Veblen ha fatto un’osservazione
simile nei propri scritti sul cospicuo consumo di beni di lusso, sottolineando che
il consumismo ha deviato i fondi da usi più produttivi, ma che lo spreco stesso era
l’obiettivo che veniva perseguito36. Molto tempo prima, Machiavelli aveva elaborato la stessa idea, su come i rapporti
con i vicini più ricchi stimolino la corruzione:
La quale bontà è tanto più da ammirare in questi tempi, quanto ella è più rada: anzi
si vede essere rimasa solo in quella provincia [la Germania Magna]. Il che nasce da
dua cose: l’una, non avere avute conversazioni grandi con i vicini; perché né quelli
sono iti a casa loro, né essi sono iti a casa altrui, perché sono stati contenti di
quelli beni, vivere di quelli cibi, vestire di quelle lane, che dà il paese; d’onde
è stata tolta via la cagione d’ogni conversazione, ed il principio d’ogni corruttela;
perché non hanno possuto pigliare i costumi, né franciosi, né spagnuoli, né italiani;
le quali nazioni tutte insieme sono la corruttela del mondo (2001, libro I, cap. 55,
pp. 135-136).
Il contributo degli strutturalisti è stato quello di vedere l’imitazione dei modelli
di consumo dei ricchi attraversare i confini nazionali. In questo senso, sono stati
i precursori dell’effetto dimostrativo durante la globalizzazione. Ma oggi, a mio
avviso, l’effetto dimostrativo non solo alimenta un maggiore consumo, ma motiva anche
la corruzione, ovvero, in altre parole, suscita la necessità di un reddito più elevato
a prescindere dalla sua legalità.
Un aspetto importante della globalizzazione è che le persone hanno una conoscenza
molto più dettagliata rispetto al passato degli stili di vita in luoghi lontani. Un
altro è la maggiore frequenza di interazioni e collaborazioni di lavoro con persone
di paesi diversi. Quando individui con livelli di istruzione e capacità simili lavorano
insieme, ma provengono da paesi diversi e, a parità di competenze, percepiscono redditi
differenti, il risultato – che si parli di invidia, di gelosia, di giusto compenso
o di un motivato risentimento di fronte alle disuguaglianze la sostanza non cambia
– è che le persone dei paesi poveri, non a torto, si sentono ingannate e pensano di
meritare lo stesso reddito. Questa presa di coscienza è particolarmente forte là dove
le persone lavorano a stretto contatto e sono in grado di valutare direttamente le
competenze e anche i diversi livelli a cui vengono retribuite. Questo aspetto è particolarmente
ovvio nel caso di funzionari statali di paesi poveri o a medio reddito, che spesso
sono malpagati e tuttavia, nell’esercizio delle loro varie funzioni ministeriali (sviluppo,
finanze, energia, ecc.), interagiscono con ricchi imprenditori e burocrati stranieri37.
Quella che gli individui dei paesi più poveri percepiscono come un’ingiustizia fornisce
loro una giustificazione interiore al fatto di accettare tangenti, che vengono viste
solo ed esclusivamente come compensazione di fronte a un salario ingiustamente basso,
o anche all’iniqua sorte di essere nati in un paese povero e di doverci lavorare.
Accettare con rassegnazione le grandi differenze di reddito è davvero molto difficile
per chi, pagato solo qualche centinaio di dollari al mese, deve prendere decisioni
su contratti del valore di decine o centinaia di milioni di dollari e interagire con
persone che ne guadagnano diverse migliaia al giorno. Non c’è nulla di strano che
in una situazione del genere la corruzione sia vista come un modo per livellare le
ingiustizie della vita. (Qualcuno potrebbe obiettare che i funzionari pubblici dovrebbero
confrontarsi con chi, nel loro paese, è molto più povero di loro. Ma non è realistico:
tendiamo tutti a confrontare la nostra posizione con quella dei nostri pari, e in
questo caso gli omologhi – con cui spesso interagiscono – sono stranieri.)
Il fatto, a parità di lavoro, di avere le retribuzioni così diverse (con le conseguenze
che questo produce sulla corruzione) sussiste anche nel caso di cittadini nativi dei
paesi più poveri che lavorano in patria per le organizzazioni internazionali. Che
assumano cariche governative (sovvenzionate da donatori stranieri) o lavorino in università,
think tank o Ong, i loro stipendi superano di un ordine di grandezza quelli dei loro
concittadini che vengono pagati in base ai livelli di retribuzione nazionali. Non
sorprende che tali burocrati e accademici, pagati all’estero ma originari del luogo,
raramente siano coinvolti in episodi di corruzione: sono pagati molto bene e hanno
una reputazione internazionale da difendere. Ma non sorprende neppure che le loro
retribuzioni, molto più elevate rispetto a quelle di chi svolge un lavoro analogo,
siano motivo di rabbia e scoramento per i dipendenti pubblici i cui stipendi sono
allineati ai livelli nazionali, e che questi possano cercare di integrare il loro
reddito attraverso la corruzione.
Se si trascura questo aspetto (fare lo stesso lavoro insieme a persone che sono pagate
molto di più), è molto facile attribuire la colpa della corruzione alla cultura locale.
La realtà è più complessa: la corruzione viene vista, in un certo senso, come un reddito
dovuto nei confronti di chi nasce con una penalità di cittadinanza. La migrazione
è, come abbiamo osservato, uno dei modi per convertire la propria penalità di cittadinanza
in premio; la corruzione è solo un altro modo di fare la stessa cosa38.
4.4b. Perché non si farà quasi nulla per arginare la corruzione
Come affrontare la corruzione in questa fase di capitalismo globale ipercommercializzato?
Vale la pena di tornare alle tre ragioni alla base dell’aumento della corruzione che
ho individuato all’inizio di questo paragrafo. La prima, ideologica, deriva dalla
natura stessa del sistema che pone il fare soldi, in qualsiasi modo, alla base dei
propri valori. Gli incentivi alla corruzione sono insiti nel sistema, e non c’è nulla
che si possa fare, a parte cambiare il sistema di valori, per modificare questo stato
di cose.
La seconda ragione, ossia la possibilità concreta di praticare la corruzione, è legata
all’apertura dei conti capitale e all’articolato sistema di servizi disponibile nei
paesi ricchi o nei paradisi fiscali, il cui obiettivo principale è quello di attirare
i ladri dai paesi più poveri o gli evasori fiscali dai paesi ricchi promettendo loro,
rispettivamente, l’immunità dai procedimenti giudiziari se portano i loro soldi nei
paesi dove vige lo Stato di diritto, o di metterli al riparo dalle tasse. E qui si
può fare molto. Contrastare i paradisi fiscali sarebbe relativamente facile se solo
i paesi importanti che perdono volumi significativi di gettito fiscale a causa dei
loro cittadini evasori lo volessero. Alcuni esempi recenti dimostrano che i grandi
paesi, se e quando decidono di agire, hanno la forza di colpire duramente la corruzione:
gli Stati Uniti hanno sfidato con successo le leggi svizzere sul segreto bancario,
l’Unione europea ha vietato l’aliquota zero dell’imposta sulle società in Irlanda
e Lussemburgo, la Germania ha adottato misure drastiche contro l’evasione fiscale
favorita dal Liechtenstein, e il parlamento britannico ha chiesto l’introduzione di
registri patrimoniali nei paradisi fiscali britannici come le Isole Cayman e le Isole
Vergini britanniche. Ma questo tipo di iniziative può tenere a freno solo una parte
della corruzione, ossia quella che colpisce gli stessi paesi ricchi, danneggiati dall’evasione
fiscale dei loro cittadini.
È molto più difficile affrontare l’altro aspetto della corruzione, quello in cui i
paesi ricchi ne sono i diretti beneficiari, vale a dire dove i sistemi bancari e giudiziari
incoraggiano la corruzione nei paesi poveri promettendo l’immunità dall’azione penale.
In questo caso, le politiche dei paesi ricchi dovranno essere dirette contro i forti
interessi costituiti all’interno di ogni nazione: banchieri e avvocati che traggono
diretto profitto dalla corruzione; agenti e società immobiliari che fanno soldi grazie
a stranieri corrotti; e politici, università, Ong e think tank che partecipano al
riciclaggio morale. Un semplice elenco di tutti i gruppi che hanno interesse a che
la corruzione nel Terzo Mondo continui è sufficiente per farci riflettere sull’effettiva
probabilità che vengano adottate misure serie in proposito.
La situazione di questo tipo di corruzione è simile a quella del traffico di droga
e della prostituzione. I tentativi di porre rimedio alla corruzione e di ridurre il
consumo di droga e la prostituzione hanno come unico obiettivo quello di colpire l’offerta:
si dice a paesi come l’Ucraina e la Nigeria di controllare la corruzione, alla Colombia
e all’Afghanistan di ridurre la produzione di cocaina, o alle professioniste del sesso
di cambiare lavoro. In nessuno di questi ambiti la politica concentra l’attenzione
sulla domanda, andando a colpire i beneficiari della corruzione nei paesi ricchi,
i consumatori di droghe in Europa e negli Stati Uniti, o gli utenti dei servizi delle
lavoratrici del sesso. Se ciò non accade non è perché contrastare l’offerta sia più
efficiente; anzi, ci sono validi motivi per ritenere vero il contrario. La ragione
è che contrastare la domanda è politicamente molto più difficile. È quindi improbabile
che questo calcolo politico, in materia di corruzione, possa cambiare presto.
L’ultima ragione che spiega la corruzione legata alla globalizzazione è l’effetto
dimostrativo. Anche in questo caso è molto difficile immaginare come ciò possa cambiare,
dato che nel prossimo futuro persisteranno le ben note e profonde differenze di reddito
tra i paesi (e quindi l’esistenza di ingenti premi o penalità di cittadinanza), mentre
le collaborazioni tra persone di paesi diversi che, a parità di lavoro, ricevono retribuzioni
differenti diventeranno sempre più comuni. Casomai, possiamo aspettarci un incremento
di questo tipo di corruzione autoassolutoria.
La lotta contro il tipo di corruzione che colpisce direttamente i paesi potenti attraverso
la perdita di gettito fiscale dovrebbe raccogliere un sostegno politico sufficiente,
e forse tale corruzione potrebbe diminuire. Tutte le altre forme di corruzione sono
legate al tipo di globalizzazione che abbiamo; dobbiamo abituarci all’aumento della
corruzione e considerarla come una fonte di reddito logica (quasi normale) nell’era
della globalizzazione. Per sua stessa natura non diventerà mai legale – salvo forse
in alcune delle sue manifestazioni come il lobbismo politico – ma si è già normalizzata,
e lo sarà sempre di più. Dobbiamo anche riconoscere la nostra ipocrisia e smetterla
di moraleggiare sulla corruzione, oltre che di intimidire i paesi poveri: molte persone
nei paesi ricchi traggono vantaggio da questo fenomeno, e il tipo di globalizzazione
con cui abbiamo a che fare lo rende inevitabile.