
Pagine: 264
Collana: Contromano
ISBN carta: 9788842073703
ISBN digitale: 9788858102626
Argomenti: Musicologia e storia della musica
Get Back! I giorni del rock
Pagine: 264
Collana: Contromano
ISBN: 9788842073703
Alberto Campo è cronista e critico musicale. Caporedattore di "Rumore", collabora con "Republica", "Musica!" e "Diario". Ha condotto "Stereonotte" e "Stereodorme", "Planet Rock" e "Suoni & Ultrasuoni". E' autore di Rockin'USA, Nuovo? Rock?! Italiano! e Fedeli alla linea. Dai CCCP ai CSI. Ha tradotto e curato monografie dedicate a Clash, Joy Division, Lou Read, Public Enemy, Pogues, Nick Cave, Smiths.
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
David Bowie «uccide» in pubblico, durante uno show all’Hammersmith Palais di Londra, il suo alter ego Ziggy Stardust – massima icona «glam».
Un gesto plateale, degno del più teatrale fra i concerti dell’epoca. Ma anche un atto necessario: quel personaggio stava quasi per sopraffare il suo demiurgo. Divo artificiale cresciuto in uno scenario influenzato dall’idea di futuro comunicata da due film di Stanley Kubrick, 2001: Odissea nello spazio (1968) – che a Bowie aveva ispirato già il suo primo brano di successo: Space Oddity – e Arancia meccanica (1971), Ziggy Polvere-di-Stelle annunciava l’avvento di una nuova era nella storia del rock. Accompagnato in scena dai Ragni di Marte, gruppo imperniato sulla figura del chitarrista Mick Ronson, rappresentava coi suoi capelli tinti d’arancione e gli abiti luccicanti il primo prototipo di rockstar sintetica. Qualcosa che non apparteneva alla realtà e nemmeno aspirava a esserne una riproduzione in qualche modo attendibile. Una creatura evidentemente artefatta. Bowie l’aveva plasmata pensando a un musical, ma dovette poi rinunciare a quel progetto troppo complesso e riformularlo secondo canoni più tradizionali: un disco – The Rise and Fall of Ziggy Stardust and The Spiders From Mars – e lo spettacolo a esso collegato. Ciò che non poteva immaginare era la febbre che si sarebbe accesa intorno alla messinscena.
Tutto ciò accadde poiché il rock aveva bisogno urgente di trovare uno sbocco alla propria profonda crisi di identità. Conclusi gli anni Sessanta, e accantonata con essi l’utopia hippie, servivano moventi nuovi per tener vivo il fenomeno: in qualche modo lo spettacolo doveva continuare. E il rock, musica per sua natura elementare e immediata che nel decennio appena terminato si era ritrovata a fare da ambasciatrice di messaggi onerosi, non potè fare altro che tramutarsi appunto in «spettacolo». O arte: nel senso più conservatore del termine. Aspirava a uno status di linguaggio espressivo «adulto», desideroso di un consenso borghese, manifestando così in modo esplicito il proprio connaturato complesso di inferiorità verso le forme d’arte istituzionali. Andava perciò negato il suo originario e ingenuo istinto sovversivo, quello che aveva spinto Chuck Berry a cantare Roll over Beethoven, invitando il vecchio Ludwig Van ad arrendersi e fare strada. Indice di ciò era stato il variare dell’unità di misura con cui valutare la qualità degli artisti: non più la canzone a 45 giri, bensì il long-playing, a sua volta non più raccolta di singoli brani ma opera coerente e compiuta. Iniziatore della specie era stato il leggendario Sgt. Pepper... dei Beatles, i quali avevano smesso di esibirsi dal vivo prima di cominciare a prepararlo, forse rendendosi conto inconsciamente che i semplici concerti non bastavano più: occorreva dell’altro. L’idea di teatralizzarli fino a renderli quasi messinscene circensi era perfetta e tempestiva.
E l’uomo ideale a cui affidare il compito era David Bowie. Nato nel quartiere londinese di Brixton, non ancora roccaforte degli immigrati antillani, lo stesso giorno di Elvis – 8 gennaio – ma 12 anni dopo, nel 1947, David Robert Jones aveva avuto il chiodo fisso dell’arte fin da adolescente. Arte, non solo musica. Cominciò dal pentagramma perché sembrava la scorciatoia più rapida per affermarsi in pubblico. Fece i primi passi atteggiandosi a mod e pubblicò in gruppo e da solo alcuni 45 giri (tanto poco venduti allora, quanto ricercati adesso dai collezionisti). Cambiò cognome nel 1965, per non essere scambiato con l’omonimo David Jones dei Monkees, e si appropriò di quello di Jim Bowie – soldato americano del XIX secolo morto ad Alamo che diede il nome a un particolare tipo di coltello da caccia. Il suo primo album – di impronta cantautoriale: fra Dylan e Brel – uscì nel 1967 senza quasi lasciare traccia. Fu una delusione. Cercò allora rifugio nel buddismo, ma soprattutto cominciò a frequentare i corsi del mimo Lindsay Kemp. Le cose andarono meglio: grazie a Space Oddity l’album seguente circolò più del primo, e sulla copertina del successivo, The Man Who Sold the World, Bowie comparve – fra lo stupore generale – vestito e truccato da donna. Frattanto aveva scoperto la pop art e il suo profeta Andy Warhol (nei cui panni si è calato poi nel 1998 sul grande schermo in Basquiat), al quale dedicò una canzone inclusa nel lavoro del 1971, Hunky Dory. Disco che ne conteneva un’altra in onore dei cambiamenti: Changes, che a un certo punto ammonisce: «Attenti voi del rock’n’roll / invecchierete presto». Arrivato in ritardo all’appuntamento con gli anni Sessanta, David Bowie aveva capito già il senso dei Settanta.
Pochi mesi prima di diventare Ziggy Stardust, intervistato dal settimanale «Melody Maker» a proposito dell’immagine pubblica che aveva calzato da The Man Who Sold the World in avanti, fece outing: «Sono gay e lo sono sempre stato», disse. Strano fosse sposato da due anni con Angela Bassett, però. Ma nell’equivoco che si generò allora sta il segreto profondo del fenomeno a cui il Bowie dell’epoca viene comunemente associato: il glam rock – laddove glam è contrazione di glamour: fascino, incantesimo. Un mosaico semantico a base di umore decadente, ambiguità sessuale, contegno frivolo, abbigliamento appariscente e cronico spleen. L’effetto d’insieme avrebbe sedotto senz’altro Oscar Wilde, non a caso scelto dal regista Todd Haynes come icona originaria nel film del 1998 Velvet Goldmine, appassionato resoconto in bilico tra fiction e documentario dell’epopea glam londinese dei primi anni Settanta. Fermento sottoculturale destinato a produrre oltremanica alcuni grotteschi effetti secondari in classifica (Gary Glitter, Sweet, Slade) e a deviare oltreoceano verso il travestitismo alcuni settori della scena hard rock (New York Dolls, Alice Cooper, Kiss). Convenzionalmente si dice glam e si scrive Bowie, anche se le cose non stanno esattamente così.
Vero iniziatore del fenomeno, e modello a cui lo stesso Bowie ammette di essersi ispirato, fu Marc Bolan. Coetaneo del signor Jones, come lui orfano della rivoluzione hippie, a cui aveva consacrato le sue prime imprese musicali con John’s Children e Tyrannosaurus Rex, e almeno altrettanto ambizioso. A successo raggiunto, dichiarò: «Sono sempre stato una stella, anche quando si trattava di esserlo solo per tre vie di Hackney». Alludeva agli anni della gavetta trascorsi a fare il guardarobiere in discoteca, l’assistente di un prestigiatore, la comparsa televisiva e l’aspirante fotomodello. La svolta arrivò – guarda caso – con gli anni Settanta: prese lezioni di chitarra da Eric Clapton per rendere il proprio suono più rock, accorciò il nome del gruppo in T. Rex e cominciò a sfornare 45 giri da hit parade con disinvoltura sbalorditiva. Una dozzina fra il 1970 e il 1973: Hot Love, Get It on, Telegram Sam e Metal Guru i più celebri. Era in quel periodo una rockstar senza rivali in patria: il personaggio che colmava momentaneamente il vuoto lasciato dai Beatles, tant’è vero che si parlava a quei tempi di bolanmania. E – a proposito – Ringo Starr girò allora un film ispirato alla sua figura: Born to Boogie. Per il settimanale «New Musical Express» era il divo pop definitivo: «attraente, ambiguo, ribelle, acuto e ottuso, timidamente violento ma assurdamente romantico, sessualmente misterioso, fotogenico, scaltro e, soprattutto, irresistibilmente irraggiungibile». In Children of the Revolution cantava: «Guido una Rolls Royce / perché fa bene alla voce». Ma non aveva la patente. Morì il 16 settembre 1977 in un incidente automobilistico, a bordo di una vettura guidata da un’amica. Superata una fase di declino, stava tornando di moda grazie al punk.
Se Bolan era stato il pioniere del glam rock, ai Roxy Music spettò il compito di esplorarne fino in fondo le possibilità. In due parole: «rock sexy» – dalla crasi tra i vocaboli deriva il nome. Aveva in mente questo Bryan Ferry: origini povere ma studi aristocratici. A scuola fu allievo di Richard Hamilton, teorico inglese della pop art, e di Mark Lancaster, che aveva lavorato con Warhol ai ritratti seriali di Marilyn Monroe. «Mi impressionò il modo in cui trovava l’arte nelle cose di tutti i giorni», diceva a proposito del secondo. Con quella sua aria da ultimo gigolò, Ferry incarnava l’identità stessa del gruppo, da cui ben presto – proprio per i conflitti di personalità col cantante – si allontanò Brian Eno. Più della musica in sé, raffinata e a suo modo avveniristica (come negli anni Ottanta dimostrò la genìa da essa derivata: Simple Minds, Japan, persino Duran Duran), contava l’immagine. Donne fatali sulle copertine dei dischi (a illustrare quella di For Your Pleasure c’è l’equivoca Amanda Lear), abiti così eleganti da rasentare il Kitsch, un’atmosfera narcisista da nuova Belle Epoque, la sensazione di un mondo in bilico tra la Factory di Warhol e Las Vegas ai tempi di Elvis. Perché, dice un verso di Mother of Pearl, tra le canzoni più languide del loro repertorio, «perdere tempo nelle feste è troppo divertente». La messinscena creata dai Roxy Music – in vita dal 1972 al 1976, con successiva appendice dal 1978 al 1982, dopo di che Ferry si è messo in proprio – svelava l’intinseca artificiosità della musica pop, ossia ciò che la rende davvero tale.
La ricaduta di quei modelli sui consumi di massa fu significativa in termini quantitativi. Come spiegare altrimenti il successo di gruppi come Electric Light Orchestra e Supertramp? Dandy per convenienza più che per convinzione, star decadenti a mezzo tempo. Più curioso è il caso di Elton John: nato cantautore confidenziale e rapidamente tramutatosi in gigione rock senza alcun timore di scivolare nel cattivo gusto. È quest’ultimo, alla fin fine, il suo pregio principale, ciò che l’ha reso col tempo divo affermato a tal punto da diventare la prima rockstar occidentale a esibirsi oltre la cortina di ferro, in Unione Sovietica e poi anche in Cina. Ma il principale effetto secondario del glam rock sono stati i Queen. E in modo particolare colui intorno al quale è lievitata la fama del gruppo: l’incontenibile Freddie Mercury – una Maria Callas in versione heavy metal. Personaggio ambiguo ed eccessivo (tanto da pagare di persona, morendo di Aids nel 1991, le proprie spericolatezze esistenziali), ma artisticamente così sensibile da simboleggiare meglio di chiunque altro l’irrisolvibile contraddittorietà degli anni Settanta, sospesi fra la potenza muscolare dell’hard rock e l’enigmatica teatralità di Bowie. Con quest’ultimo, Mercury e i Queen duettarono nel 1980 sul ritmo galante di Under Pressure...
A quel punto David Bowie era stato già tutto e il contrario di tutto. La creatura mezzo uomo e mezzo cane che vaticinava incubi orwelliani in Diamond Dogs. Il crooner postmoderno di Young Americans. Il duce espressionista di Station to Station, così preso nella parte del Duca Bianco, e stordito di droghe, da flirtare col nazismo. Il divo esistenzialista della trilogia – Low, Heroes, Lodger – realizzata con Brian Eno, quando di Berlino ad attrarre era soprattutto lo zoo (chiedere conferma a Cristiana F). E infine il Pierrot Lunaire di Scary Monsters. Non lo chiamano per caso «il camaleonte». Intervistato nel 1983 dal mensile «The Face», spiegò così la propria istintiva mutevolezza: «Non ho mai esplorato nulla fino al punto in cui potesse diventare il mestiere della mia vita... Per me è molto più confortante pensare che se sei un artista puoi metter mano a qualsiasi cosa, in qualunque stile». La coerenza come fardello. Ma anche un modo efficace per sottrarsi, novello Dorian Gray, alle ingiurie del tempo. E nello stesso momento smentire la regola aurea dell’arte pop, quella che riguarda la transitorietà, che nell’elenco di prerogative della pop art stilato nel 1957 da Richard Hamilton veniva subito dopo l’essere «popolare (destinata al consumo di massa)» e appena prima dell’essere «consumabile (facile da dimenticare)». Come prodotto pop David Bowie persiste dal 1969 (anche al cinema: da L’uomo che cadde sulla Terra di Nicholas Roeg a Il mio West di Leonardo Pieraccioni, passando per Furyo di Nagisa Oshima!), tanto che da qualche anno i titoli intestati a suo nome vengono quotati a Wall Street (benché ultimamente siano considerati junk bonds).
Avessero voluto, avrebbero potuto fare altrettanto i Pink Floyd dopo il 1973, anno in cui pubblicarono The Dark Side of the Moon: il disco più venduto di tutti i tempi, coi suoi 30 milioni di esemplari (e le oltre 700 settimane consecutive di presenza nei Top 200 dell’hit parade statunitense!), oltre che emblema allegorico dell’epoca in cui venne concepito. Ecco i moventi dell’opera nelle parole del batterista Nick Mason: «L’idea originaria riguardava lo stress della vita moderna: denaro, tempo, viaggi e così via». Qualcosa come il Cynar, per chi ricorda i caroselli con Ernesto Calindri... Tramutandosi in prodotto, andò a ruba e alimentò in quel modo lo stesso sistema che intendeva criticare – un vecchio equivoco del rock, che spinse il critico Robert Christgau a recensirlo sul «Village Voice» definendolo «un capolavoro del kitsch». La contraddizione incrinò l’equilibrio del gruppo. «È stato l’inizio della fine», il laconico commento di Roger Waters. Cominciò allora la lenta ma inesorabile deriva dei Pink Floyd verso il gigantismo rock: dal pallone aerostatico a forma di maiale dei concerti che seguirono la pubblicazione di Animals (1977) all’apocalittico scenario edilizio/filosofico per l’allestimento scenico di The Wall (disco del 1979 che ispirò l’omonimo e mediocre film di Alan Parker del 1982). Waters se ne andò, a quel punto. E dopo un po’ gli altri decisero di continuare, vincendo la causa legale per la potestà sul nome. Altri eventi colossali – il concerto in piazza a Venezia nel 1989, dopo che nel 1971 si erano esibiti a fini cinematografici tra le rovine di Pompei – e dischi sempre meno degni del nome che portavano impresso sul frontespizio.
La storia era cominciata in tutt’altro modo e con spirito ben diverso. Metà anni Sessanta,
al London Polytechnic, facoltà di architettura. La frequentavano Nick Mason, Richard
Wright e Roger Waters, quest’ultimo originario di Cam-
bridge. Fu un suo concittadino a completare dopo un po’ l’organico: Syd Barrett, colui
che inizialmente – dal 45 giri See Emily Play all’album The Piper at the Gates of Dawn – fu principale forza motrice del quartetto e ne coniò la denominazione onorando
la memoria di due interpreti minori del blues – Pink Anderson e Floyd Council. A quei
tempi il quartetto si esibiva in tutti i covi della scena off londinese: al leggendario Marquee, nella serata Spontaneous Underground, e all’Ufo Club in Tottenham Court Road, inaugurato proprio da loro il 23 dicembre
1966. Anche nella capitale britannica, dove continuava a impazzare la beatlemania, stava cominciando ad aggregarsi un abbozzo di controcultura mutuato dall’esempio
californiano. Erano fogli indipendenti quali «Oz» e «It» a diffondere il verbo, e
proprio per sostenere il secondo, messo sotto tiro da polizia e magistratura, il 29
aprile 1967 fu convocato all’Alexandra Palace il raduno 14 Hour Technicolour Dream. Il titolo era tutto un programma e il cast accattivante: Pete Townshend dei Who,
Arthur Brown, Yoko Ono... Tra i gruppi inglesi in ascesa erano due quelli da tenere
d’occhio: Pink Floyd e Soft Machine.
Dichiaratamente ispirati al romanzo omonimo di William Burroughs (senza dubbio lo scrittore più influente sui destini del rock), i Soft Machine arrivavano da Canterbury ed erano esponenti di punta della vivacissima scena musicale del posto: laboratorio in cui, a dire il vero, il rock veniva considerato un ingrediente fra i tanti, e nemmeno quello essenziale. Contavano maggiormente la sua deriva psichedelica e il jazz sperimentale proveniente d’oltreoceano, con in più – nel caso specifico – una spruzzata della patafisica formulata in Francia da Alfred Jarry agli albori del Novecento. Prima di orientarsi, ancorché in modo niente affatto ortodosso, verso il jazz, come sarebbe capitato dal terzo album (1970) in poi, il gruppo espresse tutta la propria irrequietezza formale in due dischi tuttora sorprendenti all’ascolto. Merito di un paio di lunatici che gravitavano in quell’orbita: Kevin Ayers e soprattutto Daevid Allen, in seguito a capo dei Gong sull’altra sponda della Manica. Unico a seguirne le orme asimmetriche fu il batterista Robert Wyatt, che una volta uscito dai Soft Machine fece in tempo a realizzare un geniale album solista (The End of an Ear) e due coi Matching Mole (si pronuncia come in francese machine molle – capito il trucco?) prima di essere costretto su una sedia a rotelle per il resto della vita da un malaugurato incidente. Della lunga notte all’Alexandra Palace conserva chissà come un ricordo Daevid Allen: «I Pink Floyd suonarono alle quattro del mattino [...]. Dev’essere stato uno dei migliori concerti che abbiano mai fatto. Syd suonò la slide [tipo di chitarra impiegata nel blues] e mi esplose nel cervello: sentivo echi di tutta la musica ascoltata in vita mia...».
Syd Barrett era un genio, ma anche un problema. Gli abusi chimici (soprattutto Lsd) a cui sottoponeva il proprio corpo ne avevano alterato la stabilità psichica. Perciò venne allontanato dal gruppo nel 1968: smacco a cui reagì avviando una carriera individuale destinata a spegnersi nell’arco di due dischi. È lui il crazy diamond («diamante folle») evocato anni dopo in Wish You Were Here (1975): «vorremmo che fossi qui»... A rimpiazzarlo come chitarrista fu chiamato David Gilmour e il quartetto assunse così la fisionomia nota ai più. I Pink Floyd realizzarono album ancora visionari come A Saucerful of Secrets e Ummagumma, colpendo la fantasia di Michelangelo Antonioni, che volle le loro musiche per Zabriskie Point, ma si stavano orientando già in un’altra direzione. Fu chiaro nel 1970, al momento della pubblicazione di Atom Heart Mother: opera imperniata sulla suite omonima, che per tipo di scrittura e genere di arrangiamento (orchestrato dal musicista «colto» Ron Geesin) alludeva in modo esplicito alla tradizione classica. Senza per altro negare il rock. Alla confluenza fra due linguaggi in apparenza eterogenei stava prendendo forma allora un’entità ibrida chiamata progressive, che alla lettera alludeva al progresso ma nei fatti si rivolgeva al passato.
Se davvero il rock aveva bisogno di «credibilità», l’idea di associarlo alla musica classica – tanto autorevole quanto ossificata in accademia – era quel che ci voleva. E questo in effetti accadde in Gran Bretagna nei primi anni Settanta. Keith Emerson (prima coi Nice e quindi in trio con Lake & Palmer), Yes, Moody Blues, più tardi Mike Oldfield (che fece saltare il banco con Tubular Bells): strumentisti virtuosi che avvalendosi dei nuovi ritrovati tecnologici – dal sintetizzatore al mellotron, una sorta di rudimentale campionatore – simulavano elettronicamente i suoni delle orchestre. A volte scomodando persino autori tradizionali – Pictures at an Exhibition di Emerson Lake & Palmer è una supercover dell’omonima suite per pianoforte di Musorgskij e il maggiore successo dei Jethro Tull di Ian Anderson fu il 45 giri confezionato rileggendo la Bourée di Bach. Il kitsch – vero denominatore comune di molta musica dell’epoca – era dietro l’angolo. Non seppero sottrarsene nemmeno i Genesis, che pure poterono contare fino al 1975 sul talento di Peter Gabriel. La combinazione fra testi gravidi di allegorie e sonorità maestose sfociava però in polpettoni di difficile digeribilità: sono così anche i loro dischi considerati all’epoca migliori, opere (ovviamente a soggetto, o concept come si diceva allora) quali Selling England by the Pound e The Lamb Lies Down on Broadway, ampollosi quanto i titoli che li annunciano. Un’eccezione può essere fatta semmai per i King Crimson: l’estro irrequieto del chitarrista e leader Robert Fripp li condusse ben presto lontano dal progressive nel cui alveo avevano esordito nel 1969.
Fenomeno squisitamente europeo, il rock «progressivo». Con diramazioni in Germania (dov’era chiamato krautrock e suonava senz’altro meno paludato), Francia (dai Magma ai citati Gong) e Italia (Premiata Forneria Marconi, Banco del Mutuo Soccorso e – jolly nel mazzo: sarà per la brevità icastica del nome?! – Area). Scarsa, se non assente, la sua eco oltreoceano. Dove ci fu però un musicista che almeno in fatto di attitudine – sfuggire ai cliché del rock anni Sessanta – era sintonizzato sulla medesima lunghezza d’onda: Frank Zappa. Anch’egli sensibile alla tradizione colta – ma agli autori classici preferiva un irregolare come Edgar Varèse – e alle suggestioni del jazz, neutralizzava il rischio di accademismo con una scorta di humour pressoché illimitata. Tale prerogativa informò soprattutto la prima parte della sua carriera, quando era a capo dei Mothers Of Invention (nome scelto in onore della massima platonica «La necessità è la madre dell’invenzione») e sbeffeggiava persino i Beatles, rispondendo al loro ambiziosissimo Sgt. Pepper... con il caustico We’re Only on It for the Money («Lo facciamo solo per soldi»). Fra stupid songs – definizione sua – e progetti di ampio respiro, la produzione discografica di Zappa – collocata in un arco di tempo che va dal 1966 al 1993, anno della morte – è praticamente incommensurabile. Il suo voler essere outsider a tutti i costi lo ha reso rispettatissimo negli ambiti più diversi, tanto che nel 1985 addirittura Pierre Boulez volle eseguirne alcune partiture dirigendo la London Symphony Orchestra – con esiti per altro francamente stucchevoli. Era stato ricondotto anch’egli ad «accademia». Chi di spada ferisce, di spada perisce: vale il vecchio adagio anche nel caso di Frank Zappa, artista alla fin fine esiliato nel proprio microcosmo autoreferenziale. Ne era consapevole, del resto: «Per quel che mi riguarda scrivo musica perché voglio sentirla». Persi i contatti con le sottoculture che lo avevano alimentato durante il decennio precedente, negli anni Settanta il rock – e con esso i suoi protagonisti – si trovava in una condizione analoga.
LIBRO |
Art into Pop Simon Frith e Howard Horne (Methuen, 1987). |
LIBRO |
David Bowie. L’enciclopedia Nicholas Pegg (Arcana, 2002). |
DISCO |
Electric Warrior T. Rex (Fly, 1971). |
DISCO |
For Your Pleasure Roxy Music (Island, 1972). |
DISCO |
Hot Rats Frank Zappa (Bizarre, 1969). |
VIDEO |
Pink Floyd at Pompei Adrian Maben (Mercury, 1989). |
LIBRO |
Pink Floyd. Uno scrigno di segreti Nicholas Schaffer (Arcana, 1993). |
DISCO |
The Dark Side of the Moon Pink Floyd (Harvest, 1973). |
VIDEO |
Velvet Goldmine Todd Haynes (Miramax, 2003). |
VIDEO |
Ziggy Stardust. The Motion Picture David Bowie (Emi, 2003). |