Indice Estratto

Edizione: 2003, II rist. 2004
Pagine: 230
Collana: Biblioteca di Cultura Moderna [1167]
Serie: Temi per lestetica
ISBN carta: 9788842069942
ISBN digitale: 9788858122518
Argomenti: Filosofia antica e medievale: storia e saggi, Estetica: storia e saggi

Prima dell'estetica

Poetica e filosofia nell'antichità

Daniele Guastini

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Cosa c'era prima dell'estetica? In questo libro, le trasformazioni del pensiero che hanno posto fine alla concezione antica dell'arte poetica come forma diretta di sapienza e favorito il sorgere e l'affermarsi dell'estetica come riflessione filosofica tipicamente moderna sull'arte, il bello e la sensibilità.

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Edizione: 2004
Pagine: 230
Collana: Biblioteca di Cultura Moderna
ISBN: 9788842069942

L'autore

Daniele Guastini

Daniele Guastini (Roma, 1963) ha insegnato come professore a contratto nell'Università di Urbino. Attualmente insegna poetica e retorica nella Facoltà di Filosofia dell'Università di Roma La Sapienza. Tra le sue pubblicazioni, Come si diventa uomini. Etica e poetica nella tragedia greca (1999).

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¹ Non si può parlare di estetica antica se non nel senso traslato in cui ne parla, ad esempio, Tatarkiewicz, che nella sua ricerca storica usa questa nozione soprattutto per evidenziare distanza e differenze. Cfr. W. Tatarkiewicz, Storia dell’estetica (1970), 3 voll., Einaudi, Torino 1979, in part. il vol. I; Id., Storia di sei idee (1976), trad. it. a cura di O. Burba e K. Jaworska, con consulenza scientifica e postfazione di L. Russo, Aesthetica, Palermo 1997. Altri tentativi – da questo punto di vista è emblematico G. Carchia, L’estetica antica, Laterza, Roma-Bari 1999, su cui torneremo – appaiono soprattutto come attualizzazioni del passato, in cui, seppur con grande finezza e competenza, si traspongono nell’antichità idee e prospettive, come quelle del bello e dell’autonomia dell’arte, che le sono invece estranee.

² Sulla storia della formazione del sistema delle belle arti, fondamentale resta P. Kristeller, Il moderno sistema delle arti (1951), in Id., Il pensiero e le arti nel Rinascimento, Donzelli, Roma 1998, pp. 179-244. Sul rapporto tra arte e religione in relazione alla formazione dell’estetica si veda il recente H. Belting, Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo (1990), Carocci, Roma 2001, in part. pp. 557-596. Per uno sguardo d’insieme introduttivo (con antologia di autori e bibliografia) alla questione della formazione dell’estetica moderna tra pensiero religioso medievale e rivoluzione scientifica seicentesca, ci permettiamo di rimandare anche a P. Montani, con A. Ardovino e D. Guastini, Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea. Un’introduzione all’estetica, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 117-145.

³ Non si può negare, ad esempio, che per la fisica il movimento sia un dato che precede la disciplina e che la fisica sia nata proprio per spiegare quel dato. Stesso discorso vale, in definitiva, per le scienze umane. Anch’esse in qualche misura hanno un oggetto che preesiste loro. Solo per fare degli esempi: la battaglia di Salamina è un ‘dato’ per la storiografia, come, in un certo senso, concetti e categorie sono ‘dati’ per la filosofia teoretica e momenti e correnti di pensiero sono ‘dati’ per la storia della filosofia. Non così per l’estetica, che non si fonda su ‘dati’ neanche nel senso debolissimo ammesso ora per altre discipline filosofiche, ma che piuttosto fonda i suoi dati, riunificando ciò che fino a quel momento era stato percepito in modo affatto eterogeneo. Insomma: resta il fatto che se la fisica o la storiografia non si fossero mai costituite, la caduta dei gravi o la battaglia di Salamina resterebbero dati da spiegare, mentre se non si fosse costituita l’estetica non si potrebbe parlare di qualcosa come di opere dell’arte bella. Sulla paradossalità dei «fatti estetici» cfr. E. Garroni, Senso e paradosso, Laterza, Roma-Bari 1986, in part. pp. 3-61.

⁴ Se si prendono le Meditationes di A.G. Baumgarten (1735), che precedono di undici anni il testo di C. Batteux significativamente intitolato Les Beaux arts réduits à un même principe (in cui per la prima volta si fa esplicito riferimento ad un sistema delle belle arti, composto da musica, pittura, poesia, scultura, danza e architettura, non troppo differente da come lo si intende ancora oggi), e di ben quindici anni la prima parte della sua Estetica, il testo che viene comunemente adottato come incipit della disciplina, ci si accorge subito dell’intima connessione in cui stanno sorgendo la nuova scienza della conoscenza sensibile e la nuova nozione di arte. Quest’ultima intesa come oggetto privilegiato e mezzo di perfezionamento della sensibilità in direzione della conoscenza intellettuale. Per un primo orientamento su queste questioni (con antologia degli autori citati e bibliografia) cfr. Montani, Arte e verità cit., pp. 147-200.

¹ Ecco presentarsi subito nella concreta forma della ricerca storica uno dei problemi di cui si è discusso in via teorica nell’Introduzione. Parlare di ‘arte cristiana’ a proposito delle rappresentazioni religiose dei primi secoli del cristianesimo richiede, infatti, una buona dose di convenzionalità che, come tale, possiamo anche accogliere. I graffiti che agli albori del cristianesimo ritroviamo nelle catacombe non hanno, né tantomeno ambiscono ad avere, valore artistico. Non è certo al gusto e alla bellezza che mirano. Ricercare qualcosa come un piacere estetico, in quel contesto avrebbe avuto un senso perfino blasfemo. L’evento che gran parte degli studiosi data intorno all’inizio del III secolo, l’epoca in cui la cultura cristiana comincia ad ammettere le prime deroghe al divieto mosaico di non farsi immagine «delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù in terra o nell’acqua sotto terra» (Es. 20,3; Deut. 5,8-9), non è un evento artistico. È l’avvenimento storico di una nuova cultura della rappresentazione. Per uno sguardo d’insieme sul trapasso dall’arte pagana all’arte cristiana cfr., tra gli altri, R. Bianchi Bandinelli, Roma: la fine dell’arte antica (1970), Rizzoli, Milano 19762.

² A questo proposito cfr. H.I. Marrou, Decadenza romana o tarda antichità (1977), Jaca Book, Milano 1997, che fu tra i primi negli anni Cinquanta a comprendere come a proposito della tarda antichità si dovesse parlare non di decadenza, ma di uno spirito nuovo. In questo senso vanno anche gli studi di A. Grabar, tra i quali si veda in particolare Le vie della creazione nell’iconografia cristiana: Antichità e Medioevo (1979), Jaca Book, Milano 19992.

³ Non è nemmeno la principale, perché, sebbene con il cristianesimo il significato delle immagini muti, di fatto i contenuti iconografici in gran parte restano i medesimi e comunque, quando scompaiono, non scompaiono di colpo (solo per fare un esempio tra i più diffusi: Cristo viene rappresentato ancora per alcuni secoli dopo l’avvento dell’arte cristiana con le stesse sembianze di filosofo tipiche dell’iconografia tradizionale). I più autorevoli studi in questo campo hanno avuto facile gioco nel rimarcare come, sotto lo strappo provocato dal cristianesimo, resista un consistente tessuto di continuità iconografica con il passato. A questo proposito cfr. ancora Grabar, Le vie della creazione cit., in part. pp. 23-83.

⁴ Sulla mimesis si è formata in questi ultimi cinquant’anni una vasta letteratura specialistica, di cui qui non è possibile dare conto. In questa stessa letteratura, fatte pochissime eccezioni – tra tutte spiccano quelle di H.G. Gadamer e di P. Ricoeur, le cui opere verranno in seguito ampiamente citate – si nota però anche un vuoto d’analisi. Dibattendo con passione tesi anche molto distanti tra loro, si cerca di attestare l’origine, le occorrenze e il significato di mimesis e dei suoi correlati in ambito poetico, senza però tentare di risalire all’orizzonte di pensiero in cui la concezione della mimesis è potuta nascere e maturare e di cui resta uno dei principali documenti. Senza naturalmente trascurare il dato filologico, è questo lavoro filosofico che si cercherà di intraprendere qui. La bibliografia più completa e aggiornata sul problema della mimesis la ritroviamo, come già detto supra, p. XII, in S. Halliwell, The Aesthetics of Mimesis, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 2002, pp. 383 sgg.

⁵ Tra i quali il tardo vocabolo mimesis che non compare prima del V secolo a.C. La più completa catalogazione del gruppo mimeisthai si trova senz’altro in G. Sörbom, Mimesis and Art. Studies in the Origin and Early Development of an Aesthetic Vocabulary, Svenska Bokförlaget, Uppsala 1966, in cui si stabiliscono63 occorrenze del termine in epoca preplatonica, di cui 19 applicate all’ambito poetico.

⁶ Sulla poesia greca come sapere, lo studio di maggior respiro resta sempre quello di W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco (1933-46), 3 voll., La Nuova Italia, Firenze 19782. Per una diversa prospettiva cfr. M. Detienne, I maestri di verità nella Grecia arcaica (1967), Mondadori, Milano 19922. Cfr. inoltre, anche se in relazione alla sola Odissea, il notevole saggio di A. Setti, La memoria e il canto. Saggio di poetica arcaica greca, in «Studi italiani di filologia classica», 30 (1958), pp. 129-171.

⁷ La traduzione del passo è realizzata sul testo stabilito e tradotto in francese da Ph.-E. Legrand: Hérodote, Histoires, Livre II, Les Belles Lettres, Paris 1936.

⁸ Sebbene anche la poiesis greca desse particolare rilievo alla bellezza (indicata come charis, kallos, ecc.) nessuno dei termini con cui la si designava aveva il senso specificamente estetico che possiamo attribuirle noi. «Il più giusto è il più bello» si poteva leggere tra le iscrizioni che campeggiavano sul tempio di Delfi. La bellezza per i greci era una categoria etica e teoretica, prima che poetica. Riguardava non solo cose, ma anche pensieri e azioni. Nella lingua omerica, i termini kalos e charis avevano un senso etico perlopiù legato all’aspetto virtuoso dell’eroe, e il loro significato si mescolava con quello di ‘valoroso’, ‘nobile’. Del resto, neanche quando riferito a cose sensibili si può dire che il termine kalos assumesse un senso “estetico”. In quel caso, aveva un senso teoretico. Dai pitagorici in poi, infatti, le cose belle – ciò che in relazione alla vista era sinonimo di symmetria e in relazione all’udito sinonimo di harmonia – saranno tali in virtù del rapporto ordinato che manifestano e che, in quanto tale, poteva essere determinato oggettivamente. Tutto ciò andava in direzione non di quell’autonomia che all’arte poetica verrà riconosciuta dall’estetica moderna, ma in direzione di una sua pressoché completa eteronomia, totalmente aperta verso gli altri saperi. Pensare al mondo dell’arte greca come a un mondo di bellezza non è adeguato. Ad esempio, la bellezza afroditica di cui si parla in G. Carchia, L’estetica antica, Laterza, Roma-Bari 1999, in part. pp. 6-9, non può in alcun modo essere intesa in senso estetico. Non a caso W. Otto, Gli dèi della Grecia. L’immagine del divino riflessa dallo spirito greco (1927), La Nuova Italia, Firenze 1941, pp. 111-127, a cui si deve la definizione, parla di ‘bellezza afroditica’ solo in riferimento alla dimensione religiosa. Bisogna sempre ricordare che, come abbiamo documentato sopra, ciò a cui noi siamo abituati a conferire un valore poetico, cioè il mondo mitologico degli dèi olimpici, per i greci aveva invece un valore soprattutto religioso. I riferimenti mitologici ad Afrodite avevano per la cultura greca una valenza estetica pari a quella che per la nostra cultura può avere un passo dal Libro dei Salmi.

⁹ Per una ricognizione storica e concettuale del nesso tra arte e verità, ci permettiamo di rimandare a P. Montani, Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea. Un’introduzione all’estetica, Laterza, Roma-Bari 2002.

¹⁰ A questo proposito cfr. la bella introduzione di G. Colli alla sua edizione critica dei documenti orfici intitolata significativamente La sapienza greca, 3 voll., Adelphi, Milano 1977, vol. I, pp. 15-48.

¹¹ Cfr. Platone, Prot. 339 b. Su questo passo di Simonide e sulla sua valenza filosofica cfr., tra gli altri, B. Gentili, Studi su Simonide II. Simonide e Platone, in «Maia», 16 (1964), pp. 278-306.

¹² Per la traduzione dei testi di Pindaro, qui e più avanti si è seguita con non poche modifiche l’edizione a cura di E. Mandruzzato (Pindaro, L’opera superstite, 4 voll., SE, Milano 1994), realizzata sul testo stabilito e tradotto in francese da A. Puech, Pindare (1923-31), 4 voll., Les Belles Lettres, Paris 1962.

¹³ Tra le più nitide e approfondite trattazioni della valenza politica della tragedia attica è senz’altro C. Meier, L’arte politica della tragedia greca (1988), Einaudi, Torino 2000. A proposito dell’incrocio tra mimèsi comica e valenza etica e politica della commedia di Aristofane, di cui qui non si potrà trattare, cfr. l’esemplare L. Strauss, Socrates and Aristophanes, Basic Books, New York-London 1966.

¹⁴ Alcm. 39 e 40. Per l’interpretazione di questi frammenti correlati cfr. B. Gentili, I frr. 39 e 40 P. di Alcmane e la poetica della mimesis nella cultura greca arcaica, in Studi filologici e storici in onore di V. De Falco, Libreria scientifica, Napoli 1971, pp. 57-67, a cui si deve la prima intuizione dello stretto rapporto che questi frammenti hanno con la poetica della mimesis e a cui qui si rimanda anche per la ricostruzione della loro complessa tradizione filologica ed esegetica.

¹⁵ Il termine oida corrisponde alla prima persona del perfetto atematico del verbo eidenai. Quest’ultimo, riconducibile all’idein, al ‘vedere’, al perfetto atematico, mantiene senso di presente e significa ‘sapere’ (‘so in quanto ho visto’), richiamando così, forse meglio di ogni altro vocabolo della lingua greca – come torneremo a vedere anche per Platone –, la modalità più peculiare del sapere greco: quella della identificazione tra sapere e vedere, del sapere con certezza per esserne stato testimone. Sulla profondità etimologica dell’eidenai e sulla sua trasmissione dalla paideia poetica alla filosofia cfr. B. Snell, Il cammino del pensiero e della verità. Studi sul linguaggio greco delle origini (1978), Gallio, Ferrara 1991, pp. 34-40.

¹⁶ Questa vocazione ontologica e conoscitiva riscontrabile nella concezione greca dell’eikon poetica già prima della riflessione filosofica su di essa, è perfettamente individuata da J.-P. Vernant, Nascita di immagini e altri scritti su religione, storia, ragione (1979), Il Saggiatore, Milano 1982, in cui si legge che l’immagine già in età arcaica possedeva la funzione di «via d’accesso all’essere a partire dalle sue manifestazioni sensibili» (p. 143).

¹⁷ In questa indicazione heideggeriana si può senz’altro ritrovare uno dei momenti di massima vicinanza e insieme di fondamentale estraneità al pensiero greco di tutta la filosofia moderna. Affermare, infatti, come fa M. Heidegger ne La dottrina platonica della verità (1940), in Id., Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 159-192, che «per i Greci, agli inizi la velatezza (Verborgenheit), intesa come un velarsi, domina l’essenza dell’essere» (ivi, p. 178), cioè che sia quello del nascondimento il momento più originario della verità greca fino a Platone e Aristotele – con i quali avrebbe poi avuto avvio il corso della metafisica occidentale, vale a dire, in sostanza, quel rovesciamento del concetto di verità che pone ad origine la svelatezza e quindi la orthotes, la correttezza della proposizione – rivela una formidabile sovrapposizione di paradigmi. Certo, Heidegger qui può fare perno sul senso etimologico della parola greca a-letheia (il verbo lanthanein significa ‘restare nascosto’ e la sua sostantivazione con alfa privativo dà proprio il senso del non-nascondimento), ma ciò non toglie che questa interpretazione dell’aletheia, su cui riposa la concezione heideggeriana della differenza ontologica, abbia anche un’altra e forse più diretta paternità: la dottrina della verità che emerge dal cristianesimo delle origini, di cui parleremo nel cap. IV. L’idea della verità come originario nascondimento, piuttosto che alla luce abbagliante del phainesthai, del manifestarsi della verità nell’ente, tipica dello spirito greco, dovrebbe essere ricondotta alle ombrose profondità dell’idea cristiana di verità; a san Paolo, che nella Prima lettera ai Corinti afferma di non predicare «la sapienza di questo secolo, né dei principi di questo mondo, che vengono ridotti a nulla [...] ma la sapienza di Dio, che è nel mistero ed è nascosta» (1 Cor. 2,6-7). Detto in estrema sintesi, la modalità del rapporto tra velatezza e nascondimento insita nella nozione greca di aletheia non si basa su quell’Ab-grund, quel fondo abissale che Heidegger scorge come il tratto più originario dell’essere, ma si basa, al contrario, sulla presenza, sulla parousia dell’essere negli enti. E ciò, si direbbe, vale senza grandi eccezioni dall’antichità omerica fino alla filosofia classica (in questo senso fa bene P. Friedländer, Platone. Eidos, Paideia, Dialogos [1954], La Nuova Italia, Firenze 1979, pp. 291-303, a far notare come tra i due significati di aletheia – non-nascondimento e correttezza della proposizione – vi sia, anche filologicamente, meno distanza e separazione di quanto Heidegger pensasse, comprovando la contemporanea presenza dei due significati del termine e il loro intreccio indirimibile, già prima di Platone. In Omero, Esiodo, Parmenide, Eraclito, cioè proprio in quella paideia preplatonica di cui stiamo parlando qui).

¹⁸ Sul thaumaston come meraviglia, stupore, di fronte all’essere convergono, ancora una volta senza grandi soluzioni di continuità, sia la poesia dei primi secoli – si veda, ad esempio, l’Inno omerico a Demetra che narra del thaumaston davanti ai frutti di Gaia, la personificazione mitologica della physis (cfr. II, 10) – sia la filosofia: Platone e Aristotele, che, come vedremo, pongono il thaumazein alla base della ricerca filosofica (cfr. Thaet. 155 d; Metaph. 982 b 12). Sul termine physis bisogna invece fare da subito grande attenzione. Infatti, la parola greca physis, pur contemplando anche il significato di ‘realtà naturale’ – quella di cui la scienza moderna sottolinea soprattutto l’aspetto di regolarità, di normatività fenomenica, cioè, le leggi, e di cui invece i greci sottolineavano soprattutto l’incondizionatezza, la libertà del manifestarsi – significa in primo luogo ‘origine’, ‘principio’, anche ‘fine ultimo’. Ciò spiega come per i greci potesse appartenere alla physis, oltre alla realtà naturale propriamente detta, anche molto di ciò che nella tradizionale scansione moderna tra natura e cultura è stato poi attribuito a quest’ultima, come la realtà politica. La polis è considerata dai greci la natura dell’uomo perché è considerata – come a suo tempo sentiremo dire ad Aristotele, anche in questo interprete fedele della tradizione greca – attuazione della sua natura di essere sociale, fine ultimo dell’uomo. Il riferimento dei greci alla physis è quindi il riferimento a tutto ciò che attiene all’essenza delle cose, al loro telos, che è anche il loro proton, e non semplicemente alla realtà naturale.

¹⁹ Tenuto soprattutto per implicito, come spesso accade per i problemi fondamentali. Si pensi, ad esempio, ad Aristotele: quando nel cruciale cap. IV della Poetica (su cui torneremo a suo tempo in modo analitico) ragiona sul carattere conoscitivo della mimesis, ha certo buon gioco nel dimostrare come il piacere prodotto dall’imitazione di dati osservabili, siano pure enti la cui osservazione diretta ci ripugnerebbe – nella fattispecie Aristotele parla di animali mostruosi e cadaveri –, consista nel piacere che suscita la loro conoscenza. Detto questo, però, sulla mimèsi poetica non si è ancora detto l’essenziale. Perlopiù, gli oggetti imitati dalle arti poetiche sono enti di per sé non visibili. E allora dove sta il carattere conoscitivo della mimesis? Vedremo comunque come nella soluzione aristotelica del problema della mimesis sia più o meno implicitamente contenuta anche la risposta a questa questione.

²⁰ Sulle origini del pensiero greco cfr. tra gli altri B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo (1963), Einaudi, Torino 2002, in cui è perfettamente reso il peculiare senso di continuità – il che non significa naturalmente astorica immobilità – che viene a stabilirsi nella cultura greca dalle origini omeriche alla filosofia classica. A questo proposito cfr. anche F.M. Cornford, Principium sapientiae. The origins of Greek philosophical thought, Cambridge University Press, Cambridge 1952. Cfr. inoltre H. Fränkel, Poesia e filosofia della Grecia arcaica. Epica, lirica e prosa greca da Omero alla metà del V secolo (1951), Il Mulino, Bologna 1997. Tra i classici dell’indagine sulla civilizzazione greca, una prospettiva per certi versi uguale e contraria a quella tradizionale è offerta da E. Dodds, I Greci e l’irrazionale (1951), La Nuova Italia, Firenze 19782, che ritrova anche nei successivi sviluppi del razionalismo greco il retaggio di un ancestrale irrazionalismo. Sui caratteri dell’arte primitiva cfr., tra gli altri, F. Boas, Arte primitiva (1927), Boringhieri, Torino 1981. Cfr. anche G.M.G. Scoditti, Le collezioni di arte «primitiva» negli studi degli artisti del Novecento: imitazione o creazione?, in Senso e storia dell’estetica, a cura di P. Montani, Pratiche, Parma 1995, pp. 644-672.

²¹Metaph. 982 b 16-9. Passo da mettere sempre in correlazione con quello, altrettanto fondamentale, del Libro Lambda in cui si legge: «Dagli antichi e dagli antichissimi è stata tramandata ai posteri in forma di mito una tradizione secondo la quale questi [scil. i corpi celesti] sono dèi e il divino avvolge l’intera natura. Il resto è stato aggiunto sempre miticamente per la persuasione dei più, per l’osservanza delle leggi e per ragioni di utilità. Si dice, infatti, che gli dèi sono antropomorfi o somiglianti ad altri animali e a queste cose se ne aggiungono altre assai simili o collegate. Ma se si separassero queste aggiunte e si assumesse soltanto il punto fondamentale, ossia la supposizione che le sostanze prime siano dèi, si dovrebbe dire che gli antichi hanno parlato in modo divino e che mentre di ogni tecnica e di ogni filosofia probabilmente si è trovato il possibile e poi di nuovo si è perduto, quelle loro opinioni si sono conservate fino ad ora come ciò che sopravvive» (1074 b 1-13).

²² Tra le più profonde e ancora attuali ricostruzioni storiche del concetto greco di mito, dai primordi all’età ellenistica, va senz’altro indicato M. Untersteiner, La fisiologia del mito (1946), Bollati Boringhieri, Torino 19912. Anche le tesi sul mito di W.F. Otto (cfr. in part. Mythos und Welt, Klett, Stuttgart 1962 e la recente traduzione italiana a cura di G. Moretti di una serie di sue lezioni e conferenze raccolte nel volume Il mito, Il melangolo, Genova 20002) hanno avuto non poca influenza su questo libro.

²³ Questa traduzione del termine mimesis riprende la fondamentale indicazione di H. Flashar, che in La teoria classicistica della mimesis (1979), in «Studi di estetica» (numero monografico sulla mimesis a cura di E. Mattioli), 7/8 (1993), pp. 55-71, traduce il termine con l’espressione ‘presentazione su un altro piano’, ma che poi pare non cogliere tutta la portata ontologica della sua indicazione. Anche noi da ora in poi adotteremo il termine ‘ripresentazione’. Del resto, a pensarci bene, il termine ‘rappresentazione’, spesso impiegato per tradurre mimesis in alternativa ai termini ‘imitazione’ e ‘riproduzione’, non è poi molto più adeguato allo scopo di questi, anche se per motivi opposti. Perlomeno se intendiamo la parola ‘rappresentazione’ nel senso che è venuta acquisendo nella filosofia e nell’estetica moderne, che a partire da Cartesio, passando per Leibniz e Baumgarten, ha posto il concetto di repraesentatio sotto il segno della spontaneità del cogito e ne ha fatto una vis repraesentativa, vale a dire una capacità dell’anima.

²⁴ L’Inno delio costituisce la prima parte dell’inno tramandato dalla cultura alessandrina con il titolo di Inno omerico ad Apollo, che nella sua composizione definitiva potrebbe datare al VI secolo, ma che contiene parti, tra cui forse quella di cui ci stiamo occupando qui, più antiche, addirittura qualcuno ritiene contemporanee alla composizione dei poemi omerici. In proposito cfr. gli apparati presenti nella bella traduzione di F. Càssola, Inni omerici, Mondadori, Milano 1994, in part. pp. 79-151 e 485-516.

²⁵ Il termine mousike nella lingua greca non corrisponde solo al termine ‘musica’, ma come vedremo riprendere poi anche da Platone e Aristotele, designa più in generale l’educazione poetica. Gia le più antiche osservazioni sulla mousike, ascritte a Damone, coniugano mousike e mimesis (cfr. Platone, Resp. III, 398 c ‚Äì 400 e). Su Damone e la sue testimonianze relative al rapporto tra mimesis e mousike cfr. H. Koller, Die Mimesis in der Antike. Nachahmung, Darstellung, Ausdruck, A. Francke, Bern 1954, pp. 21-22 (trad. it. parz. La mimesis nell’antichità, in «Studi di estetica» cit., pp. 13-26), il quale proprio sulla scorta di tale tradizione può affermare, senz’altro esagerando ma non certo in modo erroneo, che «il centro significativo della mimesis risiede nella danza» e che «la musica è l’arte propriamente mimetica» (trad. it. p. 16), vale a dire, in altre parole, che l’orientamento mimetico è già presente nel culto dionisiaco. Si cade sempre in una sostanziale incomprensione dell’orientamento mimetico dell’arte greca quando, sulla scia del dualismo indicato da Nietzsche tra dionisiaco e apollineo, si cerca di separare due fonti all’origine dell’arte poetica greca: mousike e mimesis. Si ricordino le parole iniziali de La nascita della tragedia: «Alle loro [scil. dei greci] divinità artistiche, Apollo e Dioniso, si riallaccia la nostra conoscenza del fatto che nel mondo greco sussiste un enorme contrasto, per origine e per fini, fra l’arte dello scultore, l’apollinea, e l’arte non figurativa della musica, quella di Dioniso» (F. Nietzsche, La nascita della tragedia [1872], trad. it. a cura di G. Colli, M. Montinari, in Opere di F. Nietzsche, vol. III, tomo I, Adelphi, Milano 1977, p. 21). Questa affermazione opera un sostanziale schiacciamento all’ambito moderno della più ampia gamma di significati posseduti dalla nozione greca di mousike.

²⁶ Non va dimenticato che nella genealogia mitica le Muse sono figlie di Zeus e Mnemosyne, la dea della memoria e che una tradizione attestata da Pausania le designa anche come Mneiai. Sul rapporto tra Muse e memoria cfr. Detienne, I maestri di verità cit., pp. 1-16, in cui si sostiene che la memoria permette al poeta di «decifrare l’invisibile» (ivi, p. 5). Sull’argomento cfr. anche J.-P. Vernant, Mythe et pensée chez les Grecs, Maspero, Paris 1965, pp. 55 sgg.

²⁷ Per la traduzione italiana del passo si è usata con lievi modifiche la versione di R. Calzecchi Onesti, Iliade, Einaudi, Torino 1990, pp. 214-217, basata sull’edizione oxoniense a cura di T.W. Allen, Oxford 1908.

²⁸ Jaeger, Paideia cit., vol. I, pp. 49-119. Scrive Jaeger: «Missione del cantore è tener vivo nella memoria della posterità il ricordo delle “gesta degli uomini e degli dèi”. La fama, la conservazione e l’incremento di essa è il vero senso del canto eroico» (p. 93).

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