Un estratto da 1492. Diario del primo viaggio, di Antonio Musarra, sulle pagine de Il Secolo XIX del 12 novembre 2022.
______
Cominciamo col dire che non erano tre. Le caravelle, intendo. Si tratta d’un mito durevole, entrato prepotentemente nell’immaginario. Tre come i Magi, come i Moschettieri, come le «tre anella» della parabola. Volendo essere precisi, due caravelle e una nao: una grossa nave commerciale. Ma poco importa: il mito si costruisce a suon di semplificazioni. Da un paio di secoli, la caravella è assurta a simbolo del viaggio di scoperta. O, meglio, d’una “scoperta” particolare: quella dell’America. La quale, da qualche tempo a questa parte, ha decisamente mutato segno. Periodicamente, ogni 12 ottobre, le statue di colui che di quelle caravelle può ritenersi il più abile manovratore, Cristoforo Colombo, sono vandalizzate, divelte, gettate a terra. Niente da dire. Ciascuno è libero di pensarla come vuole, benché – intimamente – ritenga la concentrazione di violenza su di un simulacro (un fatto ricorrente, certo) null’altro che un modo per non affrontare i problemi. Senz’altro, l’attenzione sviluppatasi attorno alle colpe (presunte) del navigatore ha distratto l’attenzione dal viaggio compiuto da quelle caravelle. Un viaggio epocale. Non tanto per il risultato raggiunto – sappiamo bene come il continente americano fosse stato toccato in precedenza dalle marinerie nordiche – ma per la sua capacità di colpire le coscienze, oltre che d’avviare quel processo di “europeizzazione” – o, se si vuole, di occidentalizzazione e di cristianizzazione, per quanto si tratti di concetti complessi – del globo perseguito nei secoli a venire. Spesso tragicamente. Si tratta di pagine note, su cui esiste una letteratura vastissima, il cui effetto principale è stato quello di obnubilare il desiderio, legittimo, di ripercorrere la rotta dell’Ammiraglio. È quanto mi propongo di fare nelle pagine seguenti: fuor d’ogni logica celebrativa, fuor d’ogni sentimento di condanna. Adottando il punto di vista colombiano: di chi, cioè, quel viaggio compì per la prima volta. Quella che mi accingo a narrare è la storia d’un viaggio importante, oltre che famoso, paragonabile, forse – per capacità d’aprire gli orizzonti –, soltanto a quello compiuto sulla luna qualche secolo più tardi.
La nostra, tuttavia, sarà una storia prevalentemente marinara: del viaggio, cioè, coglieremo in particolar modo l’aspetto prettamente nautico, tralasciandone altri, senz’altro importanti – è il caso, ad esempio, dell’incontro con l’“altro” o dell’avvio della colonizzazione europea – ma molto trattati dagli studiosi. È questo il motivo per cui sono partito dalle tre caravelle. Un numero che possiede una storia, essendo citato – certo, per errore – nel Giornale di bordo redatto da Colombo nel corso della navigazione. O, meglio – come si dirà –, nel sunto fornito dal domenicano Bartolomé de Las Casas, vescovo di Chiapas, in Messico, vissuto tra il 1484 e il 1566, che poté giovarsi d’una versione (non sappiamo quanto rimaneggiata) conservata, forse, da Fernando Colombo, figlio dell’Ammiraglio, nella Fernandina: una delle più grandi e importanti biblioteche iberiche del Cinquecento. Perché del manoscritto originale nulla è noto se non la sua scomparsa precoce. Quella del frate – va detto – è una rilettura peculiare, tesa a sostenere la propria visione del mondo (e, in particolare, del Nuevo Mundo). Il suo obiettivo non è che la denuncia delle atrocità perpetrate contro le popolazioni amerindie da parte degli spagnoli. Il testo – ch’egli ricopia, riassume e commenta – ha sì il valore della testimonianza, ma non quello della prova. Il nostro ne fa uso per condannare la violenza dei conquistadores, per sanzionarne la cupidigia e la brama di possesso. Ma non è contrario alla diffusione del cristianesimo. Del Giornale, dunque, gl’interessano quei passi utili per elaborare l’idea d’un viaggio provvidenziale, volto ad allargare il nome cristiano. Fu Carlo V, nel 1542, a chiedergli una sintesi delle memorie ch’egli aveva inviato alla corte, che elencavano le stragi compiute ai danni dei nativi. Nello stesso anno, egli pubblicava la Brevísima relación de la destrucción de las Indias, ch’ebbe immediatamente una grande risonanza, oltre che un’indubbia influenza sulla redazione delle Leyes Nuevas – che seguivano, tuttavia, la provisión emanata nel 1530, in cui già era vietata ogni forma di schiavitù –, che ne recepiranno, in parte, le denunce. Nonostante le resistenze dei conquistadores, tale legislazione avrebbe trovato una concreta applicazione, segnando una differenza con i territori portoghesi, nei quali la schiavitù sarebbe rimasta a lungo in vigore.
Ebbene: il Giornale di bordo è tra le sue fonti. Ai suoi occhi, il navigatore aveva rivestito un ruolo importante nella storia della salvezza, aprendo le porte all’evangelizzazione del Nuovo Mondo. Se si esclude qualche frammento conservato altrove, quanto oggi è noto di tale materiale è dovuto, dunque, al suo operato: un codicetto di 76 carte manoscritte conservato presso la Biblioteca nazionale di Madrid, rinvenuto negli anni Novanta del XVIII secolo da Martín Fernández de Navarrete y Ximénez de Tejada, ufficiale di marina e storico iberico – un uomo influente; in contatto epistolare con personalità del calibro di Alexander von Humboldt, Washington Irving e Gaspar Melchor de Jovellanos –, nella biblioteca del Duca dell’Infantado, edito soltanto nel 1825, limitatamente al resoconto del viaggio, nel primo tomo della sua Colección de los viajes y descubrimientos que hicieron por mar los Españoles desde fines del siglo XV. Non bisogna dimenticare, del resto, che la notizia della scoperta fu inizialmente divulgata dalle lettere spedite da Colombo ai sovrani di Spagna e ai due funzionari della corona, Gabriel Sánchez e Luis de Santángel, immediatamente tradotte e pubblicate in mezza Europa, accompagnate da un coacervo di relazioni, sunti, dispacci redatti da osservatori più o meno attenti, colpiti dalla notizia. Il Giornale rimase a lungo ignoto. Nelle Historie dedicate al padre, Fernando Colombo ne riporta qualche stralcio, fornendo, per molto tempo, il principale canone narrativo; e ciò, sino alla riscoperta del testo lascasiano. In entrambi i casi, a ogni modo, siamo di fronte a parafrasi, sunti e sommari, inframmezzati da passi riportati in maniera diretta – spesse volte sovrapponibili –, in cui è relativamente facile cogliere la mano dei rispettivi estensori. Senz’altro, Las Casas fornisce il testo migliore. Sembra ch’egli avesse a disposizione una relazione intitolata Libro de la primera navigación, il cui ordinale dice già trattarsi d’una rielaborazione. Probabilmente, si trattava d’una copia di quanto vergato dal navigatore nel corso del viaggio ovvero d’una versione – per così dire – riveduta e corretta, confezionata per i reali di Spagna in vista della pubblicazione, mai avvenuta.
Il compendio lascasiano costituisce, dunque, il primo riferimento per ricostruire nel dettaglio la vicenda. Va da sé ch’esso debba essere letto con “piglio da storico”. Al suo interno s’amalgamano, infatti, voci diverse. Nella maggior parte dei casi, il domenicano si limita a parafrasare il testo. È il caso, ad esempio, delle indicazioni nautiche, non sempre accurate; ciò che complica enormemente la possibilità di ricostruire le rotte. Talvolta fornisce citazioni dirette – in particolare, quando Colombo tratta dei nativi: passi, questi, funzionali al proprio discorso –, aggiungendo qualche commento, volto a lodare la fede dell’Ammiraglio o a lagnarsi del suo comportamento. Si può dire, anzi, che il Giornale di bordo ci dica quasi più del curatore che del curato. Ed è in questa maniera ch’esso va letto. La ricerca del testo originario ha portato qualche studioso a compiere operazioni dubbie. V’è stato, ad esempio, chi ha tentato di collazionarlo con la versione ridotta inserita nella monumentale Historia de las Indias, cui Las Casas lavorò assiduamente sino al 1561, oltre che con i brani contenuti nelle Historie di Fernando Colombo, illudendosi di raggiungere una forma vicina a quella consegnata ai reali di Spagna. In realtà, anche quando ciò s’è rivelato possibile, non v’è stato modo di stabilire quale grado d’invenzione fosse contenuto nelle versioni superstiti. Ciò non significa – come qualcuno ha sostenuto – che non si possa trarre dal testo superstite materiale utile per ricostruire – con una buona dose di fiction – l’avventura di Colombo e nemmeno che sia vietato godere della sua lettura diretta. Tutt’altro. Ma bisogna essere consci di quanto qualsiasi notazione tratta dalle sue pagine corrisponda, piuttosto, a un’interpretazione. A fronte della sua complessità, il Giornale di bordo, a ogni modo, resta una testimonianza viva e importante; ed è a partire da questi presupposti che ho ritenuto utile rileggerlo: operando scelte radicali fra un’interpretazione e l’altra, fornendo qualche nuova soluzione. Con un obiettivo: ripercorrere le tappe d’un viaggio che la storiografia sembra aver dimenticato, schiacciata dalla personalità del suo principale protagonista.