Sommario

Classi sociali
e dinamica politica
di Innocenzo Cipolletta

C’è in noi una tendenza forte a ridurre tutto a un dualismo esacerbato. È un processo di semplificazione quasi connaturato con il nostro modo di pensare: noi e loro, buono e cattivo, bello e brutto, utile e nocivo. E si può continuare con la politica: destra e sinistra, laburisti e conservatori, democratici e repubblicani. In Italia, poi, sono anni che si cerca di riportare la politica sui binari del dualismo.

Questa tendenza a semplificare ha dominato anche l’analisi sociale: celebre è la contrapposizione tra capitale e lavoro introdotta a suo tempo da Karl Marx, dalla quale è derivata una concezione delle società industriali come divise essenzialmente in due sole classi: la borghesia e il proletariato. Questo dualismo ha caratterizzato le analisi sociali del dopoguerra anche in Italia, fino a quando Paolo Sylos Labini in una sua relazione all’Associazione culturale italiana di Torino affrontò il tema delle classi sociali nel nostro paese. Ne derivò il Saggio sulle classi sociali, edito da Laterza nel 1974, che è ancora oggi un «classico».

Sylos Labini era senza dubbio, per sua stessa ammissione, un uomo di sinistra, ma in questo stesso saggio si definisce un riformista, in un momento in cui questa parola non aveva l’attuale accezione positiva e rischiava di essere assimilata a socialdemocratico, che all’epoca suonava come una sorta di insulto per la gente di sinistra. E ci tiene a dare una definizione del proprio pensiero perché – sosteneva – nelle scienze sociali non si può essere obiettivi: si è sempre influenzati da ciò in cui si crede. La sola cosa da raccomandare, allora, non è l’oggettività delle analisi, ma l’onestà: in altre parole, è necessario verificare ogni ipotesi, anche quelle sgradite, e dichiarare prima quali sono le proprie posizioni ideologiche.

Posta in questi termini, l’analisi sulle classi sociali in Italia non poteva che basarsi su una solida indagine statistica del fenomeno per verificare la fondatezza di ogni asserzione: e questo fece Sylos Labini, arrivando a concludere che nel nostro paese non c’erano solamente due classi sociali, bensì un numero piuttosto rilevante, che provvide a evidenziare, distinguendo la grande dalla piccola borghesia, a loro volta suddivise in sottocategorie, al pari della classe operaia, a sua volta distinta in sei sottoclassi: in totale diciannove.

Quella di Sylos Labini era un’analisi politica, oltre che sociologica: egli era interessato non tanto a definire una tassonomia delle classi sociali, quanto piuttosto a capire come queste avrebbero influenzato la dinamica politica italiana. In un’epoca in cui erano ancora vivi i ricordi dolorosi della guerra e del fascismo, Sylos Labini vedeva nella piccola e grande borghesia un fattore di rischio per la tenuta della democrazia nel nostro paese, ma anche una possibilità di evoluzione positiva. Pur profondamente consapevole che in Italia il fascismo si era sviluppato grazie alla saldatura tra grande e piccola borghesia, egli sottolineava anche l’emergere di una nuova borghesia – intellettuale, artistica ed economica – che avrebbe potuto capovolgere tale tendenza.

Questa speranza nasceva anche da un’altra constatazione, che contraddiceva fortemente il credo dell’epoca, basato sull’ineluttabile proletarizzazione della società secondo le analisi marxiste e sull’inesorabile assottigliamento delle classi di mezzo. Sylos Labini mise invece in evidenza l’assenza di un processo di proletarizzazione nel corso degli ultimi cento anni, rilevando piuttosto un allargamento di quello che in seguito verrà chiamato ceto medio, e cioè proprio la piccola borghesia tanto detestata dalla sinistra.

La tendenza a crescere della «classe di mezzo» è stata confermata dalle analisi successive. Quelle del Censis, all’inizio degli anni Duemila, testimoniano, nel linguaggio creativo di De Rita, la cetomedizzazione della società italiana. I dati del Censis, pur con molte diversità definitorie, confermano quelli di Paolo Sylos Labini: la classe media, che secondo lo studioso nel 1971 era pari al 49,6% della popolazione, tocca il 55% secondo il Censis. È cresciuta la borghesia (dal 2,6% al 13,3%) ed è scesa la classe operaia (dal 47,8% al 31,7%).

Questi dati sembrano indicare, almeno fino a prima della grande crisi del 2007, un progressivo miglioramento della società italiana, con uno spostamento verso classi sociali (e di reddito) più agiate. La tendenza è vera, ma secondo gli analisti del Censis va ascritta più alla crescita generale del paese (seppure rallentata rispetto agli anni del miracolo economico) che a un aumento delle opportunità dei singoli. In altre parole, la mobilità sociale in Italia è bassa, ma lo sviluppo e le trasformazioni del sistema economico (terziarizzazione, urbanizzazione, robotizzazione, ecc.) hanno portato a una crescita della classe intermedia.

Non che non ci sia mobilità in assoluto, ma essa è piuttosto orizzontale, nel senso che le persone si spostano all’interno delle stesse categorie. Si tratta quindi di una mobilità molto diversa da quella che abbiamo conosciuto negli anni dell’immediato dopoguerra. In effetti gli anni del cosiddetto miracolo economico registrarono una forte ascesa sociale ed economica, che si può considerare irripetibile. Essa fu il frutto del diffondersi dell’istruzione, dell’urbanizzazione, della ricostruzione, dell’industrializzazione e della crescita dei consumi che caratterizzarono l’Italia fino agli anni Settanta. Dopo di allora il processo è rallentato, anche in ragione delle crisi economiche legate all’esplosione del prezzo del petrolio, che impressero nuovi andamenti al sistema economico italiano.

Ma qual era lo scopo di Sylos Labini nel distinguere diverse classi sociali? Era uno scopo politico: capire come le persone si sarebbero comportate politicamente, non tanto nel voto, quanto nella costruzione di una società moderna.

Nel Saggio egli sottolinea, ad esempio, come l’opposizione alle riforme di cui l’Italia aveva bisogno veniva dalle forti corporazioni di interessi presenti all’interno della piccola borghesia, ed enumera i provvedimenti intralciati: la riforma della pubblica amministrazione fu ostacolata dalla burocrazia; la riforma della sanità dagli addetti a questo settore; la riforma urbanistica dai piccoli proprietari; quella universitaria dal corpo accademico e dall’accesso indiscriminato di nuovi docenti; la costruzione di nuove scuole dagli interessi dei professionisti delle costruzioni (architetti, geometri, burocrati). Insomma, per Sylos Labini lo studio delle classi sociali era indispensabile per individuare quelle capaci di trasformare in meglio il paese, e al suo mondo politico (la sinistra) raccomandava di allearsi con le categorie sociali favorevoli alle riforme e rifuggire da chi le ostacolava.

Paolo Sylos Labini paventava anche l’ubiquità della piccola borghesia e la sua instabilità politica al momento del voto, guidato da interessi specifici e spesso appannaggio del populismo. Aspetto, questo, che possiamo osservare anche oggi.

Ma oggi possiamo constatare anche la crescente difficoltà a classificare i soggetti in classi separate, perché sempre più le persone possono far parte contemporaneamente di più categorie sociali e condividere svariati interessi anche in contraddizione tra di loro. Fino a che le classi erano due o tre, si poteva ragionare su separazioni relativamente nette, giacché un piccolo borghese non poteva essere al tempo stesso anche un operaio o appartenere all’alta borghesia. Questa impostazione presuppone o l’esistenza di un parametro certo di separazione (ad esempio il reddito) o una grande capacità di identificare le radici culturali. Ma sappiamo che il reddito non sempre coincide con la collocazione sociale delle persone e l’analisi dei comportamenti culturali si fa difficile in periodi, come l’attuale, di forte omogeneizzazione. Inoltre, se l’analisi sociale vuole cercare di capire anche comportamenti complessi, allora diviene molto difficile catalogare le persone in modo tale da evitare sovrapposizioni.

In realtà, sempre più le persone sono portatrici di interessi multipli, interessi che un tempo erano considerati in contrapposizione tra di loro. Un lavoratore dipendente (impiegato oppure operaio) è anche un risparmiatore, ma può essere altresì un piccolo proprietario immobiliare, ed è sicuramente un consumatore. A seconda della funzione che ricopre, i suoi comportamenti e la sua cultura possono variare, fino al punto di ritrovarsi in contrasto con se stesso (il consumatore vuole prezzi delle merci bassi, ma il salariato vuole remunerazioni alte per il suo lavoro; come lavoratore dovrebbe essere interessato a che il costo del denaro sia basso per far crescere il suo lavoro, ma come risparmiatore preferisce alti tassi di interesse per remunerare il suo risparmio). Insomma, nessuno può essere ridotto a una singola categoria e neppure l’analisi delle prevalenze può aiutare.

Ecco allora che la stessa analisi per classi o per ceti sociali deve lasciare il passo a un numero maggiore di articolazioni, a seconda di cosa si vuole analizzare. E le previsioni dei comportamenti politici divengono estremamente complesse, giacché non è facile prevedere quali, fra i molteplici e diversi interessi, prevarranno.

Né ci si può limitare a guardare soltanto la popolazione residente in un determinato paese. Sta emergendo infatti una classe sociale particolare, fatta di persone che tendono a non avere una precisa collocazione nazionale, ma che vivono in più città del mondo e che occupano posizioni di rilievo nel campo economico, sociale, culturale. È un prodotto della globalizzazione. Si tratta delle migliaia di banchieri che vivono nelle poche piazze finanziarie del mondo, di manager che si spostano da un paese a un altro, di funzionari dei molti organismi internazionali, di lavoratori che varcano continuamente le frontiere, di artisti che spostano le loro residenze a seconda degli interessi specifici e di tante altre persone che hanno residenze multiple. Persone che costituiscono una piccola percentuale della popolazione, ma che per molti paesi rappresentano anche quell’élite che nel passato faceva tendenza culturale e politica. Esse influenzano il proprio paese in vari modi, spesso si lasciano anche coinvolgere nel dibattito e a volte pure in azioni politiche, ma non hanno nel paese il loro vero centro di interesse. Un tempo erano parte integrante della classe dirigente e contribuivano a produrre specifici comportamenti collettivi. Oggi osservano da lontano gli avvenimenti del loro paese e, se le cose vanno male, si trasferiscono altrove. Votano con i piedi, ossia andandosene. Le nostre società hanno finito così per perdere una parte significativa della classe dirigente, con un danno certo per la politica.

Infine, è da ricordare come ogni studio sulle classi sociali ponga una domanda implicita: qual è il grado di mobilità sociale, intesa come capacità della società di riconoscere il merito ed essere perciò efficiente, oltre che solidale? Ma a questa domanda dobbiamo aggiungerne un’altra: siamo certi che la mobilità sociale sia qualcosa che interessa le nostre società? La risposta sembrerebbe scontata, perché la mobilità sociale è in genere considerata in modo positivo. Qualcuno dirà: sì, ma solo la mobilità sociale che porta tutti verso l’alto. Ossia che ci lascia tutti nella stessa posizione relativa. Quindi, nessuna mobilità sociale in realtà, ma un movimento ascendente che ci gratifichi tutti. Le cose, però, non stanno così. Quella degli anni del dopoguerra è stata una mobilità sociale che ha sconvolto le posizioni relative: intere categorie di persone hanno perso peso, reddito e status sociale a favore di altre. Pensiamo ai professori o ai burocrati, che prima della guerra costituivano la classe con lo status maggiore e che sono stati soppiantati da artigiani, piccoli imprenditori e commercianti (ricordo il bel libro di Lucio Mastronardi Il maestro di Vigevano, che descrive la frustrazione di questa piccola borghesia scavalcata dai nuovi ricchi). A quell’epoca, non molti degli appartenenti alle classi superiori erano favorevoli alla mobilità sociale, che si produsse anche attraverso tensioni acute.

In realtà, la gente ha paura della mobilità sociale perché teme di perdere una posizione, qualunque essa sia, e quindi vi si oppone. Sylos Labini aveva individuato nella piccola borghesia, con le sue corporazioni, l’oppositore alle riforme. Ma la piccola borghesia non è l’unica. Si pensi alla potente mobilità sociale che è implicita nelle migrazioni attuali. Come i nostri antenati emigravano in paesi lontani, così oggi assistiamo a spostamenti di popolazioni alla ricerca di una vita migliore. Cosa facciamo noi per facilitare questo movimento, che rappresenta anche un fenomeno di forte mobilità sociale? Poco o nulla; anzi, molti l’ostacolano al punto che in tutta Europa crescono il razzismo e il rifiuto dell’immigrato. Eppure questa è la via per la mobilità sociale di milioni di persone.

Sono convinto che ci sia necessità di nuovi studi sulle classi sociali in Italia e nel mondo per capire meglio quali sono gli interessi in gioco e per fare in modo che troppi interessi non finiscano con l’ostacolare la crescita economica e civile. Proprio come fece Paolo Sylos Labini con il suo Saggio sulle classi sociali.

Roma, luglio 2015

L’intellettuale come riformatore
di Ilvo Diamanti

A quarant’anni di distanza è sempre bene rileggere il Saggio sulle classi sociali di Paolo Sylos Labini. Perché è rigoroso e al tempo stesso innovativo. Perché affronta la questione della «struttura sociale» in modo stimolante e profondo. Perché il tempo non ne ha limitato l’attualità. Al contrario. E, per questo, ripercorrerne le pagine permette di ricostruire la natura di alcuni dei nostri problemi – economici, sociali e, al tempo stesso, politici. Che hanno radici storiche profonde. Lontane. Eppure persistono e resistono.

Personalmente, ho studiato e «usato» a lungo il saggio di Sylos Labini. Dapprima come studente, negli anni Settanta. Poi, negli anni Ottanta, come docente universitario, rigorosamente precario. All’epoca insegnavo Sociologia economica all’Università di Padova. E il Saggio di Sylos Labini mi risultava particolarmente utile, sul piano didattico. Perché era agile e al tempo stesso denso. Perché incrociava diversi approcci. Diversi piani di lettura. La sociologia economica e politica, in particolare. E confrontava, di continuo, la teoria e la ricerca, l’analisi storica, ma anche la demografia e – con parsimonia – la statistica. Insomma: per me costituisce un testo di riferimento. Di formazione. Come lo è stato Tre Italie, di Arnaldo Bagnasco. O, per altri versi, il saggio Relazioni partiti-elettori e tipi di voto, di Arturo Parisi e Gianfranco Pasquino. Tutti scritti, nella versione originaria, negli anni Settanta. E poi sviluppati, rielaborati, in diverse edizioni e in diverse ulteriori ricerche successive. Il saggio di Sylos Labini, non per caso, ha conosciuto una grande diffusione – oltre dieci edizioni – nel decennio successivo alla pubblicazione, avvenuta nel 1974 presso l’editore Laterza. Preceduta da un testo – non molto diverso per dimensioni – pubblicato nel 1972 sui «Quaderni di Sociologia», diretti, all’epoca, da Luciano Gallino. Il nucleo originario è costituito da una conferenza tenuta nel marzo 1972 su invito dell’Associazione culturale italiana di Torino e proposta, in quello stesso anno, dalla rivista «Astrolabio».

Le ragioni che hanno generato tanto interesse intorno al Saggio di Sylos Labini sono diverse. Ma, dal mio punto di vista, riassumibili in una. Fondamentale. Ha innovato il linguaggio del dibattito politico, sociale e intellettuale. E in questo modo ha influenzato non solo la conoscenza, ma anche il confronto e l’intervento pubblico, su questo argomento. Cioè sulla società italiana. Perché il linguaggio non solo permette – e genera – la comunicazione, ma orienta la raffigurazione e l’interpretazione della realtà sociale. In una certa misura, contribuisce a «costruirla». Certamente, a riprodurla.

Merito del Saggio di Sylos Labini è di superare le due principali letture alternative delle classi sociali. La prima – dicotomica, di tradizione marxista – riduceva la struttura di classe alla sostanziale divisione – conflittuale – fra borghesia e proletariato. Dalle quali erano attratte tutte le altre classi, perlopiù residui del passaggio verso il modo di produzione capitalista. L’altra lettura prevalente aveva segno «funzionalista». Traduceva la divisione sociale in termini di «stratificazione». Un concetto che rendeva e rende difficile individuare distinzioni chiare e nette. Fondate su basi chiare. Su interessi e su tensioni irriducibili.

Paolo Sylos Labini complica la rappresentazione dicotomica senza, però, sbriciolarla. Senza riprodurre una realtà tanto fluida quanto illeggibile. E, in fondo, in-dicibile. Egli riconduce, dunque, la popolazione italiana a tre grandi classi sociali. Oltre – e in mezzo – alla borghesia e alla classe operaia, inserisce le classi medie. Che, a loro volta, aggregano componenti diverse: la piccola borghesia impiegatizia; la piccola borghesia relativamente autonoma e, infine, alcune categorie specifiche, come i militari e i religiosi.

A differenza della concezione dualista, di tradizione marxiana, Sylos Labini non considera la struttura sociale destinata ad un’alternativa tanto polarizzata quanto incompatibile. A una lotta irriducibile, fino allo scontro finale. Da cui sorgerà la società senza classi.

Ma non immagina neppure una società indistinta, se non su basi funzionali e quantitative. La base della sua «classificazione» è, invece, fondata sulla diversa natura e provenienza del reddito. La rendita, che proviene dalla proprietà di terreni agricoli o urbani. Il profitto, che trae origine dall’attività imprenditoriale (sia essa fondata sull’agricoltura, l’industria o il commercio). Infine, il salario, che deriva dal compenso ottenuto dal lavoratore dipendente per l’opera prestata.

Le classi sociali si distinguono, quindi, in base al loro reddito. Primario, derivato, oppure misto. Ma anche in base ai rapporti con la politica e con lo Stato. A Sylos Labini, infatti, interessava particolarmente l’analisi della società. Ma ancor più la possibilità di riformarla e di modernizzarla. Come ha osservato al proposito Luciano Gallino, in occasione della commemorazione svoltasi il 18 ottobre 2006 presso l’Accademia delle Scienze di Torino, «Studiare la composizione e la dinamica delle classi sociali era dunque per Sylos Labini un passaggio obbligato per comprendere in qual modo le riforme si potevano affrontare: la riforma dello Stato, della burocrazia, delle professioni, dell’università, dell’economia». Per la stessa ragione, il suo Saggio era finalizzato a individuare e a comprendere gli ostacoli e le barriere di fronte al cambiamento e alle riforme.

È significativo, ma anche inquietante, osservare come i limiti indicati allora, agli inizi degli anni Settanta, risultino ancora, purtroppo, presenti. E profondi. Anzitutto, il livello di istruzione. Sylos Labini, al proposito, parla, in modo esplicito e aperto, dell’Italia come di «un popolo di semi-analfabeti».

Poi, la burocratizzazione degli apparati pubblici e privati. Infine, le resistenze della piccola borghesia. Che, tradizionalmente, ha offerto sostegno di massa a regimi di destra – e non solo. Ma senza mai guidarli. Senza divenirne la guida.

Altri limiti, destinati a divenire sempre più pesanti, riguardano il ruolo della «così detta aristocrazia finanziaria», come la chiamava Marx. D’altronde, Sylos Labini, al tempo in cui scriveva il suo Saggio, riteneva che i legami fra la borghesia finanziaria (e parassitaria) e le altre frazioni della borghesia fossero divenuti tanto stretti «da rendere problematica l’attribuzione di ruoli distinti».

La soluzione o, almeno, l’avvio di una risposta a questi limiti e a questi ostacoli lungo il cammino delle riforme poteva avvenire, secondo l’autore, attraverso una «rinnovata e organica alleanza fra la classe operaia ed ampi strati della piccola borghesia». Che andrebbero individuati soprattutto in due gruppi particolari. Gli intellettuali e i tecnici.

Naturalmente, le cose sono cambiate, in modo anche profondo, rispetto allo scenario disegnato da Sylos Labini. E hanno reso – forse – ancor più difficile la strada delle riforme.

Alcuni mutamenti – sensibili – hanno coinvolto la struttura di classe. La borghesia si è progressivamente legata, in modo sempre più stretto, alle logiche finanziarie. La «classe operaia», in grande espansione negli anni in cui Sylos Labini scriveva il suo Saggio, si è trasformata profondamente. Insieme ai modi e ai luoghi della produzione. Del mercato e dell’economia. Che si sono «globalizzati». E dispersi. Polverizzati. Hanno, dunque, perduto i centri e i riferimenti tradizionali. Così oggi è difficile parlare di «classe operaia», almeno dal punto di vista analitico, perché è cresciuto a dismisura l’esercito delle figure precarie intermittenti. Atipiche, per dirla con un termine molto usato, a causa, appunto, della fine dei «tipi». Ideali e reali. Parallelamente, si è dilatato il mondo delle «classi medie». Giuseppe De Rita, fondatore e guida dell’Istituto Censis, ha parlato al proposito di un processo di «cetomedizzazione» della società. Termine singolare e un poco ostico. Ma sicuramente suggestivo ed efficace, per descrivere un tempo e un contesto dove la maggioranza delle persone si sente parte del «corpo intermedio della società». Come avveniva ancora alla fine del primo decennio degli anni Duemila. Nel 2008, infatti, secondo l’Osservatorio sul capitale sociale di Demos-Coop, il 48% degli italiani si sentiva, appunto, «ceto medio». Mentre il 45% si collocava nella «classe operaia» o nei «ceti popolari». Una sorta di indice di «coscienza di classe», significativo e coerente con i mutamenti avvenuti e percepiti nella società italiana negli ultimi trent’anni.

Tuttavia, le annotazioni e le analisi proposte da Sylos Labini in queste pagine appaiono «visionarie», ancorché lucide. Soprattutto se si fa riferimento alla «questione delle riforme» e agli ostacoli che le rendono sempre all’ordine del giorno. E sempre lontane. Annunciate e irrealizzate.

L’istruzione e la ricerca, in Italia, restano, sempre e ancora, un problema. Visto che gli investimenti pubblici, in questo settore, sono molto al di sotto della media UE. E non crescono. Così, la burocratizzazione della società e dello Stato. Che ha contribuito ad abbassare gli standard di efficienza del sistema produttivo privato, ma anche di quello pubblico. Mentre le logiche della finanza hanno inquinato e quasi avvelenato l’economia. Perché hanno diffuso la convinzione che sia possibile e vantaggioso «fare soldi con i soldi», come ha annotato Edmondo Berselli nel suo luminoso saggio L’economia giusta.

Tecnici e intellettuali, i gruppi che avrebbero dovuto – e potuto – favorire la modernizzazione, insieme alla classe operaia, in effetti non sono riusciti a giocare un ruolo da protagonisti. Fra gli intellettuali, la categoria degli insegnanti si sente sempre meno «classe dirigente». E neppure «piccola borghesia». Piuttosto, lamenta una caduta di status – e di reddito. La diffusione delle tecnologie della comunicazione, nel lavoro e nella vita quotidiana, ne ha ridimensionato e, comunque, ridefinito gli spazi. Così, oggi gli insegnanti appaiono particolarmente reattivi di fronte agli interventi legislativi che tendono a ridisegnarne gli spazi e le funzioni. Soprattutto nel sistema pubblico.

Quanto ai «tecnici», oggi è difficile definirne i confini e il profilo, tanto sono cambiati, in questi anni. Di certo, l’immagine sociale dei tecnici e dei professori – dunque: degli intellettuali – come attori della modernizzazione e delle riforme non è migliorata. Al contrario, si è non poco deteriorata. Soprattutto dopo che, negli ultimi anni, sono state promosse alcune esperienze di governo esplicitamente ispirate a queste figure. Governi di tecnici, professori ed esperti. E, parallelamente, è cresciuto il numero di tecnici, professori, esperti al governo. Si tratta di formule sperimentate in Italia, ma non solo. Per rispondere al deteriorarsi del rapporto fra cittadini, partiti e politici. Con l’esito di rendere difficili anche le relazioni fra cittadini e tecnici. In particolar modo, fra tecnici e classe operaia. Visto che ai tecnici è stato affidato il compito di «riformare» – ma, in effetti, ridimensionare – lo Stato sociale (in particolare: le pensioni). E, al tempo stesso, di rivedere il sistema di regole che organizza il mercato del lavoro. Rendendolo più flessibile. E, dunque, ridimensionando le garanzie per gli occupati.

La «questione delle riforme», come l’aveva tratteggiata Sylos Labini quarant’anni fa, appare, dunque, ancora aperta. Anche perché nuovi ostacoli si sono aggiunti ai vecchi. Particolarmente insidiosi. Fra gli altri, ne rammento uno. L’invecchiamento della popolazione. Che, da un lato, ha reso le riforme più urgenti. Ma anche più contrastate, perché investono, inevitabilmente, il sistema delle garanzie sociali acquisite – e conquistate – nei decenni precedenti. Dall’altro lato, però, ha ridimensionato sempre più il peso delle componenti «innovative». Quelle che possono contribuire maggiormente alla domanda di riforme. In particolare i giovani. I quali, secondo l’80% degli italiani, se vogliono fare carriera, se ne dovrebbero andare dal nostro paese. E in effetti lo fanno. In numero crescente. Soprattutto i più competenti. Quelli che hanno acquisito un livello di studi e di preparazione più elevato. Con l’esito di impoverire ulteriormente le nostre risorse sociali di innovazione e di cambiamento. E di rendere più faticoso il cammino delle riforme.

Ultimo elemento di trasformazione della struttura sociale, imprevisto e imprevedibile da Sylos Labini, è l’impatto dell’immigrazione. Nella società e, soprattutto, nel lavoro. Un fattore che complica la struttura di classe. Soprattutto per quel che riguarda la classe operaia, visto il grande peso assunto dagli immigrati nelle attività produttive, dove svolgono le mansioni più faticose e meno qualificate. Ma il peso degli immigrati è cresciuto notevolmente anche nelle attività artigiane e commerciali. Quindi, nella piccola borghesia autonoma. Così, oggi, il cammino delle riforme è «ostacolato» da problemi antichi e nuovi. Che si sommano e fanno emergere rischi crescenti e particolarmente acuti. Soprattutto nelle fasi di crisi economica. Come quella che stiamo attraversando ormai da molti anni. Quando avanza, rapido, un profondo senso di declino. Che mette in discussione posizioni sociali conquistate a fatica e considerate ormai acquisite. Allora, avverte Sylos Labini, richiamando Gino Germani, possono esplodere forti tensioni sociali.

Un rischio che proprio oggi appare particolarmente concreto. E incombente. Visto che, rispetto al 2008, nel 2015 il peso di quanti si sentono «ceto medio» si è ridotto sensibilmente. Dal 48% al 42%. Mentre, parallelamente, è cresciuta la percezione di essere classe operaia o ceto popolare. Ora coinvolge il 52%. La maggioranza assoluta della popolazione. Si tratta di una vera, evidente smobilitazione sociale, che ha coinvolto, anzitutto e soprattutto, le classi medie. La piccola borghesia artigiana e commerciale. Il ceto medio impiegatizio. Insomma, quella che, pochi anni addietro, era la base di massa della struttura sociale italiana. E della sua domanda di cambiamento.

Così, mi è difficile non aderire all’appello rivolto da Sylos Labini «ai leader politici e sindacali di sinistra». Per riformare lo Stato e la società italiana è preliminare «una approfondita analisi critica delle classi, dei gruppi sociali e delle loro tendenze». Un concetto ripetuto in chiusura del Saggio. Dove Sylos Labini scandisce: «È vitale, oramai, un approfondito riesame critico, condotto con mente aperta, della società in cui viviamo». Io non saprei dire di meglio. Di certo rileggere, in questa occasione, il Saggio sulle classi sociali mi ha aiutato a capire. Non il passato, ma il presente. E a immaginare il futuro. Di questo paese. Infine, mi ha rammentato il senso del «mio» lavoro di intellettuale. E, almeno spero, di riformatore.

Urbino, luglio 2015

Prefazione

L’origine di questo saggio è una conferenza tenuta nel marzo del 1972 per invito dell’Associazione culturale italiana di Torino. Il testo fu pubblicato, in parte, nel fascicolo del 31 marzo 1972 dell’«Astrolabio» e, integralmente, nel fascicolo XXXI dell’Associazione culturale italiana (giugno 1972); una versione rielaborata apparve nei «Quaderni di sociologia» (dicembre 1972); ampi estratti sono stati poi inclusi nell’antologia curata da Paolo Farneti, Il sistema politico italiano (Il Mulino, Bologna, 1973). Il tema prescelto per la conferenza si ricollegava a riflessioni che andavo facendo da qualche tempo sulla situazione economico-sociale del nostro paese e sul nuovamente insorgente pericolo fascista. In modo particolare intendevo richiamare l’attenzione dei sociologi, degli studiosi di scienze politiche e degli stessi uomini politici sulla necessità di dare il giusto peso, nel predisporre i loro studi e le loro azioni, ai dati quantitativi della struttura sociale italiana. A quanto pare, esisteva il bisogno di un’indagine di questo tipo, poiché prima l’articolo apparso sull’«Astrolabio» e, in seguito, il saggio apparso sui «Quaderni di sociologia» sono stati oggetto di numerosi dibattiti. Vi sono state critiche; e di queste, nella misura in cui mi hanno convinto, ho cercato di tener conto nella nuova versione del mio lavoro, che costituisce appunto questo libro. Non entrerò nel merito delle critiche che non mi convincono, eccetto che in un caso: mi riferisco alla critica proveniente da alcuni intellettuali di sinistra secondo la quale io avrei indebitamente incluso fra le classi medie alcuni strati, come lo strato dei contadini poveri, che a tutti gli effetti vanno assimilati al proletariato; più in generale, io avrei sottovalutato il processo di proletarizzazione, che investe oramai la maggior parte dei lavoratori dipendenti, inclusi gli impiegati pubblici e privati.

Ora, non c’è dubbio che qualsiasi classificazione, e quindi anche quella qui proposta, è fondata su criteri, in misura non piccola, arbitrari: ho presentato le stime delle sottoclassi e delle singole categorie proprio per aiutare quei lettori a ricomporre il quadro in rapporto ai loro fini. Tuttavia, debbo avvertire che io sono radicalmente contrario ad una concezione di tipo pirandelliano (così è se vi pare). L’arbitrio delle definizioni e delle classificazioni è inevitabile, ma solo entro limiti; e le definizioni, come le classificazioni, non avvengono nel vuoto, ma acquistano significato in un contesto ben definito. Così, avevo incluso fra le «classi medie» tutti i coltivatori diretti compresi i contadini poveri tenendo conto, più che delle loro condizioni economiche, del loro tipo di cultura e dell’attaccamento a certi valori tradizionali e patriarcali; ma avevo già avvertito che queste persone si trovano in condizioni simili (spesso anche peggiori) di quelle dei salariati dell’industria, cosicché i loro interessi possono convergere con quelli della classe operaia; e si può operare politicamente in questa direzione. Tuttavia, se si fa riferimento ad un paese come l’Italia e si vuole studiare la situazione sociale così com’è e non come si vorrebbe che fosse o come forse sarà, conviene includere anche i contadini poveri fra le così dette classi medie. Viceversa, in paesi economicamente arretrati, dove masse di contadini e di salariati agricoli vivono al limite della sussistenza biologica e dove, man mano che si fa strada la coscienza della loro condizione, la domanda di una riforma agraria radicale o addirittura rivoluzionaria sommerge qualsiasi tradizionalismo, una tale procedura non sarebbe corretta; ed in effetti, nel testo, per i paesi relativamente arretrati, ho proposto una diversa suddivisione delle classi, in cui si mette nel dovuto rilievo la posizione dei diversi strati sociali e delle diverse classi nell’ambito dell’agricoltura (parte I, cap. 8).

In ogni modo, è certo importante approfondire l’analisi critica della struttura sociale nell’agricoltura del nostro paese. Ed è importante definire accuratamente e tentare di valutare, da un lato, il fenomeno della proletarizzazione di certi strati di ceti medi e, dall’altro, il fenomeno dell’imborghesimento di certi strati di operai. Ma la tesi secondo cui il processo di proletarizzazione coinciderebbe col processo di espansione dei lavoratori dipendenti, di modo che esso investirebbe oramai la massima parte dei lavoratori, è una tesi falsa sul piano dell’analisi e pericolosa anche da un punto di vista politico di sinistra.

Sostenere che gl’impiegati di aziende municipalizzate, o delle aziende di credito, o di enti locali, che hanno oggi (1974) uno stipendio medio che si aggira su oltre mezzo milione di lire mensili (con punte di 2-3 milioni) stanno nella stessa barca in cui navigano gli operai metalmeccanici, che oggi hanno una retribuzione media pari a circa un terzo e svolgono un lavoro duro, alienante e soggetto a gravi rischi d’infortuni, non significa affatto compiere una coraggiosa opera di critica e di denuncia, ma significa oscurare l’essenza del principale problema politico contemporaneo di paesi come il nostro, che è il problema dei rapporti fra classe operaia e ceti medi. Anzi, tesi di questo genere sono esse stesse una delle espressioni dell’ideologia piccolo-borghese, che tende a minimizzare le differenze (spesso enormi) fra operai e ceti medi. Nel suo importante libro La giungla retributiva (Il Mulino, Bologna, 1972) Ermanno Gorrieri denuncia questa mistificazione in termini così efficaci, che non mi resta che riportarli:

Oggi [...] questa ideologia [di ceti medi] assume caratteri ancor più sottili e insidiosi, in quanto spesso si ammanta di tutto un complesso di argomentazioni «di sinistra». Si afferma che è in atto un processo di proletarizzazione dei ceti medi, che la loro condizione va assimilandosi sempre più a quella degli operai e dei contadini. Si aggiunge che l’area dello sfruttamento capitalistico si va estendendo a nuovi gruppi sociali: ai tecnici, agli intellettuali, agli artigiani, ai commercianti, ai piccoli industriali. Quindi il nemico da combattere è uno solo: il grande capitale monopolistico; e sull’altare di questa battaglia, non hanno importanza le altre diseguaglianze; anzi il soffermarsi su di esse indebolisce la necessaria alleanza della classe operaia e contadina con i ceti medi, contro i «padroni». Si teorizza la figura dell’intellettuale spogliato di ogni funzione libera e autonoma e trasformato in strumento di trasmissione della cultura borghese e di conservazione del sistema capitalistico: come tale, anch’egli, al pari dell’operaio e del contadino, è espropriato di qualcosa e quindi è uno sfruttato. Ora, è evidente che queste tesi, di per sé, non sono prive di fondamento. Ma la mistificazione consiste nel passare da un discorso di sfruttamento e di subordinazione «politica» ad un discorso di disagio e di inferiorità economico-sociale che sarebbe comune ai ceti intellettuali e alla classe operaia e contadina. In forza di questo passaggio, gli intellettuali «di sinistra» e i loro sindacati, se a parole sono pronti a riconoscere la legittimità delle rivendicazioni operaie e contadine, di fatto, più che schierarsi e lottare al loro fianco, si sentono in diritto di chiedere la loro solidarietà a favore delle proprie lotte, anche se queste spesso hanno per obiettivo la conservazione e il consolidamento di condizioni economiche avvantaggiate e, di conseguenza, il mantenimento delle distanze rispetto agli operai e ai contadini. Il fatto è che la matrice culturale e la collocazione sociale influenzano inconsapevolmente e pesantemente anche chi è impegnato, da posizioni di sinistra, in un sincero sforzo di trasformazione della società. E gli interessi costituiscono una molla potente che spinge tutti ad elaborare ideologie di giustificazione e di sostegno delle proprie esigenze. E così uomini di sinistra si associano alle rivendicazioni retributive delle categorie impiegatizio-intellettuali (o magari alle lotte per il salario a tutti gli studenti), nella convinzione di operare di conserva con gli operai e i contadini contro il «sistema», ma senza considerare che queste rivendicazioni finiscono per essere finanziate con un ulteriore prelievo sul risultato dell’attività produttiva e quindi per esser pagate dai lavoratori impegnati in tale attività.

Mi è stata attribuita l’idea secondo cui la «classe media» consisterebbe in un coacervo di ceti e di gruppi sociali essenzialmente corrotti e retrivi, così che nel nostro paese le prospettive non solo della vita sociale ma della stessa vita politica sarebbero catastrofiche. Una tale interpretazione è ingiustificata. Sebbene io faccia più volte riferimento agli individui famelici, servili e culturalmente rozzi, che sono molto numerosi fra i ceti medi, avverto altrettanto spesso che esistono strati civilmente robusti e capaci di operare come forze di progresso; si tratta di strati esili, è vero, ma non trascurabili e suscettibili di espansione. Anzi, ritengo che il problema politico centrale nel nostro paese (e non solo nel nostro paese) consista oggi nel fatto che la classe operaia, pur essendo sempre una classe subalterna, lo è in misura decrescente e, nel suo complesso, si trova economicamente e politicamente in ascesa. Ora, di fronte a questo processo i ceti medi reagiscono in modi profondamente contrastanti: alcuni l’accettano, altri lo considerano con orrore. Tuttavia, l’area del consenso cresce come conseguenza non di un processo di proletarizzazione economica, inesistente in quanto processo generale, ma di un processo di crescita civile e di maturazione culturale, processo che non si svolge nelle nuvole ma che certo, nella terminologia marxista, appartiene più alla sovrastruttura che alla struttura.

Oltre ad alcune varianti di non grande rilievo, introdotte per tener conto di certe critiche o per chiarire e integrare le analisi già svolte, ho introdotte diverse innovazioni nel testo apparso nei «Quaderni di sociologia». Ecco le principali innovazioni.

1. Ho modificate le stime delle classi e sottoclassi sociali, specialmente quelle connesse con l’agricoltura, dopo esser venuto a conoscenza del

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