6.
Quando la situazione si scalda
Nel 2019 è impossibile ragionare sulla crescita economica senza prendere in considerazione
la sua conseguenza più immediata.
Sappiamo già che nel corso del prossimo secolo la terra diventerà più calda: la domanda
è quanto più calda. I costi dei cambiamenti climatici saranno ben diversi a seconda
se il pianeta si riscalderà di 1,5°C, 2°C o ancora di più. Secondo il rapporto del
Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc) dell’ottobre 2018,
con un riscaldamento di 1,5°C il 70 per cento delle barriere coralline scomparirebbe;
con un riscaldamento di 2°C, il 99 per cento1. Anche il numero di persone che subirebbero gli effetti diretti dell’aumento del
livello dei mari e della trasformazione di terre coltivabili in deserto sarebbe notevolmente
diverso nei due scenari.
La larghissima maggioranza degli scienziati ritiene che la responsabilità dei cambiamenti
climatici sia da attribuire all’attività umana e che l’unico modo per evitare una
catastrofe sia ridurre le emissioni di anidride carbonica (CO2)2. Secondo l’accordo di Parigi del 2015, le nazioni dovrebbero fissare un obbiettivo
per limitare il riscaldamento a 2°C, con un obbiettivo più ambizioso di 1,5°C. Basandosi
sui dati scientifici, il rapporto dell’Ipcc conclude che per limitare il riscaldamento
a 2°C le emissioni di CO2 equivalente (CO2e)3 dovrebbero essere ridotte del 25 per cento entro il 2030 (rispetto al livello del
2010) e scendere a zero entro il 2070. Per raggiungere 1,5°C, dovrebbero scendere
del 45 per cento entro il 2030 e arrivare a zero entro il 2050.
I cambiamenti climatici sono enormemente iniqui. La parte preponderante delle emissioni
di CO2e è generata nei paesi ricchi o in ogni caso per produrre cose consumate dagli abitanti
dei paesi ricchi. Ma la maggior parte dei costi è sostenuta, e sarà sostenuta, dai
paesi poveri. È quindi un problema irrisolvibile, considerando che chi dovrebbe risolverlo
non ha un forte impulso a farlo? Oppure c’è qualche speranza?
La regola del 50-10
Il rapporto dell’Ipcc espone nel dettaglio tutto quello che bisognerebbe fare per
tagliare le emissioni e limitare il riscaldamento a 1,5°C. Alcune misure potrebbero
essere adottate già adesso: passare alle auto elettriche, costruire edifici a zero
emissioni, realizzare più treni sarebbero tutte cose utili. Ma la verità è che anche
con i miglioramenti tecnologici, e anche se riuscissimo a liberarci completamente
del carbone, in assenza di un chiaro spostamento in direzione di consumi più sostenibili
qualsiasi crescita economica futura avrà un forte impatto diretto sui cambiamenti
climatici. Questo perché c’è bisogno di energia per produrre tutte le cose in più
che consumiamo. Generiamo emissioni di anidride carbonica non solo quando guidiamo
le nostre automobili, ma anche quando le lasciamo nel garage, perché è stata usata
energia per produrre l’automobile e il garage, e questo vale anche per le auto elettriche.
Sono molti gli studi che cercano di analizzare la relazione tra reddito ed emissioni
di anidride carbonica. La risposta varia a seconda del clima, delle dimensioni del
nucleo familiare e via discorrendo, ma i due fattori sono sempre strettamente correlati.
La stima media calcola che quando il vostro reddito aumenta del 10 per cento, le vostre
emissioni di CO2 aumentano del 9 per cento4.
Ciò significa che, anche se Europa e Stati Uniti sono responsabili della gran parte
delle emissioni globali pregresse, una quota sempre maggiore delle emissioni correnti
è da addebitarsi alle economie emergenti, in particolare la Cina, che oggi è il maggior
inquinatore mondiale. Questo è dovuto principalmente alle merci prodotte in Cina ma
consumate in altre parti del mondo. Se addebitiamo le emissioni al luogo in cui avviene
il consumo, allora i nordamericani consumano 22,5 tonnellate di CO2e l’anno pro capite, gli europei occidentali 13,1, i cinesi 6 e gli abitanti del subcontinente
indiano solo 2,2.
All’interno dei paesi in via di sviluppo, inoltre, i ricchi consumano molta più anidride
carbonica dei poveri. Gli individui più ricchi in India e in Cina appartengono al
gruppo ristretto del 10 per cento di individui che inquinano di più al mondo (e contribuiscono
rispettivamente all’1 e al 10 per cento delle emissioni di tale gruppo, ossia allo
0,45 e al 4,5 per cento delle emissioni mondiali). Per fare un confronto, il 7 per
cento più povero della popolazione indiana emette appena 0,15 tonnellate di anidride
carbonica l’anno pro capite. Complessivamente, vige la regola del 50-10: il 10 per
cento della popolazione mondiale (i maggiori inquinatori) contribuisce grosso modo
al 50 per cento delle emissioni di anidride carbonica, mentre il 50 per cento che
inquina meno contribuisce a poco più del 10 per cento.
I cittadini dei paesi ricchi, e più in generale i ricchi di tutto il mondo, portano
un’enorme responsabilità per qualsiasi cambiamento climatico futuro.
Un tuffo nel Baltico
Un giorno di giugno, all’inizio degli anni Novanta, incoraggiato dal suo amico e collega
economista Jörgen Weibull, Abhijit provò a farsi una nuotata nel Baltico. Si tuffò
e schizzò fuori quasi all’istante: racconta che continuò a battere i denti per tre
giorni. Nel 2018, sempre a giugno, siamo andati nello stesso mare ma a Stoccolma,
molte centinaia di chilometri più a nord del suo precedente incontro con quelle acque,
e questa volta è stato letteralmente un gioco da ragazzi: i nostri bambini hanno giocato
e saltellato nell’acqua.
Dovunque siamo stati in Svezia, le temperature insolitamente alte erano un argomento
di conversazione. Probabilmente era un cattivo presagio che tutti avvertivano, ma
per il momento era difficile non rallegrarsi delle nuove opportunità di fare vita
all’aperto.
Nei paesi poveri, questa ambivalenza verso il riscaldamento globale non c’è. Se la
terra si riscalda di un grado centigrado o due, i residenti del Nord Dakota in linea
di massima saranno ben contenti. I residenti di Dallas probabilmente un po’ meno.
I residenti di Delhi e di Dacca sperimenteranno un maggior numero di giornate di calura
insopportabile. Per fare solo un esempio, tra il 1957 e il 2000 l’India ha sperimentato
in media cinque giorni l’anno con una temperatura quotidiana media al di sopra dei
35°C5. Senza una politica climatica mondiale, si prevede che entro la fine del secolo le
giornate del genere diventeranno settantacinque; il cittadino americano medio ne sperimenterà
solo ventisei. Il problema è che i paesi più poveri tendono a essere più vicini all’equatore,
ed è in quell’area che i cambiamenti climatici colpiranno in modo più pesante.
Tanto per peggiorare le cose, i residenti dei paesi poveri sono meno attrezzati per
proteggersi contro i potenziali effetti negativi delle temperature alte. Non hanno
condizionatori (perché sono poveri) e lavorano nei campi, nei cantieri o nelle fornaci
da mattoni, dove installare sistemi di aria condizionata non è proprio possibile.
Quali impatti avrà l’aumento della temperatura prodotto dai cambiamenti climatici
sulla vita in questi paesi? Non possiamo semplicemente confrontare posti più caldi
e posti più freddi per rispondere a questa domanda, perché ci sono moltissime altre
differenze. L’elemento che ci consente di dire qualcosa sul potenziale impatto del
cambiamento della temperatura è che la temperatura, in una data località e in un dato
giorno del calendario, varia di anno in anno. Ci sono anni con estati particolarmente
calde, anni con inverni particolarmente freddi e anni fortunati in cui sia l’inverno
che l’estate sono miti. L’economista ambientale Michael Greenstone è stato il primo
ad avere l’idea di usare queste fluttuazioni del clima da un anno all’altro per cercare
di comprendere l’impatto dei cambiamenti climatici futuri. Per esempio, se in un distretto
indiano in un certo anno aveva fatto particolarmente caldo, la produzione agricola
era stata più bassa rispetto allo stesso distretto in altri anni, o rispetto ad altri
distretti dove non aveva fatto così caldo?
Ci sono diverse ragioni per non fidarsi ciecamente di questo approccio specifico.
Le differenze climatiche permanenti sicuramente stimoleranno innovazioni per limitare
il loro impatto. Non le coglieremo negli effetti dei cambiamenti di anno in anno,
perché l’innovazione richiede tempo. Per altro verso, i cambiamenti permanenti possono
avere altri costi che non si verificano quando il cambiamento è temporaneo, come il
prosciugamento della falda acquifera. In altre parole, queste stime potrebbero essere
troppo piccole o al contrario troppo grandi. Ma fintanto che la distorsione delle
stime è la stessa per i paesi ricchi e per i paesi poveri, è comunque utile confrontare
le previsioni che abbiamo. La conclusione generale è che i danni dei cambiamenti climatici
saranno molto più pesanti nei paesi poveri: negli Stati Uniti, il comparto agricolo
soffrirà, ma in India, Messico e Africa le perdite saranno molto più ingenti. In alcune
parti d’Europa, per esempio nei vigneti della valle della Mosella, ci sarà più sole
a riscaldare le vigne, e la previsione è che miglioreranno sia la qualità che la quantità
del vino prodotto6.
L’effetto delle temperature alte sulla produttività non è limitato all’agricoltura.
Le persone sono meno produttive quando fa caldo, soprattutto se devono lavorare all’aperto.
Per esempio, i dati degli Stati Uniti indicano che con temperature superiori ai 38°C
l’offerta di manodopera per i lavori all’aperto cala di ben un’ora al giorno, rispetto
a un intervallo di temperatura fra i 24°C e i 26°C7. Non c’è nessun effetto statisticamente individuabile nei settori che non sono influenzati
dal clima (per esempio, le attività non manifatturiere svolte all’interno di spazi
chiusi). I bambini hanno un rendimento più basso agli esami al termine di anni scolastici
in cui le temperature sono state particolarmente elevate. Questi effetti sono assenti
dove le scuole hanno l’aria condizionata, perciò colpiscono maggiormente i bambini
più poveri8.
In India, le fabbriche provviste di aria condizionata sono rare. In una fabbrica di
abbigliamento, uno studio ha analizzato come la produttività dei lavoratori variava
in base alla temperatura9. Per temperature inferiori ai 27-28°C, l’effetto in termini di efficienza era molto
limitato. Ma per temperature giornaliere medie al di sopra di questa soglia (circa
un quarto dei giorni di produzione), l’efficienza calava del 2 per cento per ogni
grado in più.
Mettendo tutto insieme, uno studio ha riscontrato che a livello mondiale 1°C in più
in un anno riduce il reddito pro capite dell’1,4 per cento, ma solo nei paesi poveri10.
E naturalmente le conseguenze di un clima più caldo non sono limitate al reddito.
Numerosi studi sottolineano i pericoli delle alte temperature per la salute. Negli
Stati Uniti, un giorno di calore estremo (superiore ai 32°C) in più rispetto a un
giorno moderatamente freddo (10-15°C) innalza il tasso di mortalità annuale corretto
per l’età di circa lo 0,11 per cento11. In India, l’effetto è venticinque volte maggiore12.
Salvavita
L’esperienza degli Stati Uniti dimostra anche che il fatto di essere più ricchi e
tecnologicamente avanzati può contribuire a mitigare i rischi. In America, le stime
degli impatti delle alte temperature sulla mortalità negli anni Venti e Trenta erano
sei volte più alte rispetto a quelle di oggi. La differenza, probabilmente, è dovuta
interamente alla diffusione molto più ampia dell’aria condizionata, un meccanismo
fondamentale per adattarsi all’aumento delle temperature13. Questo spiega perché, negli anni caldi, la domanda di energia nei paesi ricchi sale
enormemente. Nei paesi poveri, dove l’aria condizionata è ancora rara (nel 2011 l’87
per cento delle famiglie negli Stati Uniti aveva l’aria condizionata, contro appena
il 5 per cento degli indiani)14, vediamo cali più accentuati della produttività e incrementi della mortalità quando
la temperatura sale. In questi posti, l’aria condizionata potrebbe essere uno strumento
di adattamento decisivo. Non dovrebbe essere un lusso, però lo è.
Man mano che i paesi poveri diventano più ricchi, possono permettersi più facilmente
l’aria condizionata. Tra il 1995 e il 2009 il rapporto fra condizionatori e abitazioni
nella Cina urbana è salito dall’8 per cento a oltre il 100 per cento (vuol dire che
c’era più di un condizionatore per famiglia)15. Ma l’aria condizionata stessa contribuisce ad aggravare il riscaldamento globale.
I gas idrofluorocarburi usati nei normali condizionatori hanno un impatto particolarmente
deleterio sul clima: sono molto più pericolosi dell’anidride carbonica. Questo ci
mette in una situazione abbastanza difficile. La stessa tecnologia che può contribuire
a proteggere le persone dai cambiamenti climatici li accelera. I nuovi condizionatori
che non usano idrofluorocarburi inquinano meno, ma per il momento sono molto più costosi.
Un paese come l’India, che è quasi arrivato al livello di benessere che le consentirebbe
di potersi permettere i condizionatori più economici, deve fare una scelta particolarmente
sgradevole: salvare vite oggi o frenare i cambiamenti climatici per salvare vite in
futuro.
Un accordo raggiunto nell’ottobre 2016 a Kigali (la capitale del Ruanda), dopo anni
di negoziati, illustra come si orienta il mondo (quando riesce a orientarsi) di fronte
a questo dilemma. L’accordo di Kigali ha creato tre percorsi differenti: i paesi ricchi,
come gli Stati Uniti, il Giappone e l’Europa, cominceranno a eliminare gradualmente
gli idrofluorocarburi sintetici nel 2019, la Cina e un centinaio di altri paesi in
via di sviluppo nel 2024 e un piccolo gruppo di paesi, fra cui l’India, il Pakistan
e alcuni Stati del Golfo, potrà rimandare la data di inizio di questa transizione
tecnologica fino al 2028. Pur essendo consapevole che i suoi cittadini sono al tempo
stesso vittime e causa del riscaldamento globale, il governo indiano ha deciso che
preferisce salvare vite umane oggi piuttosto che affrontare il problema subito. Probabilmente
le autorità di Nuova Delhi fanno affidamento sul fatto che la crescita economica,
negli anni che mancano al 2028, consentirà agli indiani di accedere ai condizionatori
più costosi (che nel frattempo, magari, saranno anche diventati più economici). Ma
durante questi dieci anni potrebbe esserci una rapidissima diffusione dei condizionatori
vecchio stile in India, specie se si considera che i fabbricanti di apparecchi a base
di idrofluorocarburi vorranno trovare uno sbocco per i loro prodotti, che rimarranno
operativi e continueranno a inquinare ancora per anni dopo il 2028. Una dilazione
che potrebbe rivelarsi molto costosa per il pianeta.
Agire subito?
Il dilemma dell’aria condizionata è una dimostrazione particolarmente drammatica delle
difficili scelte con cui deve misurarsi l’India, scelte fra presente e futuro. Più
in generale, fino all’accordo di Parigi del 2015 l’India rifiutava anche solo di prendere
in considerazione l’imposizione di limiti alle proprie emissioni, sostenendo che non
poteva permettersi di intralciare la sua crescita economica e che erano i paesi ricchi
che dovevano accollarsi il peso dell’aggiustamento. La posizione di Nuova Delhi si
è evoluta quando l’India ha ratificato l’accordo di Parigi e ha preso un impegno concreto,
chiedendo in cambio aiuti finanziari importanti per rendere economicamente praticabile
la transizione energetica, da finanziare attraverso un fondo internazionale foraggiato
dai paesi ricchi. Anche se le sue emissioni in questo momento non rappresentano una
quota rilevante del totale mondiale, in prospettiva l’India diventerà uno dei principali
inquinatori, via via che la sua classe media aumenterà progressivamente i propri consumi.
A differenza degli Stati Uniti, inoltre, una gran parte della sua popolazione sarà
anche direttamente e pesantemente colpita dai cambiamenti climatici, perciò dovrebbe
essere nella posizione ideale per comprendere i costi delle scelte odierne. La riluttanza
dell’India ad agire, quindi, è profondamente preoccupante, non solo perché ha un impatto
diretto, ma perché è la dimostrazione che fra gli esponenti politici prevale un’ottica
di breve periodo.
La domanda chiave è se la scelta sia così netta come sembrano pensare gli indiani
(o gli americani, se è per questo). Siamo davvero obbligati a rinunciare a qualcosa
oggi? Forse è possibile riuscire ad avere la botte piena e anche la moglie ubriaca,
se riusciremo a sviluppare e adottare tecnologie migliori, che ci consentano di limitare
il riscaldamento senza rinunciare a una parte eccessiva del nostro stile di vita.
Dopo tutto, solo qualche anno fa gli esperti di energia ammonivano con severità che
le fonti di energia rinnovabili (solare ed eolico) erano semplicemente troppo costose
e che era assurdo investire su di esse come alternativa ai combustibili fossili. Oggi
sono notevolmente più economiche, grazie soprattutto ai progressi tecnologici realizzati
in quei settori. Anche l’efficienza energetica è molto migliorata, e potrebbe migliorare
ancora di più. Nel 2006 il governo britannico commissionò all’ex economista capo della
Banca mondiale, Lord Nicholas Stern, la preparazione di un rapporto sulle conseguenze
economiche dei cambiamenti climatici, il Rapporto Stern16. Il documento concludeva ottimisticamente:
Eppure, nonostante questa correlazione storica e la sua proiezione in uno scenario
business-as-usual, il mondo non deve necessariamente scegliere tra riduzione delle emissioni e promozione
della crescita e dello sviluppo. I cambiamenti nelle tecnologie impiegate nel settore
energetico e nella struttura economica hanno allentato la correlazione tra livello
delle emissioni e crescita economica, soprattutto in alcuni dei paesi più ricchi.
Attraverso la scelta di politiche forti ed esplicite, sarà possibile «decarbonizzare»
in misura sufficiente alla stabilizzazione del clima sia le economie dei paesi sviluppati,
sia quelle dei paesi in via di sviluppo, senza compromettere la crescita economica.
Amen e così sia. In ogni caso, non sarà certo gratis. Il Rapporto Stern concludeva che, ipotizzando un tasso di progresso tecnologico nel «settore verde»
basato su estrapolazioni dalla storia recente, costerebbe circa l’1 per cento del
Pil mondiale ogni anno stabilizzare le emissioni al livello necessario per sventare
il riscaldamento globale. Ma sembra un costo modesto per evitare di mettere a rischio
il futuro del mondo così come lo conosciamo.
Una speranza è che gli sforzi di ricerca e sviluppo possano reagire agli incentivi17. La spesa in ricerca e sviluppo è fortemente influenzata dalle dimensioni del mercato
per le nuove innovazioni che si propone di finanziare18. Pertanto, uno stimolo temporaneo a ricercare alternative pulite a tecnologie inquinanti
(sotto forma di una tassa sulle emissioni che renderebbe più costoso usare le vecchie
tecnologie e/o sussidi diretti alla ricerca nel campo delle tecnologie pulite) potrebbe
avere un effetto valanga, creando una domanda. La tecnologia pulita diventerebbe più
economica e quindi più attraente, e questo incrementerebbe la domanda e di conseguenza
i rendimenti della ricerca e sviluppo. Alla fine, il settore delle tecnologie pulite
diventerebbe sufficientemente attraente da spodestare le tecnologie inquinanti, e
così saremmo a cavallo. La nostra piccola locomotiva economica potrebbe tornare sulla
sua traiettoria di equilibrio con la stessa crescita di prima, alimentata da vento,
acqua e sole. Dopo un po’ di tempo, potremmo addirittura revocare tutte le tasse e
i sussidi usati per incoraggiare queste fonti energetiche.
È facile immaginare come potrebbe funzionare la faccenda. È anche spaventosamente
facile immaginare come potrebbe non funzionare. Dopo tutto, le tecnologie inquinanti rimarrebbero in circolazione. Se
meno persone usassero petrolio e carbone, i prezzi di questi fattori precipiterebbero
e quindi la tentazione di tornare a usarli sarebbe molto forte. È vero che il fatto
che il carbone e il petrolio siano fonti non rinnovabili comporta che i loro prezzi
tendano a salire nel tempo (man mano che le scorte si esauriscono), ma probabilmente
sottoterra ci sono abbastanza riserve di carbone e petrolio da condurci all’apocalisse.
È difficile essere del tutto fiduciosi.
Un pasto gratis?
Gli ottimisti, in sostanza, sperano di avere un pasto gratis. Le aziende e le persone
risparmieranno soldi adottando le tecnologie più pulite, perché la ricerca le avrà
rese molto più economiche. Adottare tecnologie pulite sarebbe una vittoria per i singoli
individui e una vittoria per il pianeta. La prospettiva di un pasto gratis è sempre
allettante. Anzi, è talmente allettante che gioca un ruolo dominante nel dibattito
sui cambiamenti climatici. Stime tecniche dettagliate pronosticano immancabilmente
investimenti che accresceranno l’efficienza energetica, ripagandosi da soli sotto
forma di una bolletta energetica più contenuta. Un rapporto della McKinsey del 2009,
Unlocking Energy Efficiency in the U.S. Economy, ha fatto molto scalpore19. Lo studio stimava che un «approccio olistico» agli investimenti nell’efficienza
energetica avrebbe «fruttato risparmi energetici lordi per un valore di oltre 1.200
miliardi di dollari, ben al di sopra dei 520 miliardi necessari fino al 2020 per investimenti
anticipati in misure di efficientamento». Nel 2013 l’Agenzia internazionale per l’energia
ha calcolato che i parametri di efficienza energetica da soli potrebbero garantirci
il 49 per cento della riduzione di emissioni di CO2 di cui abbiamo bisogno, lasciando tutto il resto invariato20.
Se è così, allora forse il problema è relativamente facile da risolvere: tutto quello
che dobbiamo fare è colmare questo «divario di efficienza energetica». Dobbiamo identificare
le barriere che impediscono ai consumatori (e alle aziende) di intraprendere questi
investimenti: forse non lo sanno, forse non hanno la possibilità di ottenere un prestito
per sostenere i costi iniziali, forse sono poco lungimiranti o forse si abbandonano
all’inerzia.
Sfortunatamente, quando si va a guardare l’andamento reale di questa soluzione apparentemente
a portata di mano invece che le previsioni dei modelli tecnici, le buone notizie si
riducono. Il programma federale Wap (Programma di assistenza per l’isolamento dagli
agenti atmosferici) è il più grande programma di efficientamento energetico per abitazioni
negli Stati Uniti: da quando è stato creato, nel 1976, ha interessato 7 milioni di
famiglie. Michael Greenstone, insieme a una squadra di economisti, ha avuto la possibilità
di proporre a circa 750 famiglie del Michigan, selezionate in modo casuale su un totale
di 30.000, di partecipare al programma21. Alle famiglie prescelte venivano offerti oltre 5.000 dollari per investimenti in
lavori di isolamento dagli agenti atmosferici (coibentazione, sostituzione delle finestre
ecc.), senza nessun esborso da parte loro. I ricercatori poi hanno raccolto dati su
chi ci aveva guadagnato e chi ci aveva rimesso. Lo studio randomizzato controllato
ha dato tre indicazioni principali: la prima è che la domanda per il programma in
realtà era bassa: nonostante i soldi investiti in un’aggressiva campagna promozionale,
solo il 6 per cento delle famiglie nel gruppo oggetto dello studio alla fine avevano
accettato l’offerta; il secondo risultato è che i guadagni in termini di consumi energetici
erano reali (la bolletta dell’energia scendeva del 10-20 per cento per quelli che
aderivano al programma), ma erano solamente un terzo di quelli previsti dalle stime
tecniche, e molto più bassi dei costi da sostenere inizialmente; il terzo risultato
è che la ragione di questo scostamento fra risparmi previsti e risparmi reali non
era che le famiglie avevano reagito al calo della bolletta alzando il riscaldamento
di casa (il cosiddetto «effetto rimbalzo»): i ricercatori non avevano riscontrato
nessun aumento della temperatura media delle abitazioni. Le stime tecniche, a quanto
pare, non sono pienamente applicabili alle case reali nel mondo reale: peccano largamente
di ottimismo.
Il divario fra le rosee previsioni delle stime tecniche e la verità non riguarda soltanto
le famiglie. Un ricercatore ha lavorato insieme al dipartimento cambiamenti climatici
del governo del Gujarat (uno degli Stati più industrializzati e inquinati dell’India)
per fornire alle piccole e medie imprese una consulenza di alto livello sull’efficientamento
energetico22. Un campione casuale di aziende riceveva una valutazione energetica gratuita, che
forniva una lista di investimenti per l’efficientamento energetico approvati e fortemente
sovvenzionati dallo Stato (usando un programma preesistente), dopo di che un sottoinsieme
di queste aziende, sempre selezionato con criteri randomizzati, riceveva visite regolari
dai consulenti energetici per facilitare l’adozione delle misure. Da sole, le valutazioni
avevano avuto un impatto limitato sull’adozione delle nuove tecnologie. La consulenza
aveva determinato un tasso di adozione più ampio, ma aveva anche provocato cambiamenti
nei comportamenti delle aziende, che avevano cominciato a produrre di più, incrementando
quindi la loro domanda di energia. Complessivamente, non c’è stato nessun effetto
sul consumo di energia, questa volta a causa dell’effetto rimbalzo. Anche in questo
caso, gli ingegneri che avevano calcolato i potenziali guadagni in termini di emissioni
derivanti dall’adozione delle tecnologie di risparmio energetico erano stati troppo
ottimisti nelle loro previsioni.
La nostra sensazione è che probabilmente tutti questi pasti gratis non esistono. La
mitigazione attraverso tecnologie migliori verosimilmente non basta: la gente deve
consumare di meno. Non ci potremo accontentare di avere automobili più pulite: dovremo
anche abituarci ad avere automobili più piccole o a non averle proprio.
La risposta di Greenpeace
Non è quello che i nostri colleghi economisti amano sentire. In primo luogo, perché
gli economisti sono da sempre innamorati dei consumi materiali come indicatore di
benessere, e in secondo luogo perché sono diffidenti verso tutti quegli sforzi che
mirano a modificare i comportamenti, soprattutto quando si tratta di intervenire sulle
preferenze. Molti economisti coltivano un’ostilità filosofica nei confronti della
manipolazione delle preferenze.
La ragione di questa riluttanza è la convinzione storica che ci sia qualcosa di «vero»
nelle preferenze delle persone, e che le loro azioni riflettano desideri profondi.
Qualsiasi tentativo di convincere la gente a fare qualcosa di diverso (per esempio,
consumare meno o consumare in modo diverso) rappresenterebbe un’intromissione in queste
preferenze. Ma come abbiamo visto nel capitolo 4, le preferenze non sono mai così
nette e definite. Se le persone non sanno come la pensano veramente su cose banali
come una scatola di cioccolatini o una bottiglia di vino, perché dovremmo aspettarci
che abbiano preferenze chiare sui cambiamenti climatici? O sul tipo di mondo in cui
vorrebbero che vivessero i loro nipoti? O se gli abitanti delle Maldive meritano di
vedere le loro isole inghiottite dall’innalzamento del livello del mare? E che sappiano
quanto sono disposti a cambiare del loro stile di vita per prevenire questi disastri?
Gli economisti di regola partono dal presupposto che la maggior parte delle persone
spontaneamente non sia disposta a sacrificare nulla per migliorare la vita di persone
che non sono ancora nate o che vivono molto lontane da loro. Ma questo probabilmente
non vale per voi che state leggendo questo libro (altrimenti lo avreste chiuso già
da parecchio tempo). E non vale neanche, se è per questo, per la maggior parte degli
economisti stessi. Molti di noi probabilmente si preoccupano di tutta una serie di
cose che non ci influenzano in modo diretto, anche se abbiamo difficoltà ad assegnargli
un valore monetario.
La ragione per cui tutto ciò è importante è che cambia il modo in cui dovremmo ragionare
sui nostri interventi di politica economica. Se tutti hanno preferenze ben definite
e agiscono di conseguenza (per esempio, se non gliene importa nulla dei danni che
procurano ad altre persone), la politica ambientale ideale è quella che stabilisce
un prezzo per il danno arrecato all’ambiente ma per il resto lascia che il mercato
faccia il suo lavoro. È l’idea alla base della tassa sulle emissioni, che ormai quasi
tutti gli economisti, noi compresi, hanno sposato. Era al centro delle ricerche di
William Nordhaus, che grazie a essa ha vinto il premio Nobel nel 2018. Essere costrette
a pagare un prezzo esplicito per l’inquinamento è una cosa che le aziende prendono
sicuramente in considerazione. Anche consentire alle imprese di comprare il diritto
di inquinare da altre aziende che stanno effettivamente riducendo l’inquinamento (il
concetto dei crediti di emissione scambiabili) può essere una buona idea, perché crea
l’incentivo, per le aziende non inquinanti, a trovare modi per «disinquinare» attivamente,
per esempio piantando alberi. E gli introiti delle tasse a carico di chi inquina sono
utili, perché abbiamo bisogno di finanziare nuove tecnologie ecologiche.
Ma ci sono motivi più che fondati per andare oltre i crediti di emissione. Prendiamo
una persona che vuole impegnarsi a fondo per combattere i cambiamenti climatici, ma
alla fine non compra mai le lampadine a Led, che consumano meno energia. La ragione
potrebbe essere che non sa delle lampadine a Led, o che dimentica di comprarle quando
va in negozio, o che non riesce a decidere quanto in più è disposto a spendere per
le lampadine a Led perché fatica ad assegnare un valore monetario alla sua volontà
di prevenire i cambiamenti climatici. Per una persona del genere, le cose migliorerebbero
o peggiorerebbero se il governo decidesse di vietare la vendita di tutti gli altri
tipi di lampadine?
Oppure, se una messa al bando appare troppo estrema, il governo potrebbe «spingere»
gentilmente le persone verso scelte migliori per l’ambiente. Per esempio, i contatori
intelligenti ora consentono di addebitare prezzi più alti per i consumi di energia
elettrica durante gli orari di picco, compensati da prezzi più bassi negli altri orari:
questo sarebbe un miglioramento per l’ambiente. Un recente studio condotto nella città
californiana di Sacramento ha scoperto che solo il 20 per cento degli utenti sceglieva
attivamente questi piani biorari quando erano disponibili23. Ma quando una tariffazione di questo tipo è stata trasformata nell’opzione di default
per una serie di utenti scelti a caso, che potevano poi scegliere di tornare al piano
tradizionale, il 90 per cento ha deciso di rimanere con la tariffa bioraria e quelli
che sono rimasti con la tariffa bioraria hanno effettivamente usato meno energia.
Qual era, quindi, la loro preferenza effettiva, l’opzione che avevano scelto attivamente
o quella che non avevano scelto ma che erano pronti a tenersi? Un governo può decidere
che non esistendo una risposta chiara a questa domanda tanto vale adottare la soluzione
migliore per l’ambiente.
Più in generale, una domanda ancora senza risposta è fino a che punto il consumo di
energia sia una questione di abitudine. Un modo di consumare specifico potrebbe diventare
quasi una dipendenza semplicemente perché le persone ci sono abituate. Alla Scuola
di economia di Parigi, il nuovo edificio «verde» offre un riscaldamento molto limitato.
Quando abbiamo lavorato lì in inverno e in primavera avevamo sempre freddo e ce ne
lamentavamo regolarmente. Ma chissà perché la semplice tattica di lasciare un maglione
pesante in ufficio per molti mesi non ci è venuta in mente. Eppure non era così difficile.
Semplicemente, subivamo gli effetti di tutti gli anni trascorsi nel calore esagerato
degli uffici americani. E una volta che ci siamo decisi a portare il maglione in ufficio,
il nostro grado di comfort era lo stesso che avremmo avuto se l’edificio fosse stato
più riscaldato. La nota di merito per aver dato il nostro piccolo contributo a salvare
il pianeta è stata una compensazione sufficiente.
Molti dei comportamenti che influiscono sui consumi di energia sono ripetuti e abituali:
prendere il treno invece della macchina, spegnere le luci quando si esce da una stanza
e così via. In tutti questi casi, è più semplice fare quello che abbiamo sempre fatto
in passato e i cambiamenti sono costosi, ma una volta che li abbiamo adottati, mantenerli
è facile. Ancora più meccanicamente, se compriamo un termostato lo possiamo impostare
una volta per tutte in modo che riscaldi di più la mattina e la sera e di meno quando
non siamo in casa. Questo significa che le scelte energetiche di oggi possono influenzare
anche i consumi energetici di domani. In effetti, esiste una prova diretta della persistenza
delle scelte energetiche: in uno studio randomizzato controllato, alcune famiglie
scelte a caso ricevevano rapporti energetici regolari che le informavano di quanta
energia stavano utilizzando rispetto ai loro vicini. I destinatari di questi rapporti
hanno cominciato a consumare meno energia delle famiglie che non li ricevevano, anche quando l’invio dei rapporti è cessato. E la ragione sembra da attribuire, in gran parte, al fatto che hanno cambiato le
loro abitudini24.
Se il consumo di energia è un po’ come una droga, nel senso che il fatto di usare
tanta energia oggi ce ne fa usare tanta anche in futuro, allora la risposta appropriata
è imporre tasse alte, come quelle sulle sigarette. Tasse alte servirebbero a scoraggiare
il comportamento in un primo momento, poi, una volta imparato il comportamento corretto,
continuerebbero a essere alte senza danneggiare realmente nessuno, perché tutti avrebbero
modificato i loro comportamenti per evitarle.
Ovviamente, i nostri consumi di energia non sono determinati solo da come riscaldiamo
o raffreddiamo o da come ci spostiamo. Tutto quello che acquistiamo contribuisce al
consumo di energia. Anche in questo caso, i gusti probabilmente non cadono dal cielo.
Gli economisti hanno cominciato a riconoscere il ruolo delle «abitudini» nelle nostre
preferenze: quello che ci siamo abituati a consumare crescendo determina i nostri
gusti odierni. I migranti continuano a mangiare le cose che mangiavano da piccoli,
anche quando i cibi che nel loro paese costavano poco nel loro nuovo paese sono costosi25. L’abitudine rende doloroso, nel breve termine, modificare i propri comportamenti.
Ma farlo è possibile. La gente sembra addirittura disposta a modificare il proprio
comportamento per prepararsi a qualche cambiamento futuro26. Pertanto, annunciare un aumento delle tasse future su merci che divorano energia potrebbe essere un modo più semplice per far abituare
le persone all’idea.
L’inquinamento uccide
I paesi ricchi hanno l’enorme vantaggio che gran parte del consumo di energia che
devono sacrificare non è essenziale (andare in macchina al supermercato quando ci
si può andare a piedi, tenersi le vecchie lampadine invece di passare a quelle a Led
e così via). Dove la faccenda si fa seria è nei paesi in via di sviluppo. Negli ultimi
vent’anni, il consumo di carbone è triplicato in India e quadruplicato in Cina, mentre
è calato leggermente negli Stati Uniti e in altri paesi sviluppati. Nei prossimi decenni,
la crescita del consumo di energia, secondo le previsioni, sarà quattro volte più
alta nel resto del mondo che nei paesi dell’Ocse.
Per la maggior parte degli indiani, consumare di più, e in particolare consumare più
energia, non è un lusso. I bassissimi livelli di consumo di energia nelle campagne
indiane oggi sono dovuti a una modalità di vita spesso pericolosa e sgradevole. Usarne
di meno probabilmente è impossibile, e dovrebbero anzi avere il diritto di usarne
di più. Sarebbe quindi giustificato che i paesi poveri fossero completamente esentati
dal dibattito sul clima? O come minimo che limitassero qualsiasi sacrificio ai loro
cittadini più ricchi, che producono le stesse emissioni e hanno lo stesso stile di
vita degli americani ricchi?
Rispondere di no non è facile. È indubbio che c’è qualcosa di profondamente ingiusto
nel fatto che i poveri del pianeta paghino gli stravizi passati e presenti dei ricchi
del pianeta. Purtroppo, però, adottando questa posizione emergono due problemi. Il
primo, che abbiamo già discusso, è che lasciare temporaneamente mano libera ai paesi
in via di sviluppo potrebbe favorire il mantenimento in vita per molti anni delle
tecnologie più inquinanti. E magari non sarebbe neanche una cosa temporanea: visto
che la maggior parte delle vittime dei cambiamenti climatici sarebbero nei paesi in
via di sviluppo, gli abitanti dei paesi sviluppati potrebbero essere fin troppo contenti
di andare avanti così.
In secondo luogo, però, il punto cruciale del problema è se i paesi in via di sviluppo
possono permettersi di continuare con i loro attuali livelli di inquinamento (o aumentarli)
anche senza la minaccia del riscaldamento globale. Le emissioni di anidride carbonica
sono fortemente correlate con un altro problema che produce effetti diretti sui loro
cittadini oggi: l’inquinamento atmosferico. In Cina e in India, l’ambiente si è degradato così rapidamente
che l’inquinamento è diventato un pericolo gravissimo e urgente per la salute pubblica,
e la situazione sta peggiorando anche in altre economie emergenti.
Questo inquinamento uccide. In Cina, a nord del fiume Huai l’uso del carbone per il
riscaldamento degli spazi interni è sovvenzionato, ma non a sud di quella linea di
demarcazione, con la motivazione che a nord fa più freddo. Quando si attraversa il
fiume da sud a nord, si osserva un drammatico peggioramento della qualità dell’aria.
Anche l’aspettativa di vita segue la stessa dinamica27: secondo le stime, se la Cina adottasse lo standard mondiale sulla concentrazione
di particolato nell’aria salverebbe l’equivalente di 3,7 miliardi di anni di vita.
Nonostante tutto questo, i cieli delle città cinesi sono limpidi e immacolati in confronto
a quelli di molte grandi città dell’India. Nei primi posti della classifica delle
città più inquinate della terra figurano molte metropoli indiane, fra cui la capitale,
Nuova Delhi28. Nel novembre del 2017 il capo del governo di Delhi paragonò la città a una camera
a gas. Secondo le misurazioni dell’ambasciata statunitense, in quel periodo l’aria
aveva raggiunto livelli di inquinamento quarantotto volte superiori al valore di riferimento
stabilito dall’Organizzazione mondiale della sanità. Come in Cina, un inquinamento
di questa portata produce senza dubbio effetti letali29. Ogni volta che arriva novembre, quando l’inquinamento sale alle stelle, c’è un’impennata
dei ricoveri ospedalieri. A livello mondiale, la Commissione Lancet sull’inquinamento
e la salute stima che l’inquinamento atmosferico nel 2015 abbia provocato 9 milioni
di decessi prematuri30, di cui oltre 2,5 milioni in India, il dato più alto a livello mondiale31.
Lo smog di Delhi in inverno è dovuto all’effetto combinato di diversi fattori (fra
cui la pura e semplice sfortuna geografica), ma in parte è dovuto anche a comportamenti
che potrebbero essere modificati. Uno dei principali inquinanti è rappresentato dalle
stoppie che vengono bruciate dopo il raccolto negli Stati che circondano la capitale.
Il fumo di questi falò fuori città si mescola con i vari inquinanti prodotti all’interno
della città: la polvere sollevata dai lavori edili, i fumi di scappamento dei veicoli,
i residui della combustione della spazzatura e i fuochi liberi che i poveri usano
per cucinare e riscaldarsi in inverno.
Lo smog a Delhi è un problema talmente serio che c’è un chiaro impulso ad agire immediatamente.
Non c’è da scegliere fra migliorare la qualità dell’aria oggi o in futuro, perché
le persone muoiono ora. L’unica scelta è fra consumare meno o soffocare. E anche questa
scelta potrebbe essere in buona parte illusoria. Due studi differenti, uno che riguarda
i lavoratori di un’azienda tessile in India32 e uno sugli agenti di viaggio in Cina, hanno dimostrato che nei giorni in cui l’inquinamento
ambientale è alto la produttività è bassa. Più inquinamento, quindi, significa meno
consumi33.
Delhi è una città relativamente ricca. I suoi abitanti potrebbero permettersi senza
problemi di pagare i contadini perché non brucino le stoppie e usino invece delle
macchine per sotterrarle e preparare il terreno per la prossima semina. Il governo
potrebbe vietare i fuochi liberi in città e creare sale riscaldate dove i poveri possano
riunirsi nelle notti fredde; potrebbe sostituire la combustione della spazzatura con
un sistema di raccolta e smaltimento dei rifiuti più moderno; potrebbe mettere al
bando le automobili vecchie (o vietare completamente i veicoli diesel) e introdurre
meccanismi di pedaggio urbano o altre forme di gestione del traffico34; potrebbe applicare in modo più deciso i parametri sull’inquinamento industriale,
che in teoria sono severi ma nella pratica non vengono quasi mai rispettati; potrebbe
migliorare il sistema del trasporto pubblico; potrebbe chiudere o modernizzare le
grandi centrali termiche presenti all’interno dei confini cittadini. Forse nessuna
di queste misure sarebbe sufficiente di per sé, ma prese tutte insieme sicuramente
migliorerebbero la situazione.
Nulla di tutto questo è impossibile da realizzare. Per esempio, una memoria amicus curiae sottoposta alla Corte suprema indiana indicava che un sussidio di 20 miliardi di
rupie (circa 300 milioni di dollari) basterebbe per consentire agli agricoltori del
Punjab e dell’Haryana di acquistare le attrezzature necessarie per preparare i loro
campi. Si tratta di appena 1.000 rupie circa (14 dollari al cambio attuale, poco più
di 70 a parità di potere d’acquisto) per ogni abitante dell’area metropolitana di
Delhi. La cosa sorprendente (e frustrante) è che nonostante l’urgenza del problema
non sembra esserci una grande domanda politica per una risposta come questa. Uno dei
problemi è che per ridurre l’inquinamento servirebbe la collaborazione di moltissime
persone. Ma c’è anche una mancanza di consapevolezza del fatto che l’inquinamento
atmosferico rappresenta un problema sanitario. Un recente studio di «Lancet» ha scoperto
che gran parte dei decessi dovuti all’inquinamento atmosferico può essere attribuita
alla combustione di biomasse (foglie, legna ecc.)35. Ma una parte importante di queste biomasse viene bruciata in stufe all’interno delle
abitazioni, generando quindi anche una quantità spaventosa di inquinamento all’interno. Tutto indurrebbe a pensare, quindi, che dovrebbe esserci una forte domanda privata
di strumenti di cottura migliori, che rendano l’aria più respirabile sia fuori che
dentro le case. E invece non sembra esserci. Numerosi studi riscontrano una domanda
molto bassa di stufe meno inquinanti36. Anche quando una Ong ha distribuito gratuitamente stufe più ecologiche, le persone
non le consideravano abbastanza importanti da farle riparare quando si rompevano37. La scarsità della domanda di aria pulita deriva forse dall’incapacità di molte delle
famiglie più povere di collegare l’aria pulita a una vita sana, felice e produttiva.
Le cose potrebbero cambiare. Quando agli abitanti delle baraccopoli è stato chiesto
di confrontare le condizioni di vita in città con quelle che avevano sperimentato
nei loro villaggi di origine, la maggior parte di loro ha dichiarato di preferire
Delhi38. L’unica cosa di cui si lamentavano realmente era l’ambiente, e in particolare l’aria.
Nell’inverno del 2017-2018 l’indignazione finalmente è venuta fuori: i bambini delle
scuole sono scesi in piazza quando le loro scuole sono state chiuse a causa dei livelli
di inquinamento. Perfino in Cina, che non è una democrazia, la pressione dell’opinione
pubblica pare abbia contribuito alla decisione del governo di fare qualcosa per contrastare
il problema. In India, l’inquinamento atmosferico potrebbe presto diventare un problema
così sentito dall’opinione pubblica da rendere inevitabili misure per combatterlo.
La priorità dovrebbe essere quindi di promulgare politiche che portino a modelli di
consumo più puliti, anche se comporterebbero dei costi. Non è detto che questi costi
saranno particolarmente significativi. In molti casi, l’India potrebbe saltare direttamente
alla tecnologia più pulita (per esempio, quando i poveri avranno finalmente la corrente
elettrica, potranno usare direttamente le lampadine a Led). In alcuni casi, la nuova
tecnologia potrebbe essere più costosa di quella vecchia (per esempio, le automobili
pulite possono essere più costose di quelle inquinanti): questo significa che i poveri
dovranno ricevere una compensazione, ma il costo complessivo dell’operazione è contenuto
e la classe dominante potrebbe facilmente farsene carico, se esistesse la volontà
politica.
Un Green New Deal?
Con il Green New Deal, il tema del momento nell’inverno del 2018-2019, i politici
del Partito democratico negli Stati Uniti hanno cercato di mettere in collegamento
la lotta contro i cambiamenti climatici con un programma per la giustizia economica
e la ridistribuzione. Avevano una strada in salita davanti a loro: da Parigi alla
Virginia Occidentale e a Delhi, la lotta ai cambiamenti climatici spesso viene presentata
come un lusso per le élites, finanziata dalle tasse a carico dei meno privilegiati.
Per fare un esempio che abbiamo osservato in prima persona, alla fine del 2018 l’agitazione
dei cosiddetti «gilet gialli» contro il previsto aumento della tassa sulla benzina
ha bloccato le strade di Parigi tutti i sabati, mettendo a dura prova il governo francese,
che alla fine è stato costretto a rinviare la misura. La tesi che sostenevano i gilet
gialli era che l’incremento della tassa sulla benzina era un modo per i parigini ricchi
(che possono prendere la metropolitana per andare al lavoro) di ripulirsi la coscienza
a spese di quelli che vivono nelle banlieues e nelle campagne, che non avevano altra scelta che usare la macchina. C’era della
verità in questa tesi, considerando che lo stesso governo aveva eliminato l’imposta
patrimoniale. Negli Stati Uniti, lo spettro di una «guerra del carbone» era diventato
il collante della lotta contro l’élite liberal, un simbolo della sua mancanza di empatia per i poveri. E naturalmente i politici
dei paesi in via di sviluppo protestano regolarmente (e giustamente) contro la prospettiva
di essere costretti a pagare scelte fatte in passato dai paesi ricchi.
Il Green New Deal è un tentativo di ricomporre proprio questa frattura, mettendo l’accento
sul fatto che costruire nuove infrastrutture ecologiche (pannelli solari, ferrovie
ad alta velocità ecc.) creerà posti di lavoro e al tempo stesso contribuirà alla lotta
contro i cambiamenti climatici. Attribuisce invece meno importanza all’idea di una
tassa sulle emissioni, che molti a sinistra vedono come una soluzione troppo dipendente
dai meccanismi di mercato e, come in Francia, l’ennesimo modo per far pagare il conto
ai poveri.
Ci rendiamo conto che una tassa sulle emissioni non è una proposta facile da far passare
(come tutte le tasse che colpiscono la maggioranza delle persone), ma la nostra opinione
è che sarebbe possibile renderla politicamente accettabile dicendo nel modo più esplicito
possibile che non è un modo per raccogliere soldi. Il governo dovrebbe strutturare
la tassa in modo che sia finanziariamente neutra: significa che gli introiti della
tassa dovrebbero essere restituiti ai cittadini, una somma forfettaria in favore di
tutti i redditi bassi, che quindi ci guadagnerebbero. Questo preserverebbe l’incentivo
a risparmiare energia, guidare di meno o guidare auto elettriche, ma metterebbe bene
in chiaro che non dovrebbero essere i meno ricchi a pagare tutte queste cose. Considerando
che il consumo di energia è una questione di abitudine, la tassa dovrebbe essere annunciata
con largo anticipo, per dare tempo alle persone di prepararsi.
Più in generale, siamo abbastanza consapevoli che prevenire i cambiamenti climatici
e adattarsi a quelli già in corso costerà denaro. Dovranno esserci investimenti in
infrastrutture e una ridistribuzione significativa in favore di tutti quelli che hanno
visto colpiti i propri mezzi di sostentamento. Nei paesi poveri, il denaro potrebbe
aiutare il cittadino medio a raggiungere una qualità di vita più alta in un modo meno
pericoloso per il futuro del pianeta. (Si pensi al dibattito sull’aria condizionata,
per esempio: perché il mondo semplicemente non dà soldi all’India per consentirle
di saltare direttamente alla tecnologia migliore?) Considerando che i poveri consumano
poco, non ci vorrebbero cifre enormi per aiutare un po’ di più i poveri del pianeta,
ma anche per avere un’aria migliore e produrre meno emissioni. I paesi più ricchi
del mondo sono talmente ricchi che potrebbero facilmente finanziare queste misure.
La questione è inquadrare il dibattito in modo da non contrapporre i poveri dei paesi
poveri ai poveri dei paesi ricchi. Una combinazione di tasse e normative per limitare
le emissioni nei paesi ricchi e finanziare una transizione ecologica nei paesi poveri
potrebbe, con ogni probabilità, avere l’effetto di ridurre la crescita economica nei
paesi ricchi, anche se naturalmente non possiamo saperlo con sicurezza, dal momento
che non sappiamo quali sono i fattori che determinano la crescita. Ma se gran parte
dei costi fossero sostenuti dalle persone più ricche dei paesi ricchi e il pianeta
ne beneficiasse, non vediamo motivi per non farlo.
A Delhi, a Washington e a Pechino, è in nome della crescita che i responsabili delle
politiche fanno resistenza quando vengono chiamati a varare o applicare normative
anti-inquinamento. Chi tragga beneficio da questa crescita del Pil è un argomento
su cui non si può non riflettere.
Gli economisti devono prendersi la loro parte di colpa per aver alimentato questa
retorica. Non c’è nulla, nella nostra teoria o nei dati, che dimostri che un Pil pro
capite più alto sia necessariamente auspicabile. Eppure, proprio perché fondamentalmente
siamo convinti che le risorse possono essere ridistribuite, e saranno ridistribuite,
cadiamo nella trappola di cercare sempre di fare tutto il possibile per rendere la
torta più grande che si può. È una cosa che cozza direttamente con tutte le cose che
abbiamo imparato negli ultimi decenni. I dati sono inequivocabili: la disuguaglianza
negli ultimi anni è aumentata in modo spettacolare, con conseguenze devastanti per
le società di tutto il mondo.