I Greci e i Romani ci salveranno dalla barbarie

Un'intervista a Giusto Traina

>> Letture.org | 14 marzo 2023

Prof. Giusto Traina, Lei è autore del libro I Greci e i Romani ci salveranno dalla barbarie, edito da Laterza: può precisare in che modo l’eredità degli antichi è stata spesso manipolata? E la cultura umanistica può essere un antidoto efficace alla barbarie dei nostri tempi?

Una premessa. Il mio libro è la decima uscita della collana Fact checking, i cui titoli hanno una caratteristica: non bisogna prenderli alla lettera. Così, nel recente La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo (2022), Tommaso Speccher vi ha spiegato che le cose sono andate diversamente. E Alice Borgna, l’altra antichista di questa collana infestata da contemporaneisti, nel solo libro italiano che non parla a vanvera o superficialmente di Cancel Culture non si schiera di certo con quel ‘wokismo’ becero e incolto che fa del mondo antico una storia di maschi bianchi morti.

Detto questo, è innegabile che i classici sono chiamati regolarmente in causa per giustificare la barbarie. Così, nazisti e fascisti hanno alimentato le rispettive ideologie in nome delle radici classiche dell’Occidente: se una certa propaganda fascista promosse una Roma antica virile quanto ridicola (che purtroppo ritroviamo fra molti seguaci di certe pagine social e di certi canali YouTube), alcuni ideologi nazisti si spinsero ben oltre, addirittura propugnando la comunanza biologica tra gli antichi greci e i tedeschi moderni, superando una certa corrente del pensiero tedesco che già nell’Ottocento rivendicavano la loro comunanza spirituale fra i due popoli.

E magari si trattasse solo di ideologie, come quella nazista e fascista finite nella pattumiera della storia (o no?). Anche oggi, in genere a sproposito, si chiamano in causa le nostre «radici greche e romane» per confermare la presunta superiorità della nostra civiltà, avallare le rivendicazioni di nazionalisti o sovranisti, e naturalmente per giustificare le malefatte dell’imperialismo occidentale.

È bene ricordarlo a chi continua a bearsi di una concezione irenica dei classici, visti come porto sicuro per rifugiarsi dalle brutture del mondo. Per carità, greci e romani ci rendono migliori (guardate me), ma a patto di non pretendere che salvino il mondo. Per intenderci: alla maniera del principe Miškin, illuso che a salvare il mondo basti la Bellezza. Non a caso, Dostoevskij definì il suo personaggio l’Idiota. Beninteso, non nel senso di ‘individuo di rozza intelligenza’, bensì di ‘sognatore buono e sincero ma ingenuo’.

Detto questo (almeno a quanto ho riscontrato sui social), sono certo che qualcuno acquisterà il libro senza badare al second degré del titolo, magari nella speranza di trovarvi un rimedio alla barbarie dei nostri tempi. Meglio così, non tanto per le vendite —non mi illudo certo di competere col duca di Sussex— ma nell’auspicio che, rimettendosi dalla delusione iniziale, continuino a leggermi e scoprire che la questione va affrontata con un approccio più smaliziato.

Di quale validità sono i principali argomenti utilizzati per la difesa degli studi classici?

Al netto dei vari esempi di ‘sfortuna dell’Antico’ presentati nel libro, le lettrici e i lettori coglieranno il messaggio subliminale ma fondamentale: i classici non salveranno il mondo, ma aiutano a star meglio. Occhio, però, al fuoco amico di quegli «arcadici “degustatori dell’antico”» evocati da Luciano Canfora, che essendo nato in pieno «secolo breve» può permettersi di prendersi gioco di questi personaggi, ben più giovani di lui ma dall’animo decisamente più anziano: «oggi essi sono investiti dalla durezza del mondo come si presenta all’inizio del XXI secolo e non hanno una stella polare o una bussola a portata di mano. Se le debbono costruire.» (dalla postfazione alla terza edizione di Noi e gli Antichi. Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all’intelligenza dei moderni, terza edizione, BUR, Milano 2012). Aggiungerei che continuare a parlare di «mondo antico» limitandosi ai greci e ai romani è una presa di posizione passatista che non aiuta i nostri studi a sopravvivere, e ancor meno a progredire. Per cui preferirei prendere le distanze da questa pur secolare e gloriosa concezione egli studi classici intesi come i soli punti di riferimento della nostra civiltà. E poi, chi l’ha detto che gli unici classici sono quelli greci e latini? Esistono classici cinesi, iranici, indiani. Un solo esempio: l’Arthaśāstra, un antico trattato sanscrito attribuito a un autore soprannominato Kauṭilya «l’Insidioso», che discute tratta delle qualità richieste a un sovrano nell’arte del governo, della politica e della guerra, e che qualcuno ha considerato come l’equivalente sanscrito del Principe di Machiavelli. Un trattato che per la sua modernità riscuote ancor oggi notevole successo, in India e non solo. Basti pensare a come Kauṭilya descrive i rapporti internazionali: la sua formula del «cerchio (maṇḍala) dei re» resta un valido strumento per orientarsi nelle complessità della geopolitica sia antica che moderna. E visto che ci siamo, mi permetto un’osservazione solo in apparenza paradossale, certo tirata un po’ per i capelli; se dovessimo confrontare due testi eterogenei, e non solo per ragioni linguistiche, quali la Politica di Aristotele e l’Arthaśāstra, a mio avviso è quest’ultimo testo, e non il pur importante trattato dello Stagirita, a permetterci di esaminare le vicende politiche di imperi, regni e comunità. Naturalmente, questo non implica l’esclusione della polis nel nostro armamentario analitico (anche se in un capitolo del mio libro affermo provocatoriamente che la polis «ci ha stressato»), ma non di soli greci vive lo storico antico. Tornando rapidamente alla domanda iniziale, risponderei infine che la difesa degli studi classici non è di mia competenza né mi riguarda troppo. Difendo invece, e anche con un certo piglio, gli studi antichi. E mi permetto di considerare con sufficiente alterigia quanti pensano che il lavoro dello storico parta dal 1789, del 1914, e nei casi più disperati dal 1945.

Quale sfida si trova ad affrontare, nella società contemporanea, la cultura classica?

Dovendo scegliere gli esempi più significativi di ‘Sfortuna dell’Antico’ dal Novecento a oggi, ho cercato di insistere su quelli più interessanti o curiosi, recuperando dibattiti vecchi e nuovi allo scopo di mostrare come la questione non si limiti alle consuete grida di allarme sulla decadenza degli studi classici (se ne parlava già al Museo di Alessandria nel III secolo a.C.), né tantomeno alla presunta minaccia dell’Uomo Nero della Cancel Culture venuta da oltreoceano.

Tra i casi selezionati: lo psicologo militare americano che si ispira ai poemi omerici; il dibattito senza esclusione di colpi tra Martin Bernal e i suoi detrattori; lo sciocchezzaio politico sulla democrazia dell’antica Grecia; l’uso e l’abuso del mito di Antigone, da Hegel a Agamben; le polemiche per il possesso o la distruzione delle antiche statue; il conflitto ideologico tra Grecia e Macedonia del Nord sull’identità di Alessandro Magno; il kitsch classicheggiante di Las Vegas; le polemiche antiche e moderne sull’integrazione degli stranieri a Roma. Chi si straccia le vesti di fronte alle manifestazioni della cultura woke (in realtà meno frequenti e minacciose di quanto si tenda a credere) dovrebbe anche riflettere su queste derive tossiche dell’uso dell’Antico, che hanno contribuito e contribuiscono tuttora a rendere il mondo attuale più brutto, ridicolo o imbarazzante.