John Coltrane
Ho scoperto il jazz attraverso «My Favourite Things» di Coltrane, ma raramente ho
trovato melodie così orecchiabili nel suo repertorio. Perché?
[Chiara, 39 anni, attrice]
John Coltrane è responsabile di una delle maggiori evoluzioni e rivoluzioni musicali
del jazz di tutti i tempi, paragonabile a quella compiuta da Armstrong per il jazz
della tradizione e da Parker per quello moderno, ma ci mette molto tempo ad affinare
la sua tecnica e a realizzare quell’evoluzione artistica che gli permetterà di rivoluzionare
la scena della sua epoca.
Inizia con il sax alto, che abbandonerà nel 1947. Chi lo ascoltò all’epoca afferma
che il suo modello era Parker. Coltrane riconosce, in primis, l’influenza di Lester Young e valuta come meno invasiva quella di Coleman Hawkins.
Infatti, come tutti i sassofonisti della sua epoca, studiò a memoria il suo assolo
su Body And Soul.
La sua carriera iniziale non fa presagire niente di significativo, un po’ a causa
dei limiti tecnici del suo fraseggio e un po’ per la tossicodipendenza, che lo rallenterà
parecchio nell’evoluzione.
Nat Hentoff in un articolo racconta che agli inizi della sua carriera lo incontrò
inebetito, a vagare in un parco, con una bottiglia in mano, perso nei fumi dell’alcol
e «fatto» di droga.
L’apprendistato che egli svolge nel rhythm & blues è dimenticabile, visto il tipo
di musica banale e ripetitiva che è costretto a suonare. Solo quando, nel 1948, incontra
a Philadelphia James Heath, valente collega sassofonista, e attraverso di lui entra
nell’orchestra di Dizzy Gillespie, può cominciare seriamente la sua carriera. Con
Gillespie acquisisce quell’amor proprio e quell’autostima che gli permetteranno di
evolvere il suo stile. Infatti proprio per l’ottimo lavoro svolto in quell’orchestra
Gillespie lo richiamerà nel 1950 a far parte di un gruppo più piccolo, sempre accanto
all’amico Jimmy Heath.
Seguirà una collaborazione con Earl Bostic, un celebre sassofonista di rhythm & blues
dotato di una tecnica sopraffina, che insegnerà a Coltrane importanti elementi tecnici
che contribuiranno alla sua crescita artistica. Bostic utilizza tecniche di diteggiatura
particolare sul sassofono, «trucchi» spettacolari che divertono ed eccitano il pubblico.
Coltrane li apprende e li trasferirà nella sua musica successiva.
Un’altra collaborazione che Coltrane annovera fra le più importanti è quella con il
sassofonista Johnny Hodges e sarà attraverso di lui che avrà modo di approfondire
lo studio della tradizione e la conoscenza del repertorio del jazz classico.
Coltrane inizia a farsi notare nell’ambiente. Miles Davis lo chiama a far parte del
suo nuovo quintetto, che annovererà altri tre giovani talenti che faranno molto parlare
di loro. Il primo è Red Garland, al piano, inventore della tecnica a «block chords»,
in cui la linea melodica è sostenuta da blocchi di accordi conseguenti, influenzerà
molti importanti pianisti hard bop come Elmo Hope, Phineas Newborn, Wynton Kelly,
Joseph Zawinul, Junior Mance, Bobby Timmons e il giovane Herbie Hancock. Il secondo
è Paul Chambers, contrabbassista virtuoso dotato di una meravigliosa fluidità di fraseggio,
che è l’evoluzione di Jimmy Blanton e introdurrà nel jazz moderno l’archetto. Il terzo
è Philly Joe Jones, il batterista hard bop per antonomasia, possente e dinamico.
Dal 1955 al 1957 il quintetto avrà un grande successo. I dischi prodotti nel 1956,
Workin’, Steamin’, Relaxin’ e Cookin’, sono ormai entrati nella storia della musica moderna, anche se molti critici sostengono
che in questi dischi Coltrane non fosse ancora giunto alla piena maturità.
Dal 1957, Coltrane inizierà a realizzare i primi dischi a suo nome e molteplici collaborazioni.
Questa rinascita è dovuta al suo affrancamento definitivo dalle droghe pesanti.
Con Monk, Coltrane realizza un disco per la Riverside che dà il via alla loro collaborazione
e, con altri musicisti, incide The First Trane, il suo primo disco da leader. Monk rappresenta per Coltrane una vera guida spirituale:
lo «libera» e lo spinge a impiegare tutte le note che Trane sente ma non osa suonare,
quei suoni «alternativi» che non osa sperimentare.
Coltrane reputa inadeguato il suo livello di conoscenza dello strumento e studia continuamente,
persino quando è steso sul letto. Anche Davis riferisce in molte interviste che in
quel periodo il sassofonista non smette mai di suonare, prima, durante, e dopo il
concerto.
Attraverso questo studio intensissimo, Coltrane riesce a sciogliere con successo tutti
quei nodi che gli impediscono di esprimersi al meglio.
I risultati del suo sodalizio con Monk, importantissimo nella storia del jazz, possono
essere rintracciati in dischi come Thelonious Monk Quartet With John Coltrane At Carnegie Hall.
Nel 1957, per Alfred Lion e la sua Blue Note, Coltrane realizza Blue Train, uno dei suoi dischi più popolari con un sestetto formidabile. In esso spicca il
trombettista Lee Morgan, che neanche ventenne e appena uscito dalla band di Gillespie
esprime uno stile nuovo, funkeggiante e denso di umori blues, che verrà ripreso da
Freddie Hubbard, Charles Tolliver, Woody Shaw, e da tutti i trombettisti successivi
fino ad oggi. Blue Train, che va considerato fra i capolavori assoluti del jazz moderno, costituisce una delle
massime rappresentazioni dell’hard bop e, in un’intervista radiofonica, il sassofonista
lo annovera fra i suoi dischi migliori.
Il bellissimo Moment’s Notice, con i suoi cambi armonici originalissimi, prepara la strada a quel Giant Steps, che rappresenterà il punto massimo del rapporto di Coltrane con l’armonia accordale
e con la progressiva demolizione della stessa, che lo porterà verso il free jazz.
Segue l’incisione di Lush Life, in cui Coltrane comincia a delineare il suo stile inconfondibile nelle ballad. Ma
è nel 1958, quando Miles Davis aprirà una pagina nuova del jazz con il jazz modale,
che Coltrane inizierà veramente a trovare il linguaggio della sua maturità.
Il cambio verso il jazz modale era nell’aria; molti musicisti stavano cominciando
ad esplorare questo nuovo modo anche attraverso ricerche su musiche etniche extraeuropee
ed extramericane. Yusef Lateef, sassofonista, è uno dei precursori di questa ricerca
e in dischi come Eastern Sounds sperimenta per primo l’utilizzo di flauti mutuati da tradizioni etniche extramericane.
La musica definita come modale è la forma più antica di espressione musicale dell’uomo
e in origine è un’unica scala che non ha l’obbligo della modulazione, la quale invece
è alla base dei cambi di accordo che si utilizzano, nella musica classica antica e
moderna, nelle canzoni popolari o nei brani jazz. L’armonia che segue la melodia di
una canzone popolare ha concatenazioni sempre diverse di accordi modulanti in tonalità
vicine a quella di base, alla quale alla fine fa sempre ritorno.
Il primo a raccogliere informazioni su questo nuovo sistema e a organizzarle è George
Russell, che le sintetizza in un testo fondamentale per la musica del Novecento: Lydian Chromatic Concept Of Tonal Organization, del 1954.
La ricerca di nuove teorizzazioni tecnico-musicali, che aprissero spazi inesplorati,
sembra essere stato uno degli obiettivi primari dei compositori di matrice classica
europea del Novecento. Arnold Schönberg teorizza la dodecafonia per ampliare le possibilità
di composizione. Così anche Paul Hindemith, che inventa una sua teoria originale per
la composizione attraverso la pubblicazione del saggio The Craft Of Musical Composition del 1937 e ascoltabile in forma applicata nella sua composizione Ludus Tonalis del 1942. Da questo autore (che come Stravinskij, Bartók, Schönberg e Milhaud, fra
il 1935 e il 1940 si era trasferito a insegnare in America per sfuggire alle leggi
razziali naziste) probabilmente proviene l’intuizione di George Russell, a tutt’oggi
il primo e finora unico teorizzatore di un sistema per allargare i confini dell’improvvisazione
e della composizione jazz. La teoria di Russell è estremamente complessa e, per questo,
spesso è stata interpretata in modo errato. L’utilizzo di scale mutuate dalla tradizione
greca e medievale, dei modi, opportunamente ricombinati secondo le formule di Russell, permette una pan-tonalità che espande a dismisura le possibilità dell’improvvisatore.
«Miles Davis è stato il primo musicista preminente del jazz ad essere influenzato
dalle idee di Russell e nel 1958 compose Milestones, che è basato su due modi. Registrò Milestones con Coltrane il 3 aprile del 1958 ed entrambi si sentirono liberati grazie alla nuova
filosofia armonica. Davis ha continuato a lavorare sulla teoria di Russell e ha creato
cinque brani per il primo disco completamente modale, Kind Of Blue». Con queste parole nel libro di Donald Maggin, Stan Getz: A Life In Jazz, il sassofonista definisce il lavoro di Davis sul jazz modale.
In Milestones il trombettista sperimenta la nuova tecnica, che consiste nella limitazione, in questo
caso, a due soli accordi, da esplorare attraverso l’uso di scale combinate in maniera
via via più complessa. Già in precedenza, in alcune sezioni di brani come Un Poco Loco di Bud Powell o Night In Tunisia di Dizzy Gillespie e Frank Paparelli, la tecnica di alternare solo due scale era
stata utilizzata, ma Davis e Coltrane ne espandono l’uso ad intere composizioni e
non solo a parti di esse.
Russell, che inizia come batterista, ma in seguito smetterà di suonare del tutto,
nel 1953 pubblica a proprie spese il suo testo e avvia la realizzazione di un primo
esperimento con il suo Jazz Workshop, che annovera fra gli altri il trombettista Art
Farmer e il pianista Bill Evans, con i quali nel 1957 inciderà un disco, quel Modern Jazz Concert che contiene anche musica di Mingus.
Coltrane realizzerà nello stesso anno di Milestones una collaborazione importantissima proprio con Russell, nel disco rivoluzionario:
New York, N.Y. Con questo disco Russell compone una serie di vivacissimi bozzetti descrittivi della
città del jazz per antonomasia, con un cast stellare comprendente fra gli altri Bill
Evans, Art Farmer, Jon Hendricks, voce recitante dell’opera che la apre spettacolarmente
insieme alla batteria di Max Roach con uno degli incipit più belli mai realizzati
nel jazz vocale, quasi un prototipo del rap, Bob Brookmeyer, Phil Woods, Al Cohn,
Benny Golson, Max Roach. In brani come Manhattan-Rico, quando Jon Hendricks ci porta a visitare la parte latina della città, Russell continua
l’esplorazione di quei luoghi ritmici e armonici che aveva già iniziato a individuare
dieci anni prima con la suite Cubano Be,Cubano Bop, fatta per Gillespie.
Nel 1961, Russell con Ezz-thetic porterà ulteriormente avanti la sua ricerca, coinvolgendo nel suo sestetto alcuni
dei profeti del nuovo jazz, da Don Ellis a Eric Dolphy e Steve Swallow al contrabbasso;
questa e altre simili formazioni espanderanno il linguaggio verso la libertà armonica
e melodica totale. Un viaggio in Europa del 1964, auspicato dalla direzione artistica
del Berlin Jazz Festival, si rivelerà così soddisfacente che Russell deciderà di rimanere
a Berlino per un bel pezzo. Successivamente si trasferirà a Stoccolma, dove realizzerà
progetti con musicisti locali come Electronic Sonata For Souls Loved By Nature, che tiene a battesimo il giovane sassofonista norvegese Jan Garbarek.
Al ritorno negli Stati Uniti, Russell continuerà a ottenere commissioni da tutto il
mondo. In particolare in Italia, realizzerà due importanti progetti: il riarrangiamento,
nel 1980, commissionato da Filippo Bianchi per il Teatro dell’Opera di Roma, della
suite Living Time, originariamente commissionata a Russell da Bill Evans, e di altri brani importanti
composti fra gli anni Quaranta e i Sessanta. Il Festival di Roccella Jonica, diretto
da Paolo Damiani, commissiona a Russell, nel 1989, la suite intitolata La Folia. The Roccella Variations.
Ho saputo che Coltrane, negli anni Sessanta, fu stroncato da un critico di jazz italiano.
Com’è possibile?
[Vincenzo, 56 anni, medico]
È vero. E questo aneddoto è stato raccontato da Arrigo Polillo stesso, che negli anni
Sessanta scrisse di quella vicenda, nel suo libro Stasera jazz: «Quella volta, al Teatro Lirico, ci fu una gran battaglia, in platea, fra i sostenitori
di Coltrane, che si ascoltava per la prima volta in Europa, e i suoi detrattori. […]
Suonò bene o suonò male, Coltrane, quel giorno? […] A me (e a molti altri) parve che
i suoi assoli fossero alquanto sgangherati, e lo scrissi. Mal me ne incolse poi, perché
quel giudizio negativo sulla prestazione di un musicista che sarebbe divenuto celeberrimo
mi sarebbe stato rinfacciato per anni, anche nel corso di dibattiti pubblici».
Lo stile di Coltrane, febbrile e intenso, e la lunghezza a volte eccessiva dei suoi
assoli gli attira critiche feroci. L’impianto messo insieme da Coltrane necessita
ancora di assestamenti e limature. Ha bisogno di crescere per raggiungere i suoi obiettivi
espressivi e questo spiega anche, in un certo senso, la sua bulimia di esperienze.
In questo momento Coltrane ha bisogno di confrontarsi con colleghi come Sonny Rollins,
Johnny Griffin, Al Cohn, Zoot Sims, Hank Mobley, per aumentare la propria autostima
e sancire la propria diversità. Le innovazioni di Coltrane sono molto legate alle
nuove tecniche esecutive che egli applica, che lo distinguono dai colleghi e che il
critico Ira Gitler definisce «sheets of sound». Le traduzioni della definizione «sheets
of sound» sono molto fantasiose e variegate. Si potrebbero definire «flussi omogenei
di suono», che Coltrane ottiene suonando molto velocemente e creando una sorta di
onda sonora continua, che non trova alcuna interruzione e si piega in infinite curve
e segue direzioni imprevedibili.
Nel 1958 Coltrane entra nella nuova band di Davis, che gli affianca un vivacissimo
sassofonista contralto di cui si sentirà molto parlare, Julian «Cannonball» Adderley,
che si distingue per la brillante tecnica, gioiosa e fresca, piena di elementi parkeriani,
ma proiettata anche verso l’atmosfera bluesy e funky, che in quel momento era in voga.
Coltrane ha bisogno di confrontarsi con Adderley e accetta di realizzare nel 1959
un disco in quintetto: The Cannonball Adderley Quintet, In Chicago. In esso vi è una storica versione di Grand Central e un Limehouse Blues eseguito a velocità supersonica. È un disco felice, positivo, in cui Trane riflette
la luce brillante del partner e si alleggerisce in volate e corse in sessantaquattresimi
che lasciano senza fiato. Lo stimolo sorridente di Cannonball, che ha la supervisione
dell’incisione, snellisce l’approccio a volte eccessivamente serioso di Trane.
Solo un mese dopo vede la luce Kind Of Blue, uno dei capolavori della storia del jazz. Una seduta di registrazione che, vista
la sua importanza storica, ha addirittura meritato un libro che la raccontasse: Kind Of Blue. The Making Of The Miles Davis Masterpiece di Ashley Kahn. Kind Of Blue sviluppa una sinergia che si avvale in misura massiccia dell’apporto armonico di
Bill Evans che, pur dividendo il piano in alcuni brani con il vivace e swingante Wynton
Kelly, riesce a marchiare indelebilmente con il suo stile l’andamento di tutta la
seduta di registrazione.
Ma la vera novità di Kind Of Blue è la stabilizzazione di tutte le canzoni su un registro omogeneo, un «amperaggio
emotivo costante».
In Kind Of Blue, nel brano All Blues, la tradizione del blues, reso in forma quasi gospel e in sei ottavi, raggiunge un
vertice di bellezza a tutt’oggi imbattuto. Ma è Blue In Green, con la sua sospensione metafisica, ottenuta con un azzeramento del movimento musicale
e una economizzazione assoluta delle note utilizzate, a rappresentare la chiave di
accesso a questo nuovo mondo. Non siamo già più nella temperie dell’hard bop: da qui
in poi si procederà diretti verso le forme più aperte e moderne del jazz degli anni
Sessanta. Kind Of Blue prelude agli album davisiani ESP, Nefertiti, Filles Du Kilimanjaro, e decisamente al futuro.
Ma nonostante la sua adesione alla modalità sia piena, in questo momento Coltrane
è ancora totalmente coinvolto dall’esplorazione dell’armonia e ancora sente di non
aver risolto tutte le possibilità di improvvisazione sulle combinazioni degli accordi.
Sempre nel 1959 registrerà con il pianista Cecil Taylor, uomo di punta del free jazz,
che in quel periodo suonava ancora sugli accordi. Nel disco, intitolato Stereo Drive, in cui Coltrane compare sotto falso nome per motivi contrattuali, insieme a Kenny
Dorham alla tromba e Louis Hayes e Chuck Israels rispettivamente alla batteria e al
basso, la contrapposizione fra un gruppo hard bop standard del periodo e un outsider
come Taylor, che non accompagna tradizionalmente, ma provoca e rintuzza continuamente
i solisti, come un Monk ancora più dissonante, non pare affatto riuscita.
Lo scopo di questa rarissima incisione era di presentare Taylor in un contesto più
controllato e mainstream. Il risultato è inquietante, con i musicisti più tradizionali
che cercano di agire su di un terreno comune e Taylor che resta isolato e vede cadere
nel vuoto le sue provocazioni. È evidente, quindi, a questo punto, quanto fosse necessario
rompere gli indugi e andare decisamente verso una forma aperta, che potesse permettere
la penetrazione in nuovi terreni inesplorati, cosa che ben presto Taylor farà in autonomia.
Nel 1960 Coltrane sperimenta, insieme al trombettista Don Cherry, una iniziale liberazione
e un moderato affrancamento dall’armonia: The Avant-garde è il disco che contiene anche The Blessing, brano di Ornette Coleman che in quel momento è l’uomo nuovo del jazz. In questo
brano Coltrane adotta per la prima volta il sax soprano.
Giant Steps è una composizione che si può considerare come il punto di arrivo, «l’esame di specializzazione»
in jazz, che molti musicisti sentono di dover superare per essere considerati jazzisti
a tutti gli effetti. È una sorta di moto perpetuo che il chitarrista Pat Metheny,
in una brillante analogia, compara a un quadro di Escher.
Di pari passo, Coltrane evolve la sua parte compositiva più lirica e scrive una meravigliosa
ballad per la sua giovane compagna, intitolandola con il suo nome: Naima.
Un’altra novità che Coltrane introduce deriva dall’utilizzo rivoluzionario, per le
tecniche che inventa, del sax soprano. Questo strumento imita la sonorità di strumenti
di tradizione pastorale come la zampogna e l’effetto melismatico, prodotto dalle launeddas
sarde o da strumenti etnici analoghi, anche di origine orientale. Altri grandi solisti
di sax soprano saranno Steve Lacy e David Liebman (che lo suoneranno esclusivamente),
Joseph Jarman, Roscoe Mitchell o l’inglese Lol Coxhill.
Non dimentichiamo anche il crescente interesse che negli anni Sessanta si diffonde
verso le religioni e le filosofie indiane e che porta all’introduzione nella musica
occidentale di strumenti come il sitar indiano, portato alla ribalta da gruppi dal
successo planetario come i Beatles e da fenomenali virtuosi come Ravi Shankar.
My Favourite Things, registrato da Coltrane nel 1960, venderà moltissime copie e sarà il suo vero grande
successo discografico. In questa incisione manca ancora Jimmy Garrison, bassista che
stabilizzerà in forma definitiva il suono del suo quartetto storico. Ma c’è McCoy
Tyner, pianista che contribuirà a costruire l’identità della sua musica. Il batterista
Elvin Jones, dopo aver risolto alcune pendenze giudiziarie legate al consumo di stupefacenti,
contribuisce anch’egli con il suo innovativo drumming poliritmico a chiudere il cerchio.
Elvin Jones, Jimmy Garrison e McCoy Tyner sono i responsabili del salto quantico di Coltrane.
A questo punto i capolavori si moltiplicano esponenzialmente.
Nel 1961 realizza il primo disco per la Impulse, Africa Brass, con i trombettisti Booker Little e Freddie Hubbard e con il sassofonista Eric Dolphy,
che poco tempo dopo entrerà in pianta stabile nel suo gruppo. Africa Brass getterà le basi per il successivo Ascension, che arriverà quattro anni dopo come risposta coltraniana al disco Free Jazz di Ornette Coleman. Seguirà Olé, che sancisce l’inizio della collaborazione diretta con Dolphy.
Nel 1961 il locale più sensibile alla nuova scena newyorchese jazzistica, il Village
Vanguard, ospita Coltrane con una formazione che integra Dolphy. Live At The Village Vanguard diventa un classico. Il modo aggressivo e talvolta esasperato di piegare le note,
quasi di urlare nello strumento, l’enfasi e il volume sonoro altissimo del quartetto,
la lunghezza degli assoli erano travolgenti e causavano nel pubblico l’impressione
che nella sua musica fosse presente un messaggio non solo musicale, ma anche di denuncia
politica, nonostante Coltrane negasse con forza questa lettura. È pur vero però che
Alabama, del 1963, è un brano che somiglia a una preghiera, scritto in memoria delle vittime
di un attentato razzista.
Dal 1961 al 1965, con il suo quartetto, Coltrane riesce a realizzare tutte le possibili
combinazioni permesse da questo tipo di formazione, che diventerà uno dei più influenti
modelli di riferimento della storia del jazz. L’entrata nel gruppo storico di Eric
Dolphy permette una propulsione graduale ma costante verso l’atonalità totale.
Trane non abbandonerà mai totalmente l’armonia e la melodia, se non con un gruppo
di giovani leoni del periodo, come Archie Shepp e Pharoah Sanders che, provenendo
dalla scena sperimentale di New York, lo stimolano a continuare la ricerca fino al
rumore, al graffio.
Nel 1962 Coltrane ritroverà le sue radici musicali registrando con un padre fondatore
del jazz come Ellington; nel 1963, con il cantante Johnny Hartman, registrerà tenere
e sofisticate ballad e nel 1965 avrà il coraggio di trasformare una canzone per bambini
come Cam-Caminì, tratta dalla colonna sonora del film Mary Poppins, in un gioiello del jazz.
Da giovane ricordo che l’India era diventata una moda, e che aveva influenzato anche
la musica dei Beatles. Le tematiche orientali e spirituali sono entrate anche nel
jazz?
[Guglielmo, 63 anni, avvocato]
Le tematiche spirituali entrarono prepotentemente anche nel jazz, che in quel momento
cercava delle vie di liberazione e di rinnovamento. Coltrane conosce Shankar e resta
affascinato da questa musica antichissima e ricca di tecniche sofisticate. Shankar,
altresì, trova la musica del sassofonista molto caotica e non ne rimane particolarmente
impressionato. Infatti in una intervista rilasciata a Nat Hentoff, Shankar dichiara:
«Ero molto disturbato dalla sua musica. Avevamo una persona molto creativa che era
diventata vegetariana, che stava studiando lo yoga e leggeva lo Bhagavad-Gita. Tuttavia nella sua musica ancora sentivo molta inquietudine. Non la comprendevo».
L’apice dell’estasi mistica di Coltrane, il suo capolavoro assoluto, A Love Supreme, sembra sintetizzare al meglio il suo stile.
A Love Supreme ha rappresentato, per tutti quelli che lo hanno ascoltato, un’esperienza unica. È
un percorso di risveglio e presa di coscienza. E il potere di questa musica è tale
che, in memoria del sassofonista e ispirata alla sua arte, è sorta persino una Chiesa,
che utilizza la musica di Coltrane per le funzioni religiose e che lo vorrebbe addirittura
santo. Secondo i fondatori di tale culto, nella vita di Coltrane viene individuato
un percorso mistico che passa dalla tossicodipendenza alla liberazione, grazie all’illuminazione
divina, e ALove Supreme sembra contenere un chiaro riferimento a questo percorso di affrancamento dalla schiavitù
del corpo verso la liberazione dello spirito attraverso la preghiera, a cui viene
dato il respiro della musica.
Il grado successivo dello sviluppo di Coltrane, l’ultimo purtroppo, va verso il distacco
totale dall’armonia e dalla melodia. Esplode attraverso Ascension, che il giornalista Filippo Bianchi descrive come un pezzo di free jazz per orchestra.
La nuova moglie, Alice, pianista, lo accompagna verso quei mondi nuovi, che insegue
dopo aver superato i confini della melodia e dell’armonia, verso la totale atonalità.
Allarga il gruppo e cominciano a comparire strumenti etnici come l’oud africano, la
voce, la percussione etnica, le sezioni di archi, l’organo, il vibrafono, la cornamusa,
il flauto di tradizione popolare; nello stesso tempo iniziano a raddoppiare le batterie
(all’epoca anche nel rock si sperimentava spesso con due batterie) e a triplicare
i sax.
Alice Coltrane arrangia e contestualizza le novità timbriche di Coltrane e realizza
un sodalizio umano e affettivo di grande profondità. Stranamente, mancano del tutto
le chitarre elettriche.
Chi ha assistito a concerti di Coltrane in quel periodo riferisce di un viaggio mistico,
totale e comunque faticoso per tutti, musicisti e pubblico, verso la meta dell’illuminazione.
Questo era molto nello spirito dei tempi. Anche Woodstock fu una maratona musicale,
che allargava a dismisura i confini della percezione e la durata degli assoli era
interminabile. Timothy Leary, profeta dell’LSD, applica le sue teorie proprio in quegli
anni.
Brani come Expression, Stellar Regions, Transonic, Seraphic Light, Peace On Earth e Interstellar Space rappresentano per il sassofonista il salto finale.
Nel 1967, John Coltrane muore a causa di un cancro al fegato.
Ho un disco di jazz in cui c’è un brano intitolato «Gazzelloni». È dedicato al nostro
grande flautista?
[Ermanno, 60 anni, imprenditore]
Severino Gazzelloni, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, era il più famoso flautista
nel mondo. Dolphy fece corsi di perfezionamento con lui, che ne lodò a sua volta la
maestria tecnica. Dolphy per ringraziarlo gli dedicò un brano nel suo disco Out To Lunch intitolato proprio Gazzelloni. Dotato di una tecnica prodigiosa, e inizialmente molto influenzato da Parker, Dolphy
proviene dalla scuola di multistrumentisti, come Buddy Collette. Collette, come Dolphy,
è californiano ed entrambi suonano flauto, clarinetto in si bemolle, clarinetto basso
e sax contralto. Dolphy li padroneggia tutti ai massimi livelli.
Dolphy incontra Coltrane al culmine della sua evoluzione, che era iniziata sotto la
guida di Lloyd Reese, maestro anche di Mingus e di moltissimi musicisti dell’area
di Los Angeles. Dopo il normale apprendistato nelle big band dell’area, Dolphy, neanche
troppo giovane, è chiamato da Chico Hamilton, ex batterista di Gerry Mulligan, e con
lui ottiene una certa visibilità. Questa formazione segnerà lo sviluppo stilistico
dell’artista.
La strumentazione peculiare del quintetto di Chico Hamilton si avvale di Buddy Collette,
del chitarrista Dennis Budimir e poi di Jim Hall, dei violoncellisti Nathan Gershman
e poi di Fred Katz, di Carson Smith (sempre della band di Mulligan con Baker) e, successivamente,
del bassista Ralph Pena.
Dolphy realizza una innovazione profonda nel linguaggio, ma non riscuote lo stesso
plauso e riconoscimento di Ornette Coleman. Nel jazz degli anni Settanta, quelle free forms espresse dall’Art Ensemble di Chicago o da gruppi europei risentono acutamente dell’influenza
di Dolphy.
Dolphy, dopo la permanenza con Mingus, comincia a imporre il suo stile originalissimo
in contesti anche più tradizionali e legati all’hard bop. Il fine ultimo di Dolphy
sembra l’estremizzazione di un concetto che deriva direttamente da Louis Armstrong:
vocalizzare lo strumento, renderlo linguaggio parlato. Un linguaggio parlato di certo
adeguato ai tempi ribollenti e tempestosi in cui si trova a vivere.
Questo si avverte in particolare quando suona il clarinetto basso che, tecnicamente,
permette una densità di timbro e una profondità di suono, che assomiglia non poco
all’eloquio parlato e in certi casi addirittura all’imprecazione gridata. Il suono
prodotto dal clarinetto basso di Dolphy influenzerà anni dopo l’italiano Gianluigi
Trovesi, l’inglese John Surman e i francesi Michel Portal e Louis Sclavis. Su questo
terreno Mingus si trova in sintonia perfetta con Dolphy e il suono gutturale del clarinetto
basso ci ricorda le imprecazioni mingusiane contro il razzista di turno. Eric Dolphy
sente diversamente sia gli accenti che mette nelle frasi sia le sequenze di scale che utilizza,
che, sempre secondo i canoni dell’armonia, sarebbero fuori dagli accordi.
Dolphy non utilizza tecniche libere, di puro impatto energetico, come fanno ad esempio
Pharoah Sanders o Archie Shepp, che spesso suonano ondate di note basate sul flusso
del suono puro e le sue curve emotive. Dolphy struttura attacchi ben congegnati alle
mura dell’armonia consueta, elaborando imprevedibili volate di note che seguono parametri
altamente organizzati e studiati probabilmente a tavolino. L’obliquità del suo impatto sonoro deriva da un pescare scientifico nelle punte estreme dell’accordo e sfrutta infatti tutti i gradi estranei e dissonanti dello stesso, ottenendo così un caos controllato e una lucidità implacabile nei suoi assoli.
In una famosa intervista egli stesso rimarca: «Suono note che normalmente non sarebbero
nella tonalità data, ma le sento conseguenti (coerenti). Non penso di lasciare gli
accordi, come si suol dire; ogni nota che suono, ha un qualche riferimento con l’accordo
dato».
L’eccellente preparazione tecnica e la grande e innovativa tavolozza di colori strumentali
che Dolphy ha a disposizione, e che proietta perfettamente su ben quattro strumenti,
alletta qualunque compositore e Dolphy trova subito collaborazioni illustri appena
si trasferisce a New York.
A New York lo aiuta Freddie Hubbard, che in uno spazio come il Minton’s, gli offre
le prime opportunità per farsi notare. Proprio Hubbard lo affianca nella sua prima
registrazione da leader, del primo aprile del 1960, con una formazione eccellente
e per certi versi rivoluzionaria.
Il suo blues in quattordici battute, intitolato Les, è uno dei capolavori del jazz moderno. L’assolo che Dolphy realizza in questo brano
è il manifesto del suo stile. Si percepiscono echi di Charlie Parker e richiami al
canto degli uccelli, con accenti imprevedibili, inaspettati e storti, che non cadono mai dove uno se li aspetta. Quello che rende particolarmente originale
questo assolo e lo stile di Dolphy è il lavoro di riaccentazione delle frasi, che
vanno a cozzare con il senso dello swing comunemente accettato. Uno dei pochi musicisti
che ha raccolto questo approccio e che accenta e divide le frasi alla maniera di Dolphy
è il trombettista canadese Kenny Wheeler.
Nella ribollente consequenzialità dell’assolo su Les si rintracciano anche echi di Cannonball Adderley per l’articolazione rigogliosa
e il guizzare delle frasi, che sembrano sprizzare fuori dalla campana del suo alto,
accompagnate da una sonorità voluminosa, intensa e piena di armonici.
Negli anni Settanta altri musicisti seguiranno con successo la sua strada. Un suo
collaboratore, il trombettista Woody Shaw, riesce a traslare questo modo di suonare
sul suo strumento, forte di una tecnica da concertista classico. Ricordo che Shaw,
già ore prima del concerto, studiava tutti gli intervalli più inconsueti traendoli
da libri di tecnica per sassofono o addirittura da libri di solfeggio cantato.
Questa era la tecnica di studio anche del trombettista Jimmy Owens Shaw. Mi raccontò
personalmente della sua passione per alcuni compositori come Bartók e Zoltán Kodály,
che utilizzavano nelle loro composizioni intervalli di quarta, che suonano molto moderni
e che, combinati, possono facilmente far accedere a tonalità attigue, dando il senso
dissonante tipico del jazz moderno. Woody suonò con Dolphy in un bel disco intitolato
Iron Man, e in seguito fece moltissimi dischi da sideman e da leader per la Columbia, che
gli valsero un grande successo. Lanciò il trombonista Steve Turre che fu suo partner
artistico per molti anni. Il suo stile è unanimemente riconosciuto come originalissimo
e influenza moltissimi altri. Woody Shaw muore a soli quarantacinque anni.
La prima realizzazione in studio di Dolphy con Mingus, intitolata Pre Bird, del maggio del 1960, contiene un brano che rappresenta a mio avviso la risposta
jazzistica alla composizione per tromba e archi The Unanswered Question del compositore americano Charles Ives. La compone Mingus, immaginandola cantata
da Billie Holiday, e Dolphy la riprende nel suo secondo long playing, Eclipse. Eclipse è uno di quei rari brani di jazz quasi completamente privi di improvvisazione, come
Nefertiti di Wayne Shorter. Questi brani sono presenze scomode, oblique, misteri irrisolti.
Per Dolphy inizia una intensa attività discografica. Mingus lo chiama a far parte
dei suoi agguerriti combo, nei quali cominciano ad affacciarsi quei temi sociali e
politici che la situazione del momento non permette più di ignorare.
Inizia la collaborazione con Ornette Coleman, che incontra nella formazione di Gunther
Schuller quando realizza Jazz Abstractions e che lo chiama a suonare nel disco intitolato Free Jazz. A Collective Improvisation, opera che apre una strada nuova, poi percorsa da molti. Il doppio quartetto che
Coleman mette a confronto specularmente è il suo, con Don Cherry alla pocket trumpet
(una tromba «normale» in si bemolle, assemblata in un modo diverso; tutto il canneggio
viene avvolto attorno al corpo principale e non tenuto per esteso), Charlie Haden
al basso e Billy Higgins alla batteria e quello di Dolphy, al clarinetto basso, con
il trombettista Freddie Hubbard, il bassista Scott LaFaro ed Ed Blackwell alla batteria.
La recensione del disco sulla rivista «Down Beat» non ottiene neanche un punto di
apprezzamento. E il recensore John Tynan scrive: «Improvvisazione collettiva? Non
ha senso! L’unica rassomiglianza con un senso collettivo risiede nel fatto che questi
otto nichilisti sono stati raggruppati in uno studio tutti insieme in una volta e
con una causa comune: distruggere la musica che li ha generati. Dategli il massimo
del punteggio, per il tentativo».
Ho sentito un remix bellissimo di un pezzo jazz fatto dagli UFO, un gruppo giapponese
di DJ: si chiama «Stolen Moments». L’ho trovato anche eseguito da Frank Zappa. Chi
è il genio che l’ha scritto?
[Alfonso, 23 anni, DJ]
Nel 1961 l’incontro di Dolphy con il sassofonista e compositore Oliver Nelson lo porta
a registrare uno dei dischi cardine degli anni Sessanta: The Blues And The Abstract Truth, in cui compare il brano Stolen Moments.
The Blues And The Abstract Truth è un disco essenziale per capire la scena del jazz newyorchese dell’inizio degli
anni Sessanta. Ripreso anche da Frank Zappa e recentemente dagli UFO, musicisti giapponesi
legati all’hip hop, Stolen Moments è un brano «manifesto» dell’hard bop degli anni Sessanta. In esso suonano sia Hubbard
alla tromba che Bill Evans al piano e Paul Chambers al basso, oltre a Roy Haynes alla
batteria.
Nelson, in questo disco, sintetizza tutte le tendenze del periodo e riesce a accorparle
in un unico lavoro: un catalogo possibile del jazz afroamericano dell’era di Kennedy.
Un nuovo metodo per improvvisare
Oliver Nelson è considerato una sorta di catalogatore dei linguaggi e delle tecniche
meccaniche del jazz. È curioso notare che aveva l’hobby di imbalsamare gli animali
e questo si rintraccia nel suo lavoro di strutturazione, organizzazione e catalogazione
del linguaggio del jazz.
Nelson cerca di fermarne e codificarne il linguaggio attraverso i cosiddetti «pattern»:
prendere una frase, fotografarla, smontarla dal contesto e replicarla, adattandola
ai cambi armonici nelle dodici tonalità...
Il suo libro di didattica, Patterns For Improvisation, studiato da tutti i musicisti
di jazz da quando è stato messo in commercio, alla fine degli anni Settanta, contiene
delle frasi e delle melodie sviluppate in tutte le tonalità, dei pattern per l’appunto
o più volgarmente dei cliché.
Questi materiali sono spesso utilizzati dagli studenti per impratichirsi sui giri
armonici e sciogliere la diteggiatura su tutte le tonalità. Hubbard spesso li impiega
anche negli assoli. Sono funzionali poiché riempono bene gli spazi armonici e danno
l’illusione di un assolo ma in realtà, se utilizzati acriticamente e accatastati uno
dietro l’altro, ottengono l’effetto di una implacabile meccanicità. Il primo a codificarne
l’uso è John Coltrane, con Giant Steps. Il brano è così difficile e varia armonia
così rapidamente, che necessita di blocchi di frasi che si possano accorpare le une
alle altre, dando un senso di continuità, come una palla che gira e si muove nello
spazio rimbalzando da varie prospettive.
Un tema basato su pattern ciclici che girano sulla tonalità è proprio nel disco The
Blues And The Abstract Truth ed è Yearnin’. Il primo assolo, proprio di Nelson, è
basato su un pattern ricorrente, che viene modulato in varie tonalità e per parecchie
misure.
C’è il richiamo alla musica ecclesiastica e al soul jazz con Hoe Down, al blues modale con Stolen Moments, un richiamo al lavoro di John Lewis sulle sequenze mutuate da Bach con Cascades e Butch And Butch, un ritorno alle radici del blues con Yearnin’ e allo stile dolphyano con Teenie’s Blues.
Nelson è un musicista abbastanza conservatore, una sorta di Quincy Jones più sperimentale,
la cui breve carriera si svolgerà attraverso la realizzazione di meravigliosi progetti
orchestrali, che raggrupperanno i migliori solisti del periodo.
Tre capolavori da lui realizzati sono: The Afroamerican Sketches, The Jazzhattan Suite e The Kennedy Dream. Realizzerà anche musiche per il cinema e per la televisione, come la colonna sonora
della serie televisiva L’uomo da sei milioni di dollari.
Un incontro importante marca la carriera di Dolphy: quello con il trombettista Booker
Little.
Pur provenendo dalla scuola di Clifford Brown e Fats Navarro, Little riesce ad affrancarsi
dal linguaggio bop e si incammina sicuro verso un eloquio fluido e originale che,
nel momento in cui muore a causa dell’uremia, era solo ai primissimi stadi di sviluppo.
Little, nonostante la sua breve vita gli permetta solo quattro anni di attività, incide
quattro album (ufficiali) sotto suo nome: Booker Little & Friends, Out Front, Victory And Sorrow, The Legendary Quartet.
La qualità del suono di Little è paragonabile in bellezza a quella di Brown, piena,
calda, ma più dolente e per certi versi, austera e terribilmente malinconica. Tecnicamente
Little ha un controllo fenomenale e assoluto dello strumento e raggiunge agevolmente
un fa bisacuto pieno e sonoro, che è impraticabile per molti trombettisti.
Nel primo disco che incide con Dolphy, Little, che già era presente sulla scena da
un paio di anni, avendo debuttato con Max Roach, mostra di essere uno dei migliori
trombettisti in circolazione.
Nel disco The Legendary Quartet egli si accompagna con un altro gigante, Scott LaFaro, che duetta con lui sostenuto
dal pianista Wynton Kelly che si alterna con Tommy Flanagan, e quel prezioso batterista
che è Roy Haynes. Basta ascoltare uno dei brani di Little, The Grand Valse, per capire chi fosse Little anche dal punto di vista della composizione.
Il valore del sodalizio con Dolphy si può percepire attraverso una serie di session
dal vivo, tenute al Five Spot nel luglio del 1961.
Dopo la scomparsa di Little, a soli ventitré anni, Dolphy continua una febbrile produzione
concertistica e discografica che culmina con la sua entrata in pianta stabile nel
gruppo di Coltrane nel 1961.
Dal 1962 riprende a lavorare con Mingus e nel 1964 realizza a suo nome Out To Lunch, con Hubbard, il vibrafonista Bobby Hutcherson, il bassista Richard Davis e Tony
Williams alla batteria. Sempre nel 1964 parte per l’Europa con Mingus, ma durante
il tour muore per le conseguenze del diabete.
Ho scoperto il jazz attraverso la bossa nova di Stan Getz: è considerabile come jazz?
[Valeria, 35 anni, maestra elementare]
Alla fine degli anni Cinquanta João Gilberto, Antonio Carlos Jobim e Luis Bonfa, un
trio di musicisti poeti brasiliani, creano il nuovo linguaggio della bossa nova.
La nuova voga musicale proveniente dal Brasile, che in poco tempo invaderà il mondo,
miscela elementi ritmici del samba con le tenui atmosfere armoniche del cool jazz.
La bellissima voce strumentale del sassofonista bianco Stan Getz, soprannominato «The
Sound», e il suo eloquio solistico, di matrice cool, sofisticato e sempre ispirato,
trovano una eccellente applicazione nella bossa nova.
Getz ha avuto molti meriti esterni a questo stile che ha fortemente contribuito a
caratterizzare e ha faticato non poco a discostarsene, rischiando di essere fagocitato
dall’enorme popolarità che ne derivò.
Dopo avere realizzato nel 1962 Jazz Samba, un fortunato disco con il chitarrista americano Charlie Byrd, Getz entrò in contatto
con i maestri brasiliani dello stile e con loro incise moltissimo.
Girl Of Ipanema, Desafinado, One Note Samba, grazie a una modificazione ritmica geniale mutuata dal Brasile e dai suoi poliritmi
di origine africana, sono evoluzione diretta di quel cool jazz che Getz aveva contribuito
a diffondere. Successivamente il ritmo della bossa nova, attraverso modifiche operate
dai musicisti americani, diventa diffusissimo e quella ritmica entrerà in molte produzioni
discografiche, in una forma o in un’altra, fino ad oggi. Vengono composti molti brani
in questo stile e fra essi spicca Blue Bossa di Kenny Dorham.
Miles Davis e Gil Evans incidono una versione di Corcovado nel disco Quiet Nights, e anche nel pop più sofisticato si fa strada la nuova voga: Sinatra, con l’ausilio
dell’arrangiatore Claus Ogerman, realizza dischi e collaborazioni di bossa nova profumata
di jazz fra cui spicca quella con Jobim.
Dal canto suo Getz ha realizzato uno stile che si è evoluto attraverso gli anni e
non ha mai perso di vista le nuove tendenze, chiamando spesso talenti come Chick Corea
o Kenny Barron al piano, Ron Carter, Steve Swallow o Stanley Clarke al basso, Gary
Burton al vibrafono, che gli trasmettevano stimoli sempre nuovi e per raggiungere
livelli evolutivi più elevati.
Sweet Rain rimane uno dei dischi più belli degli anni Settanta, in cui Getz, attraverso Corea,
si assesta con successo nel suono più moderno del periodo, commissionando nuove musiche
a giovani talenti come Michael Gibbs, che compone per lui la canzone che dà il titolo
all’album.
Certo jazz mi confonde, non mi ci raccapezzo più, mi sembra tutto suonato a caso.
Non ho più riferimenti. Mi perdo...
[Matteo, 23 anni, studente di architettura]
Antonin Artaud, creatore del Teatro della Crudeltà, descrive nelle sue memorie l’effetto
devastante dell’elettroshock subìto quando era ricoverato in un sanatorio francese.
Nel momento in cui viene sottoposto alla violenta scossa, la sua vita cambia punto
di vista ed egli trova un orientamento completamente nuovo. Il teatro moderno, con
Artaud e altri innovatori come lui, da allora cambierà radicalmente e si slancerà
verso un punto di non ritorno. La stessa cosa avverrà nel jazz.
Negli anni Sessanta, nel jazz delle nuove generazioni, si attua un processo di progressivo
allontanamento dall’armonia consonante, alla ricerca di nuovi spazi espressivi nelle
aree esterne al sistema codificato. Si adottano distorsori e pedali elettronici che
modificano il suono di chitarre, trombe e tastiere e qualunque mezzo è permesso per
modificare il suono.
Come nelle arti figurative, nel cinema, nella danza, nel teatro, anche nel jazz si
cercano nuovi linguaggi. Nel free jazz si utilizzano tutte le tecniche possibili di
alterazione del suono a fini espressivi.
I compositori contemporanei di area colta degli anni Cinquanta e Sessanta creeranno
e si approprieranno di molte tecniche del jazz e introdurranno l’improvvisazione nelle
loro composizioni.
Nasce in quel periodo una nuova notazione musicale che esclude le note dalla partitura
e usa segni grafici, talvolta molto creativi e fantasiosi per definire una nuova curva
espressiva e sonora che la notazione musicale tradizionale non è più in grado di esprimere.
Luciano Berio compone le sequenze per strumenti solisti, nelle quali evolve il preesistente
metodo di notazione con appropriati e accuratissimi segni grafici. Lo stesso faranno
Karlheinz Stockhausen, John Cage, Harry Partch, Paul Chihara, Pierre Boulez, George
Crumb, Bruno Bartolozzi, Sylvano Bussotti: ognuno elaborerà un vocabolario grafico-espressivo,
che farà tesoro anche di molte delle intuizioni della scena free che in quel momento
si delinea in America e in Europa. Lo scambio di tecniche fra l’area colta e quella
jazz era reciproco e fruttuoso.
I musicisti dell’area creativa di Chicago, negli anni Sessanta, sono fra i primi a
utilizzare segni gestuali senza parti per governare la musica delle loro orchestre.
Ancora oggi musicisti come Butch Morris portano avanti questa tecnica, che consiste
nel segnalare e dirigere le dinamiche e le velocità e tutte le risorse dell’orchestra
attraverso il movimento delle mani e del corpo.
Negli anni Sessanta e Settanta questa nuova musica, teorizzata e sostenuta da intellettuali
dell’epoca anche per motivi ideologici distanti dalla musica stessa, in realtà finisce
per allontanare entrambi i pubblici: quello della musica classica abituato al massimo
a Schönberg e alla Scuola di Vienna e che viene invece investito dagli esperimenti
di Berio, Nono, Busotti, Ligeti, Maderna e Stockhausen e il pubblico del jazz, che,
dalle rassicuranti e swinganti armonie di Oscar Peterson o di Horace Silver, si deve
confrontare con le sconvolgenti improvvisazioni totali di Cecil Taylor e Archie Shepp.