Crimini «ordinari» di una storia violenta, l’età del fascismo

Guido Caldiron legge Eric Gobetti

Guido Caldiron | il manifesto | 22 luglio 2023

Non si tratta solo di smentire la vulgata che vuole gli italiani «brava gente» e che, allo stesso modo, assolve i nostri soldati dall’aver compiuto alcuna atrocità prima e durante la Seconda guerra mondiale proprio in virtù di un’attitudine perfino eccessivamente troppo empatica verso il prossimo. L’indagine che compie Eric Gobetti ne I carnefici del Duce ha un obiettivo ben più articolato e originale: comprendere in che misura la lunga stagione del fascismo, protrattasi dal 1922 fino all’epilogo nella Rsi a Salò tra il settembre 1943 e l’aprile 1945, e le conseguenze di tutto ciò, abbia invece plasmato in senso inverso la società e il carattere nazionale dell’epoca.

L’analisi di Gobetti è netta e indica come, accanto alle violenze del Ventennio, quelle commesse dagli italiani all’estero, nelle colonie come durante il conflitto mondiale, siano «la conseguenza di una specifica ideologia, di un’idea di società basata sul nazionalismo, sul razzismo, sulla violenza e sulla brutalità come sinonimo di forza e potenza». In questo senso, quei crimini non sono l’effetto dell’azione di poche mele marce particolarmente malvagie e crudeli, né una parentesi incomprensibile della nostra storia «naturalmente» buona. Sono piuttosto il risultato di logiche militari, culturali e politiche che hanno raggiunto il loro apice nel nostro Paese col fascismo: «l’applicazione pratica di un sistema di pensiero basato su una graduatoria di razze, nazioni e generi».

In modo meticoloso, e sulla scorta degli studi in tal senso che hanno aperto la strada ad un’altra visione delle vicende patrie – su tutti, il lavoro sul tragico capitolo del colonialismo in terra d’Africa di Angelo Del Boca –, Gobetti fa emergere, accanto ai criminali di guerra più noti, ma mai passati per un tribunale a causa della «mancata Norimberga italiana» e dell’assenza di una reale epurazione dopo il 1945, i carnefici ordinari che si resero responsabili, anche se con ruoli differenti della medesima barbarie. Del resto, i dati che enumera il giovane ricercatore sono impressionanti e lasciano poco spazio al dubbio. Gobetti sottolinea come durante la Seconda guerra mondiale si calcola che circa 850mila militari italiani siano stati impiegati con compiti di occupazione e contro i partigiani locali in Francia, nei Balcani e nelle isole del Mediterraneo. Circa la metà delle truppe di terra disponibili. Questo, mentre altre centinaia di migliaia di soldati hanno partecipato in precedenza alle operazioni in Libia, in Spagna, in Etiopia e nelle altre colonie africane. «Perciò, sommando ai militari di leva le forze di polizia, i volontari, i funzionari civili, gli impiegati, i coloni e le rispettive famiglie, possiamo dire che buona parte della società italiana è stata coinvolta, direttamente o indirettamente, in questa storia di violenza». E, malgrado i risultati delle ricerche in tal senso non siano mai stati fatti propri dalle nostre istituzioni, neppure a oltre settant’anni dai fatti, dalla Jugoslavia alla Grecia, dall’Etiopia alla Libia, emerge come «una quantità enorme di persone, almeno un milione fra resistenti e vittime inermi, sono morte a causa della politica espansionistica condotta dal regime fascista». Perciò, l’oppressione delle popolazioni soggette alle occupazioni italiane in epoca fascista non è un fenomeno marginale o estemporaneo, ma, come suggerisce Gobetti, «è storia di tutti, fa parte o dovrebbe fare parte a pieno titolo della storia d’Italia».

Il carattere di massa di questo lungo capitolo segnato dalla violenza sembra suggerire qualche ragione supplementare alla volontà, emersa fin dall’immediato dopoguerra, in un contesto rapidamente dominato dallo scontro della Guerra fredda come dalla necessità di scagionare alcuni individui di potere direttamente coinvolti negli eccidi, e però ancora attiva, di lasciare che tutto ciò scivoli sempre più nell’oblio. Malgrado quanto ribadisce Gobetti nelle sue conclusioni, vale a dire che «se la responsabilità dei singoli crimini resta individuale, la colpa globale è dunque dell’intero Paese, e dell’ideologia nella quale si riconosceva».