4.
I giovani musicisti
D. Tu hai insegnato molto negli Stati Uniti, a Tanglewood, a San Francisco, a Cambridge
e a New York. Diresti di te stesso quello che dicevi di Dallapiccola, e cioè che sei
un cattivo insegnante?
R. La quantità di giovani che, in un modo o nell’altro, soprattutto alla Juilliard
School, hanno lavorato con me è enorme e non dovrebbe esser difficile trovarne uno
e porgli la stessa domanda. La sua risposta sarebbe forse più attendibile della mia.
Ho smesso di insegnare nel 1972 perché non potevo più impegnarmi a essere regolarmente
in aula due volte alla settimana. E poi c’erano troppi studenti. A parte i seminari,
che ho sempre fatto volentieri, quello che mi affaticava erano le lezioni individuali:
gli studenti mi aspettavano a ore precise e li vedevo uno dopo l’altro per mezzora.
Alle nove il tale, alle nove e mezzo il tal’altro e così via: mi sembrava di esser
diventato un dentista.
D. Pensi che sia possibile insegnare la composizione?
R. Penso che, poste certe basi, un giovane debba continuare da solo e andare a caccia
di tutto quello che gli serve. Le basi sono, mi si perdoni, il contrappunto prima
e poi l’analisi. No, non sono un nostalgico del contrappunto, ma non conosco ancora
un altro mezzo che permetta a un giovane di esercitarsi in maniera sistematica a collegare
il cervello con le orecchie. Né credo sia il caso di essere troppo schifiltosi: va
bene qualsiasi tipo di contrappunto purché sia suggerito e guidato da un insegnante
responsabile e purché faccia coerentemente parte di una concezione storica e tecnica:
i Fiamminghi, Palestrina, Bach, Fux, Cherubini e anche, perché no, il Dubois. L’allievo
deve essere giovane, naturalmente, deve essere aiutato a non ideologizzare il contrappunto
e deve impararlo come si impara la tecnica di un gioco. Bisogna cioè evitare che,
più tardi, l’esperienza del contrappunto possa trasformarsi in un rifugio ritardatore,
in uno strumento tecnico reazionario. Quando un ragazzo può scrivere in mezza giornata
e senza pianoforte una fuga a quattro o cinque voci puoi esser certa che egli sarà
almeno un buon artigiano – cosa di cui il mondo di oggi ha un bisogno disperato. Ma
c’è un’altra cosa che non riguarda forse l’insegnamento della composizione ma l’insegnamento
della musica in genere. Io non credo che coi bambini dai tre ai dieci anni si possano
e si debbano adottare concezioni diverse di educazione musicale: una cioè per chi
avrà una buona probabilità di intraprendere una professione musicale e una per chi
invece questa probabilità non ce l’avrà. Ebbene, penso che le forme più elementari
di contrappunto (da fabbricare in classe e da cantare) possano essere un punto di
partenza comune molto utile, certo più naturale degli accordi sui vari gradi della
scala e, quindi, più egualitario. Un giovane deve esser messo in grado di leggere
e di assimilare una grande quantità di musica e, se suona uno strumento, deve essere
aiutato a collocare, fra le orecchie e le dita, il cervello. Non credo all’insegnamento
autoritario ma alla disciplina. E non credo neanche all’autodidatta. Chi si proclama
autodidatta mi insospettisce sempre: di solito lo dimostra con la fragilità dei suoi
strumenti tecnici. E poi mi riesce difficile immaginare un giovane, oggi, che decide
di voler essere un autodidatta; può essere una condizione che gli viene imposta dalla
vita (mancanza di mezzi, assenza di insegnanti, ecc.) ma non una scelta. Come si fa
a non aver voglia di imparare dagli altri con un minimo di sistematicità? Forse l’autodidatta
è sostanzialmente un debole che ha paura di misurarsi con chi è necessariamente «più
bravo» di lui, cioè l’insegnante; oppure è qualcuno che induce i suoi rapporti col
lavoro musicale a fatto privato e a tattiche personali. C’è il caso di Schoenberg
che si dice autodidatta, ma in realtà lui non lo è stato: ha cominciato a studiare
il violino che aveva 8 anni, viveva totalmente nella musica e nei linguaggi artistici
anche quando era impiegato di banca e poi, diciannovenne, ha avuto un tutore ideale
in Zemlinsky... E poi era Schoenberg, un uomo, cioè, che avrebbe smosso le montagne
per rispondere alla chiamata: cosa che d’altronde ha fatto. L’unica opera, forse,
dove Schoenberg rivela la sua natura di autodidatta è l’Harmonielehre, dove viene esaltato il tipico difetto, appunto, dell’autodidatta: quello di scoprire
e di riscoprire l’uovo di Colombo. Il contesto di questa scoperta èperò impressionante ed è questo che rende questo Trattato d’armonia un’opera fondamentale e giustamente famosa. È un documento drammatico, profondo e
allo stesso tempo patetico che si ripercuote, in maniera quasi ossessiva, in molti
altri scritti, posteriori, di Schoenberg. Non è un caso che Schoenberg lo abbia riveduto
e «corretto» in tempi successivi. Io vedo questo Trattato come un disperato tentativo di dare una patente di razionalità a un’armonia che si
frantumava in tutte le direzioni possibili, da parte di una persona che navigava in
acque profonde e tempestose e che era uno degli artefici maggiori di quella frantumazione
armonica. È però un trattato che non raccomanderei come strumento pedagogico: è eccessivamente
normativo, verboso, ripetitivo e privo di una sintesi reale. Sintesi che invece troviamo
negli scritti posteriori al Trattato o nei commenti ex cathedra che incontriamo ogni tanto nel Trattato stesso. Il fatto che Schoenberg tenda a sopravvalutare, a funzionalizzare e a formalizzare
scolasticamente la dimensione armonica in sé, come dimensione musicale a se stante
un po’ schenckerianamente, malgré lui, proprio in un mo-. mento storico quando Schoenberg stesso creava musiche ove tutte
le dimensioni musicali (con parziale esclusione di quella ritmica) facevano corto
circuito, può far pensare che l’Harmonielehre sia anche stato, per Schoenberg, anche un salvagente psicologico. Un po’ quello che
può esser stato, per Mallarmé, scrivere Les mots anglais.
Comunque sia, nell’insegnamento della composizione – come in qualsiasi altro insegnamento
— è necessario che fra insegnante e allievo ci siano dei punti di riferimento pratici
in comune, è necessario che essi si intendano su aspetti concreti dell’esperienza
musicale e che si incontrino in questi piuttosto che in speculazioni d’ordine generale.
Una volta lo strumento era il veicolo del pensiero; non per nulla — se non vado errato
– Beethoven andò a Vienna anche con la speranza di poter studiare con Mozart, il cui
modo di suonare l’aveva tanto impressionato. Oggi lo strumento non può più essere
il punto di incontro (se lo fosse, sarebbe il segno di una certa faciloneria): può
esserlo però un continuo, esteso e indefesso esercizio di «scrittura» e di analisi.
Non basta, da ragazzi, saper scrivere una fuga (o altro); bisogna scriverne comunque
tante, anzi tantissime. Credo fermamente che uno studente debba saper condurre a termine
una grande quantità di lavoro (perché non pensare all’«ispirazione» come a un organo
che va esercitato?) e che la quantità in sé sia una condizione indispensabile per
creare le basi di una unità significativa e dialettica, cioè utile, fra pratica e
speculazione intellettuale, fra concreto e astratto. Non è una cosa poi tanto semplice.
t certo che senza di essa, senza quantità,non si compiono evoluzioni, trasformazioni e neanche le rivoluzioni: in fondo, come
ci ricorda Asor Rosa «libertà, eguaglianza e fraternità sono niente senza la ghigliottina»...
e forse non è un caso che la prima ghigliottina l’abbia costruita un fabbricante di
pianoforti.
D. Quali ti sembrano oggi le tendenze più interessanti presso i compositori più giovani?
R. Come dicevo prima, parlando di Ghedini, mi sembra che la storia sia piuttosto ingenerosa
con i giovani di oggi e ho l’impressione che talvolta essa non abbia bisogno di loro.
A essere un po’ intolleranti e autoritari si potrebbe dire che sono stati essi stessi
intolleranti e ingenerosi con la storia e quindi la storia si vendica. In ogni caso
non intendo la storia in generale o una storia particolare ma, piuttosto, il senso
della nostra posizione nella storia e il senso della storia delle cose. La crisi di
cui tanto si parla significa, suppongo, anche questo: crisi del senso della storia.
Ci sono moltissime tendenze, oggi, nella musica dei giovani e non saprei da che parte
cominciare a descriverle. E neppure credo di essere la persona più indicata per farlo.
Ci vorrebbe forse un grossista di etichette: sono talmente tante le tendenze di oggi,
che mi chiedo se non sia meglio chiamarle maniere... Nel profondo della coscienza
di parecchi giovani manca qualcosa che c’è, invece, in chi ha il senso della storia.
Accanto, cioè, all’entusiasmo per un mondo musicale pluralistico, molteplice e centrifugato
ch’è quasi tutto da inventariare, da analizzare e da dominare, manca l’accettazione
del fatto elementare che anche i linguaggi musicali si trasmettono e manca la visione
utopica di un linguaggio comune che permette alla musica e ai musicisti di parlare
e di essere universalmente parlati. Senza questo ideale, segretamente implicito e
forse irrealizzabile, la musica non si muove, perde una delle sue ragioni dialettiche
e passa da una maniera all’altra. È utile cercare le cose che sappiamo di non poter
trovare...
D. In questo pluralismo di linguaggi, ti sembra che qualcosa emerga in maniera particolare?
R. Fra le molte tendenze e maniere di oggi ce n’è una un po’ curiosa e un po’ patetica:
quella della riconquista della melodia. Il mio amico Pousseur predica adesso il dovere
di togliere le melodie al nemico e usarle, dopo essersene impossessati, contro di
esso. Ergo, produciamo melodie con criteri progressisti e facciamole cantare agli «operai» perché
si liberino dal potere melodico dei padroni. Il risultato sono delle squallide e insensate
melopee che nessuno canta e che ignorano un fatto di primaria importanza, come ebbi
a dire allo stesso Pousseur, e cioè che i processi che generano melodie non si fabbricano
da un giorno all’altro e che le melodie nascono spontaneamente nella collettività
e nelle poetiche quando tutti i «parametri» musicali fanno pace e si mettono a «cantare»
assieme, decidono cioè di contribuire alla melodia, che sia di Bach, di Mozart, di
Webern o anche di Gershwin. C’è poi, mi sembra, un sostanziale errore politico in
questa ricerca preconcetta della melodia «popolare» come cosa da fabbricare e da usare
e non, invece, come risultato, non necessariamente spontaneo, di un processo di sedimentazioni
collettive. L’errore è questo: la classe operaia, la bassa e l’alta borghesia e il
potere economico assoluto devono, in un modo o nell’altro, ogni tanto, fare dei pezzi
di strada assieme, nelle città e nelle campagne, quindi cantano spesso le stesse melodie,
da Bella Ciao ai Beatles a Caro Mozart... Consapevoli della complessità del fenomeno, del fatto che i banchieri non producono
melodie come invece i braccianti agricoli e la melodia è, per sua natura, un punto
d’incontro, sia pure superficiale ed emotivo, nel bene e nel male fra classi socio-culturali
in aperto o latente conflitto, non ci resta che studiare i processi che presiedono
alla loro formulazione (una vita, certo, non basta), aspettare che il mondo cambi
e aspettare, anche, l’epifania di melodie facili e canterecce che contribuiranno certamente
al riscatto delle classi oppresse... Scherzo, naturalmente; ma una delle ragioni per
cui questa ricerca della melodie àtout prix suscita in me reazioni violente è che mi ricorda Hanns Eisler – al quale Pousseur
si richiama ma col quale Pousseur, infinitamente superiore da tutti i punti di vista
non ha, fortunatamente, nulla a che spartire. Eisler fabbricava melodie per gli operai
e ogni tanto, per completarsi, per «realizzarsi» meglio, scriveva anche musiche da
camera «alla Schoenberg», così come uno può fare un armadio «alla Mondrian» o scrivere
una canzonetta «alla Brahms». I due mondi, se così è lecito dire (quello delle canzoni
per gli operai e quello della musica da camera «alla Schoenberg»), non avevano nulla
a che fare l’un l’altro, e da bravo entrepreneur piuttosto schizofrenico, Eisler ha spesso cercato di giustificarne la contiguità con
la tronfia arroganza di qualcuno che, troppo occupato dai mezzi di produzione, dai
loro utenti e dai loro destinatari, non si preoccupa neanche più della qualità del
prodotto, che scade a livelli innominabili, ma solo del pensiero politico ch’esso
dovrebbe trasmettere (che era poi un pensiero rozzamente stalinista-zdanoviano). Non
per nulla una delle caratteristiche più singolari di Eisler era quella di nutrire
una sfiducia totale nei poteri conoscitivi ed espressivi della musica; non solo, comprensibilmente,
nei poteri conoscitivi della sua stessa «stupida» musica ma anche, fra le tante, di
quella di Mozart... Fu lui, infatti, che scrisse che Mozart, poveretto, non aveva
cultura e non era consapevole dei suoi contemporanei Illuministi perché fin dalla
più tenera infanzia aveva studiato solo la musica e non aveva potuto imparare altro.
Insomma, per Eisler il povero Mozart era un buon musicista con la testa semivuota.
Questa tendenza a negare autonomia e autorità di pensiero alla musica e, implicitamente,
a negare che il pensiero umano, nelle sue forme più alte e consapevoli, possa esprimersi
anche musicalmente, permane ancora oggi, come un’ombra, su alcune zone della musicologia
e della critica musicale. L’unico testo di Eisler dotato di una certa coerenza e fondatezza
è quello sulla musica nei film – ma si tratta, com’è noto, di un testo scritto a due
mani con Adorno. Comunque sia, è certo che le melodie di Eisler non sono mai servite
a nulla; neanche, tutto sommato, a Brecht: la scelta in Brecht avviene innanzi tutto
all’interno del processo teatrale mentre in Eisler la scelta avviene sempre all’esterno
del processo musicale. Con parole diverse le canzoni di Eisler avrebbe potuto usarle
anche Hitler e se ne sarebbe leccato i baffi, anche se il nome di Eisler figurava
nel famigerato pamphlet dell’«arte degenerata» (c’era anche il nome di Kurt Weill in quel pamphlet,ma le sue melodie Hitler non avrebbe mai potuto usarle). La musica di Eisler era sostanzialmente
stupida (parola, questa, che lui ha usato spesso) e quindi il suo potere conoscitivo
nullo: cioè, non era neppure un efficace strumento politico, era solo demagogia populista.
D. C’è, o meglio c’era, anche un’altra tendenza fra i giovani: l’improvvisazione.
R. Dietro questa tendenza c’erano diversissime ragioni non tutte egualmente rispettabili:
il desiderio di ricomporre l’unità fra creazione ed esecuzione musicale, la tendenza
a spingere all’estremo, rendendoli spettacolari, gli atteggiamenti aleatori, la speranza
di scoprire un’intesa di nuovo tipo fra musicisti (spesso nella direzione dello psicodramma),
la parodia, la satira, la meditazione, l’esibizionismo, ecc. Tranne rari, fuggevoli
momenti di interesse (quando i musicisti coinvolti nell’improvvisazione erano di grande
qualità), l’improvvisazione è stata il rifugio di dilettanti, fecondi forse nell’inventare
alibi socio-musicali ma incapaci, il più delle volte, di valutarsi e di analizzarsi
in rapporto a una qualsiasi prospettiva storico-musicale. L’improvvisazione nell’epoca
barocca era un po’ come l’improvvisazione nel jazz: si svolgeva e si sviluppava su
una struttura armonica (e quindi ritmica e metrica) chiara e, per così dire, unanime.
Oggi l’improvvisazione presenta dei problemi: innanzi tutto perché fra i partecipanti
non c’è una vera unanimità di discorso ma piuttosto, ogni tanto, solo una unanimità
di comportamento. Il vero problema dell’improvvisazione in rapporto alla composizione
scritta è che l’improvvisazione segmenta lo spazio musicale in maniera diversa, in
maniera più grossolana. Tende, al massimo, a una segmentazione in «sillabe» e non,
come nella musica scritta, in «fonemi»: cioè in unità primarie e di natura psicomotoria
e non invece in unità derivate ed evolutive. Chi improvvisa è un po’ come qualcuno
che osservando il mondo degli animali, quello delle scimmie per esempio, riesce solo
a segmentarlo in gorilla e scimpanzé, mentre chi scrive (dopo aver pensato) è come
chi riesce a segmentare quel mondo con più finezza, in tutte le sue possibili specie
e sottospecie, non esclusi, beninteso, King Kong e la matrigna di Tarzan. L’improvvisazione
– oggi, nella nostra cultura – è una specie d’esperienza privata che non appartiene
a un luogo pubblico come la sala da concerto – anche se proprio quest’ultima è spesso
il «bersaglio» delle attività improvvisatorie. In effetti, assistendo a delle improvvisazioni
in una sala da concerto – sia a Roma, come a New York o a Parigi – ho sempre provato
un certo malessere, come se avessi sbagliato porta e mi trovassi costretto a guardare
delle brave persone, forse un po’ matte, in procinto di fare delle loro cose molto
private che riguardano solamente loro. Non credo proprio che un musicista «serio»
che improvvisa in una sala da concerto possa articolare un discorso d’una complessità
e di un interesse paragonabili a quelli di un discorso dei musicisti barocchi e, perfino,
dei musicisti jazz. L’improvvisazione barocca era composizione non redatta e non c’era
differenza di sostanza fra quello che Bach scriveva per o improvvisava sul clavicembalo. Nell’improvvisazione barocca c’era la presenza implicita della musica
scritta, c’era la presenza continua dell’occhio, dell’occhio controllore: occhio nel
senso più ampio del termine, l’occhio del cervello, l’occhio delle orecchie, l’occhio
della memoria... Anche oggi, fra tutto quello che può avvenire nell’improvvisazione,
mi sembra che abbia un senso quello che riesce a porsi in rapporto con un’idea più
o meno esplicita di musica scritta – anche se si tratta di un rapporto antagonistico,
anche quando, cioè, l’improvvisazione è la manifestazione di un elementare impulso
liberatorio che è poi desiderio di separare, se così si può dire, l’espressione dalla
forma. Ed è solo la tecnica dell’esecuzione, in genere, con le sue caratteristiche
specifiche, che ha il potere di suggerire e istituire riferimenti e richiami con una
sottintesa scrittura musicale. L’interesse marginale e saltuario che può suscitare,
oggi, l’improvvisazione, risiede soprattutto nelle trovate strumentali che forse permetteranno,
in momenti successivi, di fare scoperte di un certo interesse dal punto di vista della
tecnica strumentale e assimilabili a un pensiero musicale. Anche le improvvisazioni
di gruppi affiatati e formati da strumentisti eccelsi, come il New Phonic Art, hanno
sempre un carattere privato proprio perché non possono collocarsi, in quanto improvvisatori,
su una dimensione sufficientemente vasta e obiettiva dell’esperienza musicale. Conosco
bene tutti i musicisti che compongono il New Phonic Art e sono tutti miei cari amici;
anzi, due sono anche stati miei allievi – ed ho un’enorme ammirazione per loro. Ma
quando vedo Vinko Globokar, vedo Michel Portal, Carlos Roqué-Alsina e Jean Pierre
Drouet fare sulla scena delle cose stravaganti, compiere azioni esilaranti e produrre
suoni inconsueti, cioè tutte cose che normalmente non fanno, non posso fare a meno
di constatare che tutte queste cose conservano per me un simulacro di significato
solo a patto di poterle situare in rapporto alle loro vicende musicali, alla loro
storia musicale personale, a loro come miei amici (e naturalmente in rapporto al suono
e all’uso, «normali», dei loro rispettivi strumenti). Qualcosa di analogo mi accade
coi «concerti» di John Cage: se non c’è lui sulla scena mi annoio mortalmente. Comunque,
l’improvvisazione agisce di solito a livello di pratica strumentale e non di pensiero
musicale. Soprattutto Globokar ha cercato, talvolta, di trasferire l’esperienza dell’improvvisazione
in quella della musica scritta, con dei risultati anche attraenti. Ma io non credo
che un pensiero musicale possa aver bisogno dell’improvvisazione per svilupparsi,
per manifestarsi compiutamente e per rendersi utile agli altri in una maniera o l’altra.
Ha bisogno di mezzi più stabili, più filtranti e più redigibili. L’improvvisazione
nel jazz è altra cosa perché è basata sulla estrazione rapida di moduli musicali e
di gesti strumentali dal grande serbatoio della memoria ed è anche basata sulla velocità
di reazione nei confronti dei partners e anche nei confronti di se stessi – simile, in una certa misura, alla velocità di
riflessi che l’atto del parlare implica. Si potrebbe forse considerare l’improvvisazione
jazz anche come una continua correzione di piccoli errori, come un continuo aggiustamento
di tiro in rapporto a un bersaglio che, per sua stessa natura, non è mai perfettamente
chiaro e definito. Non per nulla il pianista Thelonious Monk, scontento dopo una improvvisazione,
se ne uscì con questa bellissima dichiarazione: «I made the wrong mistakes» (Ho commesso
gli errori sbagliati).
Sempre su un piano molto personale, l’improvvisazione «colta» può avere un certo valore
«terapeutico». Per esempio, può aiutare un musicista a sbarazzarsi di certi suoi complessi
e a conoscersi meglio in rapporto a dei dati intuitivi. E questo non impedisce che
qualche volta accadano delle cose abbastanza sbalorditive sul piano del tempo,della tecnica e dell’aneddotica strumentale: ma non succede mai nulla di interessante,
anche fortuitamente, sul piano del pensiero musicale. E per pensiero musicale intendo
soprattutto la scoperta di un discorso coerente che si svolge e si sviluppa simultaneamente
su diversi piani.
C’è anche un aspetto ideale che percorre talvolta l’esperienza dell’improvvisazione:
un aspetto para-politico, direi, che può farci apparire il New Phonic Art non solo
come un piccolo gruppo di superbi musicisti ma anche come un piccolo commando di guerriglia musicale che s’infiltra nelle linee nemiche per dare degli scossoni
agli abbonati dei concerti e incitare i giovani alla rivolta. Ma il «sessantottismo»
è finito da un pezzo e le improvvisazioni non possono provocare né rivoluzioni né
crisi di coscienza, soprattutto quando sono (erano) quegli stessi abbonati a invitare
e a pagare gli improvvisatori. Era comunque bello, talvolta, sul piano del comportamento,
constatare la connivenza, l’intesa profonda che legava i membri del New Phonic Art
quando agivano tutti insieme sulla scena. Ed era interessante, talvolta, assistere
alla trasformazione collettiva di qualcosa (un suono, un gesto, un comportamento),
seguire le vicissitudini di un processo intuitivo che si dipana davanti a noi, hic et nunc,e cercare di impegnarsi nella percezione di quel processo. Da questo punto di vista,
per aguzzare lo spirito, l’improvvisazione potrebbe costituire uno strumento utile
alla rieducazione dei famosi abbonati o di chi si è comodamente installato in una
qualsiasi routine musicale... Ma tutto questo, in fondo, è piuttosto astratto perché
il «linguaggio» degli improvvisatori (forse è meglio dire «improvvisanti») non permette
veramente di imboccare strade pedagogiche: di solito le cose e gli elementi significativi
interiori o esteriorizzati, che dovrebbero essere il punto d’avvio di una improvvisazione
e dovrebbero far parte di un processo di trasformazione, non sono riconoscibili, non
sono percepibili e talvolta veniamo assaliti dal dubbio che neppure ci siano. Credo
proprio che quei pochi «improvvisanti» che ancora esistono siano l’ultima vestigia
della retroguardia della vecchia neoavanguardia...