Modelli di sviluppo a confronto: dall’economia lineare
allo sviluppo sostenibile
La crescita economica come traino
dello sviluppo
Da molti anni a questa parte la vita politica è, giustamente, guidata dalle statistiche.
“Conoscere per deliberare”, il famoso titolo di una delle Prediche inutili di Luigi Einaudi, è il principio posto alla base del disegno delle politiche e della valutazione di
queste ultime. Le statistiche, insieme ai fatti di cronaca e all’elaborazione culturale,
sollecitano e guidano l’opinione pubblica nell’individuare i problemi e le possibili
soluzioni, attribuire meriti e demeriti a questo o quel governo, identificare opportunità
e rischi per l’attività delle imprese o orientare le scelte dei consumatori. Le statistiche
dovrebbero rappresentare quel metro di riferimento comune a una società per comprendere
punti di forza e di debolezza, progressi e regressi, senza che questo conduca necessariamente
a sviluppare un “pensiero unico” su come migliorare la condizione di quella società
dal punto di vista economico, sociale o ambientale.
L’indicatore statistico più noto e utilizzato è il Prodotto interno lordo (Pil), rispetto
al quale viene valutata la dinamica di un sistema economico, l’entità del deficit
e del debito pubblico, il saldo della bilancia dei pagamenti, la quantità di imposte
pagate, ecc. Per molti anni, a partire dal secondo dopoguerra, la dinamica del Pil
(e in particolare del Pil per abitante) ha rappresentato il metro fondamentale per
valutare il progresso di un Paese: insieme al Pil, infatti, cresceva lo stato di salute
della popolazione, il livello di educazione, la qualità della vita quotidiana. D’altra
parte, quando il Pil diminuisce – e l’Italia l’ha sperimentato chiaramente nel corso
degli ultimi dieci anni – si perdono migliaia di posti di lavoro, le imprese chiudono,
tante famiglie smettono di curarsi o rinunciano a mandare i figli all’università,
la quantità e qualità dei servizi pubblici si riduce, aumenta la povertà e così via.
Massimizzare il Pil è così divenuto l’obiettivo principale delle politiche economiche
e per conseguire tale risultato vengono allocati fondi pubblici a un’attività piuttosto
che a un’altra, creati complessi sistemi di incentivi e disincentivi per le imprese
e i consumatori, fissate le aliquote fiscali sul lavoro, sui consumi e sulle attività
finanziarie e e sulle attività reali, disegnate riforme normative in grado di liberare
o regolare gli animal spirits degli imprenditori, e così via.
Ovviamente, i modelli con cui leggiamo la realtà, e quindi gli indicatori con cui
la misuriamo, sono frutto della cultura dominante, la quale a sua volta può modificarsi
sulla base dei dati resi disponibili. Amartya Sen ha ricordato in più occasioni che
parlare di indicatori statistici vuol dire, in realtà, parlare dei fini ultimi di
una società e degli strumenti con cui vogliamo conseguirli. Non a caso quando nel
1944 gli Stati Uniti, il Regno Unito e il Canada decisero di armonizzare le diverse
impostazioni con cui si erano sviluppati i primi schemi di contabilità nazionale,
il confronto tra gli esperti dell’epoca fu organizzato non da un’istituzione accademica,
ma dal Dipartimento del Commercio (cioè dal governo) degli Stati Uniti. E non a caso, dovendo scegliere tra un approccio centrato sul concetto di “produzione”
(sostenuto dalla scuola britannica di Edward Meade e Richard Stone) e uno basato su
quello di “consumo”, maggiormente attento agli aspetti del benessere delle persone
(sostenuto dalla scuola americana di Simon Kuznets), la scelta del primo approccio
fu operata dalle autorità politiche allo scopo di promuovere a livello internazionale
un approccio più in linea con la visione “americana” del futuro e le esigenze strategiche
del tempo, legate alla gara in corso con l’Unione Sovietica su quale fosse il sistema
in grado di produrre di più e quindi di assicurare un più elevato benessere materiale
ai propri cittadini. Non c’è nulla di sorprendente in questo modo di procedere: i vincitori, cioè, non
scrivono solo la Storia, ma anche le regole contabili, esprimendo una particolare
visione del mondo e delle politiche, per la cui conduzione è necessario raccogliere
informazioni statistiche. Ma se il modo con cui si guarda alla realtà assume una visione fortemente parziale
dei fenomeni, tralasciando elementi di rilievo per la loro comprensione, e se questo
modo di guardare la realtà guida le politiche e i comportamenti individuali, allora
il problema può diventare molto grave.
Figura 6. Modello di economia lineare
Il modello che guida l’idea di crescita economica infinita può essere descritto semplicemente
con la figura 6, nel quale ci sono i bisogni umani, una “macchina” (il modello di
sviluppo) che produce Pil, che a sua volta soddisfa i bisogni umani, espressi fondamentalmente
attraverso le scelte di consumo, a loro volta funzione delle preferenze degli individui,
del reddito che essi percepiscono e della ricchezza che possiedono. In questo schema,
compito della scienza economica è quello di organizzare le relazioni tra agenti economici
(cioè i mercati) allo scopo di soddisfare al meglio bisogni individuali e collettivi
teoricamente infiniti in presenza di risorse finite.
Il Sistema dei conti nazionali descrive con maggiore dettaglio il funzionamento della
“macchina”, grazie alla quale famiglie e imprese interagiscono nel sistema di produzione
e consumo: le prime consumano beni e servizi, offrono lavoro e vengono remunerate
per l’attività svolta; le seconde producono e offrono beni e servizi, domandano lavoro
ed effettuano investimenti e così generano il reddito (Pil) che alimenta i consumi,
remunera l’attività d’impresa e così via, in un circuito che appare senza fine. I
mercati dei fattori produttivi e dei beni/servizi assicurano l’equilibrio tra domanda
e offerta, fissando i prezzi (dei beni/servizi e del lavoro) che assicurano la distribuzione
ottimale delle risorse tra prodotti (consumi e investimenti) e tra fattori della produzione
(lavoro e capitale).
Ovviamente, tutti gli economisti sanno benissimo che l’economia si basa su ipotesi
semplificatrici, le quali influenzano in modo decisivo le conclusioni che vengono
raggiunte sulla base di modelli matematici o schemi logici, per quanto sofisticati.
Sotto tali ipotesi, il livello e l’andamento del Pil pro capite rappresentano in modo ragionevolmente accurato lo stato e il cambiamento del “benessere
economico” di una persona e di un Paese, ragion per cui le politiche macroeconomiche
tendono a rendere massimo il livello del Pil o del Pil pro capite. Ma se andiamo oltre la condizione di un singolo Paese e assumiamo una visione planetaria,
non possiamo non domandarci se sia pensabile immaginare come sostenibile un modello
economico orientato a conseguire in tutto il mondo, cioè per oltre sette miliardi
di persone, una crescita senza fine del Pil per abitante in un Pianeta finito come
quello di cui disponiamo. Anche ipotizzando che il Pil pro capite rappresenti correttamente il benessere di un cittadino medio, quindi trascurando
ogni considerazione distributiva e altri fattori che, non solo incidono in modo decisivo
sulla qualità della vita delle persone, ma possono determinare in un prossimo futuro
una crisi che porti anche ad una riduzione del Pil, è immaginabile poter disporre di risorse materiali sufficienti
per alimentare una crescita senza fine dei consumi, dai quali dipende, in ultima istanza,
il soddisfacimento dei bisogni umani?
La risposta, come già ricordato, è inequivocabilmente negativa. Oggi sappiamo che,
come ci ricorda Tim Jackson nel suo libro Prosperità senza crescita, concentrando l’attenzione sul Pil come indicatore di benessere abbiamo commesso
quello che gli statistici chiamano un “errore di seconda specie”, cioè abbiamo preso
per buona un’ipotesi falsa, cosa che invece dovremmo cercare di evitare, anche a costo
di perdere qualche buona occasione (accettando come falsa un’ipotesi vera). Cioè abbiamo
tralasciato una serie di fattori che avrebbero dovuto indurci a costruire diversamente
il nostro modello di sviluppo, come in effetti proponevano già cinquant’anni fa gli
esperti del Club di Roma, i quali invece furono considerati dei “pessimisti cosmici”
dalla gran parte degli economisti, convinti che l’innovazione tecnologica sarebbe
riuscita a risolvere i problemi della produttività agricola, dell’efficienza energetica,
dell’inquinamento ambientale, cioè i fattori che, secondo i diversi scenari simulati
all’epoca, pur adottando differenti ipotesi, avrebbero con molta probabilità indotto
il collasso del sistema socio-economico globale.
Ma perché abbiamo commesso un errore così banale, trascurando i molteplici allarmi
lanciati nel corso degli ultimi cinquant’anni? E perché ci sono tuttora economisti
e politici che rifiutano di considerare l’insostenibilità, non solo ambientale, del
nostro modello di sviluppo? Perché è cosi difficile cogliere l’interdipendenza tra
fattori economici, sociali, ambientali e istituzionali come il paradigma dello sviluppo
sostenibile propone? Molto è stato scritto su questo argomento, e nel corso degli
ultimi quindici anni mi sono personalmente occupato di questo problema, guardando,
in particolare, al modo con cui i sistemi di misurazione delle performance dei sistemi
socio-economici sono stati sviluppati e hanno influenzato il modo di pensare delle
nostre società. E contribuendo a costruire il movimento d’opinione globale per andare
“oltre il Pil”.
Dalla massimizzazione del Pil
all’aumento del Benessere equo e sostenibile (Bes)
Come apparve evidente già dopo la pubblicazione del Rapporto Brundtland, mentre è
possibile (anche se non sempre facile) misurare specifici fenomeni, non necessariamente
in termini monetari, economici, sociali e ambientali, determinare quanto una certa
combinazione di essi assicuri o meno la sostenibilità di un sistema complesso presenta
enormi difficoltà concettuali e pratiche. Uno dei primi progetti che mi trovai a gestire
nel 2001, appena nominato Chief Statistician dell’Ocse, riguardò proprio la misura dello sviluppo sostenibile, nell’ambito di
una ricerca estremamente articolata in cui l’Organizzazione si era lanciata in quegli
anni. Ebbene, fin dall’inizio del nostro lavoro fu chiaro come la sostenibilità è estremamente difficile da misurare: mentre sul piano economico e ambientale tale concetto appare ben definito nella
letteratura e – benché in modo alquanto eterogeneo – nella pratica statistica, sul
versante sociale le difficoltà sono insormontabili. Infatti, la sostenibilità di un
modello di crescita economica, la sostenibilità finanzaria, la sostenibilità dei sistemi
pensionistici, solo per fare alcuni esempi, erano temi abbondantemente indagati già
quindici anni fa, sui quali l’evidenza statistica e la modellistica econometrica già
fornivano indicazioni utili per la conduzione di politiche orientate a favorire la
sostenibilità delle condizioni economiche e finanziarie (anche se ciò non avrebbe
evitato la crisi finanziaria del 2008-2009 e quella dei debiti sovrani europei del
2012).
In quegli anni stava crescendo significativamente anche la ricerca sulla misura delle
condizioni ambientali. Ancorché con una distanza enorme rispetto alle tematiche economiche,
cominciavano ad essere sviluppati sia sistemi articolati di indicatori ambientali
(disponibili, però, con forte ritardo rispetto a quelli economici e solo con riferimento
ai Paesi industrializzati), sia modelli econometrici che legavano la dimensione economica
a quella ambientale.
Nel corso della ricerca Ocse emerse una caratteristica comune degli approcci economico-finanziari
e ambientali alla sostenibilità: l’uso del concetto di “soglia”, oltre la quale una
particolare condizione del sistema può essere giudicata insostenibile. Si pensi al
caso della concentrazione di anidride carbonica o di altri inquinanti nell’atmosfera
(oltre una certa concentrazione non è più possibile respirare), o al rapporto tra
debiti e redditi futuri di un’impresa, di un’istituzione finanziaria o di uno Stato
sovrano (oltre una certa soglia tende a prodursi una crisi economica o finanziaria).
Coerentemente, nel corso degli anni, sia in campo economico-finanziario che in quello
ambientale si è andato diffondendo l’uso di valori “soglia”, come nel caso dei famosi
“parametri di Maastricht” sulla finanza pubblica, dei ratios di bilancio presi a riferimento dalle autorità di vigilanza bancaria e dei limiti
alla concentrazione di taluni fattori inquinanti nell’aria, nell’acqua o nel terreno,
cosicché quando tali valori vengono superati scattano automaticamente provvedimenti
sanzionatori, obblighi di aggiustamento, il blocco del traffico degli autoveicoli
o della vendita dei prodotti dannosi.
Al contrario, il concetto di sostenibilità sociale appare estremamente sfuggente.
La mancanza di una “teoria della rivoluzione” in grado di indicare valori “soglia”
della disoccupazione, della povertà e dell’esclusione sociale, oltre i quali si potrebbe
determinare una insostenibilità sociale, rende particolarmente difficile integrare
questa dimensione nel quadro concettuale della sostenibilità. Nell’ambito del progetto
dell’Ocse al quale ho fatto riferimento si propose anche di guardare alla sostenibilità
delle istituzioni che sovrintendono ad importanti politiche sociali (la sanità, la
previdenza, l’assistenza, l’educazione, ecc.): in questo modo, però, la sostenibilità
sociale veniva fondamentalmente ricondotta alla sostenibilità finanziaria delle politiche
sociali, un concetto che, evidentemente, spostava l’attenzione dai risultati per i
cittadini (outcome) agli strumenti con i quali si conducono le politiche (input),
il che rendeva questo approccio assolutamente insoddisfacente.
A metà degli anni 2000, dopo aver organizzato il primo Forum mondiale sulla misura
del progresso delle società (Palermo, 2004), che diede origine al movimento mondiale
per andare “oltre il Pil”, riuscimmo, non senza qualche resistenza, a convincere la
Conferenza degli Statistici Europei della Commissione Economica Europea delle Nazioni
Unite (Unece) a lanciare un progetto congiunto con l’Eurostat e l’Ocse per la misura
dello sviluppo sostenibile. Al termine del progetto si concordò su uno schema concettuale
basato su quattro diverse forme di capitale (economico, naturale, umano e sociale),
il cui depauperamento rende insostenibile il processo di sviluppo. Infatti, il capitale è ciò che lega le risorse disponibili per la generazione attuale
e per le future generazioni, anche se la possibile sostituibilità tra le diverse forme
di capitale (un po’ meno di capitale naturale in cambio di un po’ più di capitale
economico – o viceversa – non mette necessariamente a rischio la sostenibilità del
sistema) rende impossibile guardare ad una ipotetica somma algebrica delle diverse
forme di capitale per giudicare la sostenibilità dello sviluppo.
Questo schema basato sulle diverse forme di capitale per valutare la sostenibilità
è ormai abbastanza consolidato in sede internazionale. Mancano, però, standard statistici
per misurare il capitale umano e il capitale sociale in modo simile a quanto si fa
per il capitale economico e (almeno in termini fisici) per quello naturale. Di conseguenza,
gli indicatori di sviluppo sostenibile utilizzati in diversi Paesi sono solo delle
approssimazioni dello schema concettuale sopra richiamato, anche perché, in assenza
di misure accurate delle diverse forme di capitale (cioè dell’andamento degli stock),
è difficile trarre conclusioni precise sulla futura dinamica dello sviluppo guardando
ad indicatori di fenomeni sociali, economici, ambientali e istituzionali espressi
in unità di misura disomogenee e relativi al presente. Ciononostante, attraverso di
essi è possibile valutare i rischi che si verifichino situazioni insostenibili per
talune “aree del sistema” o danni irreparabili, come quelli legati alla riduzione
della biodiversità, soprattutto se gli indicatori sono utilizzati all’interno di modelli
in grado di delineare le probabili traiettorie future delle diverse variabili considerando
le interazioni che esistono tra i vari fenomeni.
L’introduzione delle quattro forme di capitale ci aiuta a capire il passaggio dal
modello di economia lineare della figura 6 ad uno basato sul concetto di sviluppo
sostenibile. Si guardi lo schema seguente, che proposi nel 2013 nel corso di un incontro
organizzato dal governo del Bhutan con circa settanta esperti provenienti da tutto
il mondo con lo scopo di gettare le basi di un nuovo modello di sviluppo. Nella parte a) della figura 7 si riconosce, in primo luogo, che la “macchina” funziona
finché non vengono esaurite le diverse forme di capitale (umano, sociale, naturale
ed economico) che la alimentano. Inoltre, si accetta l’idea che il modello di sviluppo
rispetti i limiti planetari e non sia orientato a produrre solo Pil, ma benessere
per tutti, un benessere fatto di migliori condizioni di salute, lavoro, rapporti interpersonali,
qualità dell’ambiente, ecc., e si riconosce che i risultati ottenuti hanno, a loro
volta, un impatto diretto sulle diverse forme di capitale (la salute e l’educazione
sul capitale umano, il reddito sul capitale economico, ecc.), cosicché si determina
un meccanismo di retroazione che assicura la sostenibilità dello sviluppo.
Figura 7. Schema di funzionamento di un nuovo modello di sviluppo
Parte a), a sinistra.
Parte b), a destra.
Nello schema appena presentato, però, mancano due elementi sempre più spesso considerati
da economisti, psicologi e filosofi: la felicità, intesa non come sentimento istantaneo
e transitorio ma come soddisfazione per la propria vita, e la resilienza, cioè la capacità di reagire positivamente ad uno shock, tornando
alla posizione precedente a quest’ultimo. Entrambi questi elementi hanno assunto,
nel corso degli ultimi venti anni, un ruolo abbastanza rilevante anche nel dibattito
economico, grazie alle ricerche rese possibili dallo sviluppo non solo di tecniche
di rilevazione statistica di fenomeni complessi, ma soprattutto delle neuroscienze,
a loro volta favorite dalla possibilità di valutare oggettivamente l’effetto di taluni
eventi sul cervello e sul corpo umano. Introduciamo allora, nella parte b) dello schema,
questi due elementi, i quali contribuiscono a trasformare le condizioni materiali
(ciò che si ha) in stati fisici e mentali (ciò che si è), i quali sono estremamente
importanti per il funzionamento dell’intero sistema: infatti, la ricerca scientifica
sull’argomento da un lato ci dice che se le persone sono più felici la “macchina”
funziona meglio e la sfera dei loro bisogni si modifica, superando la dimensione puramente
egoistica e comprendendo i bisogni della società nel suo complesso (cioè delle altre
persone) e dell’ecosistema; dall’altro, ci indica che la capacità di estrarre felicità
e di essere resilienti dipende non solo da fattori genetici (molto rilevanti), ma
anche dall’educazione e dalla cultura, cioè dal modo con cui funziona il modello di
sviluppo.
Da questa apparente digressione possiamo trarre due conclusioni importanti: la prima
ha a che fare con la possibilità di integrare in uno schema concettuale generale diverse
tipologie di fenomeni normalmente trascurati nel dibattito sullo sviluppo economico,
considerando allo stesso tempo fattori materiali e fattori immateriali, tutti ugualmente
importanti nel determinare quest’ultimo; la seconda riguarda il modo con cui, per
assicurare la sostenibilità nel tempo dello sviluppo, dobbiamo tenere sotto controllo
sia i flussi che gli stock, possibilmente misurandoli con la stessa accuratezza, perché
solo così facendo possiamo prendere in considerazione gli effetti negativi e positivi
che le nostre azioni determinano nel breve e nel lungo periodo, su tutte le componenti
del sistema.
Il modello di sviluppo sostenibile
dell’Agenda 2030
Nella figura 8 è descritto uno schema concettuale, costruito adattando quello proposto
da Robert Costanza e altri nel 1997, che rende ancora più articolato e completo il modello della figura 7b. Tale schema
parte dalla considerazione che un sistema “chiuso” come quello terrestre ricava dal
resto dell’universo energia solare e restituisce ad esso calore, e che il suo funzionamento
dipende dalle quattro forme di capitale già citate (naturale, economico, sociale e
umano), dal cui uso scaturiscono tutte le attività finalizzate ad aumentare il benessere
della società, sia nelle sue componenti materiali (cioè i beni e servizi prodotti
e successivamente consumati o investiti), sia nelle componenti immateriali.
Figura 8. Schema di funzionamento di un sistema economico-sociale-ambientale-istituzionale
sostenibile
Seguendo lo schema, si vede come i processi produttivi che utilizzano le diverse forme
di capitale determinano il Pil, una parte del quale, in base alle scelte politiche
e degli operatori economici, viene consumata, generando benessere, e una parte viene
reinvestita al fine di ricostituire il capitale utilizzato nel processo produttivo.
Inoltre, anche il modo con il quale i processi produttivi sono organizzati ha un effetto
diretto sul benessere (basti pensare ai modelli organizzativi adottati dalle imprese,
alla distribuzione del tempo tra lavoro e altre attività, ecc.).
D’altra parte, a seconda del modello di produzione e di consumo adottato viene generata
una certa quantità di “scarti”, sia fisici (spazzatura, sostanze inquinanti, ecc.)
sia umani (disoccupati, poveri, ecc.), per usare il linguaggio dell’Enciclica di Papa
Francesco Laudato si’. Ovviamente, la produzione di scarti ha un effetto negativo sul livello di benessere
delle singole persone e della società nel suo complesso. Infine, la quantità di scarti
fisici e umani generati ha un impatto diretto sui cosiddetti “servizi ecosistemici”,
cioè i benefici generati dagli ecosistemi a favore del genere umano, e sui “servizi sociosistemici”, cioè quelli generati dalla società a beneficio degli
esseri umani e necessari alla vita economica e sociale. Sia i servizi ecosistemici sia quelli sociosistemici esercitano, a loro volta, un
importante effetto sul benessere delle persone, il quale influenza il capitale umano
e sociale, analogamente a quanto avviene per gli investimenti con riferimento al capitale
fisico e naturale.
Figura 9. Posizionamento degli SDGs nello schema di funzionamento di un sistema economico-sociale-ambientale-istituzionale
sostenibile
Inserendo in tale schema gli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 (figura
9), essi smettono di essere semplicemente elementi scollegati di una “lista di sogni”
negoziata tra i governi, e diventano un vero e proprio “piano di battaglia” per migliorare
il funzionamento del sistema e aumentare il benessere della società nel breve e nel
lungo termine. Ad esempio, gli Obiettivi sul cibo, la salute e l’educazione puntano
a migliorare il capitale umano, mentre quelli riguardanti l’innovazione e le infrastrutture
contribuiscono al capitale fisico/economico e quelli relativi all’acqua, alla biodiversità
terrestre e a quella marina, e al funzionamento degli ecosistemi determinano quantità
e qualità del capitale naturale. Gli obiettivi riguardanti l’energia e la generazione
del lavoro impattano direttamente sulle caratteristiche dei processi di produzione,
quello relativo al consumo e alla produzione responsabili esercita un effetto diretto
sulla quantità di scarti generati, così come il funzionamento delle istituzioni ha
un impatto sui servizi sociosistemici, e quindi sul benessere delle persone e della
società nel suo complesso.
Se poi si tiene conto dei Target dettagliati che caratterizzano ciascun Obiettivo,
allora l’Agenda 2030 diventa ancora più utile e concreta. Si pensi, solo per citarne
uno, ai Target dell’Obiettivo 8 che riguardano l’aumento della produttività economica,
il supporto alle attività produttive, alla creazione di lavoro dignitoso, all’imprenditorialità,
alla creatività e all’innovazione attraverso l’accesso ai servizi finanziari, alla
sostanziale riduzione del numero di Neet, all’eliminazione del lavoro forzato, della
schiavitù moderna, del traffico di esseri umani e del lavoro minorile, tutti temi
di cui si parla spesso nel dibattito politico anche italiano. E allora tutto cambia
e diventa più facile superare la difficoltà, anche mentale, di considerare questi
aspetti parte di un quadro organico che tenga simultaneamente in considerazione anche
gli altri aspetti del sistema; parallelamente, diventa possibile abbandonare la logica
dei “due tempi”, spesso usata per giustificare provvedimenti orientati a conseguire
risultati immediati a costo di danni futuri, la cui rimozione può talvolta comportare
costi superiori ai benefici di breve termine.
A questo punto del ragionamento i critici dello sviluppo sostenibile, essendo in difficoltà
sul piano concettuale, ricorrono ad un ulteriore argomento, estremamente pratico,
sostenendo che, se “tutto dipende da tutto”, allora il decisore (in particolare, il
politico) non ha più modo di definire priorità, l’economista non può più indicare
gli effetti attesi dall’adozione di una certa politica economica, e così via, perché
è evidente che, in uno schema così ampio, ogni azione che produce effetti positivi
in un campo può produrne di negativi in un altro. Quindi, sostengono, questo approccio
conduce alla paralisi, cioè ad un risultato inaccettabile anche, e soprattutto, per
chi ritiene necessario intervenire per stimolare il cambiamento verso lo sviluppo
sostenibile.
In realtà, si tratta di una critica del tutto infondata: infatti, già oggi si cerca
di tenere conto delle complessità del sistema e dei costi/benefici a medio-lungo termine
(al punto tale che nel campo della finanza e in quello assicurativo si valutano normalmente
i rischi derivanti da esternalità di varia natura), mentre le imprese stanno adottando
indicatori integrati di bilancio che considerano anche il loro impatto sociale e ambientale,
al di là del risultato finanziario di breve termine, proprio per modificare i loro
comportamenti a favore dello sviluppo sostenibile. La differenza tra l’approccio dello sviluppo sostenibile e quello classico risiede,
quindi, fondamentalmente nell’ampiezza e nella tipologia degli effetti presi in considerazione
e, soprattutto, nella dimensione della “giustizia intergenerazionale” insita nel modello
dello sviluppo sostenibile e assente, invece, in gran parte delle valutazioni correnti
delle politiche e delle decisioni degli operatori economici, come se il tempo davanti
a noi fosse infinito o abbastanza lungo per consentire di gestire o riassorbire tutte
le esternalità negative.
Peraltro, la presunta impossibilità di utilizzare in pratica uno schema concettuale
più ampio viene smentita non solo dal fatto che in alcuni Paesi le valutazioni delle
politiche già cercano di calcolare al meglio il loro impatto complessivo sui fenomeni
economici, sociali e ambientali, ma soprattutto dall’evidenza che non è vero che “tutto
dipende da tutto”, o almeno che le relazioni tra i diversi aspetti hanno intensità
diversa e che alcuni dei Target dell’Agenda 2030 sono in realtà indipendenti dagli
altri. Tra i molti lavori pubblicati negli ultimi anni al riguardo, uno dei più interessanti ha cercato di classificare gli Obiettivi e i Target in base al loro grado di interdipendenza,
giungendo a definire una tassonomia articolata in sette tipologie:
– obiettivi indivisibili, inestricabilmente legati al raggiungimento di altri obiettivi;
– obiettivi rinforzanti, il cui raggiungimento aiuta il conseguimento di altri obiettivi;
– obiettivi abilitanti, che creano le condizioni per favorire il raggiungimento di
altri obiettivi;
– obiettivi consistenti, che non hanno interazioni con altri obiettivi;
– obiettivi limitanti, che limitano le opzioni per raggiungere altri obiettivi;
– obiettivi contrastanti, che confliggono con altri obiettivi;
– obiettivi incompatibili, che rendono impossibile raggiungere altri obiettivi.
Con uno strumento di questo tipo è possibile sia analizzare un programma di azione,
politico o aziendale, derivando indicatori quantitativi della sua fattibilità, sia
selezionare al suo interno le azioni che possono essere condotte in parallelo (essendo
sostanzialmente indipendenti le une dalle altre), quelle da realizzare congiuntamente
e quelle che, invece, richiedono una profonda trasformazione dei processi, senza la
quale il raggiungimento dei diversi obiettivi diventa impossibile.
A questo punto, considerando simultaneamente i concetti di resilienza e di sostenibilità,
possiamo ripensare alle politiche pubbliche con categorie nuove (figura 10), a seconda
che esse tendano a: “prevenire”, e in taluni casi evitare, gli shock (politiche preventive);
“preparare” le persone, l’ambiente, le imprese e la società a reagire positivamente
a possibili shock o a gestirli senza eccessivi danni; “proteggere”, cioè a mitigare
il loro impatto; “promuovere” i cambiamenti necessari per adattarsi alle nuove condizioni;
“trasformare” il sistema e i suoi meccanismi di funzionamento verso lo sviluppo sostenibile.
Questo schema può essere applicato indipendentemente dal fatto che le politiche siano
relative a fenomeni economici, sociali o ambientali, il che consente di superare una
categorizzazione tipica del Novecento. Ovviamente, mentre politiche di prevenzione
e preparazione sono utili sempre e comunque, se è possibile assorbire lo shock prevarranno
politiche volte a proteggere, mentre se è necessario adattare il sistema, allora prevarranno
interventi volti alla promozione del cambiamento. Infine, se è necessario trasformare
radicalmente il sistema allora è probabile che tutte le politiche dovranno essere
condotte secondo una visione molto più ampia dei problemi, in grado di modificare
gli assetti di fondo della vita sociale ed economica.
Figura 10. Politiche pubbliche per assicurare la stabilità, per gestire l’adattamento e per
realizzare la trasformazione del sistema
All’interno dello schema proposto, a fronte di uno shock (finanziario, economico,
ambientale, ecc.) il sistema dovrebbe essere riportato alla posizione antecedente
solo se quest’ultima è considerata coerente con una condizione di sviluppo sostenibile.
Altrimenti, si dovrebbe utilizzare l’occasione dello shock non per “rimbalzare indietro”,
ma per “rimbalzare avanti” verso una nuova posizione di equilibrio. Si può introdurre,
quindi, il concetto di “resilienza trasformativa”, che sfrutta la spinta derivante
dallo shock per compiere un balzo in avanti, piuttosto che cercare di tornare indietro.
Ebbene, questo è esattamente ciò che il mondo si è impegnato a fare con l’Agenda 2030,
la quale non è semplicemente un elenco di aspirazioni del tutto irrealizzabili, ma
può rappresentare un quadro di riferimento articolato e coerente per leggere la realtà,
anticipare gli shock prossimi venturi, preparare il sistema ad assorbirli, ad aggiustarsi
o a trasformarsi a seconda dei casi, attraverso politiche integrate e altri processi
in grado di portare il mondo su un sentiero di sviluppo veramente sostenibile, in
grado di soddisfare le aspirazioni degli esseri umani, rispettando i limiti del Pianeta
e i delicati equilibri degli ecosistemi che ci sono stati affidati.
In conclusione, per sperare di evitare il collasso bisogna abbandonare quanto prima
molti dei paradigmi che stanno ancora guidando il mondo. Non sarebbe la prima volta
che assisteremmo al crollo di una civiltà, ma sarebbe certamente la prima che esso
potrebbe riguardare, simultaneamente, l’intero genere umano o gran parte di esso.
E non è questo il futuro che vogliamo, per noi e per i nostri figli e nipoti, con
buona pace di Groucho Marx.