Design senza designer
Artigiani, operai, terzisti, venditori, imprenditori, pr, giornalisti, curatori ci aprono le porte di laboratori, studi, luoghi di produzione, factory, negozi. Un’incursione nei mestieri del design, designer a parte.
Artigiani, operai, terzisti, venditori, imprenditori, pr, giornalisti, curatori ci aprono le porte di laboratori, studi, luoghi di produzione, factory, negozi. Un’incursione nei mestieri del design, designer a parte.
Chiara Alessi è curatrice e critica di design. Collabora con alcune delle principali riviste del settore, tra cui “Domus” e “Interni”, e come design editor per Edizioni Zero. Nell'ambito del design contemporaneo, ha curato numerose pubblicazioni e intervistato alcuni tra i più interessanti autori internazionali della sua generazione. Cresciuta nella tradizione di una delle storiche fabbriche del design, da qualche anno si occupa specialmente della nuova cultura del progetto italiano e delle sue implicazioni. Vive e lavora a Milano.
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
Il nostro paese ha un guaio. In realtà ne ha molti, ma quello relativo al made in Italy sembra non avere una soluzione facile. Anzi, il vero guaio è che, se la soluzione per l’Italia è il made in Italy, come spesso si afferma nei programmi elettorali, in quelli televisivi e in quelli finanziari, non si è capito però, e prima, da dove debba venire allora la soluzione per il made in Italy, che per il nostro paese è insieme croce e delizia, reputazione e imbroglio, risorsa inesauribile e patrimonio smarrito.
Il primo problema del made in Italy è di tipo lessicale. Non tanto, o non solo, per il paradosso di una locuzione inglese utilizzata per definire un protettorato strettamente italiano, quanto per il fatto che manca una corrispondenza precisa tra i valori immateriali – le qualità intangibili che il made in Italy descrive nel nostro immaginario – e la giurisprudenza, che ne definisce (peraltro ancora senza una precisa e definitiva normativa) i parametri di tipo quantitativo (come per esempio, nei prodotti assemblati in Italia, il rapporto tra i costi del lavoro o dei materiali impiegati fuori e dentro confine, o la corrispondenza con le normative che regolano il made in negli altri paesi). Il fatto stesso che si usi un’espressione straniera è indicativo di come sia maggiormente avvertita la necessità di raccontare, a un pubblico esterno di possibili estimatori, quella famiglia di progetti e prodotti che si è dato – forse troppo a lungo – per scontato fossero unanimemente conosciuti e «presidiati» in casa. Mentre, si sa, nessuno è profeta in patria. Ecco il paradosso.
E questo è il secondo problema del made in Italy: ripulirlo di una serie di goffaggini, distrazioni, leggerezze, quando non vere e proprie scorrettezze, che hanno reso questa etichetta, agli occhi dell’opinione pubblica nostrana, uno slogan finto, vuoto e in certi casi pure un po’ passato, vecchio... Come sostiene Massimo Giannini a proposito del «‘Siamo la quinta manifattura mondiale’ [...] del quale si riempiono la bocca gli entusiasti paleontologi del ‘piccolo è bello’»4. In più c’è un’intera generazione di italiani, una nuova generazione, che considera, anche giustamente, il made in Italy una cosa buona per i turisti, valida spesso esclusivamente per i portafogli altrui e quasi sempre identificabile solo con la ristorazione e il settore enogastronomico, che in cambio di un certo prezzo e di un patto tra sapore e purezza, fra tradizione e sperimentazione, dovrebbe garantire qualità e originalità, e possibilmente tenere a distanza malattie e intossicazioni. E infine ci sono quelli per cui il made in Italy sono le buone vecchie icone musealizzate da inscatolare in teche luccicanti e ogni tanto rispolverare per gli asiatici che hanno pagato il biglietto per vederle. Di nuovo generalizzazioni.
4 M. Giannini, L’anno zero del capitalismo italiano, Laterza, Roma-Bari 2014, p. 19.
Il guaio più serio quindi è che, nonostante tutto, il made in Italy sia «il prediletto». Che cioè sia proprio sul made in Italy, anzi su un acclamato suo «rinascimento», che imprenditori, media e classe politica attuale puntino per la ripresa delle sorti del nostro paese. Che il made in Italy sia l’eroe prescelto, dunque, a cui toccherebbe l’impresa erculea di ricostruire l’economia o immolarsi definitivamente sull’altare di una crisi insormontabile.
Si tratta di una fiducia che sembra tutto sommato aver senso, anche perché all’Italia non è rimasto molto altro su cui puntare. Eccolo lì, quello che Giorgio Merletti, presidente di Confartigianato, nell’assemblea del giugno 2014 definisce «il primato del valore del prodotto e della relazione tra l’imprenditore e il suo cliente, che è una delle caratteristiche fondanti del lavoro artigiano, al di là di ogni costrizione legislativa», e che ha convinto già molte aziende – ma non sufficienti per poter arrivare a decretare un vero e proprio «fenomeno», visto che la maggior parte per adesso opera specialmente nell’ambito delle calzature e dell’elettronica – a decidere di ritornare a produrre in Italia, o almeno a riavvicinarsi.
Si chiama back reshoring. Mancano i dati ufficiali per ritenerlo un fenomeno rilevante – come evidenzia anche un bell’articolo intitolato Il silenzioso ritorno delle aziende straniere, apparso il 21 dicembre 2014 su «Pagina99» – perché, dichiarando di rientrare, le aziende implicitamente ammetterebbero di aver fatto off shoring, e quindi l’Istituto del commercio estero, come pure le istituzioni che lavorano sull’internazionalizzazione, non possiedono le cifre reali. Ma l’aspetto più interessante, almeno per questo contesto e per quel che se ne sa, è che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il back reshoring vedrebbe i suoi picchi proprio durante i momenti di massima recessione (2008, 2011) e quindi non sarebbe legato soltanto alla crisi economica. E in ogni caso l’Italia sarebbe il secondo paese al mondo, dopo gli Stati Uniti, per rimpatri produttivi. Risultato rispetto al quale pare che conti soprattutto, alla fine, proprio l’impatto positivo prodotto dal poter dichiarare che la produzione è effettivamente italiana.
«Quanto vale a livello di sistema italiano il back reshoring? – si chiede Dario Di Vico –. È pura fenomenologia industriale o ci si può far conto per affrontare i nostri problemi sistemici? La risposta degli esperti è semplice: se vogliamo irrobustire il Pil manifatturiero forse è la strada più concreta e meno immaginifica»5. Non si tratterebbe quindi solo di un vantaggio di tipo logistico (risparmio nei costi di trasporto), di affidabilità, di innovazione, ma anche di «via alta», che per il momento, e per qualche favorevole e inappellabile destino, sembrerebbe l’unica carta determinante e non riproducibile illegalmente (anche se attualmente gli incentivi alla rilocalizzazione non sono così significativi). Ma si torna alla domanda di partenza: è l’Italia a fare il made in Italy o il made in Italy che fa gli italiani? E cioè, ammesso che il made in Italy si debba occupare di risollevare l’Italia, chi dovrebbe occuparsi della ripresa del made in Italy?
5 D. Di Vico, In Cina non trovano la qualità e le fabbriche tornano in Italia, in «Corriere della Sera», 5 luglio 2014.
Per ora sappiamo che nel recente decreto Sblocca Italia, approdato nell’agosto 2014 in Consiglio dei ministri, anche in vista dell’Expo 2015, il made in Italy trovava spazio attraverso un «Piano per la [sua] promozione straordinaria e l’attrazione degli investimenti in Italia», iniziativa per la quale si prevedeva uno stanziamento di oltre 270 milioni di euro nel triennio 2015-2017 per la realizzazione di interventi mirati all’export e alla promozione delle produzioni italiane in campo industriale e agro-alimentare.
Al di là dello scetticismo per l’operato di istituti e piattaforme che lavorano al di fuori del confine, e quindi della sorveglianza diretta e costante e del dialogo con i produttori e con le loro istanze, 270 milioni in tre anni, ovvero 90 milioni all’anno, sembrano una cifra stratosferica, ma nella realtà – per citare l’Expo, già scomodata nel famoso decreto – sono pari quasi al costo finale del solo padiglione italiano costruito a Rho. Un’inezia, se si considera che da sola l’industria manifatturiera italiana, prima della crisi, valeva appunto il 21% del Pil. Non sono niente se si pensa di risarcire con questo investimento il ritardo nell’innovazione e nello snellimento delle prassi, il danno delle contraffazioni e della politica dei prezzi, l’impreparazione dell’opinione pubblica e la sua indisponibilità a fidarsi e a premiare la produzione interna, e così via. Al tempo stesso, però, 90 milioni, benché pochi, sono una cifra che l’Italia del made in Italy non può permettersi di perdere ogni anno. E soprattutto, non si possono considerare né pochi né tanti finché non si chiarisce chi siano precisamente i destinatari: sono le quasi 147.000 imprese associate a Confindustria, oppure le circa 5.000 che Fulvio Coltorti, economista e teorizzatore del «quarto capitalismo», indica come le «migliori fabbriche» su cui investire per il rilancio dell’economia italiana, la minoranza delle quali in realtà è riconducibile al settore creativo e quindi identificabile con il made in Italy più conosciuto e riconosciuto?
In realtà, sempre con Di Vico scopriamo che «secondo Calenda, viceministro dello Sviluppo economico, in Italia ci sono circa 20.000 aziende che esportano con continuità e circa 70.000 che esportano con saltuarietà: sono queste ultime il target del decreto, quindi, che intenderebbe portarle al livello di esportazione della per ora minoranza delle 20.000». E dunque cosa ne è di quella galassia di nuove e piccolissime, spesso non ancora censite, ma numerosissime imprese che in molti casi funzionano (e bene) con una logica opposta a quella della distribuzione canonica e quindi sono indipendenti dai tassi di crescita del famoso e tradizionale export usato come metro della salute delle aziende italiane? «I piccolissimi – continua Dario Di Vico – ce la fanno se entrano in catene di fornitura, dove si può generare anche uno scambio di valore, oltre che di stabilizzazione economica. Ma hanno bisogno di superare la loro congenita staticità. Il web in questo senso doveva diventare uno strumento utile ma in molti, anche giovanissimi, non si sono mai adeguati»6.
6 Intervista rilasciata all’autrice nell’ottobre 2014 presso il «Corriere della Sera». Dalla stessa intervista sono tratte le altre citazioni presenti nel testo.
Durante una conferenza sulle strategie digitali tenuta nel 2014, Diego Ciulli, giovanissimo Senior Policy Analyst di Google, ha illustrato ai suoi colleghi una ricerca dalla quale emergono alcune interessanti riflessioni legate al rapporto tra ricerca online e comportamento degli utenti in fase di acquisti (nei negozi fisici e non). Fra tutti i dati presentati da Ciulli, il più significativo, almeno rispetto al contesto che stiamo trattando, rileva che nel biennio 2012-2013 l’incidenza delle ricerche di made in Italy sul loro motore di ricerca è aumentata di dodici punti percentuali, mentre la domanda internazionale di prodotti made in Italy è cresciuta del 4,1% nel 2013. Il documento non a caso si intitola Internet per il made in Italy e, al di là della barricata che Ciulli erige riguardo ai ritorni in termini di Pil e posti di lavoro favoriti dagli investimenti nell’area digitale, la cosa che più sorprende, specialmente considerando l’osservatorio aggiornato da cui proviene la ricerca, è la crescente considerazione nei confronti di un’etichetta un po’ scolorita come quella di «made in Italy». Minacciato sia dalle contraffazioni e dalle copie, interne e non, sia dal complicarsi delle procedure ministeriali per l’applicazione e la rimozione del marchio, sia dalla banalizzazione e dall’estensione del perimetro del suo cerchio semantico dai prodotti agro-alimentari alle scarpe, dai vini alle borse, dalla ristorazione ai divani, fino a comprendere anche beni immateriali e servizi, atmosfere ed «esperienze», il made in Italy sembrava vivere una parabola negativa nella percezione dei consumatori (ma forse anche dei produttori) italiani. Invece questo rapporto ci racconta un fenomeno diverso, valido specie fuori dall’Italia.
La presentazione di Ciulli concludeva insistendo sulla necessità di una «digitalizzazione del made in Italy», da concretizzarsi per Google su un quadruplice fronte: «far conoscere le eccellenze nascoste, rimuovere i blocchi e gli ostacoli, diffondere tra gli imprenditori competenze digitali e valorizzare i giovani come digitalizzatori», che significa anche passare ai giovani la coltivazione e il rilancio (digitale, secondo Ciulli) dei valori del made in Italy. Se qualche anno fa questo processo si è lievemente indebolito per la globalizzazione del mercato di massa e le difficoltà a penetrare con la propria distribuzione e immagine, secondo Ciulli – e molti altri – oggi Internet può aiutare la ripresa di una massa di mercati prima circoscritti, snellendo e riducendo i costi della promozione, arrivando velocemente a nuovi clienti, permettendo loro di raggiungere il mercato globale. Scomodando Chris Anderson, «stiamo passando dal mercato di massa a quello delle nicchie, definito non dalla geografia ma dagli interessi»7.
7 Di Anderson si veda in particolare La coda lunga. Da un mercato di massa a una massa di mercati, Codice, Torino 2008.
È innegabile che l’aspetto narrativo, del racconto, è sempre più centrale per il made in Italy: lo era prima e lo è ancor più ora per la sua riscoperta, un po’ hipster, un po’ ruffiana, un po’ strategica. Basti pensare a tutti quei progetti di serie, siti, blog, parasiti, che sono nati negli ultimi anni premiando proprio il racconto di una selezione di iniziative che hanno a che fare col «fatto in Italia». Tutti ad esprimere un revival di ciò che è fatto in casa, meglio se da giovani, meglio se premiando i sapori, le culture, le tradizioni delle proprie località.
Ma non è solo una questione di olio d’oliva o scarpe, sedie o lavatrici, mozzarelle o caffettiere, e neanche solo di distinguere tra fabbriche storiche e nuove imprese, tra grandi gruppi e realtà paradomestiche, tra patrimoni autosufficienti e alleati di capitali esterni, ecc. È sufficiente produrre in Italia e nel rispetto delle regole, o averlo fatto abitualmente (e per quante generazioni?), per rendere un prodotto made in Italy? Per la logica sì, ma per quell’insieme di qualità intangibili, di valori non scritti, di intuizioni non descrivibili che per anni hanno fatto il «made in Italy» nell’immaginario non solo italiano – al punto che non ci siamo neanche preoccupati di dargli un nome nostro per descriverlo, tanto era diffusa questa sensibilità tra di noi – non funziona così. E tutto il nuovo che emerge racconta proprio di questa trasformazione.
C’erano una volta le cose fatte bene che costavano tanto e quelle fatte meno bene che costavano meno. Oggi è evidente che non è più così. Le cose fatte bene e rispettando certi requisiti continuano a costare un po’ di più, però ci sono anche tantissimi che fanno male (fuori ma anche dentro l’Italia) pur facendo pagare molto e molti che hanno imparato come fare bene e insieme allargare la fascia del pubblico, rinunciando per esempio a qualche valore, che quel pubblico non sempre è in grado di apprezzare e premiare, in cambio di un prezzo più competitivo. In altre parole, non basta poter apporre l’etichetta made in Italy per rivendicare un valore che la gente dovrebbe riconoscere e premiare: ma una coscienza ormai crescente e diffusa implica che quella stessa gente (che poi siamo tutti noi, consumatori, utenti, pubblico, prosumer, comunque preferiamo definirci) possa essere molto severa nel sottrarre la propria fiducia a chi in quel delicato terreno commette degli errori. Se si sale sulla giostra del made in Italy, insomma, bisogna sapere come rimanervi equilibratamente in piedi. Senza contare l’enorme asimmetria che c’è – come si è detto – tra l’immaginario legato al made in Italy, la sua giurisprudenza e la corrispondenza nella realtà dei fatti.
Per esempio, come forse non si sa abbastanza, benché spesso design e made in Italy siano associati nel comune intendere, nella realtà moltissime aziende storiche del design italiano producono (anche) fuori dai nostri confini. Rispetto al settore del design, la scelta del luogo di produzione si gioca su alcune questioni decisive: la prima è quella dei costi di produzione nel nostro paese, che arrivano fino a dieci, dodici volte quelli sostenuti fuori d’Italia (dove la manodopera costa circa 24 €/h, contro i 2 €/h in Cina e gli 8 €/h circa nell’Europa dell’Est); tentando una media approssimativa, potremmo dire che questo si traduce in un 35% in più sul costo finale del prodotto, che sulla grande serie ovviamente si riesce a ridurre, ma sulle piccole serie del design genera una sproporzione che non sempre il pubblico è disposto a premiare. La seconda questione è quella della logistica, e riguarda non solo i costi di magazzino e stoccaggio ma anche quelli di consegna, per aziende che vendono – o dovrebbero cercare di vendere – sempre più all’estero.
Infine la qualità percepita: mentre fino a qualche tempo fa era apprezzabile la differenza tra un prodotto made in China e uno made in Italy, in molti casi oggi lo è di meno e produrre in Italia per tanti è diventato più una difesa (perché dichiarando di delocalizzare la produzione eroderebbero la propria immagine) che un vantaggio, perché la realtà, come dicevamo, è che il pubblico generico non premia la produzione italiana pagando un sovrapprezzo elevato. Tutto ciò deve fare i conti, però, anche con quello che si perde con la delocalizzazione. Ci sono infatti dei vantaggi reali, al di là del ritorno in immagine, nel produrre in casa: la flessibilità e l’«indipendenza» di mantenere autoctona la produzione, per esempio, che consentono di svincolare la produzione domestica da oscillazioni di vario carattere (guerre, crisi del dollaro, disastri naturali...) incontrollabili fuori dai confini, e poi ovviamente, last but not least, la questione della ricerca e sviluppo nelle aziende manifatturiere del design, unicità italiana, per la quale rimandiamo al prossimo capitolo.
Non sempre è o è stata un male: in certi casi anzi, come si diceva, la delocalizzazione di alcune parti della produzione e quindi la mancata crescita o la diminuzione dell’impiego di manodopera italiana sono state compensate con l’aumento di risorse interne ad altri livelli più specializzati. Anche dal punto di vista strettamente qualitativo, non necessariamente il reperimento di fornitori all’esterno ha comportato un abbassamento dello standard produttivo; di nuovo anzi, in certi casi, spostarsi fuori dal confine italiano ha permesso ad alcune aziende di trovare non solo un costo del lavoro più basso, ma anche una maggiore disponibilità e competenza verso alcuni tipi di lavorazioni che nel nostro paese non vengono più svolti dalle nuove generazioni di operai o artigiani. Ma, è ovvio, se la produzione non è in Italia si smonta un postulato imprescindibile per l’apposizione dell’etichetta «made in Italy».
Un caso interessante a questo proposito è quello di Kristalia, con sede a Prata (Pordenone). Per Kristalia, una delle «giovani» aziende più interessanti nell’ambito dell’arredo per sperimentazione e parco designer, la scelta dell’Italia come luogo della produzione, ma anche come luogo del reperimento di oltre il 90% delle materie prime, non dipende tanto dalle ragioni dei localismi o da bandiere campanilistiche, quanto dal fatto che proprio l’Italia è ritenuta ancora il migliore dei fornitori possibili nella stragrande maggioranza dei casi. Per il restante 10% ci si rivolge ad altre eccellenze europee: il Nord Europa per l’approvvigionamento dei tessuti, l’Austria per i laminati, la Germania per i materiali di ferramenta. Lo stesso vale per certi tipi di lavorazioni rispetto ai quali il territorio immediatamente circostante all’azienda detiene un primato di qualità impareggiabile. Questa prossimità diventa essenziale, anche strategicamente, sia per controllare i processi in modo costante e diretto nel raggio di pochi chilometri, sia per correggere i risultati dei semilavorati che arrivano. Ecco come il distretto si trasforma in servizio e come la rete locale riattiva uno scambio che ancora è possibile trovare solo in certi speciali territori italiani, di cui Prata senza dubbio rappresenta un epicentro dinamico.
La stessa cosa vale, nella maggior parte delle aziende del design italiano, per l’autorialità dei prodotti: il marchio è italiano, ma i progetti ormai da un paio di decenni sono firmati per lo più da autori stranieri. Per quanto i discorsi sull’autorialità, la proprietà intellettuale, l’opera di ingegno e il diritto d’autore, nell’epoca del trionfo dell’open source, dell’opera collettiva, dei prosumer (consumatori e produttori insieme), del «design senza designer», e soprattutto del travalicamento dei design nazionali, risultino argomenti superati e un po’ ostici, non si può più – o non si dovrebbe – trascurare il fatto che ogni progetto, anche quello che viene realizzato internamente all’azienda da un ufficio tecnico, ha da qualche parte un autore. Se vale il discorso sulla provenienza della produzione, perché non vale altrettanto la provenienza del progetto?
La risposta è meno complessa di quanto possa sembrare: perché fino a pochissimo tempo fa valeva il paradigma che a vendere non fosse l’autore, ma l’azienda. L’autore, il progettista, era anzi un cliente come un altro. E l’azienda vendeva un’idea, un immaginario, un insieme di competenze e requisiti, da una parte al cliente, dall’altra all’autore stesso, il progettista, per convincerlo a lavorare con lei anziché con un’altra azienda. Oggi questa matrice è cambiata sostanzialmente: da una parte i progettisti internazionali lavorano per molte aziende che spesso occupano mercati e producono tipologie molto simili, dando vita a cataloghi alla fine anch’essi molto poco distinguibili, in cui emerge più il segno della firma che quello dell’azienda; dall’altra parte, nuovi progettisti hanno iniziato a rivolgersi direttamente al mercato, bypassando le aziende, creandosi delle nicchie, dando vita a imprese che coincidono con loro e col prodotto che vendono, annullando le distanze, insistendo sul km 0 e la sartorialità dei progetti.
Ovviamente si tratta di realtà con fatturato, produzione, impiego limitatissimi, che non si pongono minimamente in un’ottica concorrenziale con la produzione delle aziende storiche, eppure finiscono per entrare in rotta di collisione con le loro traiettorie, conquistandosi nuove frontiere nella distribuzione fuori, mentre dentro ci si concentra proprio su quel messaggio di originalità, esclusività, nicchia, qualità, prossimità che il made in Italy tradizionale non è più in grado di soddisfare con altrettanta immediatezza. Per loro fortuna, potremmo dire paradossalmente, le aziende storiche del design italiano vendono molto non in quanto madrine del made in Italy, ma per una fama e una fiducia che si sono guadagnate nel tempo e che spesso fanno sì che chi compra possa riconoscere, dietro ai prodotti, nomi, storie e volti di persone.
Ma se produzione e progetto sono esternalizzati, perché continuiamo a considerare le fabbriche del design italiano degli esempi così centrati di made in Italy? Tornando al tema del back reshoring e a quel presunto ma immisurabile «fattore italiano» che giocherebbe un ruolo importante nel rimpatrio produttivo, al di là dei vantaggi di carattere logistico o di quelli effettivamente apprezzabili sulla qualità, forse potremmo dire che questo valore si misura in una capacità squisitamente italiana di «saper fare bene», con cui non intendiamo solo progettare e produrre, ma anche mediare, comunicare, diffondere, scegliere i giusti fornitori, intercettare i partner più interessanti, valorizzare e scovare talenti; «maneggiare con cura», direbbe qualcuno.
Infine, su che cosa puntare? Sull’esclusività. Da una parte della prestazione («certe cose si fanno solo in Italia»), dall’altra del servizio offerto («questa cosa la facciamo solo per te»). Sempre più le imprese, da quelle che si caratterizzano per un alto tasso di artigianalità alle multinazionali, si stanno attrezzando per soddisfare il bisogno di fare cose «uniche», personalizzate, in cui l’intervento del consumatore/cliente/utente sia sempre più specifico e orientante, in cui il pubblico, cioè, sia sempre più designer, oltre i designer.
Veniamo alle famiglie, che sono un altro cardine della percezione del made in Italy nel design.
In epoca di crisi e di calo del fatturato, sono proprio le piccole e medie imprese familiari quelle che hanno ricevuto più credito e licenziato di meno. Quello cioè che alcune istituzioni, come la Banca d’Italia, lamentano come dato critico per la crescita (ovvero la scarsa predisposizione al rischio, la concentrazione in un assetto proprietario unico e centralizzato, le dimensioni contenute), in verità in momenti di crisi si è rivelato un vantaggio di stabilità. Ma tutte queste aziende che per generazioni hanno tenuto insieme design, made in Italy e famiglie oggi hanno un problema, o lo avranno domani. Il problema è il passaggio nel cambiamento. Specialmente in un paese come l’Italia dove – come afferma Di Vico – «anche la politica è più disposta a premiare l’empatia sulle competenze», da un lato ci si lamenta che le nuove generazioni che acquisiscono la direzione di queste imprese familiari (con tutto quello che comportano l’espansione dei mercati internazionali, l’imitazione competitiva, i consumi non fedeli, l’apertura a investitori esterni) non riescono a dare una sferzata decisiva e all’altezza dei predecessori; dall’altro lato però non si smette di scandalizzarsi, storcere il naso o sentirsi «traditi», e inconsciamente togliere il proprio favore a quelle aziende che non rispettano questo tacito passaggio intergenerazionale e lasciano il testimone a qualcuno di esterno alla loro storia (si pensi alla diffidenza che istintivamente solleva il mondo della finanza quando entra in queste imprese familiari). Lo sintetizzava bene un articolo apparso sull’«Economist» qualche tempo fa, sui patriarchi italiani senza successori, che evidenziava come questi passaggi sono tanto più critici nel caso di aziende del design (e della moda), dove la fedeltà al marchio e al suo valore è strettamente legata a un nome. Di nuovo: a una faccia, a un nome.
Nell’agosto 2014 i media hanno trattato lungamente le vicende di Leonardo Del Vecchio, che una decina di anni prima aveva lasciato all’amministratore delegato Andrea Guerra il timone di Luxottica (l’azienda bellunese da otto miliardi di dollari da lui fondata nel 1961) e che ora, dopo l’uscita di Guerra, rientrava a guidare il triumvirato che lo avrebbe rimpiazzato. Le vicende successive avrebbero messo in luce una strategia tesa a favorire alcuni interessi familiari, ma lì per lì quello che emergeva da questa mossa era che Del Vecchio, cresciuto fino all’età di sette anni in un orfanotrofio e padre di sei figli avuti da tre matrimoni diversi, non pensava a nessuno dei suoi per la successione. Esempi simili si riscontrano in altre eccellenze italiane che hanno adottato delicate soluzioni cuscinetto, con manager – come Sergio Marchionne per Fiat, o Michele Norsa in Ferragamo, per citare i casi più noti – che potessero sostenere i padri in quelle azioni di controllo ed equità troppo delicate per essere lasciate all’esclusiva familiare, sostituendo i figli là dove non ancora pronti per avventurarsi da soli.
Analogamente, poche settimane dopo si apprendeva che la storica azienda di illuminazione Flos, fondata nel 1962 da Dino Gavina e Cesare Cassina e oggi diretta da Piero Gandini, era stata ceduta per l’80% alla società di investimenti inglese Investindustrial di Andrea Bonomi, già proprietaria di marchi come Ducati, Aston Martin, Gruppo Coin. Una sorte simile – ma con l’importante differenza del cambio di direzione, presidenza e amministrazione – era toccata alla fine del 2013 alla Driade di Enrico, Adelaide, Antonia e poi Elisa Astori, acquisita dalla Italian Creation Group. Tutti, infine, sanno del gruppo Poltrona Frau, acquisito nel 2003 dal fondo Charme di Montezemolo, poi allargato ad altri notevoli marchi del design nel made in Italy, come Cassina e Cappellini, e all’inizio del 2014 venduto agli americani di Haworth, già proprietari della storica Castelli.
Tra le aziende familiari che resistono, alcune sono ancora interamente guidate dalla seconda generazione, come nel caso di Patrizia Moroso e dei fratelli Zanotta; in altre, la direzione generale convive con l’inserimento della nuova generazione dei trentenni – penso alla Kartell di Claudio Luti, a sua volta succeduto non al padre bensì al suocero Giulio Castelli, o alla Poliform dei cugini Anzani e Spinelli; in altre ancora si stringono alleanze che uniscono affetti, affari e tradizione, come la coppia Danese/Artemide (alias Carlotta de Bevilacqua, che nel 2000 rileva la storica azienda milanese fondata negli anni Cinquanta, e il marito Ernesto Gismondi, presidente della fabbrica che ha firmato le lampade probabilmente più note del design italiano).
No, non è il fatto che un prodotto sia realizzato in Italia a renderlo ipso facto migliore e più utile al paese (molta manifattura mal fatta in Italia sta anzi nuocendo al settore intero); e no, non è la consuetudine nella proprietà o nel luogo della produzione che garantirà necessariamente il rispetto del nome e di una tradizione e contemporaneamente sosterrà efficacemente uno sguardo rivolto al nuovo e al futuro. L’opinione pubblica, interna ed estera, l’economia, il paese, hanno bisogno di essere confortati sul fatto che a una certa reputazione corrisponda un valore effettivo, riscontrabile.
Che sia per la storia che si può rivendicare, per il brand che ha effettivamente un costo e un valore, o perché offre un prodotto «ben fatto» in un modo che nessun altro al momento sembra in grado di garantire, o meglio per queste tre cose insieme, il made in Italy può essere la soluzione (politica, economica, d’immagine) solo se esprime una reale differenza rispetto a quello che viene fatto altrove, e solo se trova il modo di parlare all’altrove, ma con uno storytelling che intervenga là dove le trasformazioni ci sono realmente e non come traino forzoso.