[Nell’intenzione di offrire un contributo alla discussione di una vicenda così difficile da comprendere in tutte le sue componenti, abbiamo rivolto alcune domande ad autori della casa editrice e studiosi competenti delle diverse questioni implicate nel conflitto in corso.
La situazione cambia di giorno in giorno e nuovi elementi potranno integrare l’analisi.
Dopo gli interventi di Anna Foa, Marcello Flores, Giovanni Gozzini, Claudio Vercelli, Arturo Marzano e Ignazio De Francesco, pubblichiamo il contributo di Sarah Parenzo. Traduttrice, ricercatrice e pubblicista, vive da vent’anni in Israele dove ha conseguito un Ph.D sui risvolti etici e psicoanalitici della ricezione dello scrittore Abraham B. Yehoshua in traduzione italiana.
Corrispondente de Il manifesto e dei ticinesi Azione e Naufraghi per le pagine di cultura e politica estera, da un decennio collabora stabilmente con il servizio pubblico israeliano di riabilitazione psichiatrica.]
Israele- Palestina: un conflitto catalizzatore di alterità.
Trascorsi quasi cinque mesi dal sette ottobre è evidente che solo un approccio multidisciplinare può consentire allo spettatore impotente della tragedia che si consuma in Israele-Palestina di reggerne la complessità, rifuggendo dicotomie e semplificazioni.
Il presente contributo propone di adottare, come punto di osservazione sul conflitto, il complesso prisma della salute mentale.
Negli anni sono stati pubblicati numerosi studi di psichiatria e psicoanalisi sui drammatici effetti dell’occupazione, molti dei quali riportano dati allarmanti sul degrado della salute mentale dei palestinesi, a cominciare dai minori, sottoposti ad uno stress costante in condizioni di miseria, paura, impotenza e frustrazione.
Tuttavia, come ha sottolineato anche il gruppo Psychoactive (Mental Health Professionals for Human Rights) che fornisce supporto psicologico agli attivisti, anche la società israeliana, seppure con le debite asimmetrie, paga un prezzo alto a causa delle proprie politiche. Non a caso negli ultimi mesi, mentre i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania sono impegnati nella lotta per la sopravvivenza, nello stato ebraico è in corso una vera e propria “emergenza salute mentale” e i servizi pubblici sono al limite del collasso.
A poche ore di distanza dai massacri del sette ottobre, psichiatri e psicoterapeuti si sono mobilitati in massa su base volontaria per fornire supporto ai superstiti, recandosi con generosità nelle strutture alberghiere destinate ad ospitare gli sfollati. Il tentativo, effettuato nelle settimane successive, di passare la palla alle istituzioni non ha fatto che sottolineare l’inadeguatezza del sistema, già sul banco degli imputati per infinite ragioni, anche in questo settore.
Alcuni anni fa era entrata in vigore una riforma che mirava ad alleggerire gli ospedali psichiatrici intasati, rafforzando la gamma di servizi di salute mentale fruibili attraverso le aziende sanitarie semi-privatizzate. Ma l’esperimento non è andato a buon fine, nelle strutture manca infatti personale e quello che c’è è oberato e sottopagato, mentre, come in un girone dantesco, le file dei pazienti si ingrossano ogni giorno che passa. La corsia preferenziale va naturalmente ai superstiti dei massacri, agli sfollati e ai parenti delle vittime e degli ostaggi, ai quali si aggiungono via via gli ostaggi liberati e i soldati che tornano da Gaza feriti nel corpo e nell’anima. Poi ci sono le vittime del cosiddetto “trauma secondario”, come i fruitori dei video shock diffusi in rete da Hamas, ma anche i telespettatori dei canali televisivi israeliani che 24 su 7 trasmettono quasi solo notizie sulla guerra riproponendo all’infinito le storie di morti e ostaggi. Esausti sono anche gli attivisti ebrei perennemente minacciati e censurati per le espressioni di dissenso politico, alcuni dei quali fungono da guardiani dei palestinesi quotidianamente assaliti dai coloni nel West Bank, piuttosto che i palestinesi di cittadinanza israeliana allontanati dai posti di lavoro e dalle università, perseguitati e arrestati per minime manifestazioni di empatia nei confronti dei civili inermi di Gaza. Un posto va anche alle migliaia di manifestanti divorati dalla rabbia per le mancate dimissioni di Netanyahu, il cui governo ha trascinato il paese in un baratro senza precedenti, ma la lista potrebbe continuare passando per i cittadini che lavoravano nel turismo o in uno degli altri settori stroncati dalla guerra, o per quelli che avevano investito i loro risparmi nelle località di confine a nord o a sud, inagibili a causa del pericolo. Poi ci sono quelli che si dibattono nella scelta di abbandonare la madrepatria in cerca di lidi migliori dove, tuttavia, troveranno ad accoglierli i fantasmi della Shoah, il vecchio antisemitismo e le nuove accuse di genocidio. Infine tutti temono di venire centrati dal prossimo missile o di trovarsi coinvolti in uno degli attentati che si fanno sempre più frequenti, e sempre tutti saltano in aria al minimo rumore e hanno i nervi a pezzi e gli occhi stanchi di chi legge continuamente le notizie sui dispositivi elettronici, in cerca di presagi di un futuro ancora troppo incerto.
Incapace di far fronte alla richiesta, il Ministero si barcamena tra linee telefoniche di pronto soccorso emotivo, terapie farmacologiche e interventi psicoterapeutici di breve durata, mentre elargisce generosamente corsi di formazione per la prevenzione della sindrome post-traumatica da stress di cui il sistema stesso è in buona parte l’artefice: cerotti per una vera e propria emorragia.
Ma il disagio psichico della società israeliana è anche lo specchio di meccanismi di difesa molto più profondi fino ad ora sepolti in un vaso di Pandora che i miliziani di Hamas, con i loro atti al limite dell’umano, hanno scoperchiato. Il malessere è il prezzo di una vita non autentica, vissuta in una bolla di denial alimentata dalle narrative della hasbarà, “l’advocacy israeliana”, e dalla censura dei media che non trasmettono nulla di quanto accade dall’altra parte del muro. L’israeliano medio, compresi i membri della cosiddetta sinistra liberale, assidui manifestanti alle proteste del 2023, ha scelto più o meno consapevolmente, di ignorare le insidie dell’occupazione, pensando ingenuamente che l’uso della forza potesse risolvere tutto, sostituendosi ad una soluzione politica definitiva. Questo è il prezzo di culture che accettano processi di esclusione come giusti e inevitabili, e che mettono in atto forme di dominio e tecniche pervasive di espropriazione e controllo. Forte dei miti che la sostengono, difficilmente una società ambigua o assuefatta alla malafede, sarà toccata dal dubbio, preferendo relegare e oggettivare gli elementi di disturbo. Ma il sette ottobre gli israeliani non hanno toccato con mano solo la fragilità del loro paese, bensì hanno incontrato l’Altro, quel vicino che hanno volutamente reso invisibile, nella sua esplosione di furia. E benché l’ego faccia del proprio meglio per riprendere il controllo reimmergendosi nella quotidianità, non bastano lo slogan della propaganda che recita “insieme vinceremo”, nè le arringhe di Netanyahu che promette di annientare Hamas, per rassicurare l’inconscio che ormai percepisce chiaramente la minaccia di disgregazione, fonte di angoscia profonda.
Ma gli altri restano celati, oscuri e indecifrabili nella misura in cui risiede in noi un alter ego incomprensibile, e ciò vale anche per gli spettatori terzi di questo scontro, la cui aggressività si traduce ora in antisemitismo, ora in islamofobia, due volti malsani di un’Europa che non ha mai saputo fare i conti con l’alterità che la abita.
Quello tra Israele e Palestina, è dunque uno scontro che sconfina il territorio, catalizzando l’Alterità presente in ognuno di noi. Ma come direbbe lo psichiatra Franco Basaglia, studioso di Fanon e grande esperto di alterità e colonialismi, la sfida va giocata sul terreno della pratica, mantenendo aperte le contraddizioni e accettando di affrontare la crisi identitaria che un cambio di logica del potere, in nome del principio di libertà, non può che comportare.
Non si tratta infine di giustificare, bensì di meglio comprendere i meccanismi di difesa e la fragilità dell’altro, riconoscendone i traumi e ascoltandone la storia nella sua versione dei fatti. Questo è ciò che possiamo fare mentre i grandi firmano trattati per il rifornimento di armamenti: sospendere il giudizio, anche quando il sistema nervoso è pronto a saltare, e tendere l’orecchio e il cuore verso l’altro, armandoci di un ascolto paziente e rispettoso, come quello suggerito nei sui scritti dalla psicoanalista Luciana Nissim Momigliano, ebrea e partigiana deportata ad Auschwitz con Primo Levi e, come lui, sopravvissuta.