Il maestro Lodi tiene ancora la sua lezione

Simonetta Fiori legge Mario Lodi

Cento anni fa nasceva l’insegnante che ha cambiato la didattica destinata ai più piccoli. Per tutti è l’autore di “Cipì”, ma la sua scuola è stata una rivoluzione a colpi di dialogo e di “parole gentili”

Simonetta Fiori | la Repubblica | 15 febbraio 2022

Per il maestro Mario Lodi il primo giorno di scuola fu un’esperienza traumatica. Era l’11 ottobre del 1951, a San Giovanni in Croce, un minuscolo borgo della pianura padana vicino a Cremona. I bambini stavano immobili nei banchi come “statue”, con “i cervelli inerti”, immersi in “un gelido silenzio” al cospetto dell’“insegnante-maresciallo”. La scuola del dopoguerra portava ancora i segni dell’irreggimentazione fascista. Al giovane maestro bastò osservare i suoi piccoli allievi mentre conquistavano la strada alla fine della lezione. Liberi di esprimere sé stessi, manifestavano “un’aggressività ricca di fantasia”, “un linguaggio scarno ma incisivo”, una “felicità motoria” fino a quel momento mortificati. Convogliare nell’invenzione e nella conoscenza la formidabile vitalità dei bambini – di tutti i bambini – fu la sua rivoluzione, compiuta nel nome della Costituzione. Ma oggi, tra i maestri della scuola elementare, chi conosce il magistero di Lodi?

Nel caso del maestro di Piadena, di cui ricorre il centenario della nascita il 17 febbraio, sarebbe sbagliato parlare di una rimozione radicale. Cipì, la storia del “passero eroico”, è un classico della letteratura per l’infanzia riedito da svariati decenni. Ma da molto tempo mancava dalle librerie un’opera fondamentale come C’è speranza se questo accade al Vho , il primo diario didattico uscito nel 1963 e ora riproposto da Laterza. Insieme a Il paese sbagliato, un bestseller del 1970 voluto da Giulio Einaudi e oggi ripubblicato negli Struzzi con la prefazione di Franco Lorenzoni, il C’è speranza custodisce l’eredità pedagogica di Lodi, raccogliendo entrambi i volumi le cronache quotidiane della sua rivoluzione silenziosa nell’arco degli anni Cinquanta e Sessanta.

Basta sfogliare qualche pagina dei due libri per partecipare in classe a una sua “non lezione”. La pratica del disegno e della discussione, la scrittura collettiva, il giornalino di classe stampato con il limografo, l’assemblea legislativa, il canto libero, la poesia, la musica, l’abolizione della cattedra e i banchi in circolo, sempre l’invenzione al posto della ripetizione, perché «una verità che viene ripetuta è una mezza verità». La scuola alla rovescia, realizzata in quegli anni insieme ai maestri del Movimento di Cooperazione educativa.

«Ma per molti Lodi continua a essere solo l’autore di Cipì», dice Lorenzoni, insegnante che ha tratto ispirazione da quella esperienza. «Nelle università italiane il suo nome circola poco. E se Il paese sbagliato, ancora più di Lettera a una professoressa di don Milani, ha formato una generazione di maestri – la stessa che ha poi dato vita al “tempo pieno” – in seguito la sua didattica è stata abbandonata da una scuola che, con qualche luminosa eccezione, tende a essere più trasmissiva che suscitatrice di conoscenza. Oggi molti maestri non sanno che cosa sia la discussione. E non pensano che i bambini possano essere in grado di sostenerla». Lodi, al contrario, era convinto che la conoscenza si potesse costruire insieme, in una reciprocità tra insegnanti e allievi. Ogni bambino è un artista, un musicista, un poeta: basta soltanto mettersi all’ascolto. «È questa la sua lezione senza tempo», dice Lorenzoni. «L’Italia non è più il Paese rurale raccontato nei suoi libri. E gli scolari non restano impietriti davanti all’insegnante. Ma i bambini hanno sempre bisogno di essere ascoltati. La metà di loro sono figli unici. Immersi in un flusso audiovisivo ininterrotto, cercano nel virtuale una via di fuga dalla solitudine».

Quella di oggi non è l’Italia contadina del lungo dopoguerra, ma certo non sono venute meno le aree di disagio e di esclusione sociale, ora aggravate dalla pandemia. E sono in molti a lamentare il ritorno alla scuola di classe, che distingue tra figli del privilegio e figli degli immigrati. La sua didattica inclusiva, sideralmente estranea alla retorica dell’eccellenza, appare ancora più necessaria. «Mario è stato il maestro che la nostra Costituzione e le nostre leggi promettono a ciascun bambino in Italia», dice Francesco Tonucci, insigne pedagogista e amico personale di Lodi, ora prefatore di un altro caposaldo, Cominciare dal bambino (Rizzoli). «Purtroppo si tratta di una promessa mai pienamente realizzata. Una sua frase mi ha sempre colpito molto: “Non ditemi che è difficile o che richieda particolari attitudini”. Così replicava a chi era convinto che il suo modo di fare scuola richiedesse un carisma particolare o una preparazione inarrivabile. È sufficiente mettersi dalla parte dei bambini».

Le sue aule erano solitamente bruttine, costrette in spazi infelici e bui. «Ma restituivano un mondo», continua Tonucci. «Ho avuto la fortuna di frequentare la sua classe nella piccola scuola di Vho, nel suo ultimo ciclo scolastico. Più che un’aula scolastica sembrava un laboratorio diviso in tanti angoli: acquari, terrari, la baracca dei burattini, la macchina da scrivere e il ciclostile, gli strumenti musicali, i colori e i pennelli. Il bambino era libero di trovare il suo “gioco” preferito, che era poi rivelatore delle sue capacità e della sua vocazione». E in questo modo si andava costruendo la società democratica del presente. Con uno sguardo al futuro.
Quella di Lodi era una scuola divertente e allo stesso tempo rigorosa, mai sciatta o approssimativa.

Sembra quasi un’ovvietà ricordarlo, se non fosse che anche il maestro di Piadena ha subito lo stesso trattamento che è toccato in sorte ad altri protagonisti della cosiddetta “scuola democratica”, sbeffeggiati dagli odierni cultori dell’anti politicamente corretto: dietro l’irrisione di un linguaggio che può avere esiti grotteschi – così spesso appaiono – si nasconde l’insofferenza verso le conquiste della cultura democratica. Da don Milani a Tullio De Mauro, passando per Gianni Rodari, tutti sono finiti nel tritacarne di chi attribuisce alle loro battaglie fondamentali il risultato di una scuola superficiale e un po’ cialtrona. Colpisce ad esempio che, a oltre quarant’anni dal suo pensionamento, la cultura italiana non abbia dedicato a Lodi un saggio biografico.

E l’unico ritratto esistente, certificato dalla Treccani, è una voce del Dizionario Biografico, a cura di Adolfo Scotto di Luzio, che liquida la sua esperienza come «mitografia della scuola democratica», «incapace di dare forma a una rinnovata proposta pedagogica e culturale». La voce è passata sotto silenzio, incluse le proteste di chi non vi ha riconosciuto le qualità del maestro. «Scotto di Luzio sostiene che la scuola di Lodi concepisce se stessa in termini di pratica più che di studio, dando luogo a una pedagogia senza troppe pretese teoriche. Ma è vero il contrario», obietta Juri Meda, professore di Storia dell’educazione all’Università di Macerata, ora al lavoro su una biografia del maestro. «Se Lodi non avesse avuto ambizioni teoriche non si sarebbe preso la briga di raccontare giorno dopo giorno la sua esperienza sul campo. È in questo modo che ha segnato un cambio di paradigma, ricavando dalla sua attività didattica quotidiana una teoria altissima, riconosciuta da università prestigiose».

Quanto alla mitografia, pochi come Lodi hanno evitato le luci dei media. In una delle ultime interviste realizzata nella sua casa di Drizzona, in occasione dei novant’anni, sembrava rifuggire da ogni forma di vanità che è naturale in ogni grande vecchio. Del maestro ormai segnato dall’età colpiva la qualità della voce: sussurrata, ma nitida e precisa. Era convinto che tutto avesse origine dalla “parola gentile”, anche la democrazia. «Con la parola cattiva si può offendere e litigare, con la parola gentile si possono raccontare le cose più belle».

C’è speranza era il suo libro preferito. E c’è ancora speranza se ricominciamo ad ascoltare la parola gentile di Lodi. Dentro e fuori di un’aula scolastica.