4.
Dall’argomentazione
alla comicità
M’invitano in TV
la trasmissione si chiama Basta col politichese.
Mi truccano, mi lisciano il barbone
e annunciano una serie di sorprese.
(Giuliano Zincone, Giovanni Foppa vuole cambiar vita)
Nella specifica realtà italiana, il declino del politichese è stato determinato –
più che da avvenimenti di dimensione planetaria, come la caduta del muro di Berlino
– dalla perdita di credibilità della classe politica (dovuta ai ben noti fatti di
Tangentopoli) e dall’affermarsi della televisione come principale strumento di propaganda.
Al centro di questa trasformazione c’è la figura di Silvio Berlusconi, proprietario
di tre reti televisive nazionali: Sua Emittenza, come viene prontamente ribattezzato. Con Berlusconi diventa chiara anche in Italia
l’incidenza determinante della televisione nella comunicazione politica. Dalla tv di partito al partito della tv, recita il titolo di un libro pubblicato in quegli anni. La «party logic» – la logica
di appartenenza ai singoli partiti, alla loro tradizione, al loro linguaggio – viene
definitivamente soppiantata dalla «media logic».
È la politica, ora, a essere subordinata ai mediae non viceversa. Deve rispettarne scrupolosamente le regole e i tempi, perché solo
attraverso quel filtro si può imporre all’attenzione del pubblico. Una spia forse
superficiale, ma comunque indicativa del fenomeno è l’ondata di neologismi con tele- e video- che accompagna l’entrata in politica di Berlusconi: tra gli altri, telecomizio, teledeputato, telegoverno, teleparlamento e telepolitica; videocrazia, videogiudice, videopaese. Più in generale, i neologismi portati nel linguaggio politico da questa nuova stagione
sono numerosissimi: quelli del solo 1994 sono bastati a Silverio Novelli e Gabriella
Urbani per mettere insieme un nutrito Dizionario della seconda Repubblica.
La vorticosa pragmatica dei media, inseguendo l’avvicendarsi dei temi del giorno,
costringe – per conquistare il banco – a coniare continuamente parole nuove. L’esito
di questa rincorsa è quella che già negli anni Settanta Paul Virilio ha chiamato dromocrazia (dal greco dromos «corsa, gara»). Se i Tempi moderni erano – nella grottesca caricatura di Chaplin – quelli dell’ottimizzazione da catena
di montaggio, i tempi postmoderni sono quelli della spasmodica velocità acquisita
dai processi della comunicazione. Informazione e politica sono soggette oggi allo
stesso dispotismo: quello del «tempo reale» e dei media simultanei. Tutto ciò non
implica solo una corsa sfrenata a chi arriva per primo sulla notizia. Ma anche un
ritmo sempre più frenetico nella creazione di frasi o parole che possano immediatamente
fare notizia.
In questo contesto, la brillantezza di una battuta di spiritoè molto più apprezzata di un noioso argomentare dialettico. Di qui il fioccare – più
che nel passato – di coniazioni lessicali o fraseologiche prontamente riprese dai
vari media. E anche dai politici degli schieramenti opposti, secondo quel meccanismo
che Luca Serianni ha definito dell’«irradiazione deformata». La gioiosa macchina da guerra di cui parlava il leader progressista Achille Occhetto nella campagna elettorale
del ’94 diventa – dopo la sonora sconfitta – noiosa macchina da guerra o gioiosa macchina da pisolo. Dallo slogan di Bossi La Lega ce l’ha duro si coniano l’astratto celodurismo (suscettibile di essere rovesciato in celomollismo) e il rifacimento scherzoso gelo duro (i leghisti «ai figli del Sol Levante rifileranno il loro nuovo gelato “geloduro”»).
Dalle manifestazioni dei girotondi si passerà ai girotonti, dal centocittà di Prodi al centopadelle, dalla Casa delle libertà alla Casa delle impunità o al Casino delle libertà.
Tra le conseguenze di questa spettacolarizzazione del discorso politico c’è la deriva
comica che ha caratterizzato gli ultimi anni. Alla grigia serietà dei politici di
un tempo fa ormai da contraltare la faceta loquacità dei politici televisivi. Ridere
è terapeutico, dice la medicina: allunga la vita. Di sicuro quella politica, se è
vero che con un centinaio di barzellette (e molte altre gag) Berlusconi si è garantito
quasi vent’anni di potere e il governo più lungo di tutta la storia repubblicana.
La Risatina C sembra ormai diventata la panacea del consenso. Un tempo le barzellette le raccontavano
Gino Bramieri o Walter Chiari. Oggi alla radio le dicono i parlamentari, in fila per
vivere il loro Giorno da pecora. Si scopre, così, che su certi luoghi comuni destra e sinistra sono perfettamente
allineate: se la guerra fredda le aveva divise, la freddura le ha riunite. Debora
Serracchiani (PD): «Moglie e marito guardano romanticamente la luna che si riflette
nel pozzo. Improvvisamente l’uomo scivola e cade. La moglie: “Ma allora funziona”»;
Maurizio Lupi (PDL, poi Area popolare): «Ci sono due cannibali che stanno mangiando.
Uno dice all’altro: “Io con mia moglie non ce la faccio più”. L’altro gli risponde:
“Va be’, almeno finisci le patate”».
Una cosa impensabile nella prima Repubblica. Ma non imprevedibile, se già nel 1992
– proprio l’anno di Tangentopoli e di Mani pulite – Marino Sinibaldi intravedeva nelle
dimensioni «impressionanti e onnipervasive» dell’universo comico e satirico nazionale
«un pericolo assai serio: quello di un cinismo puramente dissolutore, una sorta di
nichilismo ridens, che contribuisce ad allentare ogni vincolo collettivo». E metteva in relazione questa
deriva con la rifondazione del linguaggio comico in senso televisivo: «un processo
iniziato già negli anni Sessanta, coi varietà del sabato sera, ma che si è fatto via
via più travolgente dal Drive in in poi».
In principio – insomma – fu il berlusconiano Drive in col suo verbo fast food, destinato a diventare l’ideologia dominante in tutto il
paese. «“Saaalve! – diceva il trentenne di Biella saltellando da una parte all’altra
dell’inquadratura –, sono mister Tarocò, con l’accento sulla q!” (e ridevamo)». Nella rievocazione che Nicola Lagioia ne fa nel suo Riportando tutto a casa c’è il senso di una diga che si rompe. Per la comicità italiana nulla sarebbe stato
più lo stesso: anche la satira politica si sarebbe presto adeguata. Nel 1993, l’anno
che precede la discesa in campo di Berlusconi, Filippo La Porta scriveva: «Dopo la
risata liberatoria (il Sessantotto) e quella che doveva “seppellirvi” (il Settantasette)
siamo ora alla risata autogratificante». Se è possibile, le cose oggi stanno ancora
peggio: una risata ci ha seppellito.
«Il comico è morto: non ci resta che piangere», scriveva Paolo Di Stefano alla fine
del 2007, rimpiangendo il «declino di un genere letterario glorioso, ucciso dalla
politica e dalla televisione». E in effetti che dire del duetto di Bersani con il
suo imitatore Crozza in piena campagna elettorale (foriero di un pareggio laddove
ci si aspettava una trionfale vittoria)? O del Razzi – quello vero, non l’imitazione
di Crozza – che sembra gareggiare a distanza con il Cetto La Qualunque di Antonio
Albanese? Cetto La Qualunque: il finto politico che nei suoi comizi alterna slogan
come I have no dreams (rovesciamento nichilista di Martin Luther King) ad altri ben più rudi come Cchiù pilu per tutti (liberamente ispirato al Meno tasse per tutti del primo Berlusconi).
Un’ossessione genitale – quella di Cetto – che ritroviamo anche nella comicità di
Luciana Littizzetto, alimentata dalle cronache della residenza Orgettina e della villa
di Hardcore. «Poi dicono a me che parlo di Walter e Jolanda», si lamenta lei, che
però è la prima a cercare maliziosi cortocircuiti con la politica («Il suo walter
è più arzillo di Veltroni»). Gli eufemismi che Littizzetto usa per gli organi sessuali,
d’altra parte, hanno la stessa funzione dei nomignoli che affibbia a politici e personaggi
pubblici: trasfigurano la realtà. Il mondo in cui vivono i vari Berlu, Gianfry, Napisan, Eminems è – alla fine – lo stesso che Beppe Grillo ha popolato dei vari Bersanetor o Gargamella (Pier Luigi Bersani), Bin Loden o Rigor Montis (Mario Monti), Frominchioni e Forminchione (Roberto Formigoni), Renzie o l’ebetino di Firenze (Matteo Renzi), l’ultrasettantenne inceronato o lo psiconano (Silvio Berlusconi). Chi di comico ferisce, di comico perisce. E ormai il perfetto
contrappasso è a un passo dal realizzarsi: i politici sconfitti dall’antipolitica
di un comico al potere.
Un messaggio pubblicato su Twitter il 4 febbraio 2013 ammoniva: «#Grillo parla nelle
piazze un linguaggio semplice e comprensibile gli altri sono nella loro torre d’avorio
il risveglio sarà amaro #M5S». Solo che la storia del linguaggio semplice l’avevamo
già sentita più di vent’anni fa. La sbandieravano prima Bossi e poi Berlusconi («Non
più quel linguaggio da templari che nessuno capiva: si sentiva il bisogno di un linguaggio
semplice, comprensibile, concreto»). La confermavano gli studi sul lessico berlusconiano,
mettendo in luce – tra l’altro – l’alto tasso di comprensibilità del suo modo di parlare.
Anche sottoposto all’analisi informatizzata, il discorso di Berlusconi si conferma
molto semplice: fondato in gran parte sul lessico di base e su una sintassi fatta
di frasi brevi.
Studi simili confermano che anche la lingua di Grillo è composta dagli stessi ingredienti:
frammentazione sintattica, semplificazione lessicale, insistenza su alcune parole
(e parolacce, in questo caso) ricorrenti. Uno schema portato ai massimi livelli –
di enfasi e di potere – dal nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Come
ha notato il linguista George Lakoff, ancora una volta le elezioni sono state vinte
da chi è stato in grado di imporre le proprie parole d’ordine – e dunque la propria
visione del mondo, il proprio frame – indipendentemente e al di là di qualunque argomentazione.
Il modo di esprimersi di Trump è fatto di frasi molto brevi, spesso lasciate a metà,
quasi sempre composte di parole mono o bisillabiche. Secondo le analisi dei linguisti,
sintassi e vocabolario sono quelli di un bambino all’ultimo anno delle elementari.
«Il nostro paese potrebbe funzionare molto meglio». «Abbiamo accordi commerciali pessimi».
«Il nostro paese non funziona». «Tutti vincono tranne noi». «Abbiamo bisogno di vittorie».
«Non abbiamo più vittorie». «Il nostro paese sarà grande di nuovo». Solo frasi ad
effetto: slogan sparati a raffica e intervallati dai classici segnali discorsivi (I mean, you know) che accentuano l’impressione di una chiacchierata informale. E poi le parolacce,
ovviamente. E gli sprezzanti nomignoli per gli avversari politici: Low energy («bassa energia») per Jeb Bush, Lyin Ted («Ted il bugiardo») per Ted Cruz, piccolo Marco per Marco Rubio, Crooked Hillary («Hillary la corrotta») per la Clinton.
Ma a colpire ancora di più sono le continue iperboli: tutto quello che Trump promette
è meraviglioso, fantastico, incredibile. Come si legge nella sua autobiografia, «non tutti sanno pensare in grande, ma quasi
tutti sono attratti da chi lo fa. Ecco perché un po’ d’iperbole non fa mai male. [...]
Io la chiamo “iperbole veritiera”. È una forma innocente di esagerazione – e ancor
più efficace di promozione». Ne sa qualcosa Grillo, che nel suo discorso di fine anno
2016 non fa che ripetere espressioni iperboliche. Per farsi un’idea, bisogna leggerle
tutte di seguito: «la cosa più straordinaria che sta succedendo», «questa è una cosa
che passa l’immaginazione», «è straordinario questo abbinamento dove non ci credeva
nessuno», «un vaffa straordinario», «la cosa più straordinaria che non esiste al mondo»,
«poter lasciare un segno della sua vita, della sua professione, nella realtà è straordinario»,
«fantastico: da quarant’anni funziona così», «fantastico!», «incredibile!», «questo
meraviglioso sistema operativo che abbiamo», «sono tutti problemi pazzeschi», «ci
aspetta una cosa strepitosa», «i cittadini cominciano a capire una cosa meravigliosa
che è il Movimento 5 Stelle». Fin da quand’era un comico, d’altronde, il tormentone
preferito di Grillo era «è una cosa pazzesca!».
Come notava Alexander Stille, «gli italiani, in particolare, dovrebbero capire la
rivoluzione linguistico-politica del trumpismo. Il fascismo è stato preceduto e accompagnato
da una simile rottura nei discorsi pubblici». Cambia la lingua, ma non il linguaggio.
I programmi delle forze populiste tendono sempre a somigliarsi: niente di strano che
si somigli anche la loro comunicazione. In Italia, sono state notate già da tempo
le notevoli somiglianze tra Grillo e Salvini. Ma il modello si sta espandendo anche
alle altre forze politiche, che ormai sembrano accettare questa sorta di supremazia
a Cinque stelle.
Fino a poco tempo fa, questa posizione dominante era occupata dalla retorica berlusconiana.
Era da lì che partivano le parole chiave, i frames che influenzavano il pensiero comune e indirizzavano il messaggio politico. Dire che
le tasse equivalevano a mettere le mani nelle tasche degli italiani significava far passare l’idea che le tasse erano un furto perpetrato dallo Stato.
Quando da sinistra ribattevano dicendo che anche loro non avrebbero messo le mani
nelle tasche degli italiani, accettavano di rimanere all’interno di quel frame. Assumevano una posizione di sudditanza nei confronti dell’ideologia implicitamente
espressa da quelle parole. E infatti perdevano. Quando Renzi ha impostato la campagna
referendaria su frasi come «non difendere i privilegi della politica» o «con il No
difendete la casta», ha fatto sue parole d’ordine tipicamente populiste. Ha accettato
il frame dei suoi avversari. E infatti ha perso.
Per dare un’idea dell’influenza che hanno sul cervello le parole che ascoltiamo –
influenza che precede e prevarica il ragionamento – George Lakoff usa come esempio
la frase «Non pensare a un elefante». Provate a ripeterla due o tre volte: «Non pensare
a un elefante». Poi chiudete gli occhi. A cosa state pensando? È ovvio. Adesso provate
a ripetere: «Non pensare al Grillo». «Non pensare al Grillo». «Non pensare al Grillo»...