C’era due volte il «vu’ cumprà»...
Il sindaco [...] definì con il termine «vu cumprà»
i venditori ambulanti senegalesi. Qualcuno obbiettò che la parola era offensiva [...]
Il primo cittadino ribatté che si trattava di una polemica pretestuosa in quanto ormai
«vu cumprà» era una parola d’uso comune. Quando chiesero ad un mio amico giornalista
senegalese cosa ne pensava, egli rispose: «Dite a quel sindaco che è un cretino! Tanto,
‘cretino’ è ormai una parola d’uso comune».
(Kossi Komla-Ebri, Imbarazzismi, Milano, Edizioni dell’Arco, 2002, p. 51)
A proposito di code, rimandi, circoli viziosi... A volte ritornano. E non si tratta
di presenze inquietanti nate dalla penna di Stephen King, ma di usi (anzi, abusi)
linguistici di cui pensavamo di esserci liberati. Uno su tutti: vu’ cumprà. Un neologismo che ha imperversato sui giornali – e da lì nel linguaggio comune –
a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta fino all’inizio degli anni Novanta.
Difficile non ricordarsene, per chi c’era. Ci accorgemmo proprio in quegli anni, quasi
improvvisamente, che l’Italia era diventata un paese di immigrazione: che tante persone
stavano raggiungendo la Penisola per scappare da guerre, persecuzioni, stenti. Per
cercarsi un futuro (un po’) migliore. Ce ne accorgemmo – e per molti fu un trauma
– a causa dell’omicidio di Jerry Essan Masslo a Villa Literno, la notte tra il 24
e il 25 agosto del 1989.
Val la pena di ricordarla, la storia di Jerry Essan Masslo. Fuggito nel 1987 dal Sudafrica
razzista – dove rischiava il carcere per la sua attività anti-apartheid – Masslo giunse in Nigeria, e da lì proseguì per Roma, dove atterrò il 21 marzo del
1988. A Fiumicino fece immediatamente richiesta d’asilo politico, ma si sentì rispondere
che in Italia l’asilo politico veniva concesso soltanto (per evidenti ragioni ideologiche)
a persone provenienti dai paesi del blocco sovietico. Trattenuto in aeroporto dalla
polizia di frontiera, venne rilasciato soltanto due settimane più tardi grazie all’intervento
di Amnesty International e dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati
(Unhcr). Privo di uno status giuridico definito, trovò accoglienza in una struttura
della Comunità di Sant’Egidio, dove lo aiutarono a fare domanda di espatrio per il
Canada, e dove cominciò a imparare l’italiano. In attesa di avere una risposta dal
governo canadese, decise di spostarsi per l’estate a Villa Literno, nel casertano,
dove avrebbe lavorato – in nero, ovviamente – alla raccolta dei pomodori. Al termine
dell’estate rientrò a Roma, ma l’anno successivo – non avendo nel frattempo ricevuto
nessuna comunicazione dal governo di Ottawa – tornò a Villa Literno. Fu lì che, nella
notte tra il 24 e il 25 agosto, fu ucciso – tra i ruderi del casolare dove viveva
con i suoi compagni di lavoro – da una banda di balordi che volevano derubarli.
La sua morte fece scalpore, commosse perfino l’establishment politico, che – dopo averlo ignorato da vivo – gli concesse da morto i funerali di
Stato, trasmessi in diretta dalla Rai il 28 agosto. E divenne uno spartiacque nella
nostra percezione delle condizioni degli immigrati in Italia, e dell’insorgenza di
episodi di sfruttamento e di razzismo nei loro confronti. Della possibilità di scoprirci
razzisti, insomma (da cui il titolo di un celebre saggio di Luigi Manconi e Laura
Balbo, I razzismi possibili, 1990). Tanto da farci mettere in discussione (e forse era la prima volta) quell’«italiani
brava gente» a cui una lettura indulgente – e falsa – del nostro passato coloniale
ci aveva da tempo abituati1.
Ma che l’Italia fosse diventato un paese di immigrazione ce n’eravamo già accorti
per la comparsa di tanti venditori ambulanti sulle nostre spiagge, nelle nostre piazze,
sui nostri marciapiedi (di lì a poco, sarebbe stato uno di loro, Pap Khouma, con il
suo libro Io, venditore di elefanti, 1990, a raccontarci un frammento della loro condizione: stava nascendo anche da
noi la cosiddetta «letteratura dell’emigrazione»)2. Persone che, cariche di merci – collanine, occhiali, accendini, piccoli oggetti
di artigiana-
to –, chiedevano ai passanti di acquistare qualcosa. E glielo chiedevano in quel modo,
con quell’espressione: «vu’ cumprà?».
O forse no. Forse non glielo chiedevano così. Non ce lo chiedevano così. Ma fu con
quella storpiatura a loro attribuita (da «vuoi comprare?», e pare che l’origine sia
napoletana) che li chiamavamo, che li avremmo chiamati. Erano prevalentemente africani,
soprattutto «neri» (o «di colore», come usava allora). O almeno così si fissavano
nello stereotipo: stereotipo tanto verbale quanto visivo, come hanno ben dimostrato
Luigi Gariglio, Andrea Pogliano e Riccardo Zanini nel volume Facce da straniero. 30 anni di fotografia e giornalismo sull’immigrazione in Italia (2010).
Non che i vu’ cumprà fossero davvero una novità. Egiziani, marocchini, iraniani giravano in lungo e in
largo per le nostre province almeno dalla fine degli anni Settanta, vendendo tappeti
che trasportavano – questa è l’immagine, anch’essa stereotipata – su vecchi modelli
di Peugeot familiari. Ma quelli erano pochi, si vedevano poco. Al contrario degli
ambulanti che invece si incontravano in spiaggia, per le strade: i vu’ cumprà, appunto. Che dalla seconda metà degli anni Ottanta, da settimanali quali «L’Europeo»,
«l’Espresso», «Panorama» (sono ancora Pogliano e Zanini a ricordarcelo), venivano
presentati come icone dell’immigrazione straniera tout court: quasi sempre «neri» appunto, spesso «clandestini», di solito marginali (secondo
una «fotogenia della miseria» che si dimostrava particolarmente funzionale al racconto).
E che – a leggere i quotidiani – avevano invaso, o stavano per invadere, l’intera
penisola. A cominciare dalle coste romagnole, toscane, laziali, liguri.
E infatti, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, l’invasione
ci fu: ma soprattutto del termine vu’ cumprà. A spulciare l’archivio online della «Stampa», nessuno lo usa prima dell’estate 1986
(questo è d’altronde il terminus a quo proposto dal Grande Dizionario della Lingua italiana diretto da Tullio De Mauro). Ma da lì in poi è una vera esplosione: caotica, rumorosa,
fastidiosa. In un articolo del 15 agosto di quell’anno – ad esempio – l’espressione
(al singolare e al plurale) viene considerata, senza andare troppo per il sottile,
un sinonimo di «[venditori] abusivi», «abusivi senza arte né parte», «venditore sulle
spiagge», «clandestino», «popolo di pataccari», «marocchini che riempiono le spiagge
e le strade della Riviera», «disperati delle spiagge», «fratellastri abusivi» [degli
«ambulanti Doc»], ecc. E viene associata – già chiaramente – alla metafora dell’invasione:
che le truppe dei vu cumprà rappresentino un vero e proprio esercito illegale di emarginazione varia è un dato
di fatto inconfutabile. Dagli scugnizzi con la cesta del cocco bello, al popolo di
africani bardati come in inverno e con i tappeti sulle spalle, dai pataccari ai piccoli
truffatori: quanti sono nessuno lo sa, ma i mille miliardi che riescono a tirare su
nella stagione equivalgono al 30 per cento del cosiddetto commercio regolare. Una
bella fetta, che finisce soltanto in minima parte nelle tasche di questi disperati
delle spiagge. [...] Tanti abusivi senza arte né parte, senza soldi e senza futuro.
E pochi padroni: nascosti e sconosciuti. In ogni caso i santuari del mercato nero
sono ancora lontani, imprendibili. Non resta che prendersela allora con l’esercito
dei pataccari e dei vu cumprà. Una crociata compatta, cominciata alcune settimane fa: ordinanze dei sindaci hanno
vietato mercanteggiamenti di sorta sulle spiagge e gli altoparlanti dei bagni hanno
martellato i turisti invitandoli a evitare «accuratamente» i marocchini («La Stampa»,
15 agosto 1986).
Certo, questa rappresentazione risulta particolarmente (e disinvoltamente) approssimativa.
Ma vu’ cumprà si diffonde rapidamente, diventando l’appellativo per antonomasia degli immigrati
«extracomunitari» nel nostro paese, e sostituendo progressivamente il già connotato
marocchino, in voga ormai da qualche anno (non solo in riferimento a chi proveniva dal Marocco).
Tra l’estate del 1987 e la primavera del 1988 vu’ cumprà si afferma definitivamente, diventa di uso comune. Tanto che Michele Serra, in un
suo elzeviro satirico dall’inequivoco titolo Le collanine di «Vu’ cumprà», sente la necessità di metterlo alla berlina, denunciandone l’uso ormai stereotipato,
semanticamente generico:
Cara mamma, se solo sapessi scrivere ti scriverei questa lettera. Come vanno le cose
nel Senegal? Qui vanno così così. Il viaggio, nascosto in un container insieme ad
altri trenta fratelli neri, è stato un po’ faticoso e mi ha confermato il sospetto
che per noi del Terzo Mondo l’unico modo di fare una crociera decente sia quello di
dirottare l’Achille Lauro. Comunque, quando ho visto la spiaggia di Rimini, dove vado
ogni giorno a vendere collanine e magliette, ho rimpianto il mio container: si stava
molto più larghi. Gli italiani sono abbastanza gentili. A meno che uno non sia proprio
negro, qui non esiste razzismo. Ci hanno trovato anche un soprannome, «Vu cumprà»,
uguale per tutti, dimostrando che non intendono fare discriminazioni [...] («Epoca»,
13 agosto 1987).
Ed è ancora la satira ad attestare l’avvenuto sdoganamento del termine nel linguaggio
televisivo: nel programma del 1988 «L’Araba Fenice» – parente del più celebre «Drive
in» – un presentatore (pseudo)marocchino, per annunciare la pubblicità, si rivolgeva
ai telespettatori chiedendo, appunto, «vu’ cumprà?».
Ma la satira era solo un riflesso, ovviamente. Nell’immaginario (del) pubblico era
stata la cronaca con i suoi toni allarmistici, le sue metafore belliche, le sue «cacce»
e «guerre» (Guerra ai «vu’ cumprà». Due petizioni per scacciarli dal centro, «La Stampa», 7 settembre 1989) a fissarne le connotazioni. Che già nel 1988 vengono
avvertite come negative, quando non spregiative («Vu’ cumprà», un luogo comune che sa già di razzismo, «La Stampa» 27 dicembre 1988), al punto che un lettore della «Stampa» si sente in
obbligo – inviando una lettera alla rubrica «Specchio dei tempi» – di difendere d’ufficio
e con tono assolutorio l’espressione e, di conseguenza, chi ne fa uso:
Un lettore ci scrive da Cesana: Sullo «Specchio» di domenica 7 agosto un gruppo di
lettori protestava per l’uso del «Vu cumprà», che ha sostituito il vecchio e altrettanto
deprecato «marocchini» per indicare i nordafricani, che vendono chincaglierie. Tutto
ciò mi sembra francamente eccessivo. «Marocchini» indicava semplicemente la nazionalità
della maggioranza di questi immigrati, almeno nei primi tempi. «Vu cumprà» non ha
nulla di spregiativo, indica solo la loro attività e la scarsa, peraltro giustificabilissima,
conoscenza dell’italiano. Gli italiani hanno i loro difetti (chi non ne ha?), che
riconoscono sempre, anche con durezza. Potranno avere un po’ di razzismo interno [...],
però nessuno come loro accoglie, ama, ammira, protegge lo straniero; e nessun altro
popolo accetta con tanta disponibilità le critiche, talora ingiuste, interessate,
«razziste», che gli stranieri talvolta ci muovono («La Stampa», 19 agosto 1988).
Cristallizzando l’immagine – se non negativa, di certo stereotipata – degli «immigrati»
africani, vu’ cumprà diventa semanticamente prototipico (ovvero la parola viene sempre associata, dai
parlanti, al suo significato più tipico, composto dai tratti «africano», «nero», «povero»,
«venditore ambulante irregolare») e morfologicamente produttivo. Non solo infatti
comincia ad essere usato – tramite analogia – in contesti lontani dall’immigrazione
(Vu’ cumprà l’Europa? I rischi di una Cee troppo aperta e generosa, «La Stampa», 18 dicembre 1988). Ma diventa anche la base per altri neologismi: dal
Vu’ emigrà, titolo di un’inchiesta sugli «immigrati clandestini» pubblicata da «Panorama» il
29 maggio 1988, al Vu’ campà, servizio che «Epoca» dedica al razzismo il 2 luglio 1989; dal «vu’ drugà» («nelle
pagine di cronaca di Milano del Corriere di oggi campeggia un titolo a sei colonne
in cui i vu’ cumprà diventano vu’ drugà», «La Stampa», 27 febbraio 1989) al «vu’ studià»
(questo il titolo di un servizio che «L’Europeo» pubblica il 14 dicembre 1990 sulla
presenza degli stranieri nelle università italiane: La carica dei vu’ studià). Fino ai «vu’ ciulà?», «vu’ sballà», «vu’ lavà» e «vu’ stuprà», perle neo-linguistiche
che fanno bella mostra di sé in un volantino distribuito a Cinisello Balsamo dalla
Lega Nord nel 1998 (con gli inequivocabili slogan «Stop» e «Fuori dalle palle»). A
ogni «vu’...» venivano associate caricature, rispettivamente, di una donna africana
(stereotipo della prostituta «extracomunitaria»), di un giovane grunge (stereotipo dello spacciatore di droga), di un arabo-palestinese (stereotipo del
lavatore di vetri ai semafori) e – dulcis in fundo – di uno scimmionesco africano (stereotipo dello stupratore).
Era il lontano 1998, si dirà. La Lega – all’opposizione – offriva messaggi come questo
per stuzzicare gli appetiti belluini dei suoi elettori, pescando dallo stupidario
lessicale e iconografico prodotto da oltre dieci anni di (mala)informazione. Peccato
che un volantino simile sia stato riproposto nel 2010 a Genova da Fersido Celsi, candidato
al Consiglio regionale della Liguria sempre per il partito del Carroccio. Sei vignette
a descrivere l’umanità «allevata» dalle «sinistre», sostenute «da interferenze cattoliche»:
quattro «extracomunitari», un tossicodipendente e un mafioso col sigaro in bocca,
ognuna col suo bello slogan: «Vu’ cumprà?», «Vu’ stuprà?», «Vu’ lavà?», «Vu’ ciulà?»,
«Vu’ sballà?», «Vu’ pagà lu pizzu?».
Non risulta che Celsi ce l’abbia fatta a essere eletto, malgrado l’ottundente campagna
elettorale. Però viene da chiedersi se l’uso di certe parole sia soltanto pigra imitazione
di una comunicazione leghista d’antan, o se invece non sia la presa d’atto che vu’ cumprà è ancora ben radicato nel lessico (e nell’immaginario) collettivo.
D’altronde, la circolazione dell’epiteto sembra garantita non soltanto dalla rozzezza
di certo verbo leghista, ma anche (ancora!) dai mezzi di comunicazione di massa. Che
non di rado propongono titoli come A Venezia caccia ai vu’ cumprà: la Provincia schiera i militari (e all’interno dell’articolo, tanto per ossigenare un po’ la metafora guerresca:
«scende in campo una task force di 138 uomini contro i 400 ambulanti del centro storico»,
www.repubblica.it, 3 agosto 2009); Vu’ cumprà preso a calci da un gruppo di ragazzini, nessuno interviene (www.quotidiano.net, 26 agosto 2010); Chiedevano il pizzo ai ‘vu cumprà’. Arrestati 4 bengalesi («La Nazione», cronaca di Pisa, 23 febbraio 2011) o anche Anziano spara a ‘vu cumprà’:
Il pensionato [...] sarebbe stato infastidito da un nigeriano di trent’anni, regolare
in Italia, che aveva citofonato due volte per vendergli la sua merce. L’uomo non ci
ha pensato due volte e, invece di allontanarlo a parole, ha imbracciato la sua doppietta
sparando due colpi a pallettoni. «Mi stavano esasperando – ha raccontato ai carabinieri
che si sono presentati per arrestarlo –, così l’ho messo in fuga con il fucile. Ma
che cos’ho fatto di male?»3.