Comunità e società è certamente un classico della sociologia, non solo perché è l’opera più nota di Ferdinand Tönnies, che nei manuali è annoverato tra i padri fondatori della disciplina, ma anche per la posizione strategica che occupa all’interno delle opere di altri sociologi classici. Nel 1889 Émile Durkheim recensisce Gemeinschaft und Gesellschaft, come suona il titolo nell’originale tedesco, riconoscendogli il carattere pionieristico di studio di scienza sociale, ma segnalando anche la distanza che lo separa da una concezione della società intesa come costruzione astratta e artificiale. La società tönniesiana, nota Durkheim, non è l’ambiente naturale degli uomini e rischia sempre di dissolversi nelle relazioni individuali e nei conflitti che la caratterizzano. Essa non è quel fatto empiricamente evidente dal quale bisogna partire per dare forma scientificamente compiuta al discorso sociologico. Di rimando, tuttavia, Tönnies noterà una simmetria manifesta tra le sue categorie e le forme di solidarietà meccanica e organica, proposte nel 1893 dallo stesso Durkheim nella Divisione del lavoro sociale, lamentando di non essere stato neppure menzionato. Qualche anno più tardi, nel 1913, nel saggio sulle categorie della sociologia comprendente, Max Weber riconosce invece chiaramente il proprio debito nei confronti della «grande opera» di Tönnies, affermandone il carattere fondamentale. È stato però giustamente notato che, proprio da questo momento, Weber si emancipa in maniera sempre più evidente dalla dicotomia tönniesiana, facendo della comunità e della società due processi spesso intrecciati e in ogni caso non distinti da una differente storicità. Nel 1937, nella Struttura dell’azione sociale, Talcott Parsons torna al testo tönniesiano, trovandovi una classificazione dei fatti sociali che non si ferma ai fini individuali o alla situazione particolare, ma ne mostra il collegamento sistematico con gli assetti collettivi. A interessare Parsons è soprattutto l’ordine di fatto che Tönnies descrive tanto all’interno della comunità quanto della società. Per i suoi fini egli considera ancora più interessante la prima rispetto alla seconda, così come pensa che il costume sia un ordine normativo più vincolante del diritto positivo. Non è dunque casuale che, nei suoi studi successivi sulla cittadinanza come fattore di integrazione sociale, Parsons utilizzi in modo dispiegato la formulazione «comunità societaria», intesa come sistema che stabilisce il fulcro dei rapporti di solidarietà e lealtà tra i diversi membri della società nazionale. Né può stupire l’affermazione di Niklas Luhmann, allievo originale ma in qualche modo fedele di Parsons, secondo la quale quest’ultimo avrebbe addirittura ordinato le sue pattern variables seguendo il modello tönniesiano. Per la prima volta Tönnies avrebbe fornito una distinzione praticabile tra ordine e organizzazione, riferendo entrambi a fenomeni sociali. Questo sarebbe il motivo dell’«influenza determinante» a lungo esercitata dal testo tönniesiano, oltre al fatto che esso, nota ancora Luhmann, interpreta l’atmosfera del tempo in cui è stato scritto. Comunità e società è dunque un classico della sociologia perché l’antitesi che propone e analizza si presenta costantemente come problema della sociologia. Questa, tuttavia, è solo una dimensione della classicità del testo.

Oltre a essere un classico tra i classici della sociologia, esso è infatti l’espressione precisa ed esemplare – ancora una volta classica – di un’epoca storica e, al suo interno, della particolare e intricata vicenda della Germania tra la fine del XIX secolo e i primi decenni di quello successivo. Questa storicità del testo non ne fa però un reperto archeologico, interessante solo per capire un tempo passato, e perciò davvero significativo solo al suo interno. Essa è importante perché, grazie alla sua veste sociologica, nomina un problema politico che da allora in poi definisce la nostra contemporaneità. La sua sociologia delle contraddizioni del presente è una delle prime e compiute espressioni di un cambiamento radicale nella modalità di produrre teoria politica. L’irruzione delle scienze sociali, e in particolare della sociologia, nel panorama consolidato delle discipline non è dovuta solo all’individuazione di nuovi ambiti potenzialmente problematici che meritano una trattazione scientifica specifica e separata. Essa è infatti anche il segno epocale di uno spostamento dei modi e dei tempi della politica, conseguente all’affermazione storica di forme di potere sociale in grado di produrre obbligazioni ancor più irresistibili e violente di quella statale. Essa segnala inoltre che le forme di associazione degli individui producono criteri di obbedienza che non solo si sottraggono, ma che possono entrare in aperto conflitto con quelli stabiliti dallo Stato. Essa infine registra la presenza attiva di soggetti che pretendono il riconoscimento della loro posizione sociale, perché ne rivendicano il carattere immediatamente politico, per esempio all’interno della famiglia o della fabbrica. L’irruzione delle scienze sociali segnala in definitiva il fatto che un rapporto politico non può essere considerato sociologicamente vuoto; non può, cioè, essere riferito a soggetti costruiti esclusivamente secondo i paradigmi della filosofia politica e del diritto. Il soggetto della sociologia non è più solo individuo e cittadino, ma è definito dai rapporti materiali in cui si trova collocato. Esso si presenta sempre e necessariamente in massa perché i rapporti che determinano le sue azioni sono rapporti collettivi, che non possono essere immaginati semplicemente come un’interazione tra singoli. Si apre così la strada per nuovi modi di pensare la politica, che si appropriano delle classiche dottrine politiche dell’età moderna e le aggiornano. Questa appropriazione consiste spesso in un confronto con la tradizione filosofico-politica, le cui problematiche vengono in questo modo annesse in forma trasformata alla stessa sociologia. Le scienze sociali diventano la forma contemporanea della teoria politica. Basti pensare al lungo confronto di Durkheim con le dottrine di Montesquieu e di Rousseau, oppure allo scontro sistematico tra la sociologia di Parsons e quella che lui definisce tradizione utilitaristica. Nel caso di Tönnies siamo di fronte a qualcosa che eccede il semplice confronto, dal momento che soprattutto la filosofia di Thomas Hobbes, ma anche quella di Baruch Spinoza, sono di importanza fondamentale nel processo di formazione e di sviluppo della sua sociologia. Di questi classici Tönnies riscopre intanto il metodo scientifico, per fare poi emergere la sociologia implicita nelle loro opere in modo da descrivere l’ordine della società nel suo rapporto con la comunità. In questo modo la sociologia diviene una scienza intrinsecamente politica, perché ridetermina in maniera radicale il contenuto e gli scopi della politica stessa, che diviene necessariamente politica della società nel senso più forte dell’espressione, anche quando indugia nel vocabolario tradizionale dei ceti, della società civile, del governo e delle sue forme. L’intento di Tönnies – un intento che si andrà precisando nel corso dei decenni successivi – è quello di costruire una teoria politica dei concetti sociali, andando così oltre la mera definizione di un campo disciplinare sociologico, fosse anche quello più specifico di una sociologia politica.

La distanza dagli assetti accademici e politici consolidati che questo mutamento di prospettiva sperimenta inevitabilmente è rispecchiata perfettamente dalla storia del volume tönniesiano. Infatti, come talvolta accade a testi che hanno poi un impatto duraturo, Gemeinschaft und Gesellschaft al momento della sua pubblicazione nel 1887 passa quasi inosservato. E a lungo rimane confinato a ristretti benché significativi circoli intellettuali, fino a conoscere a partire dalla sua seconda edizione del 1912 un travolgente successo editoriale, che porta il numero delle edizioni a otto nel volgere di poco più di un ventennio. Questa storia rispecchia anche le vicende accademiche e personali del suo autore che, nato nel 1855 nei pressi di Kiel, all’estremo nord della Germania, deve attendere il 1908 per ottenere uno stabile ruolo accademico. Nella Repubblica di Weimar ricopre però la prima cattedra di sociologia, istituita con l’intenzione esplicitamente politica di insegnare quella che viene considerata la scienza per eccellenza dello Stato sociale democratico di diritto. La precedente emarginazione di Tönnies nella Germania guglielmina ha due motivi strettamente intrecciati tra di loro. Il primo ha a che fare con il suo impegno culturale e politico a favore del nascente movimento operaio, che lo rende sospetto agli occhi della burocrazia ministeriale prussiana e tedesca, bloccando la sua carriera accademica. Il secondo motivo riguarda il ruolo di sociologo militante svolto da Tönnies nella seconda metà degli anni Novanta con le sue pionieristiche ricerche sul campo dedicate ai portuali e alla gente di mare di Amburgo, che confermano il sospetto presente in tutta Europa che la sociologia sia una scomoda scienza di opposizione. Ed essa effettivamente lo è, perché il concetto di società che propone investe direttamente la costituzione materiale europea, mostrandone quella sostanziale inattualità che diventerà drammaticamente evidente con la prima guerra mondiale. Se la scoperta della società è il risultato più dirompente dell’invenzione sociologica, il tratto paradossale della vicenda tönniesiana sta nel fatto che dal 1912 il libro viene letto da un vasto pubblico come una celebrazione della comunità contro la decadenza portata dalla civilizzazione societaria. Ciò nonostante il suo autore rimane sempre distante, se non estraneo, all’entusiasmo comunitario che si diffonde in modo sempre più vasto e spaventoso in Germania fino alla catastrofe degli anni Trenta. Divenuto intellettuale di spicco e maestro rispettato nel lungo decennio weimariano, nel 1934 Tönnies viene destituito dal suo incarico e successivamente privato della pensione dai nazionalsocialisti, perché fino al 1936, anno della sua morte, non cessa di opporsi per quanto gli è possibile al regime e al suo antisemitismo.

Alcune aggiunte alle edizioni degli anni Venti lasciano trasparire tracce evidenti di tutte queste vicende. Il testo rimane però sostanzialmente invariato nei suoi tratti essenziali, nonostante alcune variazioni terminologiche dimostrino che il suo autore voglia collocarlo sempre più esplicitamente all’interno della sociologia. A partire dalla terza edizione del 1920, Tönnies utilizza volontà arbitraria al posto di arbitrio, per indicare il modo fondamentale con cui si esprime la volontà dell’individuo societario. Questa variazione lessicale intende mostrare con maggiore evidenza la simmetria con la volontà essenziale che determina l’individuo comunitario. La comunità e la società da elementi di un’antitesi storica diventano così Concetti fondamentali della sociologia pura, come suona il sottotitolo che dalla seconda edizione del 1912 sostituisce l’originario Trattato del socialismo e del comunismo quali forme empiriche della cultura. Nonostante quest’ultima variazione, permane la differenza tra il passato comunitario e il presente socializzato perché, come vedremo, solo la società vive al presente. L’intenzione originaria di Tönnies era di presentare una storia delle forme associative antitetiche, mostrando come i vincoli comunitari fossero preesistenti a quelli societari, ma anche storicamente destinati a trasformarsi e a scomparire. La trasformazione del comunismo in socialismo va intesa alla lettera e non come riferimento privilegiato ai movimenti politici che stavano imponendosi nell’Europa di fine Ottocento. La forte presenza di Marx nel testo tönniesiano contribuisce a descrivere la struttura e le contraddizioni della società contemporanea, anche se non esplicita una presa di posizione all’interno dello scontro politico in atto. La costituzione della moderna forza lavoro e l’universale mediazione monetaria dei rapporti sono tra i processi più rilevanti della disgregazione della comunità. Essi stabiliscono quell’effetto di società, che impone la nuova sovranità complessiva pretesa e affermata dai fenomeni societari. Essi sono inoltre il segno del passaggio dallo status al contratto che Tönnies ricava dalla classica opera di Sir Henry Maine, un’altra delle sue fonti privilegiate. Si tratta cioè dell’affermazione di quella volontà arbitraria dominata da un’idea individuale di scopo e quindi apparentemente svincolata dalla totalità sociale che invece determina la volontà essenziale propria della comunità. Le metafore del meccanismo e dell’organismo, utilizzate da Tönnies per descrivere rispettivamente la società e la comunità, non devono essere perciò intese come puntuali analogie. Più che per descrivere le forme sociali, il loro uso è giustificato per indagare i modi di formazione e di affermazione della volontà individuale, perché tanto nella comunità quanto nella società sono gli individui a volere e quindi a scegliere i rapporti in cui si trovano inseriti. In definitiva Tönnies – ma questo vale per tutta la sociologia tedesca dell’età classica – è interessato al cambiamento di posizione dell’individuo nelle due differenti strutture associative. L’individuo comunitario vuole ciò che è sempre stato, ciò che è stato tramandato dalla tradizione e viene sancito dal costume; in questo senso egli acconsente costantemente alla continuità inesausta delle strutture in cui è inserito. L’individuo societario vuole le norme generali e astratte che gli consentono di raggiungere liberamente i suoi fini particolari. Alla comunità e alla società corrispondono così due tipi differenti di individualismo, sebbene nel primo caso un’azione meramente individuale rappresenterebbe una negazione dell’agire comunitario, mentre nel secondo caso, l’individuo non è la contraddizione latente della società, perché l’individualismo è la forma stessa della società.

La differenza fondamentale è stabilita dal rapporto degli individui con gli ordinamenti delle diverse forme sociali. Nella comunità il costume è l’ordinamento normativo vigente; esso non ha una fonte determinata e riconoscibile, ma vige in forza del fatto di essere osservato con continuità e senza significative eccezioni. Nella società il diritto è sempre più positivo, ovvero prodotto da istituzioni politiche legittimate dalla volontà esplicita degli individui. Questa disponibilità della decisione giuridica permette di immaginare la strada verso la democratizzazione della società grazie al ruolo che può svolgere lo Stato. Tönnies è hobbesianamente convinto che la sovranità democratica sia in grado di agire autonomamente su quello che egli stesso definisce il diritto naturale della società. Riprendendo questa formulazione classica, egli non intende indicare un diritto prestatuale e tanto meno presociale, cioè un diritto verso il quale gli individui si sentirebbero obbligati indipendentemente dalla forma della loro socializzazione. Il diritto naturale comunitario è definito dal consenso sul carattere strutturalmente asimmetrico delle prestazioni sociali, mentre quello societario vive del proprio carattere convenzionale che è la forma più adeguata per l’incontro momentaneo e puntuale di volontà che stabiliscono il carattere equivalente delle prestazioni sociali. Questo diritto naturale della società è il diritto della politica, ovvero diritto positivo stabilito da un consenso esplicito, perché è il diritto che corrisponde alla natura della società. Il diritto naturale coincide con l’ordinamento societario; esso permette alla società di presentarsi come ordine, regolando la produzione e la riproduzione della stessa società, in forza di norme che appaiono agli individui come naturalmente legittime. La società si presenta effettivamente come ordine, ovvero come insieme di cause che determinano la volontà e quindi le azioni degli uomini. Questo reticolo di cause, ai cui effetti nessuno può sottrarsi individualmente se non in maniera casuale, è il significato più rilevante della potentia spinoziana, che per Tönnies altro non è che l’espressione della causalità universale. D’altra parte Spinoza appare come il primo e più rilevante teorico della volontà arbitraria. Il diritto naturale stabilisce così le regole dell’appropriazione del prodotto sociale, sancendo allo stesso tempo una gerarchia che non è fondata sulla dipendenza personale, ma sul carattere libero e contrattuale dei rapporti societari. Esso impone di non appropriarsi con la forza o con la frode di quote del prodotto sociale, mentre lascia allo stesso tempo gli individui liberi di valorizzarsi come meglio credono. Come è facile vedere leggendo il testo, la descrizione tönniesiana di questa società non si arresta tuttavia alle armonie contrattuali di una società commerciale. Egli utilizza lo stato di natura hobbesiano per descrivere i rapporti societari. Esso non è più l’antecedente logico della società moderna, ma la sua descrizione più precisa e inquietante, dal momento che il rapporto tra gli individui societari è improntato nel migliore dei casi da una reciproca indifferenza che impedisce la manifestazione del conflitto latente che irrimediabilmente li separa. Non si tratta tuttavia solamente dell’ennesima utilizzazione di un artificio descrittivo quale il bellum omnia contra omnes che per tutto l’Ottocento è stato ampiamente impiegato per descrivere la società capitalistica e le nuove paure che suscitava. Rendere costantemente attuale lo stato di natura nega alla società il suo presente pacificato e politicamente neutralizzato, ma crea la necessità logica di indicare un altro passato: mettere originalmente a frutto la lezione hobbesiana impone di tornare sul terreno della storia, per individuare la forma sociale empirica che ha preceduto la società. D’altra parte, il sociologo Tönnies è stato anche uno dei massimi studiosi di Hobbes e sarebbe sorprendente se i due filoni della sua ricerca non si fossero intersecati in maniera significativa. Ciò che va però sottolineato è che l’operazione teorica compiuta da Tönnies non è dovuta agli interessi occasionali di uno studioso. Le prefazioni alle due prime edizioni di Comunità e società mostrano ampiamente come essa sia il frutto di una riflessione ricca e complessa sugli esiti più avanzati di differenti discipline scientifiche. Proprio questa pluralità di apporti le consente di aprire un discorso politico sulla società che diviene ben presto classico. L’appropriazione della filosofia politica, del diritto e dell’antropologia attraverso la mediazione della storia è uno dei tratti caratteristici delle scienze sociali come forma contemporanea della teoria politica.

Come ha notato Durkheim, la società tönniesiana è dunque caratterizzata da una profonda precarietà che impedisce di pensarne la piena e definitiva stabilizzazione. Le espressioni che nel testo danno voce a questa convinzione non dipendono dal pessimismo sulle sorti della cultura o della civiltà assai diffuso all’epoca. Esse sono invece motivate dal carattere intrinsecamente politico del giudizio sociologico. La società è per Tönnies una struttura della quale non si può negare la legittimità storica. Come vedremo, la sua instabilità la espone a una sorta di critica immanente della comunità, ma soprattutto all’azione necessariamente riformatrice dello Stato. Siamo così al centro del paradosso della sociologia hobbesiana di Tönnies, un paradosso che peraltro si mostra in tutta la sua dirompenza storica proprio durante la Repubblica di Weimar. Lo Stato è il prodotto della società; è un esito della stessa razionalità; il frutto dei medesimi processi di erosione della tradizione e delle gerarchie sociali consolidate. Allo stesso tempo, tuttavia, esso dovrebbe anche essere lo strumento più efficace della riforma di una società messa costantemente in pericolo dai processi più rilevanti della sua stessa costituzione materiale. Dal momento che la democrazia è, secondo il Tönnies studioso di Hobbes e Spinoza, l’unico possibile approdo razionale dello Stato, esso dovrebbe necessariamente impegnarsi a democratizzare la società che lo produce. Il patto fondativo che unisce gli individui diviene una figura completamente autonoma rispetto alla rete di relazioni contrattuali e di astrazioni giuridiche che collocano gli individui nelle diverse posizioni di subordinazione sociale. Lo Stato sociale democratico diviene lo Stato della sociologia, riconoscendola come strumento privilegiato per individuare le tendenze e i conflitti sui quali intervenire. L’affermazione di questo nesso tra società e Stato è un punto di primaria importanza nella politica sociologica tönniesiana. Lo Stato è legittimato a intervenire nella società perché è composto della sua stessa materia: non rappresenta cioè un potere estraneo che si oppone e limita uno spazio di libertà. Per l’investimento democratico che lo caratterizza esso dovrebbe essere piuttosto in grado di consentire il compimento di quei movimenti sociali che la società altrimenti impedirebbe. Lo Stato è il paradosso della società che agisce su se stessa.

D’altra parte, contro la lezione delle scienze dello Stato dominanti nella Germania della seconda metà dell’Ottocento, Tönnies propone fin dall’inizio l’antitesi tra comunità e società come risposta al contrasto tra Stato e società che esse teorizzavano. Egli ripensa la storicità delle strutture sociali, vedendo nella comunità il dominio normativo del passato e nella società l’incontrastata supremazia del presente. Nella sua radice più profonda la comunità è per Tönnies un non-rapporto, che non a caso viene esemplificato nella relazione materna, alla quale sarebbe estranea la dialettica fra uguaglianza e disuguaglianza. Già la presenza del potere paterno introduce un dominio che segnala la trasformazione di quella radice. La comunità come forma storica non è una condizione idilliaca, ma una struttura di potere, il cui detentore viene obbedito perché ne viene riconosciuta la specifica qualità personale. Il potere comunitario non è pensabile come astrazione, perché è sempre un potere visibile sui corpi dei sottomessi, che implica la presenza fisica del padre, del sacerdote, o dell’anziano riconosciuto più saggio o più capace, come pure il riconoscimento costante da parte dei dominati del loro dovere di obbedire. Agire in comunità significa perseverare in conformità al dovere, non solo perché l’abitudine è una rassicurazione, ma soprattutto perché ogni azione conferma la comunità nella sua esistenza. Nella società, invece, il potere non può assumere la forma immediatamente evidente di un dominio; l’obbedienza è motivata dalla sua utilità e dalla sua funzionalità in termini organizzativi. La società moderna deve tuttavia affrontare costantemente il problema del carattere collettivo delle decisioni che assume, mentre il suo diritto naturale regola prioritariamente l’appropriazione privata dei beni collettivi. La sociologia tönniesiana della società è una dottrina dell’uomo collettivo attraversato dal senso di una irrimediabile assenza, che occasionalmente Tönnies propone di colmare facendo riferimento al nascente movimento cooperativo, oppure, come abbiamo già detto, soprattutto alla democratizzazione della società attraverso lo Stato. È tuttavia sul terreno della tensione inevitabilmente collettiva di una società necessariamente dominata dal suo individualismo che la comunità si ripresenta come problema storico del presente.

Il luogo della comunità è un luogo storico, nel duplice senso che essa è la storia di cui la società tende a liberarsi, ma anche la storia che grava in continuazione sulla società. Nel primo senso essa è rappresentata da tutti quei rapporti sociali che la modernità fa più o meno lentamente scomparire: la famiglia, il villaggio, l’economia domestica, la corporazione artigiana. La ricostruzione storica tönniesiana è molto chiara da questo punto di vista. Con fin troppa fiducia nella capacità del razionalismo sociologico di sostituirsi completamente alle interpretazioni religiose del mondo, essa mostra l’antitesi tra comunità e società e la sua tendenziale risoluzione moderna. Ciò nonostante tutti quei rapporti continuano a pesare sulla società, perché in quest’ultima persistono elementi dominio e una costitutiva e consapevole discordia sconosciuta nella comunità. In maniera del tutto peculiare la società rischia di mostrarsi come una comunità assente che manifesta tutta la sua insufficienza proprio di fronte alle pretese di uguaglianza e di libertà collettiva degli individui che la compongono. Sebbene in maniera meno tormentata, la comunità tönniesiana occupa un luogo simile a quello che nella sociologia weberiana è riservato alla setta protestante. Essa è all’origine di un processo storico che nel suo pieno dispiegamento la nega senza riuscire a superarla completamente. Essa tuttavia non rappresenta il luogo di origine di un soggetto che ha malinconicamente e tragicamente smarrito il proprio spirito nel corso dello sviluppo del capitalismo. Non c’è per Tönnies nessuna etica particolare che possa essere riaffermata contro i rapporti presenti. La comunità ritorna così in continuazione come disagio della società. Si deve allora rilevare che la comunità, che pure storicamente precede la società, è pienamente comprensibile solo dal suo opposto sociologico, ovvero dalla prospettiva societaria. Solo la società attuale consente di pensare alla comunità per i suoi caratteri presenti e negati all’interno della società stessa. Sarebbe completamente fuori luogo interpretare la sociologia tönniesiana come la ricerca di una valorizzazione di quelle comunità parziali e transitorie che in definitiva legittimano con la loro stessa esistenza la società. La comunità non esprime nemmeno la nostalgia per rapporti concreti e visibili. Essa non è l’alternativa immediatamente praticabile per quello che abbiamo chiamato il disagio della società, come è stato sostenuto da molte voci all’interno dei dibattiti contemporanei sul comunitarismo e sul multiculturalismo La comunità pone essenzialmente per Tönnies il problema politico di un’etica dell’uomo collettivo.

Maurizio Ricciardi

La presente edizione di Comunità e società riprende sostanzialmente la precedente, ottima traduzione di Giorgio Giordano uscita nel 1963 per i tipi di Comunità, con un’introduzione di Renato Treves. In questo modo venne reso accessibile al pubblico un classico che nei decenni precedenti era già stato tradotto nelle altre lingue europee. Vi sono poche variazioni e per lo più marginali rispetto alla traduzione di Giordano. Vale la pena segnalare solo la scelta di rendere Arbeitskraft con forza lavoro, invece che con forza di lavoro. Più in generale abbiamo seguito l’impostazione e i criteri dell’edizione tedesca attualmente più completa, uscita negli ultimi decenni in varie edizioni a Darmstadt per la Wissenschaftliche Buchgesellschaft, e che si basa sull’ottava e ultima edizione del 1935.

Prefazione alla prima edizione

L’antitesi tra concezione storica e concezione razionalistica è penetrata, nel corso di questo secolo, in tutti i campi delle scienze sociali o culturali. Quest’antitesi coincide, nella sua radice, con l’attacco dell’empirismo e della filosofia critica al sistema stabilito del razionalismo, il quale aveva trovato in Germania la sua configurazione consolidata a opera della scuola di Wolff. Acquisire un rapporto con questi nuovi metodi è quindi di non poca importanza anche per il presente tentativo di nuova analisi dei problemi fondamentali della vita sociale.

È paradossale dire che l’empirismo, a dispetto della vittoria che questa concezione ha riportato su di esso in maniera così decisiva, è nel medesimo tempo il completamento formale del razionalismo. Eppure ciò appare con la massima evidenza proprio nella dottrina kantiana della conoscenza, la quale – presentandosi con la pretesa di unire le antitesi – è per il suo contenuto tanto empirismo modificato quanto razionalismo modificato. Questo è chiaro già nel puro empirismo di Hume; infatti egli non indaga se vi sia in realtà una conoscenza universale e necessaria in rapporto ai fatti e alla causalità, ma deduce la sua impossibilità da concetti, come più tardi Kant crederà di poter dedurre la loro realtà e di conseguenza la loro possibilità. L’uno e l’altro procedono in maniera razionalistica, ma con risultati opposti. L’empirismo in rapporto alla percezione era stato ancora presupposto da Hume, nel senso che la conoscenza sarebbe l’effetto di qualità e stati oggettivi delle cose su una carte blanche dell’anima umana; per Kant, benché alle cose venga riconosciuta l’esistenza e l’azione reciproca, essa è essenzialmente il prodotto di attività del soggetto, come il pensiero stesso. La concordanza in rapporto alla verità – così potremmo spiegare nel senso del suo punto di vista – è condizionata dalla stessa natura degli strumenti conoscitivi, i quali, quando si va al di là delle forme di intuizione e delle categorie dell’intelletto, non sono che complessi di idee – specialmente le associazioni di percezioni e di rappresentazioni con nomi e giudizi, finché si tratta di comprensione di fatti. Invece, quando vengono ricercate le cause di dati effetti, devono già venir presupposti determinati concetti sulla natura degli agenti (essenze, cose o forze) e sul loro modo di agire, per selezionare dalle possibilità le necessità o certezze. Ma queste, secondo l’empirismo compiuto (di Hume) non sono altrimenti raggiungibili se non mediante una conoscenza acquisita di sequenze temporali regolari, cosicché tutte le connessioni dello stesso genere, dapprima sciolte, si consolidano in effetti come abitudini attraverso la frequente ripetizione e vengono spiegate come necessarie, cioè come causali. La causalità viene in questo modo staccata dalle cose e trasferita nell’uomo, non diversamente da quanto accade con Kant, quando egli l’afferma come categoria dell’intelletto. Kant però rifiuta la spiegazione che Hume aveva intrapreso, in base alla pura esperienza individuale. La concezione kantiana, nella quale essa precede ogni esperienza, segna in realtà la via verso una spiegazione più profonda. Infatti la legge psicologica, la cui scoperta è presente in Hume, ha bisogno certamente di un’integrazione, e di conseguenza addirittura della propria fondazione a opera dell’idea dello spirito che diviene dal suo germe, ed è perciò dotato di determinate disposizioni che costituiscono le sue forze e le sue tendenze. Che il pensiero umano si differenzi dalle consécutions des bêtes può (in una determinazione psicologica) essere compreso soltanto in base all’essenza della corteccia cerebrale umana, in virtù della quale è necessaria una determinata attività di coordinazione di impressioni ricevute che si sviluppa con la sua crescita, e un determinato rapporto in cui lo stato complessivo interiore sentito si pone con queste sensazioni particolari. Infatti quello è l’assoluto a priori, e può essere concepito soltanto come implicante in sé l’esistenza dell’intera natura mediante relazioni generali e oscure, delle quali poi alcune, in virtù dello sviluppo e delle azioni del cervello e degli organi dei sensi, cioè dello spirito comprendente (che sta di fronte), divengono gradualmente più chiare e distinte. Ogni esperienza successiva, come ogni altra attività, si compie mediante l’intero essere con gli organi fino allora sviluppati allo scopo. Ma da ciò risulta un regressus ad infinitum, che conduce fino agli inizi della vita organica, i quali, concepiti come inizi psichici, devono venir designati anche come incorporazione di una certa esperienza, poiché ogni attività o passione (e infatti il patire non è che l’altra specie del fare), quindi la vita stessa, è esperienza, come ogni esperienza è attività o passione. L’attività è la modificazione dell’organismo; essa lascia dietro di sé qualche traccia, in direzione eguale, opposta o indifferente rispetto alla tendenza del suo sviluppo e di un altro sviluppo. E questo viene inteso come memoria, particolarmente in quanto costituisce il lavoro permanente e la forza (infatti la forza è soltanto lavoro disponibile) di sensazioni sensibili – cioè già sotto forma di complessi coordinati – già pronte, che tuttavia vengono a loro volta fornite soltanto attraverso la memoria. Ma ogni possibile modificazione di un organo è certo essenzialmente condizionata dalla connessione e dallo stato dell’organo esistente, dipendendo dalla misura in cui esso è incline o no a subirla, e risultando così più o meno probabile (likely). In questo senso si illustrerà (nel secondo libro di questo lavoro) l’unità e diversità del piacere, dell’abitudine e della memoria, come modificazioni elementari della volontà e della forza spirituale, in rapporto a ogni produzione mentale; e questo ragionamento deve estendersi anche al problema dell’origine e della storia della conoscenza umana. Questa è perciò soltanto un’interpretazione, in parte in senso spinoziano e schopenhaueriano, in parte condotta con i mezzi della teoria biologica della discendenza – che illumina questi filosofemi, così come viene chiarita da essi – cioè un’interpretazione dell’idea con la quale Kant ha realmente superato la costruzione di Hume. Ma siccome essa è corretta, ne risulta non soltanto il fatto, ma anche la causa per cui non possiamo pensare un ente se non come agente, qualcosa che accade se non come effetto; queste sono funzioni antiche, anzi eterne funzioni cresciute nella struttura del nostro intelletto, e il non-poter-altrimenti è una necessità alla quale si riferisce la nostra certezza, poiché essere attivo ed essere attivo in conformità alla sua natura è la stessa cosa, secondo un principio formalmente identico.

Ma se noi uomini formiamo una naturale comunità di pensiero, in quanto la causalità è immanente in noi come gli organi dei sensi, e di conseguenza formiamo anche necessariamente qualche nome per designare l’agente e l’effetto, la differenza in rapporto agli stessi processi può risultare soltanto dalla concezione di quali soggetti siano gli agenti, ossia le cose veramente reali (tá óntwv ónta); e su questo punto naturalmente i popoli, i gruppi, gli individui dissentono tra loro, anche se alla maggior parte rimane comune il fatto di rappresentare gli agenti della natura sotto forma di uomini e animali in immagini mitologiche e poetiche. Ciò si esprime plasticamente e continuamente nelle forme della lingua, benché la distinzione tra le masse morte (che possono soltanto essere mosse) e vive (che si muovono da sé) sia stata per tempo acquisita dal pensiero. Rimane tuttavia prevalente la concezione di tutta la natura come natura vivente, e di tutto l’agire come agire spontaneo, al quale gli dèi e i demoni partecipano accanto ai soggetti visibili. Ma se in questo modo il mondo e tutti i suoi destini vengono in ultima analisi posti in grembo di un unico dio, che li avrebbe creati dal nulla e li manterrebbe a suo piacimento, e che avrebbe dato loro ordinamenti e leggi secondo cui tutto il loro corso appare come regolare e necessario, tutte le volontà e libertà subordinate spariscono allora nella natura – anche la libera volontà dell’uomo; e quelle tendenze che non possono venir derivate da un altro movimento ricevuto vengono concepite soltanto più come inclinazioni e forze inspiegabili. Anche il liberum arbitrium indifferentiae può allora venir ripristinato, non tanto come fatto di esperienza quanto come ipotesi necessaria per sgravare l’onnipotente e onnisciente dalla responsabilità della violazione dei suoi propri ordinamenti, sotto forma di una forza inspiegabile e di una qualità misteriosa. Ma tutta questa concezione, come anche l’unicità della volontà divina, è già propria di un pensiero che nei suoi principi è opposto alla fede religiosa e alle intuizioni popolari, per quanto possa ancora recare la traccia della sua derivazione da queste fonti. Questi principi si sviluppano fino a stare per conto proprio e ad apparire interamente indipendenti dalla loro origine, incontrandosi con altri simili che hanno liberamente dominato nei campi naturali di questo pensiero dai suoi inizi. Esso è pensiero scientifico. Questo, apparendo dapprima e più facilmente nella sua purezza, non ha a che fare con le cause dei fenomeni e tanto meno con la volontà umana e divina. Dalle arti del confronto e della misura di grandezze e quantità sorge piuttosto, come loro arte ausiliaria generale, quella del calcolo, cioè l’arte del separare e comporre, del dividere in parti eguali, della moltiplicazione di parti date – operazioni che vengono compiute così facilmente nel puro pensiero perché questo ha pronto allo scopo un sistema ordinato di nomi, e nessuna diversità degli oggetti percepiti disturba la posizione pensata di unità eguali come combinabili a piacimento. Perciò, in quanto il dominio di tale sistema richiede pur sempre l’appiglio di qualche oggetto, il soggetto calcolante adotta possibilmente a questo scopo oggetti eguali, facilmente controllabili e maneggevoli, e se essi non sono disponibili egli li costruirà e li doterà di tali proprietà. Infatti, anche se in natura esistono innumerevoli corpi che vengono trovati e sono tra loro simili per le loro qualità percepite, in grado più o meno elevato, cosicché il grado massimo viene infine designato come eguaglianza, e anche se è naturale la parificazione con la quale essi vengono riferiti a un nome, essa diviene tuttavia artificiale e forzata nella misura in cui costruisce nomi in maniera consapevole e arbitraria e non soltanto trascura sotto questo profilo le differenze esistenti, ma le elimina deliberatamente dalla considerazione o addirittura le annulla realmente, allo scopo preciso di creare un’eguaglianza utilizzabile il più possibile perfetta. Ma ogni pensiero scientifico, come il calcolo, vuole l’eguaglianza in vista di qualche misurazione, poiché la misurazione è eguaglianza oppure l’elemento generale di cui l’eguaglianza è un caso particolare, cioè deve dare un rapporto esatto, al quale a sua volta serve come metro l’eguaglianza. Così le equazioni scientifiche costituiscono i parametri ai quali vengono riferiti i rapporti reali tra gli oggetti reali. Essi servono al risparmio del lavoro del pensiero. Ciò che in casi innumerevoli dovrebbe sempre venir ricalcolato di nuovo, viene calcolato una volta per tutte in un caso ideale e richiede poi soltanto una pura applicazione. In rapporto al caso ideale tutti i casi reali sono eguali o stanno in un rapporto determinabile con esso, e per conseguenza tra di loro. Così i concetti, i principi, i sistemi generali o scientifici sono paragonabili a strumenti mediante cui per particolari casi viene raggiunta una conoscenza o almeno una supposizione. Il metodo di impiego è la sostituzione dei nomi particolari e di tutte le condizioni del caso dato a quelle del caso fittizio e generale – cioè il procedimento del sillogismo. Ciò appare al massimo grado di sviluppo in ogni scienza applicata (in quanto essa è pensiero che procede secondo il principio di ragion sufficiente), mentre in ogni scienza pura si ritrova il riferimento a un sistema di nomi (a una terminologia), rappresentato nel modo più semplice dal sistema dei numeri (in quanto pensiero che procede secondo il fondamento di identità). Infatti ogni scienza pura si riferisce esclusivamente a oggetti concettuali, quali l’oggetto generale o la grandezza – dove si tratta senz’altro di calcolo – o il punto senza estensione, la linea retta, il piano senza profondità, i corpi regolari – dove si tratta della determinazione di rapporti tra fenomeni spaziali. Analogamente, infine, avvenimenti immaginari del tempo vengono assunti a tipi di avvenimenti reali; così avviene per la caduta di un corpo nello spazio vuoto d’aria, la cui velocità viene calcolata, secondo certi presupposti, come posta in un’unità di spazio misurata in un’unità di tempo, fissata ad arbitrio come uniforme o variabile. L’applicazione si presenta sempre tanto più difficile quanto più il caso generale pensabile è diverso dai casi particolari percepibili, e perciò quanto più questi sono vari e irregolari. Dall’osservazione di corpi separati, che attraverso il loro movimento vengono a trovarsi in una momentanea connessione spaziale, nasce poi il concetto scientifico di causa come quantità di lavoro compiuto (contenuto nel movimento), e che è eguale a un’altra – l’effetto – e con essa scambiabile, secondo il principio dell’eguaglianza di azione e reazione: una rappresentazione che diventa pienamente se stessa dopo che dal concetto di forza, che all’inizio la comprende, è stata eliminata ogni connotazione di realtà e di produttività. Così sorge quel grande sistema della meccanica pura, e come applicazione di questa si vengono poi configurando tutte le scienze naturali concrete, a partire dalla fisica e dalla chimica.

Tuttavia, accanto e internamente a questa concezione scientifica della causalità si conserva e si sviluppa, al tempo stesso come sua estrema espressione e come sua critica, quella che potremmo chiamare la concezione filosofica – ma anche la concezione organica contrapposta a quella meccanica, o la concezione psicologica contrapposta a quella fisica: secondo essa nulla esiste come forza produttiva, poiché esiste soltanto la reale e permanente unità di un sistema conservativo di energia generale, dalla quale devono essere derivate tutte le sue particolarità, come sue parti e nello stesso tempo come suoi effetti. Alla legge vitale dell’universo sono subordinate tutte le altre leggi naturali, come alla legge vitale di ogni parte vivente (di un individuo o di una specie) sono subordinate le leggi riconducibili alla meccanica, nelle quali esso si realizza. Quanto più la scienza diviene universale da un lato, e dall’altro estende i suoi metodi agli organismi, tanto più deve diventare in questo senso filosofica. D’altra parte anche una concezione filosofica della natura, il cui contenuto principale è semplice e necessario, può condurre a verità molteplici e relativamente accidentali soltanto nella misura in cui essa ha accolto in sé i principi della scienza. Essa deve dimostrare la vita e le sue specie in base a tipi, che tuttavia vengono almeno copiati da generalità reali (idee), perché ogni vita è uno sviluppo dal generale al particolare.

Ogni scienza, e quindi ogni filosofia in quanto scienza, è razionalistica. I suoi oggetti sono entità concettuali, cioè sono costruzioni. Ma ogni filosofia, e quindi la scienza in quanto filosofia, è empiristica, nel senso che ogni essere deve essere concepito come agire, l’esistenza come movimento, e la possibilità, la probabilità, la necessità delle modificazioni come vera e propria realtà, il non-ente (tò mä o¢n) come il vero ente, e quindi sempre in modo dialettico. Il metodo empiristico e il metodo dialettico si esigono e integrano a vicenda. Entrambi hanno a che fare con pure tendenze che s’incontrano, si combattono, si uniscono, ma che alla fine possono venir comprese o piuttosto sono note soltanto come realtà psicologiche. Infatti, poiché siamo consapevoli della volontà umana come nostra propria, e conosciamo le sorti della vita umana come una totalità procedente da queste volontà, anche se in continuo e rigoroso condizionamento da parte del resto della natura, esse trovano la loro verificazione soltanto nella psicologia umana generale e individuale. I fatti della psicologia generale sono la cultura storica e attuale; cioè la convivenza umana e le sue opere.

La storia presa di per sé, in quanto raccolta di fatti, non è né scienza né filosofia. Ma essa è l’una e l’altra nello stesso tempo, in quanto in essa possono venire scoperte le leggi vitali dell’umanità. Essa è una totalità di avvenimenti, il cui principio e il cui termine rimangono suscettibili soltanto di supposizioni estremamente indeterminate. Il futuro è per noi non più oscuro del passato. Ciò che sentiamo come presente lo dobbiamo prima osservare per sforzarci di comprenderlo. Ma gran parte dei lavori seri e rilevanti che si sono avventurati in questo campo, così evidente e segreto come la natura stessa, risulta spesso pregiudicata nel suo valore dalle difficoltà di un atteggiamento teorico spassionato e preciso sotto questo riguardo. Il soggetto sta troppo vicino agli oggetti della sua osservazione. Occorre molto sforzo ed esercizio, forse perfino una naturale freddezza dell’intelletto, per posare l’occhio su questi fenomeni con la stessa indifferenza oggettiva con la quale il naturalista segue i processi vitali di una pianta o di un animale. E anche il pubblico colto e capace di critica non apprenderà di regola come le cose stanno, sono divenute e divengono secondo l’opinione di uno scrittore, ma più volentieri come esse devono stare secondo il suo parere. Infatti si è abituati a vedere che sulla seconda si orienta la prima – il che, fino a un certo punto, può essere inevitabile – ma non si scorge che lo sforzo di sfuggire deliberatamente a questo pericolo costituisce l’abito scientifico. Ci si attende, e quasi si esige, il punto di vista e la violenta retorica di un partito, anziché la logica e la calma rilassata dell’osservatore imparziale. È così che nella scienza sociale odierna, specialmente in quella tedesca, viene riferita ai fondamenti della teoria una lotta di correnti che vengono rappresentate come tendenze opposte nelle discussioni sulla pratica e sulla legislazione – dove i difensori di interessi e classi in conflitto si possono con maggiore o minore buona fede professare difensori di opposte convinzioni e dottrine, quasi di principi tecnologici della politica. Inoltre queste divergenze hanno più di una volta un fondamento più profondo nella sfera dei sentimenti e delle inclinazioni morali del soggetto, che non dovrebbero turbare più di altre passioni la considerazione oggettiva delle cose. Del resto l’importanza che (per prendere l’esempio più significativo) viene attribuita all’antagonismo tra le dottrine di tipo individualistico e di tipo socialistico in vista della conoscenza e della teoria dei fatti reali del mondo contemporaneo della produzione e del commercio, sembra simile a quella che avrebbe per i medici il trasferimento nella fisiologia del contrasto tra metodi di cura allopatici e omeopatici. Occorre piuttosto liberarsi dalla caligine di tutte queste impostazioni tradizionali, porsi completamente al di fuori delle cose e osservare, così come si osserva col telescopio e col microscopio, corpi e movimenti che nell’ambito della cultura sono così diversi tra loro – e possono venir studiati da un lato soltanto nel generale e nel grande, dall’altro nel piccolo e nel particolare – come sono diversi in natura rerum da una parte le orbite dei corpi celesti e dall’altra le parti e i processi vitali dell’organismo elementare. Nel quadro universale la storia stessa non è che un frammento dei destini di un pianeta, e costituisce una sezione dello sviluppo della vita organica divenuto possibile mediante un progressivo raffreddamento. Ai fini di una considerazione più ristretta essa è l’ambiente e la condizione della mia vita quotidiana, tutto ciò che si compie dinanzi ai miei occhi in virtù dell’azione e dello sforzo umano. La filosofia empirica e dialettica cerca di riunire in un unico punto focale queste concezioni. Le necessità della vita, le passioni e le attività della natura umana sono qui e là, nella loro sostanza fondamentale, le stesse. Alla loro generalità si riferiscono anche, ma dapprima senza alcuna determinazione temporale e locale, le discipline razionali che, partendo dal presupposto naturale d’individui (arbitrari) assolutamente separati, di cui ognuno aspira per proprio conto ragionevolmente a una meta, hanno intrapreso a determinare sia i rapporti e i collegamenti ideali tra le loro volontà, sia le modificazioni di date situazioni patrimoniali per effetto di tali contatti nel commercio. La disciplina riguardante le conseguenze formali di tali relazioni è la scienza giuridica pura (il diritto naturale), che può essere paragonata alla geometria; invece la disciplina che studia la loro struttura materiale è l’economia politica, che può essere paragonata alla meccanica astratta. Le loro applicazioni penetrano nelle condizioni delle realtà sociali e si rivelano tanto più fruttuose per la comprensione e la considerazione delle stesse, quanto più gli affari e i rapporti tra gli uomini si sono sviluppati e complicati con la civiltà. Tuttavia quasi tutte le concezioni «organiche» e «storiche» hanno assunto di fronte a esse un atteggiamento negativo. La presente teoria cerca di assimilarle e di mantenersene indipendente. Ma in questo come in ogni altro aspetto, essa ha potuto spiegarsi soltanto in forma di schizzi. Le complicazioni dell’oggetto sono schiaccianti. Certe costruzioni concettuali schematiche devono essere prese in considerazione non tanto per vedere quanto sono corrette, ma piuttosto quanto sono utilizzabili. Ma ciò potrà essere provato soltanto da uno sviluppo futuro, per il quale mi auguro forza e incitamento. Per interpretazioni equivoche e per applicazioni utilitarie che si ritengono intelligenti non mi ritengo responsabile: le persone che non sono abituate al pensiero concettuale devono astenersi dal giudicare in queste cose. Ma questa astensione è, nell’epoca attuale, quasi più improbabile di qualsiasi altra.

Potrei scrivere facilmente un capitolo specifico sulle influenze alle quali devo il progresso delle mie idee. Nella vera e propria scienza sociale esse sono molteplici. Alcuni dei nomi più importanti compaiono in citazioni occasionali: ma voglio anche ricordare che nei miei itinerari sono spesso stato accompagnato dalle grandi opere sociologiche di Auguste Comte e di Herbert Spencer, di cui la prima è debole piuttosto nei fondamenti preistorici e la seconda nella visione storica, presentando poi entrambe l’evoluzione dell’umanità in modo troppo unilaterale, come condizionata immediatamente dal suo progresso intellettuale (anche se Comte è giunto, nella sua opera posteriore, a una concezione più profonda). Voglio inoltre ricordare che io ho seguito e seguo con passione gli energici sforzi di Albert Schäffle e Adolf Wagner e le loro opere, anche se entrambi, a quanto vedo, pur concordando in generale con le profonde intuizioni politiche di Rodbertus, sembrano riconoscere meno di questo l’andamento patologico della società moderna (modificabile soltanto da tutta la buona volontà teorica e legislativa). Non nascondo poi che la mia concezione ha ricevuto le più profonde impressioni, stimolanti, istruttive, confermative, dalle opere – tra loro assai differenti – di tre autori eccellenti:

1) Sir Henry Maine, autore di Ancient Law (London 1861), Village Communities in the East and West (London 1871), Lectures on the Early History of Institutions (London 1875), Dissertations on Early Law and Custom (London 1883), storico del diritto dai più vasti orizzonti: di fronte alle sue analisi luminose si può soltanto deplorare che egli opponga un’ingiustificata resistenza agli enormi contributi portati da J.J. Bachofen (Das Mutterrecht, Stuttgart 1861) fino a L.H. Morgan (Ancient Society, London 1877) e oltre alla storia primitiva della famiglia, della comunità e di tutte le istituzioni (e voglio infatti perdonargli la valutazione ottimistica della situazione moderna);

2) Otto Gierke, autore dell’opera Das deutsche Genossenschaftsrecht (Berlin 1868-81, 3 voll.), e di Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien (Breslau 1880), nonché di parecchi saggi in riviste, la cui dottrina e il cui giudizio destano in me sempre nuova meraviglia e attenzione, per quanto non incontri nelle sue opere quello che è per me il punto di vista più importante (quello economico);

3) Karl Marx, autore di Zur Kritik der politischen Oekonomie e Das Kapital, il cui nome sottolineo tanto più quanto anche da uomini di valore non gli viene perdonata quella che sarebbe la fantasia utopistica, nella cui definitiva vittoria egli ha posto il proprio orgoglio (che il pensatore abbia avuto una parte nei movimenti operai non interessa i suoi critici: se essi lo ritengono immorale, chi si preoccupa della loro immoralità?). L’idea che da parte mia esprimo dicendo che la costituzione naturale e (per noi) passata, ma sempre fondamentale della civiltà, è comunistica, mentre quella attuale e in divenire è socialistica, non è – ritengo – estranea a quegli storici genuini, anche se soltanto lo scopritore del sistema di produzione capitalistico ha potuto enunciarlo e chiarirlo.

In ciò vedo una connessione di fatti che è così naturale come la vita e la morte. Posso rallegrarmi della vita e deprecare la morte: gioia e tristezza passano sopra la visione dei destini divini. Completamente solo rimango per la terminologia e le definizioni. Ciò si comprende facilmente: non esiste individualismo nella storia e nella cultura tranne quello che procede dalla comunità e ne rimane condizionato, o quello che produce e sostiene la società. Questo rapporto opposto del singolo uomo con l’umanità è il puro problema.

Poiché sono consapevole di questa idea come di un’idea mia, non ho da temere in sostanza le critiche a questo libro assai imperfetto. Per il mio personale modo di sentire saranno più interessanti comunicazioni personali di lettori conosciuti o sconosciuti che si trovano toccati o sollecitati in senso simpatetico. Da ciò possono nascere molte cose – per me almeno una ricompensa e un nuovo sprone. Le cose infatti non cambiano, per quanto ci si possa dar pena per la verità: «Tutto ciò che è opinione sulle cose appartiene all’individuo, e noi sappiamo troppo bene che la convinzione dipende non dalla comprensione ma dalla volontà, che nessuno comprende qualcosa se non ciò che gli si confà e che perciò può ammettere. Nel sapere come nell’agire il pregiudizio decide tutto, e il pregiudizio – come bene esprime il suo nome – è un giudizio prima dell’indagine. Un’affermazione o negazione di ciò che corrisponde o non corrisponde alla nostra natura; è un gioioso istinto del nostro essere vivente per il vero come anche per il falso, per tutto ciò che troviamo in armonia con noi»¹.

1 J.W. Goethe, Farbenlehre, in Werke, vol. XXXIII, a cura di R. Steiner, ed. della «Deutsche National-Litteratur», p. 16.

A proposito del secondo libro devo notare che esso, in ordine sistematico, troverebbe meglio il suo posto innanzi al primo. A ragion veduta ho preferito quest’ordine. Essi s’integrano e si spiegano vicendevolmente. In conformità a una promessa devo poi aggiungere che un primo abbozzo di questo lavoro (del quale tuttavia non è quasi rimasta traccia) è stato presentato nell’anno 1881 alla Facoltà filosofica dell’università di Kiel per servire alla mia abilitazione.

Husum, nello Schleswig-Holstein

(scritto a Obermais presso Merano nel febbraio 1887).

Prefazione alla seconda edizione

Il presente lavoro, venuto alla luce venticinque anni or sono, è andato lentamente ma costantemente acquistando un’influenza non irrilevante sulla formazione delle teorie sociologiche nei paesi di lingua tedesca, e anche al di fuori di essi (in Italia, in Danimarca, in Russia, in America); e ciò è accaduto a dispetto di circostanze estremamente sfavorevoli, e anzi ostili. L’opera era destinata ai filosofi. Anche se uomini come Paulsen e Fledding sottolinearono decisamente la sua importanza, anche se perfino Wundt la definì «ricca di pensiero» – espressione con la quale essa venne ancora varie volte qualificata – e anche se, infine, nelle storie della filosofia moderna essa venne stimata degna di menzione e anche di elogio da Überweg-Heinze e da Vorländer (per tacere di minori), la filosofia contemporanea rimase tuttavia in complesso muta nei suoi confronti². Essa non ritenne i concetti qui proposti nemmeno degni di una critica e di un’eventuale stroncatura.

2 La scuola di Marburg, alla quale l’autore era legato da intima simpatia, acquistò risalto nella letteratura filosofica soltanto parecchi anni più tardi.

La ragione più profonda di tale fatto consiste nel suo atteggiamento di fronte ai problemi etici. Certamente i libri di etica non mancano, e proprio i tre alfieri della più moderna considerazione del mondo – dei quali abbiamo citato i nomi – hanno scritto con grande successo libri di questo genere. Questi libri non potevano ignorare né i problemi della vita sociale odierna, né quelli della storia evolutiva dell’umanità; essi li hanno affrontati con tutta serietà. Qui si possono ricordare anche i lavori di R. Eucken e di P. Barth.

Eppure a tutti è noto – ed è noto come un fatto caratteristico – che la sociologia non ha alcun posto nelle università tedesche, neppure come parente povera della filosofia, e che a essa viene vietato l’accesso ai simposi di quella.

Questa conclusione non è dovuta a un’avversione per il nome – anzi il nome viene usato in misura sempre crescente anche dai filosofi – ma piuttosto alla paura della cosa. La filosofia, specialmente la filosofia dominante e accademica, non si sente matura per una trattazione fondamentale e radicale di questi problemi. E alla radice di questo sentimento vi sono cause ben più che accidentali. La filosofia moderna è cresciuta insieme alla scienza della natura e modellandosi su di essa. Ancora duecento anni fa dominava, in tutte le università d’Europa, la filosofia della natura aristotelico-scolastica, con la teologia morale, la filosofia teologica del diritto e la dottrina sociale teologica da essa derivanti. Il secolo XVIII – almeno nella Germania protestante – e la Rivoluzione in Francia recarono a una modernizzazione; le scuole superiori seguirono il movimento borghese e il suo progresso politico.

Anche la filosofia che si richiamava alla conoscenza meccanicistica della natura possedeva una filosofia del diritto e una teoria sociale, e anzi queste rappresentavano per essa i campi principali dell’etica. E la tendenza di questa filosofia «pratica» era necessariamente anti-teologica, anti-feudale, anti-medievale; essa era individualistica e perciò (secondo i miei concetti) sociale.

I suoi grandi prodotti, che storicamente hanno fatto epoca, sono il diritto naturale (razionalistico, e così denominato in modo specifico) e l’economia politica fisiocratica, che è con esso intimamente e profondamente connessa – come è stato estesamente dimostrato da W. Hasbach – e che continua nella scuola inglese «classica». Nella prefazione alla prima edizione di questo libro avevo paragonato il primo alla geometria e la seconda alla meccanica astratta.

Diritto naturale ed economia politica collaborarono potentemente alla formazione della società che si andava sviluppando e affermando, e così pure alla formazione dello stato moderno, che si andava pure esso sviluppando e affermando. Entrambi gli sviluppi avvennero sotto il segno della rivoluzione – la grande Rivoluzione francese che distrusse anche il Sacro Romano Impero, e le piccole rivoluzioni che seguirono durante il secolo XIX in Francia e in Germania (qui in parte a opera della monarchia prussiana, che era in origine, e per energia, rivoluzionaria). Queste rivoluzioni diedero impulsi potenti sia al capitale che alla legislazione, la quale si sviluppò dapprima essenzialmente per favorirlo.

Ma tutte le rivoluzioni provocano vigorosi movimenti contrari. Le restaurazioni e le tendenze reazionarie seguono con evidente necessità le loro scosse.

La «restaurazione delle scienze dello stato» – per comprendere sotto questo titolo famoso anche la scuola storica del diritto – volle dare il colpo di grazia al diritto naturale, e soprattutto alla costruzione individualistica razionale dello stato (propria delle teorie contrattuali). Ciò è riuscito, specialmente per quanto riguarda il seguito «accademico» di tali dottrine – almeno in Germania; infatti in Inghilterra la teoria della legislazione e la giurisprudenza analitica di Bentham e di Austin si riallacciavano consapevolmente piuttosto a Thomas Hobbes. Nei paesi latini, in Russia, in America, il diritto naturale rimase più o meno in vigore come una filosofia liberale del diritto.

Ma anche in Germania la filosofia del diritto – per quanto sia passata in secondo piano come disciplina di scuola superiore – non è stata completamente trascurata. Come la scuola storica – che era stata introdotta dallo scettico Hugo e dal cattolico Savigny – così anche il sistema protestante-conservatore dell’ebreo Stahl si riallacciava, attraverso Savigny, alla filosofia panteistica della natura, divenuta sempre più fantastica, di Schelling. Pur essa panteistica, ma caratterizzata maggiormente da tendenze umanitarie, cosmopolitiche e massoniche, era anche la filosofia del diritto di Krause e del suo fortunato discepolo Ahrens.

Ma molto prima, e con forza molto maggiore, aveva agito come prosecuzione e rielaborazione di idee schellinghiane la filosofia di Hegel, la quale vuole sviluppare nel diritto naturale (a partire dal 1820) l’essenza dello spirito oggettivo che, muovendo dalla libera volontà, ripone nel diritto il suo oggetto astratto e si eleva all’eticità, la cui idea giunge a realizzarsi nello stato.

L’aspetto significativo di questo sistema consiste nel fatto che esso intraprese a concepire anche, e anzi prevalentemente, le moderne formazioni sociali – società e stato – come spirituali-naturali, cioè a dimostrarne la necessità, in luogo di considerarle semplicemente fondate su aberrazioni teoriche – come era essenziale al Romanticismo e alla giurisprudenza storica, e così a ogni pensiero restauratorio e reazionario. Nel mondo concettuale hegeliano – nonostante il riferimento alla «storia universale» – è invece eliminata ogni conoscenza storica, e così pure ogni teoria del rapporto reale tra volontà individuale e cerchie sociali. La filosofia del diritto hegeliana è non soltanto rappresentazione, ma addirittura glorificazione dello stato; e lo stato – che realizza l’idea etica – è per essa lo stato reale, lo stato prussiano dell’epoca della Restaurazione, che pure non può negare del tutto il suo passato radicale. Equivoca come questo assolutismo conservatore è la dottrina hegeliana dello stato; e la sua equivocità si rivelò nella scuola. La sinistra hegeliana portò dal liberalismo assolutistico al liberalismo democratico e oltre, ma rimase priva di valore accademico.

Così il tramonto della filosofia hegeliana procede di pari passo con il superamento del concetto di stato dell’antica Prussia, ammantato delle vesti della Confederazione tedesca di impronta conservatrice, a opera dell’idea, fino allora da esso aborrita, dell’unità tedesca. Ma questa si compì tuttavia in una forma tale – paradossalmente come tanti processi storici – che proprio quel concetto prussiano di stato diventò un suo potente strumento.

In quest’epoca la filosofia perse la potenza che aveva posseduto di guida spirituale ed etico-politica della nazione tedesca.

Il suo destino fu il destino di un liberalismo che, con l’aggettivo «nazionale», esprimeva indirettamente il fatto che in fondo esso si subordinava e si riteneva chiamato non tanto alla direzione di elementi radicali quanto all’adattamento a elementi reazionari.

Questo modo di pensare mantenne un certo contatto soltanto con l’Illuminismo delle scienze naturali; ma anche questo contatto rimase soltanto nel senso che esso si sottrasse timoroso ai conflitti con la coscienza ecclesiastica, specialmente da quando (a partire dall’anno 1878) si era abbandonato il Kulturkampf ed era stato accettato nella confessione nazionale un atteggiamento tollerante e amichevole perfino di fronte alla Chiesa cattolica.

Le connessioni più profonde con lo sviluppo sociale complessivo sono facilmente riconoscibili. In continua azione reciproca con i paesi vicini, la Francia e l’Inghilterra, si era iniziato anche in Germania, dal 1840, lo sviluppo della grande industria; il movimento operaio e, dietro di esso, le dottrine socialistico-comuniste bussavano alle porte.

Anche alle porte delle scuole superiori. L’economia nazionale era, nel suo carattere prevalente, una dottrina di politica pratica. Essa aveva influito decisamente nel senso del capitalismo e della libera concorrenza: sulla sua bandiera sventolava il laissez faire. L’erudizione tedesca tentò certamente di darle un carattere storico; e ciò concorse appunto a rompere la dogmatica del «manchesterismo». Motivi etici parlavano fortemente in favore della classe operaia in lotta. Comparve sulla scena il socialismo della cattedra: se non fu esso a darsi questo nome, poteva però già pretendere di adottarlo. L’economia politica, che già prima in Inghilterra – sotto l’appassionata eloquenza di Carlyle e le accuse a sfondo etico-estetico di Ruskin – si era attirata l’odio del materialismo, si ammantò ora della veste dell’idealismo tedesco, che ritiene in primo luogo necessario fare appello ai doveri delle classi possidenti.

Tra gli uomini che creavano così una nuova coscienza politico-sociale vi erano in primissima linea eruditi quali Schmoller, Brentano, Knapp, ognuno operante in senso diverso. L’esigenza di un rigore di principio e di generalizzazioni sistematiche a proposito della grande antitesi tra socialismo e capitalismo (o individualismo) fu fatta valere con importanti successi da Adolf Wagner e da Albert Schäffle: da Wagner, che nella sua Grundlegung der politischen Oekonomie (Leipzig 1876, vol. I) diventò, sotto l’influenza di un autentico socialista (Rodbertus), il patrocinatore dell’estensione dell’attività statale e della teoria legale in rapporto a ogni proprietà privata, nonché dei diritti dei concetti dell’economia politica nei confronti di quelli dell’economia privata; da Schäffle, che con analogo spirito, ma con pretese filosofiche ancora maggiori, si propose di descrivere la struttura e la vita del corpo sociale, avvicinandosi a Herbert Spencer nella concezione «organicistica» della sociologia (e in effetti fortemente stimolato da lui), ma caldeggiando da parte sua piuttosto l’universalismo amministrativo – mentre Spencer giungeva piuttosto al postulato del nichilismo amministrativo. Entrambi considerano però gli sviluppi della civiltà alla luce dello sviluppo della vita, e quindi della teoria della discendenza, traendo conclusioni che, per quanto incontestabili possano essere nei loro elementi, finiscono ben presto sul terreno sdrucciolevole della congettura tra timore e speranza. Invece Auguste Comte aveva inteso positivizzare e quindi fondare la sociologia nel senso che egli voleva introdurre, per mezzo della teoria definitiva e giusta, l’ordinamento definitivo e giusto della vita sociale – in conformità a una legge di sviluppo, ma soltanto di sviluppo del pensiero umano, secondo la legge dei tre stadi. In ciò è innegabile una certa relazione con la dialettica hegeliana; e l’idea di una sintesi creativa negli orientamenti pratici caratterizza in generale le tendenze di pensiero progressive del secolo XIX.

La concezione di uno sviluppo della civiltà dallo stato selvaggio e dalla barbarie, cioè dello sviluppo degli uomini da condizioni quasi-animali, era stata condivisa, fin dal secolo XVII, da tutti i pensatori illuminati, prendendo il posto della credenza nelle origini e delle meraviglie paradisiache. Essa era stata oscurata dalla Restaurazione e dal Romanticismo, e dovette essere riconquistata ex novo dal darwinismo; ma nella sua essenza essa non è tanto l’applicazione di una dottrina dello sviluppo biologico, bensì questa è piuttosto una generalizzazione di quella. In Hegel come in Comte tale indipendenza sostanziale è ancora chiaramente evidente.

Ciò che contraddistingue Comte è il fatto che egli, sotto la potente influenza di Saint-Simon, assunse una posizione critica di fronte al progresso, all’età moderna e al liberalismo. Questo fu anche l’atteggiamento dei Romantici, cioè dei sostenitori della tradizione, del Medioevo e dell’autorità. Ma Saint-Simon e Comte assumono questa posizione sul terreno stesso del progresso, cioè sul terreno dell’età moderna e del liberalismo. Senza voler ritornare alla fede e al feudalesimo, essi riconoscono tuttavia il prevalere di un ordine positivo e organico nel Medioevo, e riconoscono pure il carattere essenzialmente negativo e rivoluzionario dell’età moderna, senza tuttavia negare la scienza, l’Illuminismo e la libertà, ma al contrario affermandoli e accentuandoli con forza ancora maggiore.

Tale è anche la posizione obbligata della teoria socialista di fronte ai problemi della civiltà. Teoria socialista non significa qui una teoria che pronuncia determinati giudizi di valore (sul capitalismo, sulla proprietà privata, sul proletariato) e che postula una determinata politica o addirittura un intero ordinamento della società: con tale espressione si vuole soltanto indicare una teoria che non accetta senz’altro i giudizi di valore involutivi, e ritenuti evidenti, del liberalismo e quindi dell’opinione filosofico-sociale dominante, ma che si pone al di fuori e al di sopra dell’antitesi a cui questa opinione rimane ingenuamente ferma.

La teoria assume un atteggiamento critico – cioè in primo luogo riconosce, contempla e osserva teoricamente le cose e il loro sviluppo.

In ciò consiste il significato duraturo della «critica dell’economia politica»: infatti l’economia politica nella sua forma classica, che si conserva attraverso le modificazioni storico-etiche, intendeva naturalmente rappresentare e creare la costituzione sociale normale, sulla base della libertà e dell’eguaglianza personale degli individui, sulla base dei diritti acquisiti e quindi della illimitata diseguaglianza del patrimonio, sulla base della scissione della società nella classe dei proprietari e in quella del proletariato.

Di fronte a questo presupposto sono di fondamentale importanza le considerazioni seguenti:

1) che la civiltà nel suo grande complesso è finora esistita e fiorita senza queste condizioni addotte come normali – per esempio le ferrovie, i telegrafi e le macchine – mentre una qualche proprietà comune del popolo, almeno sul suolo, e inoltre la proprietà privata dei lavoratori industriali sui loro strumenti di produzione, hanno storicamente sempre rappresentato la regola, e ancora la rappresentano in larga misura;

2) che anche «la società attuale non è un cristallo stabilizzato, ma un organismo capace di trasformarsi e costantemente soggetto a un processo di trasformazione»³.

3 K. Marx, Das Kapital, prefazione alla 1^a edizione (25 luglio 1867).

Un elemento necessario del «socialismo scientifico» è inoltre costituito dalla concezione che i fattori propulsivi dei movimenti sociali non sono in primo luogo rapporti politici, né tanto meno correnti spirituali – di carattere scientifico, artistico, etico – per quanto fortemente queste possano contribuirvi, ma sono invece i grandi bisogni materiali, i moti e i sentimenti della vita economica «quotidiana», che si configurano diversamente a seconda delle condizioni di vita sociale, cioè nei diversi strati o classi, e che questa variabile relativamente indipendente influenza in modo determinante anche i rapporti politici e le correnti spirituali, dalle cui reazioni essa viene a sua volta continuamente favorita ma anche frenata, e in ogni caso notevolmente modificata.

Nella direzione descritta al primo punto erano sempre più confluite tutte le ricerche sociologico-etnologiche («da Bachofen fino a Morgan», come si esprimeva nel 1887 la prefazione di questo libro), ma erano confluiti inoltre anche i fiumi e i rigagnoli della storia economica e giuridica. Perciò rivolsi la mia attenzione ansiosa alle vivide lezioni di Sir Henry Maine, e mi trovai infinitamente arricchito dal Genossenschaftsrecht di Gierke – un’opera che, per comprendere gli istituti giuridici e per dimostrare la stretta connessione esistente tra la vita giuridica e l’intera vita civile, ha fatto oggetto delle sue dotte e profonde meditazioni non soltanto l’aspetto giuridico, ma anche quello storico-culturale, economico, sociale ed etico della «consociazione».

Ancora più da vicino veniva a toccare i miei studi specifici l’Althusius dello stesso autore (1880), con le sue considerazioni sulle teorie giusnaturalistiche dello stato. Infatti io ero partito da Hobbes, la cui biografia e filosofia avevo pazientemente studiato dal 1877 al 1882. Avendo ammirato con Paulsen – al quale dovevo l’incitamento – e con tutti i conoscitori di quel grande pensatore l’energia e la consequenzialità della sua costruzione dello stato, e avendo potuto seguire le potenti influenze del suo pensiero fino al secolo XIX (in Inghilterra come in Germania, in Francia, in Italia), tanto più doveva meravigliarmi il tramonto di questa filosofia razionalistica e individualistica del diritto, che nel secolo XVIII appariva come una vetta della considerazione del mondo. Si possono veramente considerare inutili e insensate dottrine il cui nucleo continuava a essere giusto per uomini come Kant, Fichte e Feuerbach – dottrine che erano divenute fondamentali per tutta la legislazione moderna, per la liberazione dei contadini e per la libertà dell’industria, in virtù della loro azione sull’economia politica e sull’intera amministrazione statale interna, e che dall’altra parte stanno alla base anche di quelli che in Inghilterra, e a partire dall’Inghilterra, rappresentano i teoremi così influenti di Bentham?

Nello spazio vuoto che si era creato con il tramonto del giusnaturalismo e della sua dottrina dello stato avevano fatto la loro apparizione la giurisprudenza storica, la dottrina organica dello stato e un brancolante eclettismo, nel cui ambito l’elemento teologico riaffiorava di continuo, come il più sicuro di sé e del plauso dei potenti.

La fondazione teologica del diritto e dei gruppi sociali è storicamente di grande importanza, ma diventa oggetto di considerazione da parte del pensiero scientifico solamente in quanto questo deve superarla. La concezione puramente storica è priva di concetto, e quindi non è conoscenza filosofica. Una teoria discutibile è rappresentata dalla dottrina, in origine connessa a motivi teologici, della natura «organica» del diritto, dello stato ecc. In tempi recenti essa ha fatto la sua riapparizione, in parte – come si è già accennato – in connessione con la filosofia della natura, con la quale anche la teologia fa di nuovo valere la sua parentela (Stahl), e in parte nella nuova veste dell’analogia biologica, che è fondata poi su una reciprocità: la biologia vuol spiegare e chiarire l’organismo naturale mediante un paragone con i fatti della vita sociale, mentre la sociologia vuol spiegare il corpo «sociale» col procedimento inverso.

Che una serie di analogie di questo genere siano realmente fondate non l’ho mai messo in dubbio. Esse riposano sui fenomeni generali e comuni della vita come unità del molteplice, come azione reciproca delle parti tra loro e con il tutto di cui sono parti, cioè sulle tendenze che riconosciamo e definiamo da un lato come differenziazione di organi e funzioni, e dall’altro (anche nella fisiologia) come divisione del lavoro.

Non riesco invece a scorgere un senso nell’affermazione per cui lo stato, il comune o qualsiasi consociazione umana «sarebbe» un organismo, anche se proprio Gierke la sostiene sempre con tutto il peso del suo idealismo – ancora nel bel discorso dal titolo Das Wesen der menschlichen Verbände (Berlin 1902). L’esperienza esterna e interna indurrebbe ad ammettere unità di gruppo attive; una parte degli impulsi che determinano il nostro agire proverrebbe dalle comunità che pervadono la nostra esistenza; la certezza della realtà del nostro io si estenderebbe anche al fatto che noi siamo unità parziali di unità vitali superiori, anche se non troviamo queste ultime nella nostra coscienza e possiamo dedurle soltanto per via mediata dagli effetti della comunità in noi, nonché al fatto che le unità sociali sono di natura corporeo-spirituale. Ne risulterebbe così il diritto dei gruppi a costituire un ordinamento di vita per gli esseri viventi sociali e – in qualità di ramo principale di questo diritto – il diritto sociale fondato sui concetti giuridici di costituzione, di partecipazione, di persona giuridica, di organo, e infine di atto di volontà libero che darebbe vita a una persona collettiva e che costituirebbe non già un contratto, bensì un atto creativo.

Qui si sostiene invece una distinzione più rigorosa tra i gruppi naturali, la cui importanza per la vita sociale è senza dubbio eminente, e le unità culturali o artificiali, anche se queste possono derivare da quelli.

Naturalmente, anche quelle entità sono presenti nella nostra «coscienza» e per la nostra coscienza, però non essenzialmente mediante la nostra coscienza, come i rapporti e le relazioni propriamente e veramente sociali. Infatti considero come fondamentale per la sociologia il riconoscimento che, al di fuori delle possibili unità e connessioni reali degli uomini, ne esistono altre che sono poste e condizionate essenzialmente dalla loro stessa volontà, e che quindi hanno carattere essenzialmente ideale. Esse devono essere concepite come create o fatte dagli uomini, anche se hanno acquistato effettivamente un potere oggettivo sugli individui, il quale è e significa sempre il potere di volontà associate su volontà individuali.

Il grande significato del giusnaturalismo razionale consiste perciò nel fatto di aver cercato di comprendere antropologicamente le essenze, fino allora concepite in termini prevalentemente teologici, e di aver spiegato le forme apparentemente soprassensibili come creature del pensiero e del valore umano.

Tuttavia non ho dubitato che questa non fosse una spiegazione valida in generale. La scuola storica del diritto – che trovò nel diritto consuetudinario il proprio beniamino, e che si richiamò al sentimento del diritto e alle forze sotterranee dello spirito del popolo – acquistò molte nuove conferme in virtù dei crescenti studi sul comunismo agrario primitivo, con i quali, dopo von Maurer e Haxthausen, proprio allora si presentava con visione d’insieme tra gli altri E.V.L. De Lavaleye (la sua opera De la propriété et de ses formes primitives, Paris 1877, venne tradotta e integrata da K. Bücher nel 1879, col titolo Das Ureigentum), e in virtù anche dell’analisi dei diritti del clan e della famiglia, i cui caratteri fondamentali venivano illustrati nelle loro analogie e nelle loro differenze dalla scienza del diritto comparato. E soprattutto vennero in luce più da vicino gli elementi delle istituzioni ariane: le belle opere di A. Leist scavarono a fondo, con mio diletto, in questo campo. Già prima aveva prodotto su di me non poca impressione il volume dell’australiano W.E. Hearn, The Aryan Household (London 1879) – da cui, dietro mio suggerimento, F. Paulsen attinse qualcosa per il suo System der Ethik (Berlin 1889). Anche i lavori di A.E. Post mi furono utili, mentre gli Asiatic Studies di A. Lyall (London 1882) mi introdussero nella vita, ancor oggi attuale, dei clan indiani, fornendomi chiarimenti sulle relazioni tra stato e religione in Cina. A ciò si aggiunse la profonda impressione suscitata in me dalla Cité antique di A. Fustel De Coulanges (Paris 1894), dal Mutterrecht di Bachofen, da Ancient Society di Morgan, e via dicendo.

Grazie a tutte queste opere si è venuta approfondendo e perfezionando l’analisi dei caratteri distintivi della società moderna e dello stato moderno – i cui concetti erano stati presentati come forniti di validità assoluta nell’importante dottrina di Lorenz von Stein. A ciò si aggiunse la nuova teoria della società che R. von Jhering aveva abbozzato nella sua opera Zweck im Recht, rimasta purtroppo allo stato di frammento (il primo volume apparve nel 1877), seguendo sempre un procedimento del tutto razionalistico. La sua dottrina mi apparve perciò come un «rinnovamento del giusnaturalismo»; e così pure interpretai anche le profonde considerazioni di filosofia del diritto formulate da A. Wagner nella sua Grundlegung der politischen Oekonomie (Leipzig 1876, vol. I) – nonostante le sue tendenze verso un socialismo di stato (e anzi a causa di queste). Già allora condividevo questo indirizzo pratico, ma la costruzione teorica non mi appariva soddisfacente in tutti i suoi aspetti.

L’idea di questo lavoro maturò dapprima quando nel 1880 incontrai, nell’Ancient Law di Maine, il passo che è stato tradotto in tedesco in quest’opera. Si può concepire il contratto, quale tipico negozio giuridico, come caratteristico al tempo stesso di tutti i rapporti giuridici razionali, e questi a loro volta come espressioni convalidate di tutti i rapporti sociali razionali – e in tal senso anche «la» società e lo stato saranno di conseguenza concepiti come fondati su contratti degli individui, e questi come fondati sulla loro volontà libera e consapevole. Ma non è assolutamente possibile costruire tutti i rapporti e le associazioni giuridiche secondo questa formula; proprio i rapporti originari che perpetuano la loro azione, cioè i rapporti familiari, le sfuggono. Sono essi soltanto rapporti coercitivi, come apparivano a Herbert Spencer? Evidentemente no. Anch’essi vengono affermati, in base ad una volontà libera, sia pure in maniera diversa rispetto ai rapporti e alle stipulazioni che vengono concepiti chiaramente e esplicitamente come mezzi per gli scopi (concorrenti e convergenti) degli individui. In quale maniera? Questo era precisamente il mio problema.

Appunto di qui è sorto il teorema della distinzione tra comunità e società e – inseparabile da questo – il teorema della distinzione tra volontà essenziale e arbitrio. Essi costituiscono due tipi di rapporti sociali – due tipi di configurazione della volontà individuale – da comprendere però da un unico punto di vista, cioè in base al rapporto tra un tutto e le sue parti, all’antica antitesi aristotelica dell’organismo e dell’artefatto – dove però l’artefatto deve essere inteso come fornito di un’essenza più o meno simile all’aggregato organico o a quello meccanico. Tutte le formazioni sociali sono artefatti di sostanza psichica; il loro concetto sociologico deve perciò essere nello stesso tempo un concetto psicologico.

H. Höffding – egli stesso incline come psicologo alla sociologia, e attratto verso di essa dall’etica e dalla filosofia della religione – scrisse che quest’opera congiungeva in modo caratteristico sociologia e psicologia, mostrando come lo sviluppo sociale sia necessariamente connesso con un corrispondente sviluppo delle facoltà spirituali umane e abbia in questo il suo riscontro⁴.

4Mindre Arbejder, Kjobenhavn 1899, p. 144.

W. Wundt – che pure ha giudicato degni di menzione questiconcetti – ritiene che la mia differenziazione delle forme di volontà «potrebbe corrispondere a quella più corrente tra volontà o scelta semplice o istintiva e volontà o scelta complessa»⁵. A ciò io ho risposto nell’«Archiv für systematische Philosophie» (IV, 1899, pp. 487-8) nel modo seguente: «Il volere istintivo è per me soltanto la forma embrionale della ‘volontà essenziale’; a questo non soltanto ‘appartiene’ il volere complesso dei tipi più complicati, ma in questi tipi essa dispiega e anzi realizza veramente la sua essenza come volontà umana. Infatti non ho mai chiamato gli ‘istinti naturali’ degli uomini la loro volontà, ma concepisco invece la volontà sempre come appetitus rationalis – intendendo però come appetitus non tanto l’aspirazione (o l’avversione) a fare qualcosa, bensì il rapporto positivo o negativo con il non-io, che sta alla sua base, e che diviene volontà essenziale soltanto in virtù dell’accompagnamento e della cooperazione del pensiero. Io affermo che la volontà essenziale si realizza soltanto nella volontà complessa [...] così infatti concepisco l’intero mondo ideale dell’uomo che crea, dell’artista o del genio etico, in quanto espressione della sua volontà essenziale, ma anche ogni azione libera in quanto procedente dalle direzioni essenziali del suo spirito, del suo animo o della sua coscienza. Perciò come volontà essenziale determinata socialmente e come comunità intendo e separo ciò che Hegel chiama la sostanza concreta dello spirito del popolo, qualcosa che si eleva a tal punto al di sopra degli ‘istinti sociali’ da determinare e da sorreggere l’intera civiltà di un popolo» (in tale risposta si possono trovare anche altre osservazioni in omaggio al maestro della filosofia tedesca). La corretta impostazione del problema viene anche riconosciuta nella Geschichte der Erziehung di P. Barth (Leipzig, 1911, p. 40), dove nell’introduzione si tratta dell’essenza della sociologia e del suo rapporto con la pedagogia.

5Logik, Stuttgart, 2^a ediz., 1895, vol. II, p. 599 (invariato nella 3^a ediz., 1906-8).

La scienza dell’economia politica vive in complesso un’esistenza separata dalla filosofia; e tuttavia ha sempre cercato un rapporto con essa, dichiarando spesso e vivacemente il suo desiderio di fondazione filosofica. Nei venticinque anni che sono trascorsi dalla pubblicazione di questo lavoro ciò è emerso più decisamente di prima. La sociologia pura è stata a poco a poco elevata al rango di una specie di scienza ausiliaria dell’economia politica. Questo fatto ha trovato la sua documentazione esteriore nella fondazione di società sociologiche (recentemente anche in Germania) di cui facevano parte in primo luogo economisti.

I concetti della vita sociale qui presentati potevano – per quanto assolutamente nuovi nella loro formulazione – apparire non del tutto estranei all’economia politica. Essi erano stati preparati dalle antitesi tra economia naturale ed economia monetaria e da alcuni concetti connessi. I due maggiori esponenti della scienza economica tedesca, Schmoller e Wagner, hanno fatto i conti decisamente con questo lavoro, dai loro punti di vista metodologici così distanti. Il razionalismo e la meccanizzazione razionale della produzione, e anzi del «mondo», sono stati in misura sempre maggiore riconosciuti ed elaborati spesso in studi notevoli, come caratteri distintivi dell’intera epoca moderna.

Delle strane esperienze che l’autore dovette fare in queste circostanze si dovrà forse parlare in altra sede. Egli può però ricordare con soddisfazione la crescente attenzione di cui questo lavoro è stato fatto oggetto durante gli ultimi dodici anni. Quando Werner Sombart lo ha definito libro «che fa epoca» e Franz Eulenburg «opera profonda», quando il sociologo russo David Koigen ha parlato di un «classico trattato», si è trattato di riconoscimenti che rendevano l’autore tanto più consapevole dei difetti del libro. Ed egli avrebbe desiderato essere in grado di ovviare a questi difetti in modo più radicale di quanto non sia avvenuto nella presente riedizione. In ogni caso si tratta di testimonianze che, in unione alle precedenti, possono incoraggiare l’autore a dare ancora una volta alle stampe il libro. Nel far ciò, senza voler toccare il nucleo e il contenuto dell’opera, egli si è sforzato di migliorare molti singoli punti, sia pure di solito soltanto nell’espressione e nello stile; non poche righe sono state soppresse, mentre sono state fatte parecchie aggiunte. Queste aggiunte, che contengono anche nuovi elementi di pensiero, sono state contraddistinte come aggiunta 1911 o aggiunta 1912. Che tuttavia nel libro rimangano e siano dovute rimanere alcune cose che l’autore oggi non scriverebbe in quel modo, sarà facilmente comprensibile a chiunque volga indietro lo sguardo a una lunga esperienza di scrittore.

Se il libro ha avuto un riconoscimento da parte di autori eccellenti, è stato anche deliberatamente ignorato, e passato onestamente (ma anche disonestamente) sotto totale silenzio da altri. Tanto più va sottolineato lo speciale merito che August Baltzer si è da tempo acquistato con una piccola monografia sull’opera e quindi sull’autore (Ferdinand Tönnies: Gemeinschaft und Gesellschaft, Berlin 1890), nata da una conoscenza precisa e da una corretta comprensione. Con riconoscenza si menziona anche l’aiuto ora prestato dal dr. Marcard e dal dr. Gerlach nella preparazione dell’indice.

Libro primo. Determinazione generale dei concetti principali

Deus ordinem saeculorum tanquam

pulcherrimum carmen ex quibusdam

quasi antithesis honestavit.

Agostino, De civitate Dei, XI, 18

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