Capitolo VII.
Mondo
Non credo che l’attuale dualità del mondo sia un preludio alla sua unità, ma la transizione
verso una nuova pluralità.
Tra il 1991 e il 2001 si è voluto – e fino a un certo punto si è potuto – credere
che l’umanità vivesse finalmente in un mondo comune, unificato dalle medesime aspirazioni
e scelte fondamentali. L’autore di La fine della storia e l’ultimo uomo, Francis Fukuyama, è stato il corifeo di questa convinzione che ancora mobilita,
nel bene e soprattutto nel male, il pensiero neoconservatore: scomparsi i concorrenti (fascismo, comunismo), non c’è più che un solo paradigma
di vita buona: quello offerto dalla democrazia occidentale (o più esattamente nordamericana).
I suoi avversari (come i movimenti «anti-imperialisti»), non avevano alcun modello
alternativo da opporre, limitandosi a criticare la realizzazione insufficiente del
modello democratico in Occidente. Gli attentati dell’11 settembre e l’angosciosa scoperta
che «noi siamo in guerra» (George W. Bush) hanno posto fine a queste speranze passeggere
e ci hanno messi dinanzi al fatto che la morte di un nemico non comporta la scomparsa
dell’ostilità; e dobbiamo ricordarcene ancor più dopo l’eliminazione di Bin Laden.
Non ho le competenze necessarie per formulare una diagnosi dei risultati della «guerra
contro il terrorismo» o sulla pertinenza della problematica dello «scontro di civiltà», che spesso sono collegate. Tuttavia, sapere se l’unità del mondo, la sua unità politica
e in qualche modo morale, è o sarà all’ordine del giorno, e quale è o sarà la natura
di questa unità, mi sembra filosoficamente interessante e attuale. È evidente che questo tema non è nuovo: lo elaborarono già
gli autori dell’epoca dell’Illuminismo, offrendo delle risposte, dall’abbé de Saint-Pierre
a Kant, meno ingenue di quanto a volte si ritiene. Si dimentica troppo spesso, ad
esempio, la distinzione introdotta da Kant negli scritti sulla pace perpetua e poi
ripresa nella Dottrina del diritto tra il Völkerbund, «lega permanente di Stati» e il Völkerstaat, lo Stato mondiale. Così posta, anche per Kant la risposta al problema dell’unità
del mondo non è priva di esitazioni, come hanno sottolineato i migliori interpreti.
Dopo aver valutato in un primo momento come ragionevole e desiderabile la prospettiva
di uno Stato mondiale, Kant ritorna parzialmente su questa opinione nello scritto
sulla pace perpetua: sebbene l’«idea positiva» dello Stato mondiale rimanga concettualmente
necessaria, essa potrebbe comportare il rischio, in assenza di condizioni adeguate,
di dare vita ad un dispotismo senza limiti, e per tale ragione bisogna privilegiare
la prospettiva dello Staatenbund, di una federazione di Stati che compongano pacificamente le divisioni tra i propri
membri. Al di là dei problemi interpretativi e contestualistici, Kant centra un problema
fondamentale: è possibile avere un concetto politico del mondo (Kant parla di Weltrepublik), e quale uso bisogna farne? Si tratta di una norma controfattuale, di cui «è necessario
aver nozioni giuste, per giudicar bene del nostro stato presente», come afferma Rousseau
a proposito dello stato di natura, oppure di un obiettivo ambizioso ma realistico?
Per suo conto, Carl Schmitt evoca il motivo dell’unità del mondo, e sempre in modo
critico, già in alcuni scritti del periodo di Weimar, quando contestava la possibilità
di oltrepassare le prospettive statuali (quindi plurali) della politica. È ciò che
fa in particolare nel saggio Etica di Stato e Stato pluralistico (1930), pubblicato nei Kantstudien, dove si legge:
Concetti universal-monistici come Dio, mondo e umanità sono concetti altissimi e troneggiano
alti, assai più in alto rispetto alla pluralità della realtà concreta. Essi conservano
la loro dignità di concetti altissimi solo se rimangono nella loro posizione eminente.
Essi modificano subito la loro essenza e mancano il loro senso e il loro compito se
si mettono nella mischia della vita politica.
Il giudizio è ulteriormente specificato in Il concetto di ‘politico’, dove si afferma che il mondo non è né può essere una unità politica:
Finché esiste uno Stato, vi saranno sempre più Stati e non può esistere uno ‘Stato’
mondiale che comprenda tutta la terra e tutta l’umanità. Il mondo politico è un pluriverso
non un universo.
Ma è soprattutto dopo il 1945, quando si pone con insistenza la questione di un nuovo
ordine mondiale da edificare, che questo tema diventa centrale, e non è certamente
un caso. Presente in filigrana negli scritti del periodo immediatamente precedente,
che trattano della riconfigurazione dell’ordine internazionale a partire dalla problematica
evidentemente sovradeterminata dei «grandi spazi», il tema dell’unità del mondo costituisce
il filo conduttore di Der Nomos der Erde (1950), opera che pone (lasciandola però aperta) la questione del «nuovo nomos della terra» che potrebbe emergere dalle macerie dell’«ordinamento eurocentrico finora
vigente del diritto internazionale» e del «declino dello jus publicum europaeum in un indifferenziato diritto mondiale». Ma si tratta di un tema che viene affrontato ex professo in alcuni testi risalenti agli anni Cinquanta, e in particolare nelle due versioni
conosciute dell’articolo intitolato proprio L’unità del mondo, in cui Schmitt avversa l’idea che questa nozione possa avere in quanto tale un significato
politico. L’idea che la divisione del mondo in blocchi antagonisti sia solo una tappa che
conduce all’unità finale (lo Stato mondiale) nasce da una filosofia della storia che
Schmitt giudica senza alcuna esitazione come infondata, poiché orientata da un punto
di vista tecnico o tecnocratico, dunque non politico, ossia potenzialmente produttivo
di una configurazione amico/nemico. Se ci si pone su questa prospettiva, allora conviene
escludere politicamente l’idea di mondo, così come quella di umanità, quell’umanità che «come totalità e in
quanto tale non ha nemici su questo pianeta». Dietro l’idea di mondo si celano ancora una volta l’idea di politica e di diritto.
1. Dallo Stato agli imperi
Da Il valore dello Stato e il significato dell’individuo (1914) sino al suo ultimo scritto dedicato alla rivoluzione legale mondiale, l’intera
riflessione di Schmitt concerne il destino di quella configurazione potestativa specificamente
moderna che è la forma-Stato, sorta dal processo di «secolarizzazione» provocato dalla
frantumazione dell’unità del cristianesimo occidentale e dalla nascita di nuove modalità
di produzione e di azione, anche di esistenza. Molto precocemente, e per motivi che
non sono spiegabili esclusivamente con il suo itinerario politico, Schmitt matura
la convinzione che questa forma di Stato sovrano è destinata ad indietreggiare, se
non a scomparire. Su questo punto, la sua diagnosi è senza appello. Si legga ad esempio
quanto scrive nel 1963:
La porzione europea dell’umanità ha vissuto, fino a poco tempo fa, in un’epoca i cui
concetti giuridici erano totalmente improntati allo Stato e presupponevano lo Stato
come modello dell’unità politica. L’epoca della statualità sta ormai giungendo alla
fine: su ciò non è più il caso di spendere parola [...] Lo Stato, come modello dell’unità
politica, lo Stato come titolare del più straordinario di tutti i monopoli, cioè del
monopolio della decisione politica [...] sta per essere detronizzato.
In modo indiretto, i numerosi testi pubblicati alla fine degli anni Trenta e all’inizio
degli anni Quaranta, consentanei alla politica aggressiva della Germania nazionalsocialista,
sul tema dell’ordine spaziale (Raumordnung) e del grande spazio (Großraum) e successivamente, in modo stavolta esplicito, Land und Meer (1942) e poi alla fine Il nomos della terra, tentano tutti di risolvere un problema che i lavori precedenti – dopo la distinzione
stabilita in Il concetto di ‘politico’ tra «statale» e «politico» – richiamavano, lasciando però in sospeso questo interrogativo: se è vero che l’epoca
della forma-Stato (Staatlichkeit) è giunta alla fine, cosa ne prenderà il posto? Quale sarà la nuova configurazione,
post-statale, che assumerà il politico, una volta stabilito che esso è «inevitabile
e inestirpabile»? In un primo momento, il nazionalsocialismo, a cui Schmitt offre la sua collaborazione
zelante, detta la risposta: il successore dello Stato è l’Impero (Reich). Dopo la disfatta dell’Impero hitleriano, il problema si allarga su scala planetaria.
Ci si orienta forse verso un’unificazione politica del mondo, di cui le Nazioni Unite
sono la fucina? Quale significato ha la credenza, o la speranza, nella realizzazione
di questa unità? Quali sono i presupposti filosofici e politici di questa credenza?
Riprendiamo il filo da più lontano. Dall’inizio degli anni Venti, come abbiamo visto
nel precedente capitolo, Schmitt intraprende una critica dell’ordine internazionale
scaturito dalla prima guerra mondiale e dal Diktat di Versailles, concentrandosi sull’istituzione della Società delle Nazioni (Völkerbund) e sulla sua politica nei confronti della Germania. Egli vuole dimostrare il carattere
politico delle categorie e delle istituzioni del diritto internazionale, e suggerisce
una risposta (essa stessa politica) adeguata al problema dell’ordine internazionale.
La Società delle Nazioni, malgrado gli sbandierati ideali universalistici e umanitari,
sposa di fatto gli interessi britannici e americani, e nuoce a quelli della Germania,
trattata dopo la sconfitta del 1918 non solo come un avversario vinto, bensì come
un nemico della civiltà, un imputato dinanzi al diritto internazionale (un diritto
che non è difficile identificare con gli interessi ben individuati delle potenze vincitrici);
la Società delle Nazioni si rivela come «il tipico strumento di una forma peculiare
di imperialismo». Questa è una idea che ritroveremo, in Il nomos della terra e in molti altri testi: in seguito al primo conflitto mondiale si è verificato un
«mutamento di significato della guerra», i cui tratti distintivi sono la criminalizzazione
dell’avversario e la riabilitazione della guerra giusta, così da inaugurare il passaggio
da una concezione «non discriminatoria» della guerra e del nemico che caratterizzerebbe
il diritto delle genti europeo dell’età moderna a una concezione «discriminatoria»
che «suddivide il mondo in due metà, una delle quali buona e l’altra cattiva». Tale è la convinzione, o se si vuole, il veemente partito preso che anima gli scritti
diretti da Schmitt contro la Società delle Nazioni (e successivamente l’Onu) e i loro
ispiratori: nella misura in cui «è un’espressione del potere puro, politico [...]
quando un grande popolo stabilisce [...] il vocabolario, la terminologia, i concetti»,
diventa necessario separarsi dalle rappresentazioni veicolate (che tutto sono tranne
che neutre) dal diritto internazionale «ginevrino» e intraprendere una lotta politica
sul piano dei concetti, poiché «un popolo è vinto solo quando si sottomette al vocabolario
straniero, alla concezione straniera di ciò che è il diritto, in particolare il diritto
internazionale». Se si considera, con Quaritsch, che il pensiero di Schmitt ha tre fonti di nutrimento,
il cattolicesimo, lo statalismo e il nazionalismo, bisogna considerare che la «conversione»
del 1933, così come la chiama Quaritsch, si spiega principalmente attraverso l’ultimo
di questi motivi: ciò che Schmitt (così come molti altri tedeschi) si attende dal
nazionalsocialismo è innanzitutto la cessazione della «situazione giuridicamente anomala»
creata dal Trattato di Versailles.
Gli scritti degli anni Trenta, in particolare quelli del periodo immediatamente antecedente
lo scatenamento della seconda guerra mondiale, sviluppano e radicalizzano la critica di quella che Schmitt in modo crudo chiama
la «Lega di Ginevra», e contestano sempre più violentemente l’ordine internazionale
stabilito dopo il 1918. Al di là del loro scopo polemico immediato e nonostante la
loro concordanza manifesta con le mire della politica militarista ed espansionista
di Hitler, a me pare che la struttura concettuale di questi scritti conservi ancora
un qualche interesse, con alcune riserve e tenendo conto degli evidenti limiti contestuali,
se è vero – come io ritengo – che la moralizzazione delle questioni giuridiche e la
destatalizzazione delle relazioni internazionali sono tendenze importanti nel nostro
tempo. Due aspetti, che permeano gli scritti successivi sull’ordinamento mondiale,
meritano a tal proposito di essere sottolineati: il carattere paragiuridico (e fondamentalmente
politico) del nuovo approccio alla guerra, e il fatto che la guerra non è più solo
un affare di Stato.
1. Criminalizzando i vinti del 1918, il Trattato di Versailles ha provocato secondo
Schmitt un cambiamento fondamentale nel diritto internazionale, sino ad allora basato
sulla eguaglianza giuridica degli Stati, che si riconoscono reciprocamente come sovrani
e dunque come (eventuali) justi hostes. Questa criminalizzazione del nemico, e della guerra medesima, frantuma un’acquisizione
essenziale del diritto delle genti moderno, ossia l’abbandono del tradizionale tema
teologico – lo si trova sviluppato in Agostino e Tommaso d’Aquino, così come nel Decretum di Graziano – del bellum ex justa causa. L’abbandono della tematica della «guerra giusta» (di cui la Crociata rappresentava
il paradigma) si osserva già, sebbene in modo esitante, nelle opere di Grozio; il
quale conserva ancora la nozione classica di guerra giusta, di cui cerca di dimostrare
la non contrarietà al diritto naturale, al diritto delle genti e al diritto divino, ma la identifica con la «guerra pubblica solenne», vale a dire «condotta nelle forme»
da uno Stato sovrano contro un altro Stato. Ciò che rende giusta la guerra sono più
gli «effetti giuridici» che ne risultano che la «causa che la produce». Ma è dai giuristi del XVIII secolo che il tema della guerra giusta è compiutamente
messo fuori gioco. Considerando che ogni sovrano è in ultima istanza il giudice della
giustezza della sua causa, Emer de Vattel sostituisce di fatto il criterio della regolarità formale degli atti
bellici a quella della materiale liceità. La guerra giusta è la guerra in forma: «la
guerra in forma, relativamente ai suoi effetti, deve essere considerata giusta da
una parte e dall’altra». Vattel tira le fila, da un punto di vista teorico, di quel processo di dissociazione
di diritto e teologia che si è sviluppato dopo la fine del XVI secolo: Schmitt lo
chiamerà jus publicum europaeum, ossia un diritto interstatale e deteologizzato, citando per illustrarlo la formula
«assai caratteristica» del testamento politico di Federico il Grande: «io sono neutrale
tra Roma e Ginevra».
Nel riesumare la concezione «discriminatoria» del nemico e la problematica della guerra
giusta, la posizione dei vincitori del 1918 mette in discussione le basi stesse del
diritto internazionale moderno. Certamente, parlando in senso stretto, non si è in
presenza di una riteologizzazione del diritto: questa sarebbe impensabile in un mondo
nel quale la religione è diventata un affare privato. Tuttavia è la morale che, in luogo della teologia, comincia ad esercitare sul diritto internazionale una
tutela sovragiuridica, subordinandolo (per lo meno sul piano delle dichiarazioni)
a considerazioni umanitarie. Schmitt individua questa «moralizzazione del diritto»
in un autore come il francese Georges Scelle, vigoroso promotore della nuova visione
del diritto internazionale di cui la Società delle Nazioni è la manifestazione più
forte: il suo Précis de droit des gens, nota Schmitt, si colloca tra due poli: «individualismo e universalismo». Ebbene, questa prospettiva conduce all’abbandono del «concetto non discriminatorio
del nemico» messo in opera dal diritto internazionale, o meglio interstatuale, prima
della sua «dissoluzione». La conseguenza è che «la guerra, nel sistema di Scelle,
non ha più spazio». Non nel senso, beninteso, che non ci saranno più conflitti armati o azioni militari,
ma perché le sole azioni legittime saranno quelle di «polizia», condotte – nel quadro
di un «diritto costituzionale internazionale» – dalla comunità dei popoli, entità
statale in fieri provvisoriamente incarnata nella Società delle Nazioni, contro quei suoi membri che
si rendessero colpevoli di un «crimine internazionale» non rispettando la «Costituzione»
(in gestazione) del mondo, di modo che «l’intervento militare diventa un’istituzione
giuridica normale e centrale di questo sistema».
La concezione «discriminatoria», versione attualizzata dell’antica nozione di nemico
ingiusto, assimila costui – ad esempio, il responsabile di una guerra d’aggressione
– a un criminale che bisogna punire. Nel suo successivo lavoro sulla storia e la «dissoluzione»
dell’ordine internazionale Schmitt sottolineerà che solo a partire dalla fine del
XIX secolo l’attacco, ovvero lo scatenamento delle ostilità contro un altro Stato,
viene considerato come un «crimine» e non più come un possibile strumento, per uno
Stato, necessario a far valere i suoi legittimi interessi. Ciò porta alla trasformazione del diritto internazionale in una branca del diritto
penale, e al mutamento della guerra in un’azione di polizia destinata a reprimere
un colpevole. Soprattutto, la criminalizzazione dell’avversario porta alla cancellazione dei limiti
posti, mediante il moderno diritto bellico (lo jus in bello, parte essenziale dello jus publicum europaeum), alle azioni di guerra. In altri termini, l’introduzione (o la reintroduzione) di
una prospettiva morale nel diritto opera la trasformazione di quell’evento bellico
«limitato» che era la guerra classica tra potenze sovrane giuridicamente eguali in
guerra totale, e crea il concetto nuovo di nemico totale, un nemico contro il quale tutti i mezzi sono legittimi. Può sorgere la tentazione,
a partire da questi principi, di considerare un popolo o uno Stato che contestassero
radicalmente l’ordine internazionale esistente come un «hostis generis humani», ma compiere questo passo aprirebbe le porte alla guerra di sterminio basata su argomenti
di tipo morale o penale:
La guerra di annientamento, giustificata dal punto di vista universalistico-ideologico,
proprio per la sua pretesa ecumenica spoglia lo Stato, in quanto ordinamento nazionale
e territoriale chiuso, del carattere ordinatore che ha avuto sinora e trasforma la
guerra tra Stati in una guerra civile internazionale [...]; di conseguenza questa
guerra priva del loro prestigio e della loro dignità i concetti di guerra e di nemico
e li annienta entrambi, trasformando la guerra condotta dalla parte «giusta» in una
esecuzione [di sanzione] o in una misura di epurazione, mentre la guerra della parte
ingiusta è una resistenza illecita o immorale di parassiti, sobillatori, pirati e
gangsters.
È davvero sbalorditiva l’audacia di Schmitt nell’indicare implicitamente la Germania
nazista come vittima designata di una possibile guerra di sterminio! E tuttavia, applicata
ad altri contesti e contrapposta alle convinzioni ideologiche dello stesso Schmitt,
l’analisi si rivela non priva di lucidità e coerenza. Bisogna ricordarsi che nel giorno
in cui fu scatenata l’offensiva contro l’Unione Sovietica, l’alto comando della Wehrmacht
avvisò le truppe che in quello scontro le leggi sulla guerra (interstatale) non si
sarebbero applicate, giacché non si trattava di una guerra contro uno Stato, bensì
della lotta contro il bolscevismo, quindi di una sorta di combattimento morale sciolto
da ogni consueta limitazione giuridica...
2. In parallelo alla contaminazione del diritto internazionale prodotta da rappresentazioni
morali universalistiche o umanitarie, si manifesta una tendenza alla relativizzazione
o all’oltrepassamento dello Stato, soggetto e punto di riferimento del diritto internazionale
classico. Su questo argomento, è sufficiente per Schmitt prolungare e amplificare
la critica mossa negli anni Venti alla Società delle Nazioni. L’istituzione ginevrina
in effetti cela un’ambiguità. Da un lato, essa è una federazione di Stati di tipo
classico (Staatenbund), un organismo interstatale provvisto di alcune funzioni e mirante a scopi determinati
dai suoi membri. D’altro lato, però, la Società delle Nazioni aspira a diventare una
organizzazione universale e a costituire l’embrione di un Weltstaat, di uno Stato che raggruppi l’intera umanità. Se questo progetto di unificazione
politica dell’umanità (assai differente dall’idea kantiana di una federazione di Stati
liberi che pacificamente amministrano il diritto) vedesse la luce, ne risulterebbe una «totale spoliticizzazione» e, di conseguenza,
il «venir meno degli Stati». Tuttavia, prosegue Schmitt, questo programma di una unificazione politica del genere
umano maschera una finzione o uno stratagemma: il rivendicato oltrepassamento, mosso
dall’istituzione ginevrina, del quadro statale nazionale è in realtà il travestimento
di interessi statali (o più precisamente imperialisti) ben precisi i cui portatori
(i vincitori del 1918) hanno provveduto a trascrivere in termini morali con una terminologia
universalistica al fine di combattere o soggiogare gli interessi di altri Stati. In
sintesi, la Società delle Nazioni (Völkerbund) «non è una lega (Bund), ma, più probabilmente, un’alleanza (Bündnis)».
A partire dal 1932, lo studio delle trasformazioni dello statuto giuridico della guerra
e la critica dell’utilizzo politico degli ideali umanitari e globalisti coinvolge
molto di più gli Stati Uniti, prototipo di una potenza mondiale di nuovo tipo, che
non la Francia o la Gran Bretagna, potenze colonialiste tradizionali. Un testo come
Völkerrechtliche Formen des modernen Imperialismus (scritto nel 1932, apparso nel 1933) prospetta, nell’occasione di una critica della
diplomazia americana e dei fondamenti giuridici a cui essa si richiama, le modalità
e gli effetti dell’oltrepassamento in atto di un diritto internazionale sino ad allora
basato sullo Stato e sull’Europa. Gli Stati Uniti hanno apportato un contributo decisivo a questa evoluzione mettendo
in campo, dalla dottrina Monroe (1823) sino al patto Briand-Kellog (1928), una politica
imperialista coerente che dissocia l’interesse politico degli Stati Uniti dall’estensione
del proprio territorio, nel senso classico del termine. Secondo la dottrina Monroe,
esiste – al di là delle frontiere degli Stati Uniti – una zona che riguarda direttamente
la loro sicurezza, all’interno della quale gli Usa rigettano ogni possibile ingerenza
di potenze straniere riservandosi un diritto di intervento quasi illimitato; inoltre,
l’estensione di questa zona dipende dal loro insindacabile giudizio, sicché essa potrebbe
inglobare tutto l’emisfero occidentale. In base a ciò gli Stati Uniti si sono proclamati
«l’arbitro della Terra» prima di diventarne i padroni, così che «la Società delle
Nazioni è paralizzata nella gamba americana».
Quanto al patto Briand-Kellog (che Schmitt chiama sempre patto Kellog, probabilmente
per sottolineare che, come la maggior parte degli atti giuridici della Società delle
Nazioni, «è stato elaborato a Washington, non a Ginevra»), esso punta ufficialmente a proscrivere la guerra come mezzo di una politica nazionale, ma consegna implicitamente ai suoi promotori, che sono Stati nazionali, il potere
di distinguere tra guerra giusta e ingiusta, e anche tra guerra e pace. Schmitt conclude
che «colui che ha il vero potere può anche stabilire da sé concetti e parole»; è compito degli altri, egli pensa soprattutto alla Germania, rivendicare e assumere
tale potere. Si noti che lungi dal criticare semplicemente l’imperialismo americano,
per il quale nutre una certa considerazione, Schmitt lo legge come l’espressione più
autentica e più conseguente della politica moderna – la cui essenza è, come diceva
Treitschke, «la potenza, la potenza, e poi ancora la potenza» –, molto più delle costruzioni
umanistiche e liberali rivendicate dalla Società delle Nazioni. Schmitt nota anche
che, dopo aver praticamente imposto la sua nascita, gli Stati Uniti si son ben guardati
dal farne parte. Così, piuttosto che proclamare un universalismo solo verbale che
sarà sempre la maschera di una politica di potenza (poiché in fondo, come dimostra
la politica americana, non è altro che questo), bisognerebbe inventare un nuovo pluralismo,
che non sarà più quello degli Stati territoriali di tipo classico, ma che potrebbe
basarsi sulla coesistenza di potenze imperiali ciascuna dotata della propria dottrina
Monroe: insomma, sul potere di interpretare, definire e applicare il diritto internazionale. Questo sarà il senso della dottrina del Großraum, elaborata all’inizio della seconda guerra mondiale. Il discorso del 28 aprile 1939,
nel quale Hitler reclama il diritto per l’impero tedesco di avere una sua propria
dottrina Monroe, fornisce una cruda illustrazione del progetto.
La sostituzione del concetto di Impero (Reich) a quello di Stato (Staat) è l’indice lessicale della scoperta della dimensione sovrastatale della politica.
Naturalmente, bisognerebbe essere ingenui per non vedere che si tratta di una terminologia
che accompagna l’avvicinamento di Schmitt alla mitologia del Terzo Reich. Ma essa
ha una portata che oltrepassa questa circostanza, perché fa parte di una riflessione
sulle forme post-statali della politica che si mantiene attuale ancora oggi. Schmitt,
negli scritti degli anni Venti, dava mostra di un risoluto statalismo – in verità
moderato dall’affermazione preliminare presente in Il concetto di ‘politico’: «Il concetto di Stato presuppone quello di ‘politico’» – e sottolineava (come farà ancora in Il nomos della terra) che il monopolio dello Stato sul «politico» è stato un elemento decisivo della modernità,
anche perché consentiva una gestione della guerra in fin dei conti economica. Adesso,
egli critica la «mitologia» dello Stato («anche presso di noi esiste un mito dello
Stato...») e considera come un progresso decisivo la riabilitazione nazionalsocialista dell’idea
di Impero. Ma solo alla fine degli anni Trenta, negli scritti di diritto internazionale,
Schmitt giungerà a tematizzare la questione in modo non semplicemente ideologico.
C’è una ragione precisa per cui la sostituzione di ‘Stato’ con ‘Impero’ non è solo
un dato terminologico-lessicale o uno strumento ideologico: «un ordinamento del grande
spazio (Großraumordnung) fa parte del concetto di Impero (Reich)». Bisogna pertanto esaminare più da vicino questa nozione.
2. Grandi spazi o universalismo
Sviluppata a partire dal 1939 in una serie di scritti dalla forte carica ideologica,
la teoria del grande spazio (Großraum) è una sorta di prolungamento della critica dell’universalismo e dell’analisi dell’imperialismo
esposte nel saggio sulle forme moderne di imperialismo e nei saggi orientati contro
la «lega di Ginevra». L’opera principale di questa serie di interventi è il volume
Völkerrechtliche Großraumordnung mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte [Il concetto d’Impero nel diritto internazionale. Ordinamento dei grandi spazi con
esclusione delle potenze estranee], il cui titolo è del tutto privo di ambiguità. Tratto da una conferenza tenuta a
Kiel, bastione nel nazionalsocialismo accademico, e sottotitolato Ein Beitrag zum Reichsbegriff im Völkerrecht, il libro conobbe quattro edizioni tra il 1939 e il 1941, e se ne comprende il motivo,
data la sua consonanza con la politica bellicista del Terzo Reich. A dispetto di ciò,
si può interpretare questo sforzo teorico come qualcosa di più di una semplice sistematizzazione
in linguaggio giuridico, in quel contesto, delle ambizioni hitleriane. In questo senso
si potrà condividere oppure no il giudizio lapidario di Josef Kunz («Carl Schmitt,
professor of law, has, of course, never been a jurist, but a politician»), a seconda che si consideri il diritto estraneo per sua natura alla politica, oppure
il contrario. Abbiamo visto però, già nel capitolo precedente, che il diritto non
è affatto estraneo alla politica.
In sostanza l’obiettivo della teoria del Großraum è il seguente. Lo Stato sovrano moderno aziona una concezione territoriale e, per
così dire, terrestre del politico, che corrispondeva effettivamente alle condizioni
dell’Europa continentale tra il XVII e il XIX secolo. A causa di ragioni a prima vista
economiche e tecniche, ma che sono in realtà essenzialmente politiche, questa rappresentazione
dello Stato è diventata ormai obsoleta, così come la sua riformulazione da parte del
diritto internazionale. Ne consegue – questa è in ogni caso la tesi di Schmitt – la
necessità di sostituire, come oggetto di analisi, il grande spazio (Großraum) allo Stato territoriale delimitato dalle sue frontiere. La «necessità di una relativizzazione
del concetto di Stato, che diviene storicamente ineluttabile», non dipende soltanto dalla estensione delle possibilità tecniche di azione politica,
già considerata da Schmitt come un fattore decisivo per la «svolta verso lo Stato
totale», ma soprattutto da una trasformazione del campo di questa azione. Alla rappresentazione
«microspaziale» (kleinräumig) di un territorio conchiuso, corollario del concetto classico di Stato sovrano, si deve sostituire
quella di uno spazio (terrestre, marittimo, aereo) dai confini indeterminati, o meglio flessibili: confini
che non sono quelli di uno Stato, bensì di un Impero (Reich). Questo spazio, per vocazione «grande», eccedente i limiti dello Stato, non deve
essere inteso come un territorio allargato:
Un grande spazio è tutt’altro che un piccolo spazio ingrandito.
Allo stesso modo, la grande potenza o l’Impero non sono solamente dei vasti e potenti
Stati, anche nel caso in cui il loro nucleo originario fosse costituito da una struttura
statale più o meno classica. In realtà, il passaggio dalla problematica dello Stato
e del territorio chiuso a quella della potenza imperiale e del grande spazio è, secondo
Schmitt, la manifestazione della estinzione dell’ordine politico e giuridico dell’Europa
moderna, già annunciata, sul piano interno, dalla premonitrice nascita dello Stato
totale (nei due sensi dell’aggettivo, «quantitativo» e «qualitativo»). Da questo punto
di vista, la «rivoluzione spaziale» che si attua nel XX secolo è il corrispettivo
della «rivoluzione territoriale» che nel XVI secolo ha provocato la nascita dello
Stato moderno. Non si tratta di un semplice mutamento di scala sul piano geopolitico, ma di una
vera e propria trasformazione qualitativa, un cambiamento di natura della stessa politicità.
Insomma, se è vero che l’ordine territoriale europeo incarnato dallo Stato sovrano
è rivoluzionato, l’alternativa reale non si pone più tra «piccolo spazio» e «grande
spazio» o tra Stato e Impero, quanto piuttosto tra Großraum e universalismo, vale a dire, secondo Schmitt, tra una dottrina Monroe ricondotta
al suo significato politico originario e autentico, e la sua reinterpretazione nei termini di una ideologia liberale,
umanistica e globalista che fornisce «armi tipiche» al «paninterventismo» di alcune
potenze che si sostengono con il vano principio della «legittimità del puro e semplice
statu quo». Da un lato, ci si orienterebbe verso il consolidamento di un piccolo numero di grandi
potenze ciascuna attuante, in modo trasparente, la propria dottrina Monroe, e questa
«aurora del concetto di Impero» porterebbe a una «coesistenza in una terra ragionevolmente
suddivisa». Dall’altro lato, il discorso universalista e globalista, che si contenta peraltro
del mantenimento formale del quadro «microspaziale» dello Stato tradizionale, maschera
l’ambizione inconfessabile di una dominazione del mondo basata non più sul controllo
politico diretto ma su una combinazione di egemonia economica e di interventismo giustificato
da argomentazioni morali o umanitarie:
Dal mercato mondiale emerge un diritto internazionale mondiale (Weltvölkerrecht) che supera la sovranità statale e da qui anche una legittimità e una garanzia dello
statu quo la cui misura [...] non è solamente europea, ma universalista.
Come spesso capita con Schmitt, ci sono due modalità di lettura dei suoi testi sul
grande spazio, le quali, a mio parere, non si escludono reciprocamente. Da un primo
punto di vista, questi scritti sono il riflesso di una situazione politica nazionale
e internazionale estremamente tesa, e sono apertamente militanti al servizio dei progetti
(al tempo, peraltro, in via di sviluppo) del regime di Hitler. Nel 1939, l’avversario
principale è ancora la Gran Bretagna e la sua presunta volontà di conquista dell’egemonia
politico-economica planetaria; nel 1940 la vittoria sembra conquistata in Europa occidentale,
ma si palesa la possibilità di una entrata in guerra degli Stati Uniti, nazione che
diventa così promotrice di un nuovo imperialismo mondiale. Peraltro Schmitt, il quale
dopo la Rivoluzione del 1917 pensa che si viva «sous l’œil des Russes», non esita ad affermare nel 1939 che il patto tedesco-sovietico è il modello dell’ordine
internazionale futuro poiché organizza, lungi da finzioni universalistiche e da rappresentazioni
microstatali (kleinstaatlich) obsolete, la coesistenza di due imperi che esercitano la propria egemonia su «un
dominio di libertà e di indipendenza etnica (völkisch)»; il progetto ovviamente si commenta da sé, dal momento che si concretizzò nell’annessione
di una parte della Cecoslovacchia e nella spartizione della Polonia. Anni dopo, durante
la Guerra fredda, l’imperialismo sovietico e la sua ambizione di conquista dell’egemonia
mondiale saranno di nuovo l’avversario principale; non in quanto imperialista, ma
perché la sua strategia politica comporta la sovversione dello jus publicum europaeum e dei suoi «classici concetti» di guerra, di pace o di neutralità, creando così una
«situazione pericolosa» nella quale il vocabolario del diritto è messo al servizio
«della guerra totale, della guerra di sterminio, della guerra condotta da partigiani», come se non ci fosse stata, appena pochi anni prima, una gigantesca ecatombe...
In sintesi, il giudizio è senza appello: con gli scritti schmittiani sul «grande spazio»
siamo in presenza di una retorica cinica al servizio della politica bellicista dei
nazisti.
Esiste, tuttavia, un altro modo di leggere i testi sul Großraum, che non è alternativo ma complementare al precedente. Senza negarne gli aspetti
occasionalistici e militanti, il cui indice più preciso è dato dalle nuove individuazioni,
da parte di Schmitt, del nemico principale, in queste opere si può vedere un abbozzo
della prospettiva dei successivi Terra e mare e soprattutto di Il nomos della terra, e considerare che esse affrontano (certamente anche con secondi e non commendevoli
fini) una questione reale, cui gli imperialismi contemporanei danno una risposta evidentemente
meno rivoltante di quella hitleriana ma che non cessa di suscitare dubbi irrisolti:
che cosa ne è dell’ordine politico mondiale nel contesto di una costellazione di forze
nella quale gli Stati non sono più di necessità il fattore decisivo? La riflessione
(che tutto è tranne che disinteressata) sui grandi spazi è in effetti l’occasione
per la presa di coscienza di quanto il diritto internazionale moderno, in quanto diritto
interstatuale, fosse da un lato «congiunto ai tempi» (all’epoca che va dalla nascita dello Stato
moderno al 1914), e dall’altro «legato allo spazio» (ossia al continente europeo).
Esso era il corollario di un «concetto di Stato territorialmente chiuso» e di un «pensiero
dello spazio riferito allo Stato e alla terraferma». Questo pensiero è ormai inattuale, insieme a tutto il diritto internazionale classico
che dipende da «teorie spaziali sorpassate». Così, la tesi del declino della Staatlichkeit, che compare per la prima volta negli scritti sul Reich e sul grande spazio e che viene elaborata e giustificata solo in Il nomos della terra, appare come la base teorica di una posizione le cui motivazioni politiche sono cieche. Rimane la questione del tipo di ordine politico che potrà sostituirsi
a quello elaborato e organizzato dallo jus publicum europaeum, il diritto delle genti eurocentrico del mondo moderno: un ordine delineato in modo
rivendicativo dal vocabolario del Reich e del Großraum. Anche se il sogno di un’Europa tedesca (che Schmitt ancora nel 1941 ribadisce con
tranquilla sicurezza: il Reich tedesco, come si legge, «è situato al centro dell’Europa tra l’universalismo delle
potenze dell’Occidente liberal-democratico, assimilatore di popoli, e l’universalismo
dell’Oriente bolscevico, fautore di una rivoluzione mondiale, e pertanto deve difendere
su tutti e due i fronti la sanità di un ordine di vita non universalista, basato sull’idea
nazionale e rispettoso dei popoli [sic!]») svanisce nella catastrofe bellica, la diagnosi che elabora il nostro autore non difetta
né di perspicacia, né di pertinenza. Sta a noi servircene, senza ignorarne però i
motivi e le intenzioni.
3. Nomos: il mare, la terra, la guerra
La riflessione «geofilosofica» condotta in Land und Meer, piccolo libro significativamente sottotitolato Eine weltgeschichtliche Betrachtung [Una riflessione sulla storia del mondo], rompe con lo stile e l’impostazione degli
scritti (mal)impegnati del periodo precedente; essa annuncia, per contro, il modo
distanziato e quasi nostalgico che sarà tipico di Schmitt a partire da Der Nomos der Erde. La tesi del saggio è la seguente:
Ogni ordinamento fondamentale è un ordinamento spaziale. Si definisce una Costituzione
di un paese o di un continente come il suo ordinamento fondamentale, il suo nomos. Ora il vero e proprio ordinamento fondamentale si basa, nel suo nucleo essenziale,
su determinati limiti e delimitazioni spaziali, su determinate misure e su una determinata
distribuzione della terra. All’inizio di ogni grande epoca c’è, pertanto, una grande
appropriazione di territorio.
Ho già segnalato che la nozione di spazio, come la utilizza Schmitt, differisce essenzialmente
da quella di territorio, la quale richiama la configurazione particolare e prossima
alla ritirata dello Stato europeo tra il XVII e il XIX secolo. Ma un altro punto adesso
va sottolineato. Fino agli scritti sul Großraum e Land und Meer, Schmitt legge la formazione dello Stato moderno nello scopo di superare, mediante
l’istituzione di un terzo superiore, lo Stato sovrano, la guerra civile sorta dalla
frattura del cristianesimo occidentale. Adesso, invece, egli insiste su un altro fattore:
quella conquista territoriale (Landnahme) che è la scoperta del Nuovo Mondo diventa il «processo costitutivo del diritto internazionale» che ha favorito, nell’Europa continentale, la formazione di un ordine giuridico interstatuale:
il che risponde alla tesi iniziale del Nomos secondo la quale «i grandi atti primordiali (Ur-Akte) del diritto restano localizzazioni (Ortungen) legate alla terra» e illustra l’idea secondo cui il diritto è, fondamentalmente, «unità di ordinamento
e di localizzazione (Einheit von Ordnung und Ortung)». Solo una dozzina di Stati, impegnati a vario titolo nella conquista, compongono
il «concerto delle nazioni»; il diritto delle genti elaborato tra il XVII e il XVIII
secolo – lo jus publicum europaeum – formalizza lo statuto giuridico e struttura le relazioni, pacifiche e bellicose,
che si sviluppano al suo interno.
Esiste un rapporto tra questi due fenomeni, la «conquista» del Nuovo Mondo e la riconfigurazione
del diritto delle genti classico? Sì, perché era necessario che la feroce competizione
scatenata sugli oceani e oltre dagli europei non si prolungasse sul proprio continente,
e in ogni caso non nelle stesse forme. Da qui la fissazione di «linee di amicizia»
fittizie (come i meridiani, ad esempio) e la definizione di regimi giuridici distinti
«al di qua» e «al di là» di queste linee. Per esempio, mentre il diritto internazionale «europeo» limita l’azione della guerra
ai soli combattenti, sul mare ogni naviglio appartenente a una nazione rivale è considerato
nemico ed è dunque una possibile preda. In questa prospettiva Schmitt si interessa
così allo status dei corsari, combattenti irregolari che in un certo modo prefigurano il «partigiano» della guerra
rivoluzionaria, non essendo vincolati al rispetto delle norme giuridiche ammesse dal
consensus gentium e riconosciute dal loro stesso Stato, senza però essere dei pirati, degli outlaws. Specularmente e a dispetto delle sanguinose rivalità, la scoperta del Nuovo Mondo
e la prodigiosa apertura spaziale e culturale da essa provocata comporta la presa
di coscienza di una fondamentale parentela dei colonizzatori «civilizzati», per violenti
che siano i loro scontri; lo jus publicum europaeum sancisce esattamente questa parentela. In breve, la condizione di esistenza dell’ordine
territoriale chiuso, terrestre, europeo e cristiano che regna nell’Europa moderna
è l’apertura di uno spazio marittimo indefinito nel quale le norme giuridiche vigenti
nel continente sono modificate o sospese. L’oggetto di questo nuovo diritto internazionale
è l’appropriazione di questo «nuovo mondo» come se, esattamente, esso fosse nuovo:
Il senso e il nucleo del diritto internazionale cristiano europeo, il suo ordinamento
fondamentale consistettero, appunto, nella divisione della nuova terra.
La norma fondamentale, il nomos dell’epoca moderna, è la divisione tra Europa e Nuovo Mondo, tra terra e mare, tra
potenze terrestri («telluriche») e potenze marittime. Il suo risultato è stata l’ascesa
al rango di prima grande potenza mondiale di un paese, la Gran Bretagna, che è il
solo tra i grandi Stati europei a non essere continentale e che ha costruito la sua
potenza sulla dominazione dei mari. In effetti, come notava in modo profetico il famoso
corsaro Walter Raleigh, citato da Schmitt: «Chi domina il mare domina il commercio
del mondo, e a chi domina il commercio del mondo appartengono tutti i tesori del mondo
e il mondo stesso». L’opposizione tra potenze terrestri e potenze marittime, che ha per posta in gioco
l’egemonia mondiale, «diventa l’espressione di mondi differenti e di convinzioni giuridiche
opposte». Proprio il confronto tra queste due visioni del nomos, terrestre e marittima, secondo Schmitt, chiarifica nel modo migliore possibile la
storia politica dei due ultimi secoli.
La Gran Bretagna non è stata durante questi due secoli solo la padrona dei mari, ma
la nazione che ha dato vita alla rivoluzione industriale, e già Hegel notava nel 1820
un legame necessario tra questi due fatti. Ebbene la rivoluzione industriale, inizialmente britannica, è diventata una rivoluzione
mondiale, esprimendosi attraverso la nascita di potenze nuove: gli Stati Uniti, la
Germania, e successivamente il Giappone e la Russia. A partire da ciò, quella rivoluzione
tecnica che era nelle prime fasi la rivoluzione industriale non ha soltanto causato la proliferazione
e la migrazione della forza economica e politica, ma ha anche e soprattutto provocato
una nuova (ultima?) «rivoluzione spaziale», che è una rivoluzione politica il cui
tratto principale è l’oltrepassamento dell’antico antagonismo di mare e terra. La
fine del volume – contemporaneo, non a caso, della svolta di Stalingrado – sancisce
solennemente l’atto di morte dell’ordine politico moderno:
viene a cadere anche quella separazione di terra e mare su cui si fondava il legame
durato finora tra dominio marittimo e dominio mondiale. Viene a cadere cioè il presupposto
della conquista britannica del mare, e con esso il nomos della terra in vigore sino ad oggi.
Al suo posto cresce, inarrestabile e irresistibile, il nuovo nomos del nostro pianeta [...] Molti vi vedranno soltanto morte e distruzione. Altri crederanno
di essere giunti alla fine del mondo. In realtà ci troviamo soltanto di fronte alla
fine del rapporto fra terra e mare invalso finora.
È ovvio che questa messa in discussione del nuovo ordine, in procinto di sostituirsi
allo jus publicum europaeum declinante e allo Stato moderno, trova la sua origine nella prolungata speranza che
Schmitt nutrì nella possibilità che il Reich millenario facesse sorgere insieme a dei «nuovi concetti di spazio», anche «un diritto
nuovo all’interno di ordini nuovi». L’avvicinarsi di una probabile disfatta tedesca lo costrinse a rivedere questa prospettiva
a partire dalla fine del 1942. Ma il problema sollevato al termine di Land und Meer, ossia la questione della formazione di un nuovo ordine del mondo, era reale, molto
più della sinistra prefigurazione di una «Europa tedesca» etnicamente purificata,
sogno che accompagnò Schmitt per molto tempo. Il nomos della terra, che apparve nel 1950 ma che, secondo alcune fonti, era stato terminato o era in
procinto di essere concluso già nel 1945, si colloca in questa prospettiva del «nuovo
nomos della terra» in gestazione: se è vero che «l’ordinamento eurocentrico finora vigente
del diritto internazionale sta oggi tramontando» e che «con esso affonda il vecchio
nomos della terra», quali saranno il senso e il centro del nuovo nomos che sorge sulle rovine dell’antico? È in questo contesto che il problema dell’unità
(o della pluralità) politica del mondo viene richiamato nuovamente negli scritti successivi
al 1945. A dire il vero, questo problema, evocato nella Prefazione di Il nomos della terra, non è effettivamente trattato, ma rimane comunque all’orizzonte. Questo libro, scrive
Schmitt nel 1963, offre uno «sguardo storico retrospettivo che riflette nella consapevolezza
della sua sistematica la grande epoca dello jus publicum europaeum e dei suoi concetti di Stato e di guerra e di nemico giusto», ma lascia indefinito il problema su ciò che si sostituirà allo Stato e all’ordinamento
eurocentrico. Impressionante per il sapere storico che ne promana e per la ricchezza
delle dettagliate analisi, l’opera ha un orientamento fondamentale che si limita a
sistematizzare i temi contenuti negli scritti del decennio precedente, sostituendone la retorica
militante messa a servizio del nazismo con la serenità disincantata dell’osservatore
dolente della morte di un mondo – un dolore impregnato di autocompiacimento: «Io sono
l’ultimo, consapevole rappresentante dello jus publicum europaeum». E tuttavia, l’analisi che il libro sviluppa resiste alla disfatta dell’ideologia
a cui era destinato nel momento in cui venne concepito; in effetti la sua tesi – la
dissoluzione del diritto delle genti interstatale come sintomo dell’estinzione della
forma statale della politica – si basa su argomenti dotati di piena consistenza. Schematicamente,
li si può dividere in tre gruppi.
Innanzitutto, in quanto sviluppo degli scritti degli anni Venti, Il nomos della terra insiste sul ruolo dello Stato quale vettore dell’ordine politico nazionale e internazionale
moderno; è quanto si può chiamare, secondo una formula di Hobbes cara a Schmitt, il
teorema dell’imperium rationis. Lo Stato moderno non è soltanto la risposta alle guerre di religione e al connesso
discredito delle tradizionali legittimazioni del potere; esso è anche, e soprattutto,
il fondamento di un «ordinamento spaziale eurocentrico», basato sulla distinzione tra le «persone sovrane» che si dividono il territorio
europeo e lo spazio aperto dei mari e delle terre non europee. In secondo luogo, –
è il punto oggetto delle analisi più estese – il diritto delle genti moderno ha messo
in opera una regolamentazione, una civilizzazione della guerra che corrisponde alle
denominazioni «guerra pubblica solenne» (in Grozio) o «guerra legittima e in forma»
(in Vattel). Questo nuovo diritto della guerra dissolve la figura, di origine teologica, della
guerra giusta, centrata sulla giusta causa e condotta contro un nemico reputato ingiusto,
a beneficio della figura della ‘guerra in forme’ tra Stati giuridicamente eguali,
unici giudici della giustezza della propria causa. Poiché conta lo jus in bello, il diritto nella guerra e non più il diritto alla guerra, la proclamazione dell’eguale sovranità degli Stati implica che sia loro attribuito
uno jus ad bellum senza limiti di sorta. Grazie a questa messa in forma giuridica, lo jus publicum europaeum ha prodotto per quasi due secoli quella che Schmitt chiama eine Hegung des Krieges: un sano contenimento/economizzazione della guerra la cui conseguenza è stata la
razionalizzazione, l’umanizzazione, la legalizzazione, fondamentalmente la limitazione
della guerra. I benefici di questa addomesticazione del fatto bellico si sono però dissolti con
il «ritorno della guerra giusta», parallelo a una rimessa in discussione del dogma
della sovranità, la quale sta alla base della tematica attuale di quel diritto di
ingerenza che è un effetto della crisi della sovranità. La terza linea argomentativa
del librodiscende dagli scritti del precedente periodo: la dissoluzione dello jus publicum europaeum, iniziata al termine del XIX secolo con l’ascesa della potenza statunitense, dalla
politica estera esitante tra isolazionismo e paninterventismo «universalistico»-umanitario, e giunta all’apice – questo è uno dei rari temi su cui Schmitt non ha mai mutato
posizione – con la regolamentazione giuridica della prima guerra mondiale (quando
i vinti sono stati considerati alla stregua di colpevoli), è la manifestazione eclatante
del declino della Staatlichkeit, ossia della figura moderna del politico. Tale dissoluzione produce la rinascita
della tematica della guerra giusta, in sembianze che naturalmente non sono affatto
identiche a quelle delineate dalla dottrina medievale. Schmitt menziona infatti il
ricorso alle rappresentazioni e alle legittimazioni umanitarie, che delineano il nuovo
volto della justa causa, e la criminalizzazione dell’avversario, la quale autorizza la guerra totale, ossia
la guerra di sterminio: «Il potenziamento dei mezzi tecnici di annientamento spalanca
l’abisso di una discriminazione giuridica e morale altrettanto distruttiva».
Nessuno di questi temi è davvero inedito. Invece, la riflessione sulla decomposizione
dell’ordine spaziale europeo dell’età classica sfocia direttamente nel problema, un
tempo considerato fantasmagorico, dell’unità politica del mondo:
Lo sviluppo planetario aveva condotto già da tempo a un chiaro dilemma tra universo
e pluriverso, tra monopolio e polipolio, ovvero al problema se il pianeta fosse maturo
per il monopolio globale di un’unica potenza o fosse invece un pluralismo di grandi
spazi in sé ordinati e coesistenti, di sfere di intervento e di aree di civiltà, a
determinare il nuovo diritto internazionale della terra.
La situazione che si sviluppa dopo il 1945 è caratterizzata dalla tensione tra un
universalismo incarnato dalle Nazioni Unite (la cui regola, evidentemente fittizia,
è quella dell’eguaglianza degli Stati membri, e la cui Carta si fonda sui principi
umanitari proclamati nella Dichiarazione universale dei diritti umani) e la pluralità
dei grandi spazi formatisi attorno a potenze economiche e politiche dalla vocazione
imperiale. La proclamata volontà di istituire l’unità del mondo sulla base della democrazia
e dei diritti umani si confronta così con la realtà delle grandi potenze e dei loro
interessi, mascherati come pare doveroso con il linguaggio dell’universalismo e del
diritto. Non sorprende affatto che, dinanzi a una situazione del genere (la quale
corrisponde all’alternativa, pensata come ineluttabile, ‘Großraum o universalismo?’), Schmitt rifiuti la prospettiva globalista di un Menschheitstaat, di uno Stato mondiale di cui l’Onu sarebbe una fucina. L’annuncio della fine dell’ordine
statuale-politico pluralista dell’Europa moderna fa quindi sorgere l’esigenza di trovare
ragioni, e una via di uscita, al rifiuto di una alternativa illusoria.
4. Unità e pluralità del mondo: tecnica, politica, storia
Queste ragioni sono proposte, in modo frammentario e forse non del tutto coerente,
in una serie di testi degli anni Cinquanta e dell’inizio degli anni Sessanta il cui
argomento generale è, come recita il titolo di uno di essi, «il nuovo nomos della terra». La questione della natura e delle caratteristiche del nuovo ordine mondiale, destinato
a prendere il posto dello jus publicum europaeum, rimane in effetti aperta, fatta eccezione per coloro che reclamano «uno solo a comando
del mondo». Si aprono difatti tre possibilità, che conviene analizzare senza pregiudizi. La
prima potrebbe essere questa: «l’attuale dualismo [...] non [è] che l’ultimo stadio
di transizione verso una unità definitivamente chiusa del mondo»: ciò corrisponde all’ipotesi di una unione politica del pianeta sotto l’egemonia
di una delle due grandi potenze che si fronteggiano all’interno della nuova forma
della conflittualità chiamata Guerra fredda, ed è chiaro che Schmitt teme una superpotenza
molto più dell’altra. La seconda possibilità potrebbe essere quella di una attualizzazione
dell’antico nomos della terra, che assumerebbe la forma di un nuovo equilibrio (la cui consistenza
non è peraltro precisata) il cui garante sarebbe, al posto della Gran Bretagna, quella
potenza marittima, aerea e spaziale che sono diventati gli Stati Uniti d’America,
«l’isola più grande». La terza possibilità, infine, potrebbe essere quella di un ordine mondiale basato
sulla coesistenza di «molteplici grandi spazi o blocchi indipendenti stabilenti reciprocamente
un equilibrio, e con esso, un ordine della terra». È quest’ultima opzione, manifesta continuazione della precedente teoria del Großraum, a raccogliere il consenso di Schmitt, perché è l’unica che sia «razionale», almeno
finché «i grandi spazi siano delimitati in modo sensato e resi reciprocamente omogenei». Le ragioni di questa preferenza (oltre quelle puramente ideologiche, come l’avversione
per il comunismo) non sono in ogni caso indicate con chiarezza nel saggio, ma è possibile
tuttavia ricostruire l’argomentazione che ne sta alla base, e che si fonda su quattro
punti.
1. In primo luogo, l’aspirazione all’unità politica del mondo si basa su una rete
di credenze provenienti da quello che Schmitt chiama il ‘pensiero tecnico’:
La speranza nel buon funzionamento dell’unità globale del mondo corrisponde alla visione
del mondo, oggi dominante, di tipo tecnico-industriale. [...] E se è vero che è la
tecnica, e non la politica, ad essere il destino dell’umanità, il problema dell’unità
è già così risolto.
Ma la premessa è falsa, poiché «il problema centrale dell’ordine mondiale [...] è
sempre un problema politico», e non un problema tecnico. L’unificazione tecnica del mondo, almeno quella del mondo
sviluppato, è un fatto acclarato; ma derivarne la necessità e la probabilità di una
unificazione politica, o piuttosto di una unificazione nell’oltrepassamento del politico,
del conflitto, del negativo, è una illusione tipica e tenace. Questo è un punto che
Schmitt sottolineava già nella conferenza del 1929 su «L’epoca delle neutralizzazioni
e delle spoliticizzazioni», e la lettura di Der Arbeiter di Ernst Jünger, così come gli scambi intellettuali con Kojève, il teorizzatore dello
«Stato universale e omogeneo», non fecero che consolidare tale convinzione. All’inizio
degli anni Trenta, lo Stato totale («quantitativo» o «qualitativo») sembrava essere
la risposta politica alla sfida portata dalla tecnica moderna: nell’era della tecnicizzazione
totale è necessario uno Stato totale. In questi scritti, invece, Schmitt sottolinea
piuttosto che la credenza in una (o il mito della) unificazione prodotta dalla tecnica
è condivisa dai due grandi attori del gioco politico globale, e che in questo senso
la contrapposizione Est-Ovest ha qualcosa di desueto: al famoso motto di Lenin «il
socialismo è soviet più elettrificazione» (ma Schmitt lo cita omettendo il primo termine)
corrisponde quello del segretario di Stato americano Henry Stimson, secondo cui la
terra è ormai troppo piccola per contenere due sistemi politici opposti. Il progresso tecnico è la sola religione delle «masse», e tale ‘religione’ è comune
ai due blocchi: «i nemici si incontrano nella autointerpretazione della loro situazione
nella storia universale». Una siffatta credenza, sebbene alimenti le rappresentazioni globaliste e pacifiste,
non è capace di oltrepassare la conflittualità delle relazioni politiche, la quale
– tesi già risalente – va al di là della «naturalità» dell’uomo, essendo il contrassegno
della spiritualità della sua esistenza:
L’inimicizia tra gli uomini serba una tensione che oltrepassa nettamente la naturalità.
[...] Si può definire ‘spirituale’ questo plusvalore e illustrarlo con un’espressione
di Rimbaud: la lotta degli spiriti è brutale quanto una battaglia tra uomini.
2. Non è necessario soffermarsi a lungo sul secondo punto, poiché esso riprende le
categorie e le conclusioni di Land und Meer: l’opposizione di blocco comunista e blocco capitalista, come si delinea poco dopo
la fine del secondo conflitto mondiale, è, al di là della loro comune adesione alla
religione della tecnica, un conflitto tra due visioni, terrestre e marittima, del
mondo. Più che mai, la lotta tra terra e mare è attuale, e l’emergenza di nuovi «elementi»
(l’aria, lo spazio) in quanto fattori politici, sebbene siano parte di una «rivoluzione
spaziale» dalle profonde conseguenze, non tocca questo dato fondamentale dell’ordine politico del mondo. A ciò si aggiunge
il fatto che, per Schmitt, tale ordine, per essere stabile e durevole, deve rimanere
terrestre poiché «l’uomo è un figlio della terra e lo rimarrà, fintantoché resta uomo». Questa è, nello strano Dialogo sul nuovo spazio redatto nel 1958, la conclusione del personaggio-portavoce di Schmitt, Altmann, il
quale, invocando Goethe, oppone ai sogni dei suoi interlocutori – marittimi quelli
di Neumeyer, spaziali quelli di McFuture – questa professione di fede tellurica:
io credo che l’uomo, dopo la difficile notte della minaccia di bombe atomiche e di
simili orrori, un mattino si risveglierà e grato si riconoscerà figlio della terraferma.
E tuttavia non si tratta di ritornare alla concezione territoriale classica dello
spazio politico: il «grande spazio», sebbene abbia sempre una base territoriale, è
uno spazio multidimensionale, costituito da «numerose interferenze e sovrapposizioni», e non è invece un territorio statale delimitato nel senso del diritto internazionale
classico.
3. Il terzo punto dell’argomentazione si presenta in forma di tesi: nonostante l’attuale
organizzazione del mondo sia bipolare (siamo nel periodo della Guerra fredda), «c’è
sempre un terzo fattore, e con più verosimiglianza molti terzi fattori». Con vera perspicacia Schmitt intuisce, alla metà degli anni Cinquanta (proprio negli
stessi tempi della conferenza di Bandung), che l’emergenza politica del Terzo Mondo
è destinata a modificare in profondità l’equilibrio dei blocchi, a seconda di quanto
questi cercheranno di appoggiarsi su di esso:
All’inizio della mia relazione ho usato la parola nomos come denominazione caratteristica per la spartizione concreta e la distribuzione
della terra. Se adesso voi mi chiedete [...] che cosa sia oggi il nomos della terra, posso rispondervi con chiarezza: esso è la divisione della terra in
zone industrialmente sviluppate e meno sviluppate [...]. Questa distribuzione rappresenta
oggi la costituzione reale della terra.
In tal modo, alla fase monista durante la quale si è creduto o si è finto di credere
nella imminente realizzazione di one world, e alla fase dualista segnata dalla riscoperta del carattere insuperabile dell’ostilità
e dall’apparizione di forme inedite di quest’ultima (la «guerra civile mondiale»),
segue una terza fase «pluralistica-multipolare», la quale comporta senz’altro «la minaccia di un caos», ma che può anche inaugurare
la costruzione di un sistema coerente di grandi spazi coordinati che affrontino in
modo concorrenziale il problema cruciale ed eminentemente politico dell’appropriazione
e della ripartizione delle risorse del pianeta. Questo stato della questione rimane
fortemente attuale.
Da notare che la tesi precedente non emerge soltanto dall’attenta osservazione della
situazione planetaria, ma si lega – questo è il quarto punto – a una convinzione che
lo stesso Schmitt presenta come una credenza. La «religione della tecnica» comune sia all’Oriente che all’Occidente è il lascito,
palesemente volgarizzato, di una filosofia della storia o meglio della sola, unica
filosofia della storia che si sia strutturata in modo dottrinario, quella dell’Illuminismo,
secondo cui il progresso promana irresistibilmente dall’attitudine umana a trascendere
culturalmente la sua naturalità. Questa filosofia progressista e laica, che ha visto
nella Rivoluzione francese e nella rivoluzione industriale le sue irrefutabili conferme
e che ha le ultime propaggini nella fede in una unificazione super-politica del mondo
(la «religione dell’umanità»), si è imposta a spese di altre visioni della storia,
ad esempio teologiche o tradizionaliste; in questo senso, la filosofia della storia,
rivendicando «il monopolio dell’intelligenza e della scientificità» si è «appropriata
della storia». Ora, segnala brevemente Schmitt, «io non credo affatto alla verità
di questa visione filosofica della storia» che «attraversa la cortina di ferro», la
quale si dimostra «più filosofia che storia». Difatti la storia, dal suo punto di vista, non è una «riflessione umanistica» dell’uomo
ma una «incorporazione dell’Eternità nel corso dei tempi». Così egli oppone la sua credenza a questa filosofia:
Così come la terra è più vasta del dilemma posto dalle riflessioni dualistiche, allo
stesso modo la storia si rivela essere più forte di ogni filosofia della storia, ed
è per questa ragione che non credo che l’attuale dualità del mondo sia un preludio
alla sua unità, ma la transizione verso una nuova pluralità.
Tale credo rappresenta il principio ultimo dei giudizi di Schmitt sulla questione dell’unità
del mondo. Essi esprimono senza dubbio la sfiducia machiavelliana nei confronti di
una costruzione ideologica che maschera, servendoli, gli interessi in gioco delle
grandi potenze; in questo senso, la critica dell’«unità del mondo» e delle prospettive
che essa elabora si colloca tra i vecchi ingaggi dell’autore di Der Begriff des Politischen contro le trappole dell’umanismo politico. Ma tali giudizi provengono anche da un
autore per il quale la razionalità umana non è in condizione di dire l’ultima parola
sulla questione dell’uomo, perché tale parola non appartiene all’uomo. L’unità del
mondo sarebbe così la vittoria della filosofia sulla politica e sul suo orizzonte
di trascendenza, ed è per questo che Schmitt non la giudica solo impossibile: come
Schelling, egli non crede affatto in essa.
5. Mondo, Dio, terra
La filosofia (o meglio la teologia) della storia evidenziata nel testo prima citato
è necessaria per sostenere la diagnosi politica sviluppata da Schmitt sull’unità del
mondo? Non lo credo, sebbene una visione escatologica della storia faccia parte dei
convincimenti profondi dell’uomo Schmitt. In realtà, tale diagnosi emerge direttamente
dalla concezione del diritto esposta all’inizio di Il nomos della terra: il diritto, fondamentalmente, è «unità di ordinamento e localizzazione», da cui
consegue che «i grandi atti primordiali del diritto restano invece localizzazioni
legate alla terra». L’appropriazione (Nahme) è l’atto giuridico originario: idea forte e perturbante, che merita di essere scavata
in profondità (come fece Marx in particolare). Senza dubbio, il diritto è insieme
«prendere, suddividere, produrre» (Nehmen, Teilen, Weiden), ossia, secondo il titolo di un testo del 1953, «appropriazione, divisione, produzione»; ma il nomos – la parola proviene da nemein, prendere – è innanzitutto appropriazione originaria del suolo. Poco conta l’appropriatezza delle etimologie schmittiane, filologicamente assai
discutibili, come quelle di Heidegger, perché sono soltanto delle illustrazioni di
una concezione del diritto che, nell’assegnare un ruolo fondativo al momento dell’appropriazione,
della predazione, spiega perché il mondo è e deve rimanere un orizzonte e non una
realtà giuridica attuale: sebbene in tanti lo abbiano sognato, nessuno saprebbe «appropriarsi»
del mondo. Oggi, come spiega l’articolo in questione, ci si focalizza sulla funzione
di ripartizione ad opera del diritto (la «giustizia distributiva»). Ci si dimentica
però – l’appunto è rivolto a Kojève, il cui Esquisse d’une phénoménologie du droit non poteva certamente essere stato letto da Schmitt, il quale però conosceva e, fino a un certo punto, condivideva le sue riflessioni
sull’origine del diritto nella lotta per il riconoscimento – che «qualsiasi appropriazione
(ein Nehmen) [è l’]indispensabile premessa e fondamento per la successiva divisione e produzione». Inoltre, Schmitt precisa:
Non può esservi nessun uomo capace di dare ciò che, in un modo nell’altro, non abbia
preso. Solo un Dio che crei il mondo dal nulla può dare senza prendere, e anch’egli
solo nell’ambito del mondo da lui creato a partire da quel nulla.
Solo un Dio creatore può «donare senza prendere», e fare del mondo, che è inappropriabile,
una realtà giuridica. Ma un simile Dio non ha nulla a che fare con il diritto, che
è fenomeno umano e spaziale; il nomos è pantônbasileus, ma non è theos. Per gli esseri umani, al contrario, non è possibile appropriarsi del mondo, perché
esso si situa al di là del diritto. Doppia lezione, questa, che è utile rammentare
come ammonimento nei confronti di una visione pacificata del diritto quale è (giustamente)
la nostra: l’unità giuridica e politica del mondo è un fantasma; il diritto comporta
un momento originario di violenza predatoria. Assumo così la frase «nessun uomo può dare senza aver preso» come un avvertimento: essa segna un limite da cui ogni
riflessione sul diritto, anche radicalmente critica, non può liberarsi facilmente.
Ebbene, Schmitt alle volte è stato tentato di affrancarsi da tale limite, così come
fece Walter Benjamin, che sappiamo essere stato un attento lettore della Teologia politica, nel suo celebre scritto intitolato Critica della violenza. Per assumere la terminologia di Benjamin: il diritto si basa su una «violenza fondatrice»
ed esercita una permanente «violenza conservatrice»; per tale ragione c’è in esso
qualcosa di irrimediabilmente «guasto», ossia qualcosa di impuro. Ciò che si tratta di superare mediante la critica radicale
non è tanto la stessa violenza, quanto il sistema creato dalla violenza e il diritto
nella sua impurezza costitutiva. Ma il solo mezzo di oltrepassare la coppia diritto-violenza
è il ricorso a una violenza superiore, che in termini schmittiani può essere chiamata
costituente; Benjamin, dal canto suo, parla di violenza divina. La violenza divina, che non è né fondatrice né conservatrice e nemmeno «mitica»,
può però essere regnante (waltende):
La violenza divina, che è insegna e sigillo, mai strumento di sacra esecuzione, è
la violenza che governa.
Solo tale violenza divina (metagiuridica, metapolitica) può liberarci, ma «non però
da una colpa, ma dal diritto».
A dispetto di Benjamin e anche (entro certi limiti) di Schmitt, non pare necessario
annunciare lo «spodestamento» di questo diritto impuro e delle sue «forme mitiche»:
è infatti pericoloso credere che «sull’interruzione di questo ciclo che si svolge
nell’ambito delle forme mitiche del diritto, sullo spodestamento del diritto [...]
si basa una nuova epoca storica». L’antigiuridismo, anche se praticato in nome di una superiore idea di diritto, di
un diritto che possa «dare senza prendere», può condurre verso lidi pericolosi e inesplorati:
come quelli nei quali Schmitt approdò. Per parte mia credo che sia meglio affidare
al diritto, anche se esso è «corrotto» – ed è certo che il diritto non sarà mai «puro»
–, la difesa delle vite, se non proprio della vita, e che si possa uscire dal «cerchio
magico» della violenza e del diritto in un altro modo che non sia quello mistico della
violenza sacra. Che ci sia consentito di accontentarci di questa impurezza e di lasciare
che il diritto regni nel mondo, perché di regnare sul mondo non sarebbe capace.