Se gli italiani oggi non sono lettori forti è colpa (anche) della censura di secoli fa

Adriano Prosperi legge Giorgio Caravale

La Controriforma non distrusse materialmente i libri ma favorì il lento depositarsi di una diffidenza collettiva. Non solo la Chiesa reagì alla “rivoluzione silenziosa” della stampa, ci fu il contributo dell’élite intellettuale

Adriano Prosperi | tuttolibri | 11 giugno 2022

Divisi su tutto noi italiani siamo uniti almeno in un sentimento: siamo e ci sentiamo europei. L’entrata del nostro paese nell’Europa unita fu vissuta come una vittoria collettiva, mentre il prefisso «euro» squillava su tutte le insegne. Sentimento antico: l’idea mazziniana di un’Europa dei popoli tradusse in una formula qualcosa di prepolitico, un bisogno collettivo di riconoscimento e di riscatto. Ma quel bisogno resta ancora frustrato. Differenze profonde ci dividono dagli altri popoli europei. Fra tutte, fondamentale quella dei livelli di cultura. Gli italiani restano i più ignoranti. Leggono e studiano poco, per loro la laurea è un traguardo lontano. I dati statistici sono inesorabili: più di metà della popolazione non legge nessun libro e quelli che comprano o prendono in prestito più di 12 libri l’anno non superano il 15%. Come mai accade questo? Si tratta di un fenomeno recente, un difetto superficiale che può essere cancellato? No: qui siamo davanti all’esito di una frattura antica e profonda, al punto d’arrivo di un percorso imboccato dall’Italia e solo dall’Italia tra gli stati dell’Europa occidentale.

Questa è la tesi che lo storico Giorgio Caravale si impegna a dimostrare in un libro solido e ben documentato. Il fatto è – come dice il titolo – che per gli italiani i libri sono pericolosi. Lo sono diventati per effetto di un’opera di persuasione collettiva esercitata sul popolo negli ultimi cinque secoli da chi ne aveva la responsabilità di governo. La Chiesa cattolica, le sue gerarchie ne portano la colpa principale. Ce l’hanno ricordato le autocritiche delle gerarchie ecclesiastiche. La «domanda di perdono» formulata da papa Giovanni Paolo II in occasione del giubileo dell’anno 2000 fece seguito all’apertura dell’archivio del S. Uffizio romano. Insieme al deposito saccheggiato e frammentario di quello che era stato il tribunale supremo dell’eresia fu reso accessibile anche quello assai meglio conservato della Congregazione dell’Indice.

Così fu proprio intorno alla censura ecclesiastica che si sviluppò da allora in poi una vivace discussione: quali e quanti i danni subiti dal grande patrimonio letterario del Rinascimento italiano? La risposta di Giorgio Caravale è di quelle che rivelano i veri termini del problema. Non si trattò di una distruzione materiale di libri ma del lento depositarsi di una diffidenza collettiva verso il libro destinata a diventare col tempo un costume di massa. E non fu solo la Chiesa a reagire in modo ostile alla «rivoluzione silenziosa» della stampa. Ci fu una reazione di tutta l’élite intellettuale che aveva goduto fino ad allora dell’accesso esclusivo al mondo dei libri.

È pur vero che la stampa fu definita un «dono divino». Ma sorse immediatamente una preoccupazione: dando al popolo ciò che non era adatto a lui si gettavano le perle ai porci. Chi aveva responsabilità di governo aveva il dovere di proteggere i lettori da loro stessi. Così pensavano gli umanisti, in accordo con chi aveva responsabilità di governo religioso. Gli stampatori apparvero come gente pericolosa che per fare soldi non badava alla natura della merce. Storie lascive, dottrine pagane, perfino traduzioni in volgare delle Scritture erano altrettante minacce per la morale e per la fede. La censura apparve come l’unico doveroso rimedio per limitare i danni della tempesta che si avanzava. Nacquero via via argini sempre più robusti, come quello preventivo della licenza di stampa (l’imprimatur) o quello degli elenchi di libri proibiti. Si chiamarono «Indici», vennero pubblicati e diffusi, obbligando i librai a tenerne conto. Ne fecero uso tutte le autorità intellettuali e religiose, ma l’esempio primo e più autorevole venne dalla Chiesa. E il consenso fu generale. Nacque, si può dire con parole dell’autore, dalla generale «diffidenza delle élites politiche, religiose e culturali europee» nei confronti del volgarizzamento del sapere. Simili reazioni possono sconcertare noi, lontani nipoti del mondo nuovo che nacque allora – il mondo delle armi da fuoco e delle scoperte di popoli ignoti al di là dell’Oceano. Ma non appariranno né insolite né ingiustificate a chi dalla prospettiva nostra della incombente minaccia nucleare guardi alla maledizione scagliata dall’Ariosto contro l’«abominoso ordigno» dell’archibugio, che relegò per sempre nel passato le regole cavalleresche dell’arma bianca. Con sicuro dominio delle fonti dell’epoca Giorgio Caravale mette davanti al lettore un ricco dossier di testimonianze che mostrano quante voci insospettate si levarono allora a favore delle misure di controllo censorio della stampa. Bastino i nomi di Thomas More, di fra Paolo Sarpi e dell’eretico Pietro Carnesecchi. E i provvedimenti censori fioccarono: non ci fu paese europeo che ne restasse esente.

Ma allora – chiederà qualcuno – perché solo gli italiani hanno il dubbio privilegio di avere introiettato la diffidenza verso il libro fino a farne un costume nazionale? La risposta è semplice: le chiese nate dalla Riforma e perfino le chiese cattoliche di stati come la Francia e la Spagna dovettero fare i conti con la censura di stato, impegnata nel compito primario di garantire l’obbedienza al potere politico. Invece nella realtà dei piccoli stati italiani si trovò più comodo accettare l’ombrello romano. Prova ne sia il fallimento del tentativo di Sarpi di arginare il «totato» romano e di rendere allo stato veneziano il compito di tutelare la religione. Da qui il trionfo della scrittura dissimulata, come quando Galileo elogiò la condanna del copernicanesimo nella prefazione al Dialogo dei massimi sistemi. Autocensura e dissimulazione fecero parte del costume. E intanto le regole della censura si allargavano a tanti altri àmbiti, dall’arte figurativa alle prose romanzesche (come quelle licenziose e anticlericali di Ferrante Pallavicino), alle pasquinate, all’oralità di chi recitava a memoria cose lette.

E qui si apre la grande ricchezza del volume che pone continuamente domande insolite. Insolita e da meditare la sua finale conclusione: anche in Italia il libro vinse la sua lunga guerra. Una vittoria pagata al prezzo di tante scelte oblique, come l’autocensura o il costume delle licenze speciali. Ma quello che si depositò in profondità nel costume sociale fu un oscuro sentimento di diffidenza.